mi è prezioso: se sapesse, signore, la storia di quel calamaio! - E la raccontò: Anni sono, egli era
maestro a Torino, e andò per tutto un inverno a far lezione ai prigionieri, nelle Carceri giudiziarie.
Faceva lezione nella chiesa delle carceri, che è un edificio rotondo, e tutt'intorno, nel muri alti e
nudi, ci son tanti finestrini quadrati, chiusi da due sbarre di ferro incrociate, a ciascuno dei quali
corrisponde di dentro una piccolissima cella. Egli faceva lezione passeggiando per la chiesa fredda e
buia, e i suoi scolari stavano affacciati a quelle buche, coi quaderni contro le inferriate, non
mostrando altro che i visi nell'ombra, dei visi sparuti e accigliati, delle barbe arruffate e grigie, degli
occhi fissi d'omicidi e di ladri. Ce n'era uno, fra gli altri, al numero 78, che stava più attento di tutti,
e studiava molto, e guardava il maestro con gli occhi pieni di rispetto e di gratitudine. Era un
giovane con la barba nera, più disgraziato che malvagio, un ebanista, il quale, in un impeto di
collera, aveva scagliato una pialla contro il suo padrone, che da un pezzo lo perseguitava, e l'aveva
ferito mortalmente al capo; e per questo era stato condannato a vari anni di reclusione. In tre mesi
egli aveva imparato a leggere e a scrivere, e leggeva continuamente, e quanto più imparava, tanto
più pareva che diventasse buono e che fosse pentito del suo delitto. Un giorno, sul finire della
lezione, egli fece cenno al maestro che s'avvicinasse al finestrino, e gli annunziò, con tristezza, che
la mattina dopo sarebbe partito da Torino, per andare a scontare la sua pena nelle carceri di Venezia;
e dettogli addio, lo pregò con voce umile e commossa che si lasciasse toccare la mano. Il maestro
ritirò la mano: era bagnata di lacrime. Dopo d'allora non lo vide più. Passarono sei anni. - «Io
pensavo a tutt'altro che a quel disgraziato, - disse il maestro, - quando ieri l'altro mattina mi vedo
capitare a casa uno sconosciuto, con una gran barba nera, già un po' brizzolata, vestito malamente; il
quale mi dice: - È lei signore, il maestro tale dei tali? - Chi siete? - gli domando io - Sono il
carcerato del numero 78, - mi riponde; - m'ha insegnato lei a leggere e a scrivere, sei anni fa: se si
rammenta, all'ultima lezione m'ha dato la mano: ora ho scontato la mia pena e son qui... a pregarla
che mi faccia la grazia d'accettare un mio ricordo, una cosuccia che ho lavorato in prigione. La vuol
accettare per mia memoria, signor maestro? - Io rimasi lì, senza parola. Egli credette che non volessi
accettare, e mi guardò, come per dire: - Sei anni di patimenti non sono dunque bastati a purgarmi le
mani! - ma con espressione così viva di dolore mi guardò, che tesi subito la mano e presi l'oggetto.
Eccolo qui.» Guardammo attentamente il calamaio: pareva stato lavorato con la punta d'un chiodo,
con lunghissima pazienza; c'era su scolpita una penna a traverso a un quaderno, e scritto intorno:
«Al mio maestro. - Ricordo del numero 78 - Sei anni» - E sotto, in piccoli caratteri: - «Studio e
speranza...». Il maestro non disse altro; ce n'andammo. Ma per tutto il tragitto da Moncalieri a
Torino, io non potei più levarmi dal capo quel prigionero affacciato al finestrino, quell'addio al
maestro, quel povero calamaio lavorato in carcere, che diceva tante cose, e lo sognai la notte, e ci
pensavo ancora questa mattina... quanto lontano dall'immaginare la sorpresa che m'aspettava alla
scuola! Entrato appena nel mio nuovo banco, accanto a Derossi, e scritto il problema d'aritmetica
dell'esame mensile, raccontai al mio compagno tutta la storia del prigioniero e del calamaio e come
il calamaio era fatto, con la penna a traverso al quaderno, e quell'iscrizione intorno: - Sei anni! -
Derossi scattò a quelle parole, e cominciò a guardare ora me ora Crossi, il figliuolo dell'erbivendola,
che era nel banco davanti, con la schiena rivolta a noi, tutto assorto nel suo problema. - Zitto! - disse
poi, a bassa voce, pigliandomi per un braccio. - Non sai? Crossi mi disse avant'ieri d'aver visto di
sfuggita un calamaio di legno tra le mani di suo padre ritornato dall'America: un calamaio conico,
lavorato a mano, con un quaderno e una penna: - è quello; - sei anni! - egli diceva che suo padre era
in America: - era invece in prigione; - Crossi era piccolo al tempo del delitto, non si ricorda, sua
madre lo ingannò, egli non sa nulla; non ci sfugga una sillaba di questo! - Io rimasi senza parola,
con gli occhi fissi su Crossi. E allora Derossi risolvette il problema e lo passò sotto il banco a
Crossi; gli diede un foglio di carta; gli levò di mano L'Infermiere di Tata, il racconto mensile, che il
maestro gli aveva dato a ricopiare, per ricopiarlo lui in sua vece; gli regalò dei pennini, gli accarezzò
la spalla, mi fece promettere sul mio onore che non avrei detto nulla a nessuno; e quando uscimmo
dalla scuola mi disse in fretta: - Ieri suo padre è venuto a prenderlo, ci sarà anche questa mattina: fa
come faccio io. Uscimmo nella strada, il padre di Crossi era là, un po' in disparte: un uomo con la
barba nera, già un po' brizzolata, vestito malamente, con un viso scolorito e pensieroso. Derossi
strinse la mano a Crossi; in modo da farsi vedere, e gli disse forte: - A riverderci, Crossi, - e gli
passò la mano sotto mento, io feci lo stesso. Ma facendo quello, Derossi diventò color di porpora, io
pure; e il padre di Crossi ci guardò attentamente, con uno sguardo benevolo; ma in cui traluceva