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TITOLO: Tutti i sonetti romaneschi
AUTORE: Giuseppe Gioachino Belli
TRADUTTORE:
CURATORE: Marcello Teodonio
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Tutti i sonetti romaneschi"
di G. G. Belli;
a cura di Marcello Teodonio;
edizione integrale;
collezione: I mammut;
edizione: Grandi tascabili economici Newton;
Roma, 1998
CODICE ISBN Vol. 1°: 88-8183-802-8
CODICE ISBN Vol. 2°: 88-8183-807-9
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 maggio 2002
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Galerati Umberto, [email protected]
REVISIONE:
Galerati Umberto, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Davide de Caro
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Giuseppe Gioachino Belli
Tutti i Sonetti romaneschi
Vol. 1°
Introduzione
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di
originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i
pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si
distingue da qualunque altro carattere di popolo. Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un
gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Oltre a ciò, mi sembra la mia idea non
iscompagnarsi da novità. Questo disegno così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da
confronto che lo abbiano preceduto.
I nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai.
Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di
qualità non fattizie. Direi delle loro idee ed abitudini, direi del parlare loro c che non può vedersi nelle
fisionomie. Perché tanto queste diverse nel volgo di una città da quelle degl’individui di ordini superiori?
Perché non frenati i muscoli del volto alla immobilità comandata dalla civile educazione, si lasciano alle
contrazioni della passione che domina e dall’affetto che stimola; e prendono quindi un diverso sviluppo,
corrispondente per solito alla natura dello spirito che que’ corpi informa e determina. Così i volti diventano
specchio dell’anima. Che se fra i cittadini, subordinati a positive discipline, non risulta una completa
uniformità di fisionomia, ciò dipende da differenze essenzialmente organiche e fondamentali, e dal non aver
mai la natura formato due oggetti di matematica identità.
Vero però sempre mi par rimanere che la educazione che accompagna la parte dell’incivilimento, fa ogni
sforzo per ridurre gli uomini alla uniformità: e se non vi riesce quanto vorrebbe, è forse questo uno de’
beneficii della creazione. Il popolo quindi mancante di arte, manca di poesia. Se mai cedendo all’impeto
della rozza e potente sua fantasia, una pure ne cerca, lo fa sforzandosi di imitare la illustre. Allora il plebeo
non è più lui, ma un fantoccio male e goffamente ricoperto di vesti non attagliate al suo dosso. Poesia
propria non ha: e in c errarono quanti il dir romanesco vollero sin qui presentare in versi che tutta
palesarono la lotta dell’arte colla natura e la vittoria della natura sull’arte.
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza
alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator
romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio
scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia
poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale,
di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo
differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio
non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi
io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto
un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio.
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è
questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma per dare una immagine fedele di cosa già
esistente e, più abbandonata senza miglioramento.
Nulladimeno io non m’illudo circa alle disposizioni d’animo colle quali sarebbe accolto questo mio lavoro,
quando dal suo nascondiglio uscisse mai al cospetto degli uomini. Bene io preveggo quante timorate e
pudiche anime, quanti zelosi e pazienti sudditi griderebber la croce contro lo spirito insubordinato e
licenzioso che qua e ne traspare, quasiché nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano
abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principii miei, onde esaltare il mio proprio veleno sotto
l’egida della calunnia. a difendermi da tanta accusa g mi varrebbe il testo d’Ausonio, messo quasi a
professione di fede in fronte al mio libro. Da ogni parte io mi udrei rinfacciare di ipocrisia e rispondermi con
Salvator Rosa:
A che mandar tante ignominie fuore,
E far proteste tutto quanto il die
Che s’è oscena la lingua è casto il cuore?
Facile però è la censura, siccome è comune la probità di parole. Quindi, perdonate io di buon grado le
smaniose vociferazioni a quanti Curios simulant et bacchanalia vivunt, mi rivolgerò invece ai pochi sinceri
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virtuosi fra le cui mani potessero un giorno capitare i miei scritti, e dirò loro: Io ritrassi la verità. Omne
aevum Clodios fert, sed non omne tempus Catones producit. Del resto, alle gratuite incolpazioni delle quali
io divenissi oggetto replicherò il tenor della mia vita e il testimonio di chi la vide scorrere e terminare tanto
ignuda di gloria quanto monda d’ogni nota di vituperio.
Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi
meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da
parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le
classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le
inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza.
Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo,
dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non
italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che
imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge.
Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale
e di frequente ricorso vi suppliscono a molto.
Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel rione, ed
anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo
fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio dramma: dove comparirà il
bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore di
carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto
sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo,
presso il quale spiccano le p strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo,
all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in
discorso regolare ed espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed
efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome
conviene alla loro inclinazione e capacità.
Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro congiunti
fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i
lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si
fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro, ogni
pagina la fine.
L’ortoepia ne’ Romaneschi non cede in vizio alla grammatica: il suono della voce cupo e gutturale: la
cantilena molto sensibile e varia. Tradotta la prima nella ortografia de’ miei versi, mostrerà sommo abuso di
lettere.
Nel mio lavoro io non presento la scrittura de’ popolani. Questa lor manca; in essi io la cerco, benché
pur la desideri come essenziale principio d’incivilimento. La scrittura è mia, e con essa tento d’imitare la
loro parola. Perciò del valore de’ segni cogniti io mi valgo ad esprimere incogniti suoni.
Dalle vocali si avrà discorso più tardi. Parliamo intanto delle consonanti.
La b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella (la bella), debbitore (debitore) ecc.
La b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo o cèmmalo (cembalo), immasciata
(ambasciata), limmo (limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc. Ciò peraltro accade quando
appresso la b venga una vocale. Se la b sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per esempio le
voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza alterazione e da taluni si diranno
immriaco, settemmre, ammra.
La c si ascolta quasi sempre alterata. Se è doppia avanti ad e o ad i, oppure ve la precede una consonante,
contrae il suono che hanno nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio, e lo prende ancora
più turgido, che in questi due esempi non si ascolta. Preceduta poi da una vocale, anche di separata parola,
prolungasi strisciando, similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia: per esempio, piascére, duscènto, rèscita,
la scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento, recita, la cena, dai cento, otto civici) e simili. E qui
giova il ripetere aver noi prodotto in esempio un suono soltanto similare, imperocc di simile, in questo
caso la retta pronunzia non ne somministra. Pasce, pesce, voci della buona favella, si proferiscono dal volgo
come le voci viziate pasce, pesce (pace, pece) colla differenza però che in questi ultimi vocaboli il valore
della s è semplice e strisciante, laddove in que’ primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse
rappresentare con la penna la differenza di questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce (pasce, pesce)
pasce, pesce (pace, pece): quattro vocaboli che il dir romanesco possiede.
Nella lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc romanesca, il quale nella
retta pronunzia dell’idioma italiano sarebbe vano di ricercare. Per esempio acharnement, colifichet, la
chimie, s’échapper. Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in ciò molta attenzione. I fiorentini
hanno anch’essi questo suono, che coincide appunto dove i romaneschi lo impiegano; ma dovendosi
considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una alterazione del vero valor dell’alfabeto
italiano, non si è da me voluto dare per esempio che potesse servire alla intelligenza degli stranieri.
Appresso però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la e
conserva bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo strascico; per esempio a cena, è civico, o
cento. Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c aspirata de fiorentini, i quali dicono la hasa, di
hane, sette havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano bene e rotondamente a casa, è cane, o
cose, che cavalli, più camere. Come dunque i fiorentini diranno la hasa, di hane, le hose (la casa, di cane, le
cose) così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li scento (la cena, di civico, i cento); e all’opposto per
lo stesso motivo che farà pronunziare da’ fiorentini a casa, è cane, o cose, si udrà proferire a’ romaneschi a
ccena, è ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a, e, o e ne’ monosillabi tutti (meno gli
articoli, i segnacasi, di e da, e le particelle pronominali) sta latente una potenza accentuale che obbligando
ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de’ seguenti vocaboli, la esalta, la raddoppia, e per conseguenza
n’esclude ogni possibilità di aspirazione come se fosse preceduta da consonante. La quale identità di casi
offre uno benc lieve esempio di ciò che talora anche le lingue più diverse ritengono fra loro comune e
inconvenzionale: la ragione di che deve cercarsi nella natura e necessità delle cose.
Bisogna qui avvertire un altro ufficio della lettera c. Presso il volgo di Roma le voci del verbo avere sono
proferite in due modi. Quando serve esso verbo di ausiliare ad altri verbi, tutte le di lui modificazioni
necessarie ai tempi composti di questi si aprono col naturale lor suono, meno i vizi delle costruzioni
coniugate: per esempio hai fatto, avevo detto, averanno camminato, ecc. Allorché pe lo stesso verbo
avere, preso in senso assoluto, indichi un reale possesso, i romaneschi fanno precedere ogni sua voce dalla
particella ci. Non diranno quindi hai una casa, avevo due scudi, averanno un debito, ecc., ma bensì ci hai
una casa, ci avevo du’ scudi, ci averanno un debbito, ecc. Poiché però il ci non è da essi pronunciato isolato
e distinto, ma connesso e quasi incorporato col verbo seguente, così queste parole e altre verranno da me
scritte colla particella indivisa: ciai, ciavevo, ciaveranno. E siccome esse consteranno pur sempre
dall’accoppiamento di due voci diverse, io vi porrò un apostrofo al luogo dove cade l’unione fonica (ci’ai,
ci’avevo, ci’averanno) affinché da niuno sien per avventura credute vocaboli speciali e di particolare
significazione. Se poi la combinazione della altre parole del discorso, che vadano innanzi alle dette voci a
quel modo artificiale, produrrà lo strisciamento oppure il raddoppiamento della c già da me più sopra
indicato. Ecco in qual maniera si noteranno queste altre due differenze: Io sc’iavevo du’ scudi, Tu cc’iai una
casa, ecc. Se al contrario il verbo avere non indichi un reale possesso allora le sue voci andran prive del ci:
per esempio: avevo vent’anni, hai raggione, averanno la disgrazzia, ecc.
La d appresso alla n mutasi in questa seconda lettera. Vendetta si pronuncerà vennetta; andare, annà,
indaco, innico, mondo, monno. Allorché però le parole principiate da in non saranno semplici ma composte,
come indemoniato, indietro, indorare e simili, la d conserverà il proprio valore.
La g fra due vocali non si addolcisce mai nel modo che sogliono i buoni favellatori italiani, come in agio,
pregio, bigio, ecc., ma si aspreggia invece e si duplica. Doppia poi, o preceduta da consonante avanti alla e
ed alla i, si pronuncia turgida come la c ne’ medesimi casi. Nel resto questa lettera ritiene la sua natura. La
sillaba gli nelle parole si cambia in due jj: mojje (moglie), ajjo (aglio), mejjo, fijjo, ecc. Ma l’articolo gli si
muta in je: je disse, fajje (gli disse, fagli), ecc.
La l fra le vocali e le consonanti mute si muta in r, come Rinardo, Griserda, Mitirda, manigordo, assarto,
sverto, morto, inzurto, ferpa, corpa, quarcheduno, arbero, Argèri, arcuanto, marva, scarzo, mea-curpa, per
Rinaldo, Griselda, Matilde, manigoldo, assalto, svelto, molto, insulto, felpa, malva, scalzo, mea-culpa.
Nulladimeno il vocabolo caldo e i suoi composti diconsi assai più spesso e generalmente callo, riscallo, e
non cardo e riscardo. Ancora nel nome Bertoldo la d fa l e si dice Bertollo. Olio pronunciasi ojjo, rosolio fa
rosojjo, risojjo o risorio. La medesima lettera l preceduta da un’altra consonante in una stessa sillaba,
prende parimenti il suono di r. Pertanto le voci clima, plico, applauso, flauto, afflitto, emblema, blocco,
Plutone, diverranno crima, prico, apprauso, frauto, affritto, embrema, brocco, Prutone.
Alcuni non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la vera plebaglia dice sempre er.
La s non suona mai dolce come nella retta pronunzia di sposo, casa, rosa. Odesi sempre sibilante, e,
allorché non sibila, assume le parti di una z aspra: lo che accade ogni qual volta succeda nel discorso ad una
consonate come sarza (salsa), er zegno (il segno), penziere (pensiere), inzino (insino) ecc.
La z nel mezzo delle parole costantemente raddopiasi. Così grazia, offizio, protezione, si proferiranno
grazzia, offizzio, protezzione. Bensì questo s’intende allorché la z rimanga fra due vocali.
Generalmente, al principio delle parole, alcune consonanti restano semplici e molte al contrario si
raddoppiano, purché la parola precedente non termini in un'altra consonante. Ma poic pure questa teoria,
comune in gran parte alle classi più polite del popolo, va soggetta a capricciose eccezioni, se ne mostrerà la
pratica ai debiti incontri. Dopo però le finali colpite d’accento, sia manifesto, sia potenziale (come si disse
più sopra, parlando de’ monosillabi) da noi si dovrebbe nella scrittura delle consolanti iniziali conservare il
sistema della regolare ortografia. Un segno di più è forse qui oziosa ridondanza, dacché fu avvertito come la
potenza accentuale raddoppi per stessa nella pronunzia le articolazioni seguenti: e il miglior proposito
parrebbe quello di notar solamente ciò che si diparte dal resto. Purtuttavia, per non indurre in equivoco i
meno pratici, ai quali potesse per avventura giungere questo scritto, seguiremo coi segni la guida del suono
da essi rappresentato.
Per le lettere vocali non dovremo fare osservazioni se non se intorno alla a alla e e alla o. La prima esce
sempre dalla bocca de’ romaneschi con un suono assai pieno e gutturale: l’acuto o il grave della seconda e
della terza seguono le regole del dir polito, meno qualche incontro che all’occasione sarà da noi distinto con
analoghi accenti. Basterà qui l’avvertire che niuna differenza si fa da e congiunzione ed è verbo, siccome
neppure tra la o congiuntivo e la ho verbale: udendosi tutte pronunciare ugualmente con suono ben largo ed
aperto.
Aggiungeremo a questo luogo che la i nei monosillabi mi, ti, ci, si, vi, trasformasi in e, pronunciandosi me,
te, ce, se, ve. Al contrario poi la e in se, particella condizionale, volgesi in i. Questo rilievo per altro
apparterrebbe più alla grammatica che all’ortografia: e noi di grammatica non parleremo, potendone i vizii
apparir chiaramente dagli esempii, i quali verranno all’uopo corredati da apposite note dichiarative.
[Giuseppe Gioachino Belli]
Indice
1. Lustrissimi: co’ questo mormoriale
2. A Pippo de R...
3. A la sora Teta che pijja marito
4. Ar sor Longhi che pijja mojje
5. Alle mano d’er sor Dimenico Cianca
6. Reprìca ar sonetto de Cianca
de li quattro d’agosto 1828
7. Er pennacchio
8. L’aribbartato
9. Er civico
10. Peppe er pollarolo ar sor Dimenico Cianca
11. Pio Ottavo
12. A Compar Dimenico
13. Nunziata e ’r Caporale; o Contèntete de l’onesto
14. Ar dottor Cafone
15. Ar sor dottore medemo
16. P’er zor dottore ammroscio cafone
17. Er romito
18. L’ambo in ner carnovale
19. Er guitto in ner carnovale
20. Campa, e llassa campà
21. Contro li giacobbini
22. Contro er barbieretto de li gipponari
23. A Menicuccio Cianca
24. A li sori anconetani
25. Er pijjamento d’Argèri
26. Ar zor Carlo X
27. Pe la Madonna de l’Assunta festa
e Comprïanno de mi’ mojje
28. Pe le Concrusione imparate all’ammente
dar sor avocato Pignòli Ferraro
co tutti l’antri marignani der conciastoria
29. Ar sorAvocato Pignòli Ferraro
30. Er gioco de calabbraga
31. Er gioco der lotto
32. Devozzione pe vvince ar lotto
33. L’astrazzione
34. Er gioco der marroncino
35. La bonidizzione der Sommo Pontescife
36. Li scrupoli de l’abbate
37. Assenza nova pe li capelli
38. Campo vaccino
39. Campo vaccino
40. Campo vaccino
41. Campo vaccino
42. Er Moro de Piazza–Navona
43. Tempi vecchi e ttempi novi
44. Er funtanone de Piazza Navona
45. Capa
46. Maggnera vecchia pe ttiggne la lana nova
47. Campidojjo
48. Li cattivi ugùri
49. L’oste a ssu’ fijja
50. Lo sposalizzio de Tuta
51. A Checco
52. L’orecchie de mercante
53. La pissciata pericolosa
54. Er confortatore
567. L’appiggionante nova
568. Manco una pe le mille
569. Er rosario in famijja
570. Una bbella divozzione
571. La Sibbilla
572. Un pessce raro
573. Er parto de Mamma
574. Er zoffraggio
575. Er Nibbio
576. Un bon partito
577. Le frebbe
578. Er confronto
579. La concubbinazzione
580. L’editto bbello
581. La curiosi
582. Er cimiterio de la Morte
583. Er cimiterio in fiocchi
584. Er mostro de natura
585. Li fiori de Nina
586. Le confidenze de le regazze
587. [Le confidenze de le regazze]
588. [Le confidenze de le regazze]
589. [Le confidenze de le regazze]
590. [Le confidenze de le regazze]
591. [Le confidenze de le regazze]
592. [Le confidenze de le regazze]
593. [Le confidenze de le regazze]
594. Er bon padre spirituale
595. Er confessore
596. La sborgna
597. Li negozzi sicuri
598. Sicu t’era tin principio nunche e ppeggio
599. Santaccia de Piazza Montanara
600. Santaccia de Piazza Montanara
601. L’otto de descemmre
602. Un gastigo de la Madonna
603. Una disgrazzia
604. Er zanatoto ossii er giubbileo
605. Er giubbileo
606. Er giubbileo
607. Un vitturino de Montescitorio
608. Un antro vitturino
609. Er musicarolo
610. L’Omo de Monno
611. Sant’Orzola
612. San Pavolo prim’arimita
613. San Pavolo primo arimita
614. Pijjate e ccapate
615. Le lingue der Monno
616. Er commercio libbero
617. La puttaniscizzia
618. Li Ggiudii de l’Egitto
619. Le indiggnità
620. Terzo, santificà le feste
621. La patta
622. La mmaschera
623. Er motivo de li guai
624. Una casata
1. Lustrissimi: co’ questo mormoriale
Lustrissimi co’ questo mormoriale
v’addimando benigna perdonanza
se gni fiasco de vino igni pietanza
non fussi stata robba pella quale.
Sibbè che pe’ nun essece abbonnanza
come ce n’è piú mejjo er carnovale,
o de pajja o de fieno, o bene o male
tanto c’è stato da rempí la panza.
Ma già ve sento a dí: fior d’ogni pianta,
pe la salita annamo e pe la scenta,
famo li sordi, e ’r berzitello canta.
Mo sentiteme a me: fiore de menta,
de pacienza co’ voi ce ne vò tanta,
e buggiarà pe’ bbio chi ve contenta.
1818-19
Per un pranzo di società al quale presiedé G. G. Belli, ed intervennero i letterati Perticari Giulio, Biondi Luigi,
Tambroni Giuseppe, Borghesi Bartolomeo, Perticari Monti Teresa, De Romanis Filippo, etc. etc.
2. A Pippo de R...
Sentissi, Pippo, er zor abbate Urtica
1
co cquell’antro freghino de Marchiònne
2
uno p’er crudo e ll’antro pe le donne
appoggiajje ar zonetto la reprìca?
Ma cchi a ste crape je po ffà la fica,
j’averà dditto, cazzo: «Crielleisònne!
se la vadino a magna bbell’e mmonne,
che nnoi peddìo nun ciabbozzamo mica».
Valla a ccapí: si ffai robba da jjanna,
subbito a sto paese je paremo
quer che je parze a li giudii la manna;
ma si ppoi ggnente ggnente sce volemo
particce come la raggion commanna,
fascemo buscia, Pippo mio, fascemo.
1820 - De Peppe er tosto
All’accademia tiberina la sera de’ …1820 (credo).
1
L’Abate D. Gaetano Celli, di fisionomia spinosetta,
2
e l’abate D.
Melchior Missirini recitarono e replicarono due brutti componimenti, il primo un sonetto contro le donne, e il secondo
un capitolo sulla fuga in Egitto in cui la Madonna era chiamata Vergin cruda.
3. A la sora Teta che pijja marito
Sonetto
1
Questo e il seguente sonetto furono da me spediti a Milano al sig. Giacomo Moraglia mio amico il 29
dicembre 1827, onde da lui si leggessero per ischerzo nelle nozze del comune amico signor G. Longhi con
la signora Teresa Turpini, cognata del Moraglia.
Coll’occasione, sora Teta mia,
d’arillegramme che ve fate sposa,
drento a un’orecchia v’ho da dí una cosa
pe’ rregalo de pasqua bbefania.
Nun ve fate pij la malatia
come sarebbe a dí d’esse gelosa,
pe’ nun fà come Checca la tignosa
che li pormoni s’è sputata via.
Ma si piuttosto ar vostro Longarello
volete fà passà quarche morbino
e vedello accuccià come un agnello;
dateje una zeccata e un zuccherino;
e dorce dorce, e ber bello ber bello,
lo farete balsopra un cudrino.
dicembre 1827
1
Questo e il seguente sonetto furono da me spediti a Milano al signor Giacomo Moraglia mio amico il 29 dicembre
1827, onde da lui si leggessero per ischerzo nelle nozze del comune amico signor G. Longhi con la signora Teresa
Turpini, cognata del Moraglia.
4. Ar sor Longhi che pijja mojje
Sonetto
Le donne, cocco mio, sò certi ordegni,
certi negozi, certi giucarelli
che si sai maneggialli e sai tienelli,
tanto te cacci da li brutti impegni:
ma si poi, nerbi-grazia, nun t’ingegni,
de levàttele un po’ da li zzarelli,
cerca la strada de li pazzarelli
va’ a fiume, o scegni drento un pozzo scegni.
Sí, pijja mojje, levete er crapiccio
ma te n’accorgerai pe ddio sagranne
quanno che sarà cotto er pajjariccio.
Armanco nun la fà tamanto granne;
e si nun vòi aridurte omo a posticcio,
tiè pe’ tte li carzoni e le mutanne.
dicembre 1827 - G.G.B.
5. Alle mano d’er sor Dimenico Cianca*
Soneetto de povesia
Lo storto,
1
che vva immezzo a la caterba
de quelle bbone lane de fratelli,
che de ggiorno se gratta li zzarelli,
eppoi la sera el culiseo se snerba,
m’ha dditto mo vviscino all’Orfanelli
quarmente in ner passà ppe la Minerba,
ha vvisto li scalini pieni d’erba,
de ggente, de sordati e ggiucarelli;
co l’occasione c’oggi quattro agosto
è la festa d’er zanto bbianco e nnero,
che ffa li libbri, e cchi li legge, arrosto.
Ho ffatto allora: Oh ddio sagranne, è vvero!
Làsseme annà da Menicuccio er tosto,
a bbeve un goccio de quello sincero.
4 agosto 1828 - De Peppe er tosto
* Bigini.
1
N… Nalli, veramente storto e devoto, come si dice qui sopra.
6. Reprìca ar sonetto de Cianca
de li quattro d’agosto 1828
La quale, nun saprebbe, in concrusione
stavo a aspet con du’ lenterne d’occhi:
dico er zonetto co ttutti li fiocchi
c’avevio da mannamme a ppecorone.
Oh vvarda si nnun è da can barbone!
Tu me spenni pe ggurde e ppe mmajocchi,
e cquanno hai da fà ttu... ma ssi mme tocchi
un’antra vorta a mē..., dimme cojjone!
Li disciassette duncue, sor grostino,
nun lo sapete ppiú che ffesta edè?
Pozzi morí, nun è San Giuacchino?
Ar fin de fine che mme preme a mme?
Dico pe ddí che ddrento a cquer boccino
o nun c’è un cazzo, o c’è un ciarvello che...
1829 - De Peppe er tosto
7. Er pennacchio
Ah Menicuccio mia, propio quer giorno,
la viggijja de pasqua bbefania,
quella caroggna guercia de Luscia,
lo crederessi?, me mettette un corno.
Porca fottuta! e me vieniva intorno
a ffà la gatta morta all’osteria
pe rrempí er gozzo a la bbarbaccia mia,
’ggni sempre come la paggnotta ar forno.
1
E intratanto co mmastro Zozzovijja
me lavorava quele du’ magaggne
d’aruvinà un fijjaccio de famijja.
Ecco, pe ccristo, come sò ste caggne:
amore? ’n accidente che jje pijja:
tutte tajjòle
2
pe ppoi fatte piagne.
3
7 agosto 1828
1
Per regola fissa, come è il prezzo della pagnotta al forno.
2
Tagliole.
3
Farti piangere.
8. L’aribbartato
Te lo saressi creso, eh Gurgumella,
ch’er zor paìno, er zor dorce-me-frega,
che mmanco ha ffiato per annà a bbottega,
potessi slargà er buscio a ’na zitella?
Tu nu lo sai ch’edè sta marachella;
1
tutta farina
2
de quell’antra strega.
Mo che nun trova lei chi jje la sega,
fa la ruffiana de la su’ sorella.
Io sarebbe omo, corpo de l’abbrei,
senza mettécce né ssale né ojjo,
3
de dàjjene
4
tre vorte trentasei:
ma nun vojo piú affríggeme
5
nun vojjo;
che de donne pe ddio come che llei
’ggni monnezzaro me ne dà un pricojjo.
6
7 agosto 1828 - De Peppe er tosto
1
Cabala.
2
Artificio.
3
Senza esitare.
4
Darlene in colpi.
5
Affliggermi.
6
Un procoio, una infinità.
9. Er civico
Moàh Menicuccio,
1
quanno vedi coso...
Nino er pittore a la Madon de Monti,
2
dijje che caso mai passa li ponti...
E damme retta; quanto sei feccioso!
Dijje... Ahà! Menicuccio, me la sconti:
ma perché me ce fai lo stommicoso?
M’avanzi quarche cazzo sbrodoloso?
Bravo! ariōca: come semo tonti!
Cosa te vo’ giucà, pe ddio de legno,
che si te trovo indove sò de guardia,
te do l’arma in der culo e te lo sfregno?
Dijje pe vvíede che sto ppropio a ardia,
che voría venne un quadro de disegno
che c’è la morte de Maria Stuardia.
3
1829 - De Peppe er tosto
1
Domenico Biagini.
2
Giovanni Silvagni.
3
Detto per celia. Io posseggo realmente una bella e piccolissima incisione
d’un bel quadro a olio rappresentante la decapitazione di Maria Stuarda, dipinto a Milano dal mio amico Hayez.
10. Peppe er pollarolo ar sor Dimenico Cianca
Piano, sor È, come sarebbe a dine
sta chiacchierata d’er Castèr dell’Ova?
Sarebbe gniente mai pe ffà ’na prova
s’avemo vojja de crompà galline?
Sí! è propio tempo mo, cuesto che cquine,
d’annasse a ciafrujjà marcanzia nova!
Manco a buttà la vecchia nun se trova!
Ma chi commanna n’ha da vede er fine.
Duncue, sor coso, fateve capace
che a Roma pe sto giro nun è loco
da fà boni negozzi; e annate in pace.
E si in quer libbro che v’ha scritto er Coco
lui ce pò ddí cquer che je pare e ppiace,
io dico a voi che ciaccennete er foco.
28 gennaio 1829 - G.G.B.
Pel dono fattomi dal mio amico Francesco Sig. Biagini, del paragrafo sulla Capitolazione conchiusa a Napoli, uscendo
giugno 1799 fra i Francesi, Inglesi, Napoletani, Turchi, etc. etc.; nella quale furono dai repubblicani evacuati i due
Castelli Nuovo e dell’Uovo; estratto dall’opera intitolata: Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, di Cuoco.
Questo sonetto, per poter entrare nella collezione, dovrebbe portare abbasso la seguente nota, invece del titolo
esplicativo che qui vi si trova in testa:- Un tale disse in via di scherzo a un gallinaio: Avete mai letto il libro del
Cuoco, sul castello dell’Uovo di Napoli? Il gallinaio rispose presso a poco quel che si dice nel sonetto.
11. Pio Ottavo
Che ffior de Papa creeno! Accidenti!
Co rrispetto de lui pare er Cacamme.
1
Bbella galanteria da tate e mmamme
pe ffà bbobo a li fijji impertinenti!
Ha un erpeto pe ttutto, nun tiè ddenti,
è gguercio, je strascineno le gamme,
spènnola
2
da una parte, e bbuggiaramme
3
si
4
arriva a ffà la pacchia
5
a li parenti.
Guarda llí cche ffigura da vienicce
6
a ffà da Crist’in terra! Cazzo matto
imbottito de carne de sarcicce!
7
Disse bbene la serva de l’Orefisce
quanno lo vedde
8
in chiesa: «Uhm! cianno
9
fatto
un gran brutto strucchione
10
de Pontefisce».
1° aprile 1829
1
Autorità ebraica in Ghetto.
2
Pende.
3
Buggerarmi.
4
Se.
5
Stato comodo e ricco senza pensieri.
6
Venirci.
7
Salsicce.
8
Vide.
9
Ci hanno.
10
Uomaccione mal tagliato.
12. A Compar Dimenico
Me so ffatto, compare, una regazza
bianca e roscia, chiapputa e bbadialona,
1
co ’na faccia de matta bbuggiarona,
e ddu’ brocche,
2
pe ddio, che cce se sguazza.
Si la vedessi cuanno bballa in piazza,
cuanno canta in farzetto, e cquanno sona,
diressi: «Ma de che? mmanco Didona,
che squajjava le perle in de la tazza».
Si ttu cce vôi viení dda bbon fratello
te sce porto cor fedigo
3
e ’r pormone;
ma abbadamo a l’affare de l’uscello.
Perché si ccaso
4
sce vôi fà er bruttone,
5
do dde guanto
6
a ddu’ fronne
7
de cortello
e tte manno a Ppalazzo pe cappone.
8
14 febbraio 1830 - De Peppe er tosto – G.G.B.
1
Badiale, cioè squisita, impareggiabile.
2
Poppe.
3
Fegato.
4
Se per caso.
5
Il brusco, il pretendente.
6
Afferro, do di
mano.
7
Due fronde, cioè un pocolin de coltello.
8
A cantare da castrato alla cappella pontificia.
13. Nunziata e ’r Caporale;
o Contèntete de l’onesto
Titta, lasseme annà: che!, nun te bbasta
de scolà er nerbo
1
cincue vorte e mezza?
Vò’ un bascio? tiello:
2
vôi n’antra carezza?...
Ahà! da capo cor tastamme! oh ttasta.
Ma tte stai fermo? Mica sò dde pasta,
ché mme smaneggi: mica sò mmonnezza.
3
Me farai diventà ’na pera-mezza!
4
Eppuro te n’ho data una catasta!
5
E per un giulio tutto sto strapazzo?
Ma si mme vedi ppiú pe ppiazza Sora
6
...
Oh vvia, famme cropí, cc’ho ffreddo, cazzo!
Manco male! Oh mmó ppaga. Uh, ancora tremo!
Addio: lasseme annà a le cuarantora,
7
e öggi,
8
si Ddio vò,
9
cciarivedemo.
Roma, 14 febbraio 1830 - Der medemo
1
Nervo, per pène.
2
Tienilo.
3
Immondezza.
4
Mézza, colle due z aspre: cioè Pera vizza.
5
Una quantità grande.
6
Il
palazzo già dei Duchi di Sora serve oggi di caserma.
7
La esposizione pubblica e continua della Eucaristia in tante
chiese a ciò destinate. Le donne, di qualunque natura, sono divotissime di questa funzione.
8
Oggi significa sempre:
dopo il pranzo.
9
Cristiana uniformazione alle disposizioni del Cielo sugli eventi futuri, che le buone genti di Roma
non pretermettono mai parlando di azioni che meditano.
14. Ar dottor Cafone
1
Tre sonetti
Sor cazzaccio cor botto, ariverito,
ve pozzino ammazzà li vormijjoni,
perché annate scoccianno li cojjoni
a cchi ve spassa er zonno e ll’appitito?
Quanno avevio in quer cencio de vestito
diesci asole a rruzzà cco ttre bbottoni,
ve strofinavio a ttutti li portoni:
e mmó, bbuttate ggiú ll’arco de Tito!
Ma er popolo romano nun ze bbolla,
e quanno semo a ddí, ssor panzanella,
se ne frega de voi co la scipolla.
E a Rroma, sor gruggnaccio de guainella,
ve n’appiccicheranno senza colla
sette sacchi, du’ scorzi e ’na ssciuscella.
2
14 febbraio 1830 - De Peppe er tosto
1
Napolitano Il signor dottore Fabrizio D’ambrosio, napolitano esiliato, stampò un libercolettaccio in cui
esaminando le donne di Roma, vomitava mille ingiurie contro i Romani. Quest’opera poi, meno le ingiurie di proprio
conio, era un perfetto plagio dell’opera di Cabanis sopra i rapporti fra il morale e il fisico dell’uomo.
2
Giumella.
15. Ar sor dottore medemo
Ma vvoi chi ssete co sto fume in testa
che mettete catana
1
ar monno sano?
Sete er Re de Sterlicche er gran Zordano,
l’asso de coppe, er capitan Tempesta?...
Chi sete voi che ffate tanta pesta
2
co’ cquer zeppaccio de pennaccia in mano?
Chi ssete? er maniscarco, er ciarlatano...
se po ssapello, bbuggiaravve a ffesta?
Vedennove specchiavve a ll’urinale,
le ggente bbone, pe’ nun fà bbaruffa,
ve chiameno er dottore, tal’e cquale:
ma mmó vve lo dich’io, sor cosa-bbuffa,
chi ssete voi (nun ve l’avete a male):
trescento libbre de carnaccia auffa.
16 febbraio 1830 - De Peppe er tosto medemo
1
Metter catana, dare eccezione, censurare.
2
Peste per istrepito.
16. P’er zor dottore ammroscio cafone
Sonetto 3°
A Menico Cianca
Le nespole
1
c’hai conte a cchillo sciuccio
(pe ddillo
2
a la cafona) de dottore,
me le sò ppasteggiate,
3
Menicuccio,
sino a cche m’hanno arifiatato er core.
Vadi a rricurre mo da Don Farcuccio
4
pe rrippezzà li stracci ar giustacore:
5
ché a Roma antro che un cavolo cappuccio
pò ppagà ppiù le miffe
6
a st’impostore.
Ma er zor Ammroscio ha ffatto un ber guadaggno
trovanno a ffasse
7
a ccusí bbon mercato
carzoni e ccamisciola de frustaggno:
8
ché in ner libbro de stampa che mm’hai dato,
be’ cce discessi
9
all’urtimo: Lo Maggno;
10
e, dde parola, te lo sei maggnato.
Roma, 13 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
I colpi.
2
Dirlo.
3
Assaporate.
4
Equivale a «nessuno».
5
Vedi il sonetto 1°.
6
Menzogne.
7
Farsi.
8
Non offenda il trovare
qui in frustagno un vocabolo non pure illustre, ma di forma e nazione veramente toscano. Il romanesco tende di sua
natura ad alterare il suono delle parole, allorché per ispirito di satira, in lui acutissimo, vuole rendere il senso equivoco
e farlo ingiurioso. Così, nel caso attuale, per dire che il dottore sia stato frustato pel corpo dal libro contro di lui
stampato, non disconviene alla malizia romanesca la viziatura di fustagno, termine in uso, in frustagno, per la qual
viziatura questo vocabolo viene per puro accidente, indipendentissimo da perizia filologica, ad essere restituito alla
sua incognita forma.
9
Dicesti.
10
Nel libro di cui si tratta appariscono per ultime parole le seguenti: Fr. Dom. Lo
Magno, firma del revisore ecclesiastico. E il detto libro contiene un dialogo scritto dal signor Benedetto Blasi intorno
alle stoltezze dell’opuscolo dell’Ambrosio; e quindi un confronto fatto dal signor Domenico Biagini di quello stesso
opuscolo colla celebre opera del Cabanis (Rapport de moral, etc.) della quale il D’Ambrosio ha fatto un continuo
plagio, viziandola però per farle dire sciocchezze.
17. Er romito
«Quanno te lo dich’io cachete er core»
1
me diceva ier l’antro un bon romito;
«in sto monnaccio iniquo e ppeccatore,
nun ze trova piú un parmo de pulito.
Co’ ttre sguartrine
2
io fascevo l’amore
e je servivo a ttutte de marito;
e ppe un oste, uno sbirro e un decrotore
3
ste porche tutt’e ttre mm’hanno tradito.
Ma io pe ffa vvedé cche mme ne caco,
tutte le sere vado all’osteria,
e ffo le passatelle, e mm’imbriaco.
E ssi la tentazzione m’aripía,
4
me lo cuscio pe ddio cor filo e ll’aco
quant’è vvero la Vergine Mmaria».
15 febbraio 1830 - De Peppe er tosto - G. G. B.
1
Sottointendi: piuttosto che non crederlo; cioè: «devi crederlo per forza, a mal tuo grado».
2
Donnucole.
3
Décrotteur.
4
Mi ripiglia.
18. L’ambo in ner carnovale
T’aricordi, compare, che indov’abbito
viení un giorno pe’ sbajjo la bbarella?
Bbe’, all’astrazzione che ss’è ffatta sabbito,
ciò vvinto un ambo a mmezzo co Ttrippella.
E oggi pijjamo a nnolito un bell’abbito,
lui da pajjaccio e io da purcinella,
perché la serva de padron Agabbito
sta allancata de fà ’na sciampanella.
Tu, ccaso che tt’ammascheri da conte,
viecce a ttrovacce all’osteria der Moro,
in faccia a gghetto pe’ sboccà sur ponte.
E ssi mmai Titta pô llassà er lavoro,
portelo co lo sguizzero der Monte,
ché Ggiartruda ne tiè ppuro pe’ lloro.
17 febbraio 1830 - De Peppe er tosto medemo
19. Er guitto in ner carnovale
Che sserve che nun piovi, e cche la neve
1
nun vienghi a infarinà ppiù le campaggne?
Tanto ’ggnisempre a casa mia se piaggne,
tanto se sta a stecchetta e nun ze bbeve.
Er zor paino, er zor abbate, er greve,
2
in sti giorni che cqui sfodera
3
e sfraggne:
4
antro peddío che a ste saccocce caggne
nun ce n’è né dda dà nné da risceve!
Ma ssi arrivo a llevà lo stelocanna,
5
Madonna! le pellicce
6
hanno da êsse
da misurasse co la mezza canna!
Allora vedi da ste gente fesse,
7
co ttutta la su bboria che li scanna,
le scappellate pe vviení in calesse!
17 febbraio 1830 - De Peppe er tosto
1
Dopo vari mesi di piogge e di nevi, all’apparire del carnovale rasserenò.
2
Greve dicesi ai popolani che sostengono
gravità.
3
Sfoggia.
4
Spende.
5
L’est-locanda, tabella che si pone sulle case vuote.
6
Ubbriachezza.
7
Sguaiate.
20. Campa, e llassa campà
Ma cche ffajòla, Cristo, è diventata
sta Roma porca, Iddio me lo perdoni!
Forche che state a ffà, ffurmini, troni,
1
che nun scennete a fanne una panzata?
S’ha da vede, per dio, la buggiarata
ch’er Cristiano
2
ha d’annà ssenza carzoni,
manco si cquelli poveri cojjoni
nun fussino de carne bbattezzata!
Stassi a sto fusto
3
a ccommannà le feste,
voría bbe’
4
mmaneggià li giucarelli
d’arimette er ciarvello in de le teste.
E cchiamerebbe Bbonziggnor Maggnelli,
5
pe’ ddijje du’ parole leste leste:
sor È,
6
ffamo campà li poverelli.
19 febbraio 1830 - De Peppe er tosto
1
Tuoni.
2
L’uomo.
3
Stasse a me.
4
Vorrei bene.
5
Monsignor Mangelli, Presidente dell’Annona e Grascia.
6
Sor È, come
dicesse: «Signor tale».
21. Contro li giacobbini
Nun te pij ggatti a ppelà, Ggiuanni;
chi impiccia la matassa se la sbrojji:
stattene a ccasa co li tu malanni,
ché er monno tanto va, vvojji o nun vojji.
Io nun vorrìa sta un cazzo in de li panni
de sti sfrabbica Rome e Ccampidojji
ché er mettese
1
a cozzà ccontro li bbanni
2
è un mare-maggna
3
tutto pien de scojji.
Sai quanto è mmejjo maggnà ppane e sputo,
che spone
4
a rrepentajjo er gargarozzo
5
pe ffà strozzate
6
de baron fottuto?
Tù lassa annà a l’ingiú ll’acqua in ner pozzo;
e hai da dí che Iddio t’ha bbenvorzuto
com’e cquarmente
7
t’arimedia er tozzo.
19 febbraio 1830 - D’er medemo
1
Il mettersi.
2
Bandi.
3
Mare-magnum.
4
Che esporre.
5
La gargozza.
6
Mangiate.
7
Come e qualmente.
22. Contro er barbieretto de li gipponari
Quer zor chicchera llí ccor piommacciolo
va strommettanno pe’ ccampo de fiore
che ll’asole che ttiengo ar giustacore
Titta er sartore nun l’ha uperte a solo.
Je pijja ’na saetta a ffaraiolo,
je vienghino tre cancheri in ner core!
L’averà fatte lui cor su’ rasore,
facciaccia de ciovetta in sur mazzolo!
...’ggia san Mucchione! ancora nun è nato
chi me pozzi fa a mene er muso brutto
senza risico d’essece ammazzato.
Ma tanto ha da finí che sto frabbutto,
sto fíaccio de cane arinegato
s’ha da cavà la sete cor presciutto.
3 marzo 1830 - De Peppe er tosto - G. G. B.
23. A Menicuccio Cianca
Di’ un po’, ccompare, hai ggnente in condizione
1
la cuggnata de Titta er chiodarolo?
Be’, ssenti glieri si
2
ccorcò
3
a fasciolo
4
lo sguattero dell’oste der farcone.
Doppo fattasce auffagna
5
colazione
j’annò cor deto a stuzzicà er pirolo:
figurete quer povero fijjolo
si cce se bbuttò addosso a ppecorone.
Ma mmalappena arzato sù er zipario,
ecchete che per dio da un cammerino
viè ffora er bariscello der Vicario.
Mó ha da sposalla; e ppoi pe ccontentino
s’averà da godé ll’affittuario
che jj’ha fatto crompà ll’ovo e ’r purcino.
6
1830 - De Peppetto er tosto
1
Cognizione.
2
Se.
3
Colcò: fece giù, ingannò.
4
A fagiuolo, appuntino.
5
A ufo.
6
Donna gravida.
24. A li sori anconetani
Ma che teste de cazzo bbuggiarone!
Ve strofinate a iddio che facci piove;
e perché san Ciriàco
1
nun ze move,
je scocciate le palle in priscissione:
e ve lagnate poi si una ’lluvione
de du fiumi che stanno in dio sa dove
vienghi a rubbavve sto corno de bbove
bell’e granne com’è, ttosto e ccojjone!
Ma nun è mmejjo d’avé ppiú cquadrini
e ppiú ggrano e ppiú vvino a la campagna,
che mmagnà nnote pe’ cacà stuppini?
E er sor Davìd che imberta e cce se lagna,
quanno sarà dde llà dda li confini,
l’averà da trovà ’n’antra cuccagna!
Pesaro, maggio 1830 - De Peppe er tosto
Nella primavera del 1830 non pioveva, con danno dell’agricoltura. Gli Anconitani, dando opera regia nel nuovo
Teatro delle Muse dissero che la Senna e il Tamigi sarebbero fra poco venuti a rapire a quelle scene il tenore
Giovanni David, che vi cantava per circa 3000 scudi. Quindi sonetto a li sori anconetani.
1
Protettore d’Ancona.
25. Er pijjamento d’Argèri
(5 luglio 1830)
Quante sfrisielle a ttajjo e scappellotti!
Quante chicchere a coppia e sventoloni!
1
Quant’acciacco de chiappe e de cojjoni!
Quant’infirze de schiaffi e de cazzotti!
Poveri Turchi, come sò aridotti
co cquell’arifilate de gropponi!
Beato chi ppô avé ttra li carzoni
un fiasco d’ojjo e un bon caval che ttrotti!
Nun c’è da dí, ppe ssant’Antonio abbate:
li Francesi sò ggente che, Mmadonna!,
sò bboni pe l’inverno e ppe l’istate.
E mmo mmetteno in cima a ’na colonna
2
er Deo
3
d’Argèri, che vva a ffasse
4
frate,
o vviè a vvenne le pizze a la Ritonna.
20 luglio 1830 - De Peppe er tosto
1
Colpi, busse, etc.
2
La colonna rostrale decretata a Tolone.
3
Dey.
4
Farsi.
26. Ar zor Carlo X
Bravo Carluccio! je l’hai fatta ggiusta
pe bbatte er culo
1
e addiventà ccerasa.
2
Tosto mó! aspetta la bburiana
3
a ccasa
cor general Marmotta de Ragusta.
3a
Ahà! cch’edè, Ccarluccio? nun te gusta
de portà a Ggiggio
3b
la chirica rasa?
4
Drento a le bbraghe te ne fai ’na spasa?
5
Spada, caroggna! e nnò speroni e ffrusta.
Cor dà de bbarba all’emme, ar zeta e all’Acca,
6
hai trovo
7
er busse, e sti quattro inferlicchese
8
che tt’hanno aruvinato la bbaracca.
9
Chi ar Monno troppo vô, nnun pijja nicchese;
10
e ttu ppe llavorà a la pulignacca,
11
hai perzo er trono, e tt’è rrimasto? un icchese.
12
Roma, 15 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Per cadere.
2
Diventar nulla.
3
I guai.
3a
Il general Marmont, duca di Ragusi.
3b
Luigi XVI.
4
La chierica rasa, il capo
mozzo.
5
Spargimento di quel che s’intende.
6
Alla stampa , sotto la figura delle lettere dell’alfabeto.
7
Equivoco fra
busse, battiture, e busse che nelle scuole delle maestre dicono i fanciulli alla fine dell’alfabeto, cioè: «Ette, cònne,
rònne e busse, sia lodato el bon Gesù». Le prime voci esprimono tre segni che nella così detta Santa-Croce (cioè
l’abbacedario, perché innanzi all’A precede una ) vengono appresso alla Z, e sono &. V. R.: il busse poi vi si
aggiunge onde far cadere in rima il nome di Gesù che termina la canzoncina.
8
Colpi.
9
La macchina.
10
Nix: nulla.
11
Lavorare alla pulignacca: far le cose destramente, a capello. Questa frase è derivata in Roma dalle molle da cocchio
dette alla Polignac.
12
Un X: nulla.
27. Pe la Madonna de l’Assunta
festa e Comprïanno
1
de mi’ mojje
Mojje mia cara, a sto paese cane
nun ze trova nemmanco a fà a sassate;
2
e cquanno hai crompo
3
un moécco
4
de patate,
fai passo ar vino e cquer ch’è peggio ar pane.
Io pisto er pepe, sòno le campane,
rubbo li gatti, tajjo l’oggna
5
a un frate,
metto l’editti pe le cantonate,
cojjo
6
li stracci e agliuto le ruffiane.
Embè lo sai ch’edè cche cciariscévo?
7
Ammalapena pe ppagacce
8
er letto:
anzi, a le du’ a le tré,
9
spallo
10
e cciarlèvo.
11
Duncue che tt’ho da dà, ppòzzi èsse santa?
Senza cudrini
12
ggnisun chirichetto
disce Dograzzia e ggnisun ceco canta.
Roma, 15 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Compleanno.
2
Non si trova ad occuparsi in nulla.
3
Comperato.
4
Baiocco.
5
Le unghie.
6
Raccolgo.
7
Cos’è che ci
ricevo?
8
Pagarci.
9
Sovente.
10
Do in fallo.
11
Arlevarci: toccar busse.
12
Quattrini.
28. Pe le Concrusione imparate all’ammente
dar sor avocato Pignòli Ferraro
1
co tutti l’antri marignani
2
der conciastoria
Ne l’annà glieri a venne ar pellegrino
li fibbioni d’argento de Maria,
vedde er porton de la Cancellaria
zeppo de gente come un butteghino.
Vorzi entrà drento; e, de posta, ar cudino
riconobbe er regazzo de mi fìa,
po’ er cappanera e tutta la famía
de Bonsignor der Corso
3
fiorentino.
Che belle ariverèe co li galloni!
Quante carrozze, corpo de la pece!
Che ccavalli pe ddio! tutti froscioni!
C’era un decane a sede s’una sedia.
Je fece: «Che cciavemo?». E lui me fece:
«Sor Peppe, annate su: c’è la commedia».
18 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
L’avvocato Gnoli di Ferrara.
2
Gli avvocati Concistoriali.
3
Monsignor de Corsi, Uditore di Rota per la Toscana.
29. Ar sor Avocato Pignòli Ferraro
Chi ne sapeva un cazzo, sor Tomasso,
che parlavio todesco in sta maggnera?
E me vorría peddio venne in galera,
si su cquer coso nun parevio l’asso.
Li Marignani che staveno abbasso
cor naso pe l’inzú, fanno moschiera;
perché propio dicessivo jerzéra
certe sfilate che nemmanco er Tasso.
E come er predicà nun fussi gniente
ce partite cor Santo
1
e cor sonetto,
2
da fà viení a l’invidia un accidente.
Quello però che ve vò fà canizza,
è la gola de quarche abbatinetto
c’averà da restà senza la pizza.
3
18 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Il foglio delle Conclusioni.
2
La dissertazione latina.
3
Le pizze di rubrica. Il Gnoli rispose il medesimo giorno con
due sonetti in vernacolo ferrarese.
30. Er gioco de calabbraga
S’er mi fio ciuco me porta lo stocco,
Titta, ciabbuschi quant’evvero er papa.
No, un cazzo, un accidente, sora crapa.
Alò, famo moschiera, o v’aribbocco.
Bè, sentímece l’oste: «Ah padron Rocco,
fate capace sta coccia de rapa.
Dite, è vvero che l’asso nun se capa?»
Ahàa! lo senti? oh caccia mo er bajocco.
Aù! nun pòzzo abbozzà più nun pòzzo.
Sentime, Titta, si tu no lo cacci,
va che mommó te lo fo uscí dar gozzo?
Ah fugghi, guitto? fugghi? accidentacci!
Sciòo, va’ in ghetto a impegnatte er gargarozzo
pe ddí stracci ferracci chiò scherpacci.
Roma, 19 agosto 1830 - De Peppe er tosto
31. Er gioco der lotto
M’è pparzo all’arba de vedé in inzògno,
cor boccino in ner collo appiccicato,
1
quello che glieri a pponte
2
hanno acconciato
co ’no spicchio d’ajjetto in zur cotogno.
3
Me disceva: «Tiè, Ppeppe, si
4
hai bbisogno»;
(e ttratanto quer bravo ggiustizziato
me bbuttava du’ nocchie in zur costato):
«sò ppoche, Peppe mio, me ne vergogno».
Io dunque ciò ppijjato oggi addrittura
trentanove impiccato o cquajjottina,
dua der conto, e nnovanta la pavura.
5
E cco la cosa
6
che nnemmanco un zero
ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina,
ho arimediato cor pijjà Nnocchiero.
19 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Col capo ricongiunto al collo artificialmente.
2
«Ponte Sant’Angiolo», uno de’ luoghi ordinarii per le esecuzioni.
3
Cotogno, cioè «testa». «Spicchio d’aglietto», d’aglio, ironia di «mannaja».
4
Se.
5
Questi numeri si cercano nel così
detto Libro dell’Arte, dove è come un dizionario di nomi accanto ad altri numeri giuocabili.
6
E pel motivo.
32. Devozzione pe vvince ar lotto
Non tutto ciò che qui si dice è vero, né la gran parte di vero si annette tutta alla reale superstizione del
lotto; ma si è voluto da me raccogliere quasi in un codice il vero insieme e il verisimile in relazione di quel
che so e in compenso di quanto non so (ch’è pur molto) intorno alle matte e stravolte idee che ingombrano
le fantasie superstiziose della nostra plebaglia.
Si vvo’ un terno sicuro, Titta mia,
senti com’hai da fane: a mezza notte
méttete immezzo ar cerchio de ’na botte
co ttre requiameterne ar Nocchilia.
Pe strada attacca cento avemmaria,
chiamanno a ignuna la mojje de Lotte;
e pe ccaccià Berlicche co Starotte,
di’ er Verbuncàro e er Nosconproleppia.
Doppo ditto tre vorte crielleisonne
e pe ttre antre groria in cersideo,
di’ Bardassarre, Gaspero e Marchionne.
E si vicino a te passa un abbreo,
fa’ lo scongiuro a la barba d’Aronne,
pe ffà crepà quer maledetto aeo.
Un agnusdeo
méttece appresso e sette groliapadri
p’er bon ladrone e l’antri boni ladri.
Trovanno quadri
co la lampena accesa a la Madonna,
di’ un deprofunni all’anima de Nonna.
Si quarche donna
te toccassi la farda der landao,
fajje er fichetto, e dijje: Maramao.
Si senti Gnao,
è bonugurio, Titta; ma si senti
strillà Caino, risponni: accidenti.
Porta du’ denti
legati cor un fir de seta cruda,
zuppa de bava de lumaca ignuda.
Rinega Giuda
igni quinici passi; e ar deto grosso
de manimanca tiè attaccato un osso
de gatto rosso.
Coll’antra un cerchio d’argento de bollo
tiecce e una spina de merluzzo ammollo.
Méttete in collo
la camisciola c’ha portato un morto
co cquattro fronne de cicoria d’orto.
E si ’n’abborto
pòi avé de lucertola d’un giorno,
tiello in zaccoccia cotto prima ar forno.
Buschete un corno
de bufolino macellato in ghetto
c’abbi preso er crepuscolo sur tetto.
Cor un coccetto
de pila rotta in culo a ’na roffiana
raschielo tutto ar son de la Campana.
Da ’na mammana
fatte sbruffà la raschiatura in testa
cor pizzo der zinale o de la vesta.
Magna ’na cresta
de gallo, e abbada che nun sii cappone
si nun te vòi giucà la devozzione.
E in un cantone
di’ tre vvorte, strappannoce tre penne,
«Nunchetinòva morti nostri ammenne».
Poi hai d’accenne
tre moccoli, avviati a la parrocchia,
sur un fuso, un vertecchio e ’na conocchia.
Appena scrocchia
quella cera in dell’arde, alegri Titta:
svortete allora subbito a man dritta.
Già te l’ho ditta
la devozzione c’hai da dí pe strada
ma abbada a nun sbajjà, Titta, ve’! abbada.
Come ’na spada
tira de longo insino a santa Galla,
e lí affermete, e tocchete ’na palla.
Si cquella è calla
tocchete l’antra; e come ’n’addannato
poi curre a San Giuanni Decollato:
e a ’n’impiccato
ditta ’na diasilletta corta corta
buttete a pecorone in su la porta.
La bocca storta
nun fà si senti quarche risponsorio:
sò l’anime der santo purgatorio.
A San Grigorio
promette allora de fà dí ’na messa
pell’anima d’un frate e ’na bbadessa.
‘Na callalessa
è der restante: abbasta de stà attento
a gni rimore che te porta er vento.
O ffora, o ddrento,
quello che pòi sentí tiello da parte,
eppoi va’ a cerca in der libbro dell’arte.
Viva er Dio Marte:
crepi l’invidia e er diavolo d’inferno,
e buggiaratte si nun vinchi er terno!
20 agosto 1830 - De Peppe er tosto
33. L’astrazzione
Tiràmese
1a
ppiú in là, ché cquì la gujja
1
ciarippara
1b
de vede er roffianello
2
...
Varda,
2a
varda, Grigorio, mi’ fratello
che s’è mmesso a intignà
3
cco la patujja!
Mosca!
4
Er pivetto arza la mano, intrujja
5
mo in de le palle... Lesto, eh bberzitello.
Ecco ecco che lleggheno er cartello:
ch’edè?
5a
Ccinquantasei! senti che bbujja!
6
Je la potessi fà, sangue de ddina!
Sor cazzo, vorticamo
6a
er bussolotto.
Ch’edè? Ttrenta! Ce ll’ho ddrento a l’ottina.
Diesci! ggnente: Sei! ggnente: Discidotto!
ggnente. Peddio! nemmanco stammatina?
Accidentacci a chi ha inventato er lotto.
20 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1a
Tiriamoci.
1
Obelisco di Monte Citorio.
1b
Ci ripara.
2
Orfanello dell’Ospizio degli Orfani.
2a
Guarda.
3
Ostinarsi in
alterco.
4
Silenzio!
5
Rimescola.
5a
Che c’è.
6
Buglia, bisbiglio.
6a
Rivolgiamo.
34. Er gioco der marroncino
1
E CCE GGIUCHENO: ROSCIO, NINO, VA’ -A-MMETE, ER PAINO E ER GIACCHETTO
Roscio Aó, ttrattanto che ss’appara
1a
er prete
volemo dà ddu’ botte a mmarruncino?
Giacchetto A ppagà.
Nino A ggode.
1b
Giacchetto Come se’ attacchino!
1c
Nino Tirate er fiato a voi.
2
Giacchetto Che ddichi? Hai sete?
3
Roscio Eh zitti, buggiaravve a quanti sete!
Su, aló, fammo la conta: pe dda Nino.
4
-
… Venti. Una, dua, tre… tocca ar paíno.
Po’ Nino, po’ viengh’io, po’ tu e Vva’ -a-mmete
Paino Er boccio a mé
4
– De cqui.
5
– Senza giuchetti.
Nino Senza strucchietti,
Roscio E ttiro pe llevà
Giacchetto No ppe strucch
6
Va’ -a-mmete Dí, aó, dove te metti?
Giacchetto San guercino.
7
Va’ -a-mmete Va’ ar zegno.
Giacchetto E nnun sta cqua?
Va’ -a-mmete Accidentacci a tutti li ggiacchetti!
Quanto se’ fesso!
7a
er zegno eccolo llà.
Giacchetto Ma cciài
7b
da capità
un giorno o ll’antro ggiú ppe borgo-novo…
Va’ -a-mmete Mo sta a mmene. – Accusí mme l’aritrovo.
8
Nino Fermete.
8a
Va’ -a-mmete Nun me movo.
Nino Sò pprimo.
Roscio Sò ssiconno.
Va’-a-mmete Io terzo.
Giacchetto Io cuarto.
Paino Io cuinto.
9
Nino Eh nnun fà er mucchio tant’in arto.
Paino Che, ttienete l’apparto
de queli siti che vve pare a vvoi?
Nino Be’, schiaffelo
9a
peccristo indove vòi
Giacchetto Batte.
10
Roscio … Dégheta!
11
A noi:
vedemmo un po’ ssi
11a
cce
11b
so cojje io
12
Giacchetto Tu nnun hai smosso er mezzo-bboécco mio.
13
Roscio Pòzzi
13a
morí ttu’ zio,
chi arifiata?
14
E ttu arza:
15
sce vô tanto?
Giochetto Arma.
Va’-a-mmete Santo.
Paino Io vojjo arma.
Roscio Arma.
Nino E nnoi santo.
16
Roscio Mezzo e cche ssí.
17
Paino De cuanto?
Giacchetto Arzo, tiengo da Roscio, e ffo dde dua.
18
Paino Frulla,
19
madetta
19a
l’animaccia tua.
…Ah pporcaccio de ua!
Cor carcio farzo?
20
Gargantacci
21
neri.
Va’ -a-mmete Tu vo’ fà curre li carubbigneri?
22
Paino Vôi rubbà come gglieri?
23
Giacchetto Mommó ll’hai da sentí si che cconnessa
24
Roscio Oé! er chirico
24a
sona: annamo
24b
a mmessa.
22 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Gioco che si eseguisce da due o più persone con un ciottoletto o altro pezzo di pietra, il più che si può rotonda,
gettandola ad una certa distanza, e procurando di lanciarvi vicini de’ baiocchi.
1a
Si para.
1b
A godere.
1c
Sei cavilloso.
2
Sorbite a voi l’insulto.
3
Equivoco di sete (volon di bere) e siete.
4
Chi ha il punto al conto, getta il ciottolo, detto
bòccio o marrone, e poi vi manda appresso il suo baiocco. Pe dda Nino, cioè: «S’incomincia a contare da Nino».
5
Destina il posto onde ciascuno scaglierà la sua moneta vicino al ciottolo.
6
Quattro specie di proteste concomitanti
certe esecuzioni, le quali senza quelle formule sarebbero nulle.
7
Sei cieco?
7a
Spiacevole.
7b
Ci hai.
8
Altra formula
come alla nota 6.
8a
Fermati.
9
È fatto l’ordine di successione al tirare. L’Ultimo, cioè colui che mandò la sua moneta
più distante dal marrone, raccoglie le monete, e fattone un cumulo, le situa dove vuole, affinché il Primo vi batta col
suo marrone, lanciandovelo sopra in modo netto e vibrato, che mova tutte le sottoposte monete. Se il colpo esce
vano, passa il diritto a colpire al Secondo e poi etc.
9a
Ficcalo.
10
L’Ultimo ha situato il cumulo di monete e comanda al
Primo di battere.
11
Quasi «Fiasco!». Il Secondo, contento che il Primo abbia fallito il colpo, fa quella esclamazione e
si accinge egli a battere.
11a
Se
11b
Ci.
11c
Cogliere.
12
Batte.
13
Ecco il caso del non movimento di tutte le monete.
13a
Possa.
14
Chi si oppone?
15
La moneta non mossa è lanciata in aria dal signore di essa.
16
Mentre la moneta sta per
lanciarsi, sino al punto in che ritocca il suolo, ciascuno fa le sue scommesse sulla faccia che mostrerà dopo la caduta
cioè arma o santo (lettere); e qui giova avvertire che le vittorie di tutto il giuoco consistono in quest’alternativa.
17
Scommette mezzo baiocco, che verrà ciò che ha detto chi scagliò la moneta: qui è arma.
18
Lo scagliatore scommette
anch’egli, confermando la scommessa di Roscio, e scommette di moneta doppia.
19
La moneta nell’aria deve brillare,
frullare, onde si tolga il sospetto di arte nella caduta favorevole a chi la lanciò.
19a
Maledetta.
20
Coll’inganno?
21
Fraudolente.
22
Carabinieri.
23
Ieri.
24
Percossa.
24a
Chierico.
24b
Andiamo.
35. La bonidizzione der Sommo Pontescife
Curre, peccrisse, curre, Gurgumella,
che ggià er Papa ha dda èsse in portantina.
Eh ssi nun spiggni ppiú, Ddio serenella!,
ciarrivamo er crepìnnisci a mmatina.
Monta dereto a cquarche ccarrettella,
s’hai la guallera gonfia o er mal d’orina
M’hanno acciaccato come ’na frittella
Mancomale: ecco cqua la Strapuntina.
Senti ch’è usscito ggià dda sagristia
er Santo Padre, e mmommó vva ar loggione?
Oé! vvarda laggiù che parapìa!
Ma ddirebb’io: si la bbonidizzione
tutte le zelle nostre s’aripìa,
chi più grossi li fa, meno è cojjone.
Roma, 21 agosto 1830 - De Peppe er tosto
36. Li scrupoli de l’abbate
Un’antra
1
cosa voria mó ssapé,
si
2
er cristiano in cusscenza er venardí
pòzzi
3
maggnà ddu’ stronzi cor culí
senza fà male, e, ssi lo fa, pperché.
Lo so che vvoi me risponnete a mmé
che la robba che scappa pe dde cqui,
robba de magro nun ze pò mmai dí,
si nun volemo chiamà Ccappa er Cé.
Ma ffateme un tantin de carità,
come pò addiventà de grasso, pò,
er tarantello, er tonno, er baccalà?
Io, sor abbate, credería
4
de no:
ma ssi cciavete
5
scrupolo a mmaggnà,
maggnate puro
6
e io poi v’assorverò.
24 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Un’altra.
2
Se.
3
Possa.
4
Crederei.
5
Ci avete.
6
Pure.
37. Assenza
1
nova pe li capelli
Vôi sentí un fatto de Tetaccia
1a
storta,
la mojje de Ciuffetto er perucchiere?
Ciaggnéde
2
cuer paíno
3
der drughiere,
4
pe comprasse
5
un tantin de beggamorta.
6
La bbirba stiede
7
un po’ ddrento a ’na porta
indove tiè ccerte boccette nere;
poi scappa e disce: «Oh cqueste sí ssò vvere!
Tiè, odora: ah! bbenemio!, t’ariconforta».
Lesta attappò er buscetto cor turaccio,
e ariscosso un testone
8
de moneta,
mannò
9
a ccasa contento er gallinaccio.
Ma ssai che cce trovò? ppiscio de Teta;
che ppe ggabbà cquer povero cazzaccio
s’era messa l’odore in ne le deta.
10
24 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Essenza.
1a
Teresaccia.
2
Ci andò.
3
Zerbino.
4
Droghiere.
5
Comperarsi.
6
Bergamotto.
7
Stette.
8
Moneta di argento da
tre paoli.
9
Mandò.
10
Nei diti.
38. Campo vaccino
(Sonetti 4)
Mannataro Guarda, Ghitano mia: eh? ddi’, te piasce?
Ghitano Che ggrannezza de Ddio! che ffrabbicona
Mannataro Nun è piú mmejjo de piazza navona?
Ghitano Antro! E ccome se chiama?
Mannataro Er Temp’in pasce.
1
Senti, Ghitano, t’hai da fà ccapasce
che, ppe sta robba, cquì nun ze cojjona
Ghitano Nun fuss’antro la carcia
2
Mannataro Bbuggiarona!
E li mattoni? Sai quante fornasce!
Ghitano E cqua chi cciabbitava, eh sor Grigorio?
Mannataro Eh! ttanta gente: e tutti ricchi, sai?
Figurete che gguitto arifettorio!
3
Ghitano Che ppalazzone! nun finissce mai!
Mannataro Che? Annava a la salita de Marforio
prima ch’er turco nun je dassi guai.
24 agosto 1830 - De Peppe er Tosto
1
Templum Pacis.
2
La calce.
3
Refettorio.
39. Campo vaccino
Le tre ccolonne llí viscino ar monte,
dove te vojjo fà passà tte vojjo,
furno trescento pe ffà arregge
1a
un ponte
dar culiseo ’nsinenta a Ccampidojjo.
A mmanimanca adesso arza la fronte:
lassú Ttracquinio se perdette er zojjo,
e ppoi Lugrezzia sua p’er gran cordojjo
ce fesce annà la bbarca de Garonte.
Vortanno er culo a cquele tre ccolonne,
mó annamo all’arco de la vacca e ’r toro;
1
ma ssi ne vedi dua nun te confonne.
In quello ciuco
2
se trovò er tesoro:
3
l’antro è l’arco de Ggiano quattrofronne,
4
che un russio
5
vô crompallo a ppeso d’oro.
25 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1a
Reggere.
1
Il piccolo arco detto degli Argentieri, innalzato dal ceto de’ banchieri detti argentarii e dai commercianti
di buoi alla famiglia di Settimio Severo.
2
Piccolo.
3
È credenza popolare che in un fianco di detto arco fosser trovate
molte ricchezze, presso un’antica voce tradizionale che diceva: tra la vacca e il toro troverai un gran tesoro. Questi
animali debbono alludere a quelli scolpiti nell’arco per ragione de’ sacrificii rappresentativi e della situazione
dell’arco stesso nel Foro Boario. Può accrescer fede al racconto un buco, il quale vedesi aperto dal lato sinistro e
manifesta un vuoto.
4
L’arco di Giano quadrifronte.
5
Russo.
40. Campo vaccino
A cquer tempo che Ttito imperatore,
co ppremissione che jje diede Iddio,
mové la guerra ar popolo ggiudio
pe ggastigallo che ammazzò er Ziggnore;
lui ridunò la robba de valore,
discenno: «Cazzo, quer ch’è dd’oro, è mmio»:
e li scribba che faveno pio pio,
1
te li fece snerbà ddar correttore.
2
E poi scrivette a Rroma a un omo dotto,
cusí e ccusí che frabbicassi un arco
co li cudrini der gioco dell’otto.
Si ce passònno
3
li ggiudii! Sammarco!
4
Ma adesso prima de passacce sotto
se faríano ferrà ddar maniscarco.
10 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1
Facevano bisbiglio.
2
Così chiamavasi un individuo destinato nel collegio romano a frustare gli scuolari.
3
Se ci
passarono.
4
Per forza.
41. Campo vaccino
Sto cornacopio su le spalle a cquello
che vviè appresso a cquell’antro che vva avanti,
c’ha ssei bbracci ppiú longhi, e ttutti quanti
tiengheno immezzo un braccio mezzanello;
quello è er gran Cannelabbro de Sdraello,
che Mmosè ffrabbicò cco ttanti e ttanti
idoli d’oro che ssu ddu’ lionfanti
se portò vvia da Eggitto cor fratello.
Mó nnun c’è ppiú sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, sc’è; ma nu lo gode un cane,
perché sta ggiù in ner fiume a ffonno a ffonno.
Lo vôi sapé lo vôi dov’arimane?
Viscino a pponte-rotto; e ssi lo vonno,
se tira sú pper un tozzo de pane.
1
10 settembre 1830 - D’er medemo
1
Con poco dispendio. Allude al tentativo creduto di facile successo ed eseguito veramente negli anni scorsi per mezzo
di una macchina. Molti azionisti rimasero ingannati e perdettero le loro somministrazioni.
42. Er Moro de Piazza–Navona
Vedi llà cquela statua der Moro
c’arivorta la panza a Ssant’aggnesa?
Ebbè, una vorta una Siggnora ingresa
la voleva dar Papa a ppeso d’oro.
Ma er Zanto Padre e ttutto er conciastoro,
sapenno che cquer marmoro,
1
de spesa,
costava piú zzecchini che nun pesa,
senza nemmanco valutà er lavoro;
je fece arrepricà ddar Zenatore
come e cquarmente nun voleva venne
2
una funtana de quer gran valore.
E cquell’ingresa che ppoteva spenne,
dicheno che cce morze de dolore:
lusciattèi requia e scant’in pasce ammenne.
25 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Marmo.
2
Vendere.
43. Tempi vecchi e ttempi novi
Ar zu’ tempo mi’ nonno m’aricconta
che nun c’ereno un cazzo bbagarini,
1
se
1a
vedeva ggiucà co li quartini
2
a ppiastrella, e a bbuscetta: e mmó sse
2a
sconta.
L’ova in piazza, s’aveveno a la conta
cento a ppavolo e ssenza li purcini:
la carne annava a ssedici cudrini
2b
ar mascello, e ddua meno co la ggionta.
Er vino de castelli e dder contorno
era caro a un lustrino
3
pe bbucale
e ott’oncia a bboecco
4
la paggnotta ar forno.
E mmó la carne, er pane, er vino, er zale,
e ll’accidenti, crescheno ’ggni ggiorno.
Ma ll’hai da vede che ffinisce male.
Roma, 25 agosto 1830 - De Peppe er tosto
1
Monopolisti di commestibili e altro.
1a
Si.
2
Mezzo scudo d’argento. Dicesi anche quartino, perché un tempo
correvano piccole monete d’oro da cinque paoli, che erano quarti di uno zecchino.
2a
Si.
2b
Quattrini: centesimi romani.
3
Grosso: moneta d’argento da cinque baiocchi.
4
Baiocco.
44. Er funtanone de Piazza Navona
Quann’era vivo er nonno de la zia
der compare der zoscero
1a
de Nina,
cqua da Piazza Navona a Tormellina
1
ciassuccesse
2
un tumurto e un parapîa.
3
Pe ccausa che un’orrenna carestia
de punt’in bianco
4
un giuveddí a mmatina
mannò
5
a cquattro bboécchi
6
la vaccina
7
senza nemmanco dì Ggesú e mmaria.
8
T’abbasti a ddí cch’edè la ribbijjone,
9
che ccor una serciata a cquer pupazzo
10
je fesceno sartà
11
nnetto er detone.
12
Chi ddà la corpa
13
a un boccio,
14
chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo
15
ar funtanone
pare che ddichi
16
: A vvoi; quattro der cazzo!
17
10 settembre 1830 - Der medemo
1a
Suocero.
1
Torre Millina, così detta dalla famiglia Millini.
2
Ci successe.
3
Parapiglia.
4
All’improvviso.
5
Mandò, fece
salire.
6
Baiocchi.
7
La carne vaccina.
8
Senza nemmeno dire, etc., frase presa dal silenzio di chi muore di apoplessia
fulminante. Qui vale «immediatamente».
9
Basti ciò per dire cos’è la ribellione.
10
Una delle quattro statue colossali
rappresentanti i quattro principali fiumi della terra, le quali decorano la gran fontana del Bernini.
11
Gli fecero saltar
via.
12
Il pollice.
13
Colpa.
14
Vecchio.
15
Vedi la nota 10.
16
Dica.
17
Ironia di quattro soli. Si pretende che questo fatto sia
realmente accaduto così.
45. Capa
Ma cche tte ne vôi fà dde sta schifenza
bbastardaccia d’un mulo e dde ’na vacca?
Si ccerchi l’arma
1
de ’na bona stacca,
2
te la trov’io, che ce pôi stà in cuscenza.
Quella ha un buscio, peddìo, ch’è ’na dispenza,
cqua cce trovi un buscetto che tte stracca:
co cquesta se dà ssotto e sse panacca,
3
coll’antra fai peccato e ppenitenza.
La tua? Madonna! nun tiè mmanco chiappe,
e cquer pellame mosscio che jje penne,
4
je fa immezzo a le cossce er lippe-lappe.
5
Ma dde culo la mia sce n’ha dda venne;
6
je scrocchieno
7
le zinne com’e ffrappe;
8
e cquer ch’è ppiú da dí, nnun ce se spenne.
9
25 agosto 1830 - Der medemo
1
Quest’arma è come un ripieno, una parola destinata a dar più forza e rilievo al soggetto col quale ha relazione, quasi
dicesse: «un bel pezzo di stacca».
2
Stacca, giovane cavalla, per «forte donzella».
3
Si pararca. Panarrare: mangiare
con gusto e sapore.
4
Penne: pende.
5
Dondolando le va.
6
Venne: vendere.
7
Le croccano.
8
Frappe: certa pasta
frastagliata e fritta.
9
Nun ce se spenne: non ci si spende.
46. Maggnera vecchia pe ttiggne la lana nova
Jerzéra
1
er mi’ padrone co cquer callo
vorze
1a
annà a l’accademia tibburtina,
1b
pe ssentí a rescità ’na rajjatina
d’un Zomaro che cqui ccanta da Gallo.
2
Avanti a ’na garafa de cristallo,
tra ddu’ cannéle
2a
de ceraccia fina,
se messe
2b
quer cazzaccio in cremesina
2c
a inzeggnà a ttiggne er rosso, er nero, er giallo.
Pe ddà mmejjo a la lana oggni colore
cià un zegreto quer fijjo de puttana,
che lo sa ’ggni regazzo de tintore.
Ma ddicheno che ll’antra settimana
je l’abbi commannato un Monziggnore,
3
discenno: «Tocca a vvoi, sor bona-lana».
1830 - De Peppe er tosto
1
La sera de… 1830.
1a
Volle.
1b
Tiberina.
2
Il già Luigi Gallo servente dell’ospedale di San Giovanni, oggi Marchese
del Gallo per virtù di regola del 5, cioè da furti.
2a
Candele.
2b
Ci mise.
2c
In sommo grado.
3
Monsignor Niccola Nicolai.
47. Campidojjo
Ecchesce ar Campidojjo, indove Tito
venné a mmercato tanta ggente abbrea.
Questa se chiama la rupa tarpea
dove Creopatra bbuttò ggiú er marito.
Marcurèlio sta llà ttutto vestito
senza pavura un cazzo de tropea.
1a
E un giorno, disce er zor abbate Fea,
1b
c’ha da èsse oro infinamente a un dito.
E si ttu gguardi er culo der cavallo
e la faccia dell’omo, quarche innizzio
già vederai de scappà ffora er giallo.
Quanno è poi tutta d’oro, addio Donizzio:
se va a ffà fotte puro er piedistallo,
ché amanca poco ar giorno der giudizzio.
1
10 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1a
Temporale improvviso e passeggiero.
1b
Archeologo e Commissario delle Antichità.
1
Crede il popolo che questa
statua equestre di Marco Aurelio contenga in massa dell’oro il quale sotto l’azione dell’atmosfera si vada a poco a
poco scoprendo. Sono gli avanzi dell’antica doratura rimasti nelle parti più difese del colosso. Allorché l’oro sarà tutto
in luce, accadrà il giudizio universale.
48. Li cattivi ugùri
1a
Sonetti tre
Sò le corna d’Aronne!
1
De sti fatti
tu nu ne sai nemmanco mezza messa.
Lo vôi
2
sapé pperché a Lluscia l’ostessa
j’anno arubbato tutt’e ttre li gatti?
Lo vòi sapé pperch’ha ddu’ fijji matti?
Perché ha pperza
3
cor prete la scommessa?
Perché er curiale pe ’na callalessa
4
j’ha maggnato la dota a ttutti patti?
Lo vôi sapé pperché jj’è mmorto l’oste?
Perché ll’antra
5
ostaria de zi’ Pasquale
j’è arivata a llevà ttutte le poste?
È pperché un anno fa dde carnovale
ner conní
6
ll’inzalata e ll’ova toste,
svorticò
7
la luscerna e sverzò
8
er zale.
10 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1a
Augùri.
1
Sono, etc.: Frase di opposizione all’altrui sentimento.
2
Vuoi.
3
Perduta.
4
Per un nonnula.
5
L’altra.
6
Nel
condire.
7
Rovesciò.
8
Versò.
49. L’oste a ssu’ fijja
Povera ggente! Uhm! ponno chiude
1
casa,
si
2
ssopra scià
3
cantato la sciovetta:
4
se
5
ponno aspettà ppuro
6
una saetta,
come si ffussi
7
un osso de scerasa.
8
Nun lo vedi quer cane com’annasa?
Che seggn’è? la commare
9
che tt’aspetta.
E nnun zò
10
cciarle: che ggià gglieri
11
a Bbetta
12
j’ha sparato
13
la frebbe,
14
e jj’è arimasa.
15
Eh ssi a mmettese
16
addosso a ’na famijja
viè la sciangherangà,
17
bz,
18
bbona notte:
sce fioccheno
19
li guai co la mantijja.
20
Mo vva a mmale un barile, oggi una bbotte,
domani la cantina; e vvia via, fijja,
pe sta strada che cqui tte va’ a ffà fotte.
21
10 settembre 1830 - Der medemo
1
Chiudere.
2
Se.
3
Ci ha.
4
Civetta.
5
Si.
6
Pure.
7
Se fosse.
8
Di ciliegia.
9
La morte.
10
Non sono.
11
Ieri.
12
A Elisabetta.
13
L’è scoppiata.
14
Febbre.
15
L’è rimasta, le dura.
16
A mettersi.
17
Viene la sventura.
18
Il suono di un bacio che i
Romaneschi si danno sull’estremità de’ cinque diti raccolti insieme, per esprimere non esserci più rimedio.
19
Ci
fioccano.
20
Guai solenni.
21
Ti vai a far fottere, vai in rovina.
50. Lo sposalizzio de Tuta
Ma cce voi fà un bucale,
1
che Ggiartruda
nun passa un mese o ddua che sse ne pente?
Tu ste parole mia tiettele a mmente,
e nun te bburlo quant’è vvero Ggiuda.
Di’: cquann’è ccotto l’ovo? quanno suda.
Chi ccommanna a l’urione?
2
er Presidente.
Ch’edè
3
ar muro sta strisscia luccichente?
4
Cià
5
ccamminato la lumaca iggnuda.
Er monno lo conosco, sai Ggiuvanni?
Si
6
sposa
7
venardí Ttuta Bber-pelo
7a
sce s’abbusca
8
’na frega
9
de malanni.
Né de Venere, cazzo, né de Marte
(e li proverbi sò ccom’er Vangelo),
nun ze
10
sposa, peccristo, e nnun ze parte.
10 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1
Ma ci vuoi fare un boccale? Vuoi scommetterci un boccale?
2
Al rione.
3
Che è.
4
Luccicante.
5
Ci ha.
6
Se.
7
Pronunzia
con la o chiusa.
7a
Bel-pelo.
8
Ci busca.
9
Un cumulo.
10
Non si.
51. A Checco
Jeri, all’orloggio de la Cchiesa Nova,
fra Luca incontrò Agnesa co la brocca.
Dice: «Beato lui», dice, «a chi tocca»,
dice, «e nun sa ch’edè chi nu lo prova».
Risponne lei, dice: «Chi cerca, trova;
ma a me», dice, «puliteve la bocca».
«Aùh», dicéee... «e perché nun te fai biocca?»
«Eh», dice, «e chi me mette sotto l’ova
«Ce n’ho io», dice, «un paro fresche vive»,
dice, «e ttamante, e tutt’e ddua ’ngallate:
le vôi sperà si ssò bbone o ccattive?»
Checco, te pensi che nun l’ha pijjate?
Ah
1
llei pe nnun sapé legge né scrive,
ha vorzuto assaggià l’ova der frate.
10 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1
Pronunziato vibrato con fretta e scuotendo vivamente il capo, vale condanna dell’opinione altrui.
52. L’orecchie de mercante
Ggiuvenotti, chi ppaga una fujjetta?
1a
Se pôzzino a stroppià ttutti li guitti.
Eccheli sbarellati e sderelitti,
1
come l’abbi accoppati ’na saetta.
Quanno pagh’io, pettristo, a la Stelletta,
2
cùrreno com’aggnelli fitti fitti:
3
come poi tocca a llôro, tutti zitti.
Che bber negozzio de Maria cazzetta!
4
E vvoi puro
5
c’annate sempre lisscio,
6
sora faccia de culo de bbadessa,
ch’edè
7
che mmó vv’ariscallate er pisscio?
8
Sor abbatino, sc’è cquarche scommessa?
9
Badàmo, ch’a sto ggioco io bbusso e strisscio.
Oh annate a ppij er morto e a sserví mmessa.
Roma, 13 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1a
Foglietta.
1
Attoniti, vinti, cascanti.
2
Nome d’osteria.
3
Affollati.
4
Oh, faccio pur il bel negozio!
5
Pure.
6
Andar liscio:
sottrarsi da qualche impegno.
7
Che è? Cos’è?
8
Vi adirate?
9
V’è qualche cosa da opporre?
53. La pissciata pericolosa
Stavo a ppisscià jjerzéra llí a lo scuro
tra Mmadama Lugrezzia
1
e ttra Ssan Marco,
quann’ecchete, affiarato
2
com’un farco,
un sguizzero
3
der Papa duro duro.
De posta
3a
me fa sbatte
4
er cazzo ar muro,
poi vô llevamme er fongo:
5
io me l’incarco:
e cco la patta in mano pijjo l’arco
de li tre-Rre, strillanno: vienghi puro.
6
Me sentivo quer froscio
7
dí a le tacche
8
cor fiatone: «Tartaifel, sor paine,
pss, nun currete tante, ché ssò stracche».
Poi co mill’antre parole turchine
9
ciaggiontava:
10
«Viè cquà, ffijje te vacche,
che ppeveremo un pon picchier te vine».
Roma, 13 settembre 1830 - De Peppe er tosto
1
Busto mutilato di antica statua colossale, eretto contro un muro presso la chiesa di San Marco.
2
Avventato.
3
Uno
svizzero. Leone XII aveva destinato uno svizzero della sua guardia per ognuna di varie chiese, onde armato di alabarda
presiedesse nell’interno al rispetto del culto e al discacciamento de’ cani, e fuori impedisse le indecenti soddisfazioni
de’ bisogni naturali.
3a
A prima giunta.
4
Sbattere, per «urtar contro».
5
Vuol levarmi il cappello.
6
Venga pure.
7
Tedesco.
8
Dirmi alle spalle.
9
Inintelligibili.
10
Ci aggiungeva.
54. Er confortatore
Sta notte a mmezza notte er carcerato
sente uprí
1
er chiavistello de le porte,
e ffasse
2
avanti un zervo de Pilato
a ddijje:
3
er fischio te condanna a mmorte.
Poi tra ddu’ torce de sego incerato
co ddu’ guardiani e ddu’ bbracchi de corte,
entra un confortatore ammascherato,
4
coll’occhi lustri e cco le guance storte.
5
Te l’abbraccica
6
ar collo a l’improviso,
strillanno: «Alegri, fijjo mio: riduna
le forze pe vvolà ssu in paradiso».
«Che alegri, cazzo! alegri la luna!»,
quello arisponne: «Pozziate esse acciso;
pijjatela pe vvoi tanta furtuna».
Roma, 13 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Aprire.
2
Farsi.
3
Dirgli.
4
Coperto del suo sacco di confratello di S. Giovanni Decollato, con cappuccio.
5
In
espressione di studiata compassione.
6
Abbraccia.
55. L’impiccato
Pe vvia de quella miggnottaccia porca
che sse fa sbatte
1
dar Cacamme in Ghetto;
e, vvàjjelo a cercà
2
ccor moccoletto,
nun tiè piú mmanco un pelo in ne la sorca;
che ppare, Iddio ne guardi, si sse
3
corca
un cadavero drento ar cataletto;
ecco cqui, ss’ha da vede
4
un poveretto
finí li ggiorni sui sopr’una forca!
Però bbeato lui che ffa sta morte!
Perché, mettemo caso
5
abbi peccati,
è ppell’anima sua propio una sorte.
De millanta affogati quarchiduno
se pò ssarvà: ma de scento impiccati
ammalappena se n’addanna uno.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Si fa godere.
2
Va’ a cercarglielo.
3
Se si.
4
Vedere.
5
Supponghiamo.
56. Li conzijji
1
de mamma
Vedi l’appiggionante
2
c’ha ggiudizzio
come s’è ffatta presto le sscioccajje?
3
E ttu, ccojjona,
4
hai quer mazzato
5
vizzio
d’avé scrupolo inzino de le pajje!
6
Io nun te vojjo fà ccattiv’uffizzio,
ma indove trovi de dà ssotto,
7
dajje.
8
Si
9
un galantomo ricco vô un zervizzio,
nun je lo fà ttirà cco le tenajje.
T’avessi
10
da costà cquarche ffatica,
vorebbe dí:
11
mma ttu méttete
12
in voga,
eppoi chi rroppe paga: è storia antica.
Quanno poi vederai troppa magoga
13
tiella su e ddàlla a mmollica a mollica.
14
Chi nun z’ajjuta, fijja mia, s’affoga.
15
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Consigli.
2
Compigionale della medesima casa.
3
«Scioccaglie».
4
Stolta.
5
Mazzato, quasi «malnato, maledetto».
6
Delle paglie, dei nonnulla.
7
Dar sotto: approfittarsi alacremente dell’occasione.
8
Dagli.
9
Se.
10
Ti avesse.
11
Vorrei pur
dire, vorrei pur darti ragione.
12
Mettiti.
13
Affollamento, bisbiglio.
14
Dàlla con parsimonia.
15
Proverbio.
57. L’aducazzione
Fijjo, nun ribbartà
1
mmai Tata tua:
2
abbada a tté, nnun te fà mmette sotto.
3
Si cquarchiduno te viè a ddà un cazzotto,
3a
lì ccallo callo
4
tu ddàjjene dua.
Si ppoi quarcantro porcaccio da ua
5
te sce fascessi
6
un po’ de predicotto,
dijje: «De ste raggione io me ne fotto;
iggnuno penzi a li fattacci sua».
7
Quanno ggiuchi un bucale a mmora, o a bboccia,
8
bbevi fijjo; e a sta ggente bbuggiarona
nu ggnene fà rrestà
9
mmanco una goccia.
D’esse
10
cristiano è ppuro
11
cosa bbona:
pe’ cquesto
12
hai da portà ssempre in zaccoccia
er cortello arrotato e la corona.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Ribaltare, in senso attivo: «ismentire, rinnegare, far torto».
2
Tuo padre.
3
Non ti far soperchiare.
3a
Ti viene a dare un
pugno.
4
Caldo caldo: immediatamente.
5
Porco da uva.
6
Ti ci facesse.
7
Ognuno pensi ai fattacci tuoi.
8
Alla mora o a
boccia.
9
Non fargliene restare.
10
D’essere.
11
Pure.
12
Perciò.
58. A le spalle de Zaccaria
1a
Ma Cristo pe le case!
1
è ccosa buffa
che sto fio
2
fatto a sconto de piggione,
o de riffe o de raffe,
3
inzino a mmone,
4
abbi vorzuto
5
maggnà er pane auffa.
6
Assòrtalo
7
da mettese
8
a ppadrone;
díjje de lavorà: jje sa de muffa.
9
Quanno nun gnene
10
dai, campa de truffa.
Cqua un prospero,
11
cquì un giulio, e llà un testone.
Pe mmé jje l’ho avvisato a mmi’ sorella
ch’er fijjo suo lo vedo e nnu lo vedo:
12
che jje metteno in mano le bbudella.
13
O vvô annà in domopietro?
14
je lo scedo;
15
me ne lavo le mano in catinella,
com’e Pponzio Pilato immezzo ar Credo.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1a
È detto popolare che la Beata Vergine sgravida passò tre mesi in casa di S. Elisabetta, mangiando e bevendo alle
spalle di Zaccaria.
1
Semplice esclamazione, come dicesse: Ma cristo!.
2
Questo figlio.
3
O in un modo o in un altro.
4
Sino a mo: finora.
5
Abbia voluto.
6
Gratis. Vedi la nota del sonetto…
7
Esortarlo.
8
Di mettersi.
9
Gli sa ingrato.
10
Non
glie ne.
11
Un papetto, v. nota del sonetto…
12
Sta in gran pericolo.
13
Lo sventrano.
14
O vuole andare in domo-petri: in
prigione.
15
Vada pure, faccia il suo piacere.
59. La peracottara
Sto a ffà la caccia, caso che mmommone
1
passassi
2
pe dde cqua cquela pasciocca,
3
che va strillanno co ttanta de bbocca:
Sò ccanniti le pera cotte bbone.
4
Ché la voría
5
schiaffà
6
ddrento a ’n portone
e ppo’ ingrufalla
7
indove tocca, tocca;
sibbè che
8
mm’abbi ditto Delarocca,
9
c’ho la pulenta
10
e mmó mme viè un tincone.
Lei l’attaccò ll’antr’anno a ccinqu’o ssei?
Dunque che cc’è dde male si cquest’anno
se trova puro
11
chi ll’attacca a llei?
Le cose de sto monno accusí vvanno.
Chi ccasca casca: si cce sei sce sei.
12
Alegria! chi sse
13
scortica su’ danno.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Caso mai or ora.
2
Passasse.
3
Paciocca: bella donna giovane e piuttosto ritondetta.
4
Sono canditi etc.: grido de’
venditori di pere cotte al forno, i quali girano nelle ore più calde della stagione estiva, dette perciò a Roma: l’ore de
peracottari.
5
Vorrei.
6
Cacciare.
7
Ingrufarla: parola oscena.
8
Benché.
9
Professor chirurgo, oggi morto.
10
Gonorrea.
11
Si trova pure.
12
Se ci sei, ci sei.
13
Chi si, ecc.
60. Chi rrisica rosica
1
Doppo c’Adamo cominciò cco Eva
tutte le donne se sò fatte fotte,
2
e tu le pijji pe ttante marmotte
d’annalle
3
a ggiudicà cor
3a
me pareva!
Penzi che tte se maggni
4
e tte se bbeva?
Oh vattelo a pijja
5
ddrento a ’na bbotte.
Te credi d’aspettà le peracotte?
6
Si la vôi fà bbuttà,
7
ddajje la leva.
Porteje un ventajjuccio,
8
un spicciatore,
9
pagheje la marenna
10
all’ostaria,
eppoi vedi si
11
è ttenera de core.
Te pozzo dí cche la Commare mia,
che nun aveva mai fatto l’amore,
pe un zinale me disse: accusì ssia.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Nel rischio è il guadagno.
2
Si son fatte fottere.
3
Da andarle.
3a
Col.
4
Pensi che ti divori?
5
A pigliare.
6
Aspettar le
peracotte: voler i successi senza alcuna propria opera per procurarli.
7
Se la vuoi far buttar, far cedere.
8
Ventagliuccio.
9
Pettine da fissare sul capo le trecce.
10
Merenda.
11
E poi vedrai se.
6l. Devozzione
Chi ttiè
1a
attaccato ar collo l’abbitino
1
nun poterà mmorí dde mala-morte.
Pôi,
2
pe mmodo de dí,
3
ffà l’assassino
e ridete
4
der boia e dde la corte.
Si ppoi sce cusci
5
er zonetto latino
che l’ha ttrovato in Palestrina
6
a ssorte
drento ar zanto seporcro un pellegrino,
7
fa’ ppuro
8
a Bberzebbú lle fuse-torte.
9
Ciai
10
la medajja tu dde san Venanzo
bbona pe le cascate? ebbè, ppeccristo,
prima che llassà a llei,
11
lassa da pranzo.
12
Ma ssai quanti miracoli sciò
13
vvisto?
Te pô ddelibberà
14
ssibbè
15
pe llanzo
16
t’annassi
17
a bbuttà ggiù dda pontesisto.
Roma, 14 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1a
Tiene.
1
Scapolare del Carmine.
2
Puoi.
3
Di dire.
4
Riderti.
5
Se poi ci cuci.
6
Palestina.
7
Gira certa orazione latina che
si ha per pia credenza per trovata nel Santo Sepolcro.
8
Pure.
9
Corna.
10
Ci hai: hai.
11
Lasciar lei.
12
Lascia il pranzo.
13
Ci ho, ne ho.
14
Ti può liberare.
15
Benché.
16
Per dimostrazione di scherzo, per commedia.
17
Ti andassi.
62. Se ne va!
Co ’na scanzía
1
nell’ughela,
2
e co ttutte
le tonzíbbile
3
frasciche
4
ggiú in gola,
povera Checca!
5
nun pò dì pparola
si jje la vôi caccià ccor gammautte.
Fa ll’occhi luschi,
6
tiè le labbr’assciutte,
ha ’na frebbe
7
in dell’ossa che cconzola!
8
Io però tremo de ’na cosa sola,
c’oggi j’ho vvisto fasse l’ogna brutte.
9
Oh, cquer che ssia la cura, va bbenone.
Bast’a ddí ssi ppò mejjo esse assistita,
che vviè er medico inzino dell’Urione.
10
Anzi jjerzera j’ordinò ddu’ dita
de re-bbarbero
11
messo in confusione
12
drento un cucchiar d’argento
13
d’acquavita.
Terni, 28 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Scheranzia.
2
Ugola.
3
Tonsille.
4
Fracide.
5
Accorciativo di Francesca.
6
Loschi.
7
Febbre.
8
Modo ironico.
9
Pessimo
indizio di salute è per le donne l’impallidimento delle unghie, e questa è la prima cosa che osservano.
10
Ciascuno de’
14 Rioni di Roma ha un medico, un chirurgo e uno speziale, pagati dal governo per l’assistenza gratuita ai poveri; ma
la cosa va bene quando non possa proprio andar male.
11
Rabarbaro.
12
In fusione.
13
Quante volte il cucchiaio o altro
simile arnese, sia di questo metallo, non si manca di farne menzione anche a scapito della frase e del senso.
63. Se n’è ito
Hai sentito eh? ppovero Titta er greve,
1
povera nun zia l’anima! ha spallato.
2
Ma! un giuvenotto da potesse bbeve
drento in un bicchier d’acqua,
3
eh? cche peccato!
Inzinenta dar giorno de la neve
se portava un catarro marcurato
4
e Ssan Giacinto
5
te l’annò a rriceve
in d’un fonno de letto ggià appestato!
Da ’na gnagnera
6
a un’antra, stammatina
in zanitate rospite,
7
bz!,
8
è mmorto
pien de decùpis
9
dereto a la schina.
10
A quiniscióra
11
fanno lo straporto
12
der corpo in forma-papera:
13
e ggià Nnina
se fa vvéde a bbraccetto
14
co lo storto.
Terni, 28 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Greve: che affetta imponenza.
2
È morto.
3
Chi ha molta salute e floridezza, è indicato dal volgo con questa
espressione.
4
Malcurato.
5
Nome di una corsia dell’Ospedale di S. Spirito, dove sono ricevuti i tisici.
6
Febbricciattola.
7
Insalutato hospite, cioè: «all’improvviso».
8
Suono del bacio, per indicare cosa fatta.
9
Decubiti. Le piaghe prodotte
dal decubito sono anche esse qui dette decubiti.
10
Schiena.
11
Quindici ore.
12
Trasporto.
13
In forma pauperum.
14
Sotto
al braccio, ecc.
64. La mala fine
Ahó Cremente, coggnosscevi Lalla
1
la mojje ch’era de padron Tartajja
prima cucchiere e ppoi mastro-de-stalla
de... aspetta un po’... der Cardinàr-Sonajja?
2
Bbe’, gglieri, all’ostaria, pe ffà la galla
3
e ppe la lingua sua che ccusce e ttaja,
buscò da n’antra donna de la bballa
4
’na bbotta, sarv’oggnuno, all’anguinajja.
A ssangue callo
5
parze
5a
ggnente: abbasta,
6
quanno poi curze er cerusico Mori,
je sc’ebbe da ficcà ttanta
7
de tasta.
Sta in man de prete mó ppe cquanto pesa:
8
e ssi
9
la lama ha ttocco l’interiori,
Iddio nun vojji la vedemo in chiesa.
Terni, 29 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Adelaide.
2
Del Cardinal Della Somaglia.
3
Il far la galla equivale pe’ Romani al «far la civetta».
4
Dello stesso
calibro, della medesima condizione.
5
Caldo.
5a
Parve.
6
Peraltro.
7
Così dicendo si indica la misura sul dito.
8
Questa
espressione indica uno stato di vita così incerto e vacillante, come l’equilibrio di una bilancia che accenni a uscir di
bilico.
9
Se.
65. Er pizzico
La sera che dall’oste ar mascherone,
1
pe ddà un pizzico in culo a Ccrementina,
annai ’n zedia papale
2
in quarantina
a lo spedàr de la Conzòlazzione:
3
er zor Stramonni
4
che mme visitòne
5
quelli du’ sgraffi dereto a la schina,
6
fesce:
7
«Accidenti!, cqua se va in cantina:
8
dev’esse stato un stocco bbuggiarone».
Po’ abboccasotto stesome in zur letto,
cominciò un buscio a frigge: e attura, e attura,
ah, sfiatava peddío come un zoffietto!
Inzomma in ner frattempo de la cura
nun poteva stà acceso er moccoletto!
Eppuro eccheme cquà; ggnente paura.
Terni, 30 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Luogo di Roma.
2
Andare, ecc.: essere condotto assiso sulle mani intrecciate di due persone.
3
Ospedale presso il
Foro Romano.
4
Il chirurgo Trasmondi.
5
Visitò. Raramente però i Romaneschi aggiungono questa sillaba alle parole
accentuate, quando non terminino un periodo e facciano punto.
6
Schiena.
7
Disse.
8
È profondo.
66. La Providenza
È un ber dí
1
cc’a sto Monno sce vò
2
ssorte
si nun l’hanno antro
3
che bbaron futtuti.
Er cristiano ha da dí: «Che Ddio sciaggliuti
4
e cce pôzzi
5
scampà dda mala morte».
Io te l’ho appredicato tante vorte
c’a st’ora lo direbbeno li muti.
Ma ttu, ppe ggrattà er culo
6
a sti saputi,
sce schiaffi in cammio
7
«S’Iddio-vô-e-la-corte».
8
Sò ccazzi:
9
cquaggiù ttutto è ppremissione
9a
der Zignore sortanto, e nnun ze move
fojja che Ddio nun vojja,
10
in concrusione.
Abbasta d’avé ffede e ddevozzione;
e ppoi fa’ ttirà vvento e llassa piove.
11
S’Iddio serra ’na porta, opre un portone.
12
Terni, 29 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
È un bel dire.
2
Ci vuole.
3
Altro.
4
Ci aiuti.
5
Ci possa.
6
Per lusingare.
7
Ci metti invece.
8
Se Iddio vuole e la corte
(cioè i birri): riserva naturalissima in chi va soggetto a due influenze, quella del Cielo cioè, e quella del delitto che fa
precaria la sua libertà.
9
Sono ridicolezze; è inutile.
9a
Permissione.
10
Non voglia.
11
Lascia piovere.
12
Proverbio.
67. Ce sò incappati!
Le tavolozze
1
2
a cquest’ora ar posto,
le bbussolette
3
ggià sse fanno avanti,
e mmó er Gesummaria e l’Agonizzanti
4
hanno messo er Zantissimo indisposto.
5
Domatina, ora-scèrta,
6
sti garganti
7
si nun tiengono
8
ppiù cch’er collo tosto,
9
s’hanno co cquer boccon de ferragosto
10
da cacà ll’animaccia com’e ssanti.
11
E ffurno lôro, sai?, c’a ddon Annibbile
12
l’assaltorno
13
in ner vicolo d’Ascanio
pe rrubbajje
14
un cuperchio de torribbile:
15
e jje diédeno un córpo
15a
subbitanio,
che jje penneva un parmo d’intestibbile,
16
sotto ar costato cquì ppropio in ner cranio.
Terni, 29 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Certe tavole scritte che (esposte in luoghi determinati) invitano i fedeli alla indulgenza plenaria in suffragio delle
anime dei condannati, i nomi dei quali sono aggiunti al basso di esse mercé un polizzino di carta.
2
Sono.
3
Si allude
alla questuazione che i confrati di alcune compagnie vanno facendo, a volto coperto, per Roma, onde suffragare le
anime de’ prossimi giustiziandi.
4
Due chiese dove si prega per i condannati.
5
Esposto.
6
Hora certa, formula
dell’annunzio di condanna.
7
Questi ribaldi.
8
Se non tengono.
9
Duro.
10
Con questo piccolo regalo, complimento.
11
Con tutta rassegnazione.
12
Annibale.
13
L’assaltarono.
14
Per rubargli.
15
Turibolo.
15a
Coll’o chiuso: «colpo».
16
Intestino.
68. Er ricordo
Er giorno che impiccorno Gammardella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio
1
e ’na sciammella.
1a
Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,
ma pprima vorze gode
1b
l’impiccato:
e mme tieneva in arto inarberato
discenno: «Va’ la forca cuant’è bbella!».
Tutt’a un tempo ar paziente Mastro Titta
2
j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
3
un schiaffone a la guancia de mandritta.
«Pijja», me disse, «e aricordete bbene
che sta fine medema sce sta scritta
pe mmill’antri
4
che ssò mmejjo de tene».
5
Terni, 29 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Un balocco che salta per via d’elastici.
1a
Ciambella.
1b
Volle godere.
2
Il carnefice è a Roma conosciuto sotto questo
nome.
3
Me.
4
Altri.
5
Te.
69. La ggiustizzia de Gammardella
Cuanno che vvedde
1
che a scannà un busciardo
Gammardella ebbe torto cor governo,
nun vorze un cazzo convertisse;
2
e ssardo
3
morse
4
strillanno vennetta abbeterno.
5
Svortato
6
allora er beato Leonardo
7
a le ggente che tutti lo vederno,
8
disse: «Popolo mio, pe sto ribbardo
9
nun pregate piú Iddio: ggià sta a l’inferno».
Ebbè, cquelle du’ chiacchiere intratanto
j’hanno incajjato un pezzo de proscesso
che sse stampava pe ccreallo santo.
L’avocato der diavolo
10
fa er fesso
11
co sti rampini;
12
ma ppò ddí antrettanto,
13
s’ha da santificà ffussi
14
de ggesso!
Terni, 30 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Vide.
2
Non volle affatto convertirsi.
3
Saldo.
4
Morì.
5
In eterno.
6
Rivolto.
7
Il beato Leonardo da Porto Maurizio.
8
Videro.
9
Ribaldo.
10
Così chiamasi l’Avvocato che impugna, ecc.
11
Il duro.
12
Cavilli.
13
Può dire enziandio altrettanto.
14
Fosse.
70. La proferta
Bella zitella, fu tteta o fu ttuta?
1
Chi v’ha mmesso la cavola a la bbotte?
Accapo ar letto mio tutta sta notte
v’ho intesa tritticà
2
ssempre a la muta.
Eh, un’antra vorta che vve sii vienuta
la vojja d’ariocà
3
cco cquattro bbôtte,
ditelo a mmé, cché jje darò la muta
pe ccompità con voi F, O, T, fotte.
Er mi’ cavicchio nun è ttanto struscio,
4
che nun pôzzi serví (ssarvo disgrazzia)
pe bbatte sodo e ppe atturavve er buscio.
E cciaverete poi de careggrazzia,
doppo sentito come sgarro e scuscio,
de vienimme a rrichiede
5
er nerbigrazzia.
Terni, 10 settembre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Tèta è un accorciativo di Teresa, e Tuta di Geltrude. Pronunziati con la voce fu, n’esce un suono equivoco onde si fa
sarcasmo verso qualche donna creduta, ecc.
2
Tremolare.
3
Ripetere il giuoco.
4
Logoro.
5
Di venire a richiedere.
71. In acqua lagrimar’in valle
1
Fàcce mente-locanna,
2
mastro Meo,
e tt’aricorderai, si nun zei cêscio,
3
ch’er zito indove famio
4
a ccavacescio
5
è er muro de San Neo e Ttacchineo.
6
Anzi in cuer logo ar fîo
7
de Zebbedeo,
per imparajje un giorno a ttiené ccescio,
8
je dassi
9
tu ’na sscivolata a sbiescio,
10
che cce schioppò pe tterra er culiseo.
Che ttempi! ahù! cchi l’aripijja? Bbrega?
11
Mó tte schiatti e ffatichi e sta’ ar fettone,
12
e ttanto o Cristo o er diavolo te frega.
13
La mojje, er cavalletto, la piggione,
er Curato... oh ssciroppete sta bbega
14
senza sputatte
15
fedigo
16
e ppormone!
Terni, 4 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
In hac lacrymarum valle.
2
Facci mente locale.
3
Imbecille.
4
Facevano.
5
Cavaceci.
6
SS. Nereo ed Achilleo.
7
Figlio.
8
Tener cecio, cioè: «conservare i segreti».
9
Dasti.
10
A sghembo.
11
Personaggio immaginario che equivale a «nessuno».
12
Stai assegnato.
13
Ti corbella.
14
Oh togliti su questa serie di guai.
15
Sputarti.
16
Fegato.
72. Zi’ Checca ar nipote ammojjato
Dico ’na cosa che nnun è bbuscía
Tu vvedi che ttu’ fijjo è grann’e ggrosso,
e nnu jje metti ggnisun’arte addosso?
Ma ssi ttu mmori che ha da fà? la spia?
Nun c’è antro che ggioco, arme, ostaria,
donne, sicario
1
... e nnun z’abbusca un grosso!
Ah! un giorno o ll’antro ha da cascà in d’un fosso
da fatte piaggne; e tte lo disce zia.
Sempre compaggni! e cche schiume, fratello!
Puh, llibberàmus domminé! Ll’abbrei
sò ppiú ccristiani e cciànno ppiú cciarvello.
Pe ’ggni cantone ne tiè ccinqu’o ssei:
vedi che scôla! Come disce quello?
Di’ ccon chì vvai, e tte dirò cchi ssei.
Terni, 4 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Sigaro.
73. Li comparatichi
Dìmme che nun zò Ppeppe si a cquer tufo
nu jje fo aricacà quer che mme maggna.
San Giuanni peddío nun vò tracagna.
1
Credeme, Titta
2
mia, propio sò stufo.
Si la Commar Antonia io me l’ingrufo,
lui perché fa lo sscioto
3
e ppoi se laggna?
Chi er cane nu lo vò ttienghi la caggna:
una cosa è cciovetta, e un’antra è ggufo.
Ma cquello vò confonne Ottobre e Mmarzo,
sammaritani, scribbi e ffarisei,
per avé sempre lesto er carciofarzo.
4
Io pago la piggione a llui e llei,
io je do er tozzo, io li vesto, io li carzo,
e llui me vô scoccià lli zzebbedei.
5
Terni, 4 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
San Giovanni battezzatore di Cristo è il protettore dei comparatichi. San Giuvanni non tracaggna, cioè «Fra
compari non deve entrar fraude».
2
Giovanbattista.
3
Il semplice.
4
Mala azione.
5
Vedine il senso nel son. n. …
74. Facche e tterefacche
1
Quella bbocca a ssciarpella,
2
che a vvedello
3
pare un spacco per dio de callarosta,
4
oppuramente
5
er buscio
6
de la posta,
o er culetto de quarche bberzitello;
7
e nun ha avuto mo la faccia tosta
8
de chiamamme
9
carnaccia de mascello?
Ma io nun dubbità cche llí bberbello
10
j’ho detto er fatto mio bbotta-e-rrisposta.
Quanno ha ssentito er nome de le feste,
11
lui è rrimasto un pizzico de sale:
12
ché lo sa cchi è sto fusto,
13
si ho le creste.
14
Oh vvedi un po’! nnun ce sarebbe male!
Ma ffa’ cche vvienghi
15
a scaricà le sceste,
16
te lo fo ttommolà
17
ggiú ppe le scale.
Terni, 4 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Fac et refac: La compensazione.
2
Bocca torta.
3
Vederlo.
4
Caldarrosto.
5
Oppure.
6
Il buco.
7
Ragazzo.
8
La
sfrontatezza.
9
Di chiamarmi.
10
Belbello.
11
Dare altrui il nome delle feste: ingiuriarlo.
12
È rimasto avvilito.
13
Chi sono
io.
14
Se sono irritata.
15
Venga.
16
Scaricar le ceste: qui per…
17
Tombolare.
75. Ar bervedé
1
tte vojjo
Sor chirico Mazzola,
2
a la grazzietta:
che! nun annamo a ppiazza Montanara
pe ssentí a ddí cquella facciaccia amara:
Tenerell’e cchi vvô la scicurietta?
3
Sí! ffatteve tirà un po’ la carzetta
4
pe ccurre da la vostra scicoriara!
Ve vojjo bbene cor pumperumpara!
5
Cuann’è Nnatale ve ne do una fetta.
6
Eh vvia, ché ggià sse sa ttutto l’intreccio:
a mmezza vita sce sugate er mèle,
e ppiú ssú ffate er pane casareccio.
7
Ammannite però cquattro cannéle;
e cquanno vierà er tempo der libbeccio
8
pijjateje un alloggio a Ssan Micchele.
9
Terni, 4 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Vedi il sonetto…
2
Nome di scherno che si da a’ chierici.
3
Grido de’ cicoriari.
4
Fatevi un po’ pregare.
5
Espressione
derisoria.
6
Cioè di pangiallo.
7
Maneggiate le poppe.
8
Tempo sinistro.
9
Vedi sonetto…
76. Un’opera de misericordia
Nun annà appresso a Ttuta, ché cco cquella
se vede bbazzicà
1
sempre un zordato;
e ddicheno che un fir de puttanella
je s’è da quarche ttempo appiccicato.
Mezz’anno fa ppe ccerta marachella
2
annò a Ssan Rocco
3
a spese der curato;
e tu tte fidi ar nome de zitella?
Omo avvisato è ggià mmezzo sarvato.
Pe mmé è una santa donna; ma ll’ho ddetto,
la ggente sciarla: e ppe ffàlla segreta
nun je se pô appricà mmica er lucchetto.
Fàcce,
4
si cce vòi fà, sseta-moneta;
fàcce a nisconnarello e a pizzichetto;
5
ma nun metteje
6
anello in ne le déta.
Terni, 5 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Praticare.
2
Intrigo.
3
Ospizio pei parti segreti.
4
Facci.
5
Tre giuochi fanciulle.
6
Non metterle.
77. Te lo dico pe bbene
Che! ancora nu lo sai che cquella vacca,
parlanno co li debbiti arispetti,
incomincia a ttrat li pasticcetti,
1
e pe cquesto arza quer tantin de cacca?
2
Fa’ a mmodo mio, tu pijjela a la stracca;
3
ma abbadamo a le punte de li tetti,
perché tt’ha da infirzà ttanti cornetti
pe cquanti peli tiè nne la patacca.
Tira avanti accusí: ttiètte le mano;
3
ché ppoi co tté cce ggiucheranno a ppalla,
si scappi la patente de roffiano.
Bbatti la piastra mo ssino ch’è ccalla.
No? bbravo, Meo:
4
te stimo da cristiano!
3
Fa’ scappà er bove, e ppoi serra la stalla.
5
Terni, 6 ottobre 1830
1
Zerbinetti.
2
Albagia.
3
Modi ironici di consiglio.
4
Accorciativo di Bartolomeo.
5
Proverbio.
78. Er zervitore inzonnolito
Sò ccinque notte o ssei che la padrona,
pe vvia de quer gruggnaccio d’accidente
che mmó jje fa dda cavajjer zerpente,
1
me lassa a ccontà oggn’ora che Ddio sona.
Te pare carità?... cche! sse cojjona?
Come si er giorno nun fascessi ggnente!
Ma stasera, o sservente o nun zervente,
vojjo fà ’na dormita bbuggiarona.
Lei che ss’arza ’ggnisempre a mmezzoggiorno,
a cchi sta ssú dda lo schioppà ddell’arba
2
o nun ce pensa, o nun je preme un corno.
Me liscenzio: er crepà ppoco m’aggarba.
De llà nun c’è ccarrozza de ritorno.
E cquanno sò mmort’io, damme de bbarba.
Terni, 6 ottobre 1830
1
Serpente, ironia di «servente».
2
Dal sorgere dell’alba.
79. La protennente
1
Ma nnun je róppe er prezzo,
2
ché ssei bella:
tirete sú le carzette de seta:
3
fà buttà indove passi la mortella:
4
fàtte incide una statua de greta.
Quanto faressi mejjo a statte quieta,
e arisparmiatte er fiato a le bbudella!
Co cquella faccia de scipoll’e bbieta
5
sai chi mme pari a mmé? Ciunciurumella.
6
Sú, smena er fiocco,
7
bbellezza der monno,
strigni er bocchino! Auffa
8
li meloni!
e si auffa la dài manco la vonno.
Ciài pijjato davero pe ccojjoni?
Erbetta mia, te conoscemo
9
a ffonno.
Mmaschera sai ch’edè? ttu nun me soni.
9 ottobre 1830
1
La pretendente: vana.
2
Non avvilirti.
3
Dicesi a chi si attribuisce un grado che non gli compete.
4
Segno di festa.
5
Bietola.
6
Era così soprannominata una sozza donnaccia da trivio.
7
Dimena, agita l’ano, come chi si pavoneggia.
8
Dell’aufo, gratis, veggasi la nota… del sonetto…
9
Ti conosco, erbetta: così avvisansi coloro che credonsi riputati da
per più.
80. Lo Sposo c’aspetta la Sposa pe sposà
1
Lí ffora nun c’è un cazzo c’arifiati:
qua ddrento nun c’è un’anima vivente.
Dove diavolo mó sse sò fficcati,
je pijja a ttutti quanti ’n accidente?
Che sserve de stà a ffà ppiú l’ammazzati,
si nun ze sente un cane nun ze sente!
Oh, ssai che ffàmo? annamescene in prati
2
a ggiucà a bboccia e ppoi... Zitto! viè ggente.
Ma bbuggiaratte, Iddio te bbenedichi,
è un anno che ssagrato
3
a la parrocchia,
che mommó rriviè er tempo de li fichi.
Sí, ffamme sceggne er latte a le ginocchia!
4
Lo sai perché tte sposo? pe l’amichi:
c’ar fuso mio nun pò mmancà cconocchia.
5
9 ottobre 1830
1
Sposo, ecc., colla o stretta.
2
Adiacenze del castello S. Angiolo, già Mole Adriana.
3
Bestemmio.
4
Fammi nausea.
5
Equivoco; e vale: «Ti sposo in grazia degli amici, che mi v’inducono, ecc.»
81. Li frati
Sora Terresa mia sora Terresa,
io ve vorrebbe vede appersuasa
de nun favve ggirà ffrati pe ccasa,
ché li frati sò rrobba pe la cchiesa.
Lo so bbè io sta ggente cuer che pesa
e cquanto è roppicula e fficcanasa!
Eppoi bbasta a vvedé ccom’è arimasa
co cquer patrasso
1
la commare Aggnesa.
Sti torzonacci pe arrivà ar patume
2
te fanno punti d’oro; e appena er fosso
l’hanno sartato, pff,
3
tutto va in fume.
C’è da facce
4
in cusscenza un fianco grosso!
Ortre ar tanfetto poi der suscidume
de sudaticcio concallato
5
addosso.
9 ottobre 1830
1
Padre graduato.
2
Carne delle parti, ecc.
3
Suono di un gas compresso che sventa.
4
Farci.
5
Sudore in fermento.
82. Er ricurzo
Ch’edè e cche nun è,
1
ecchete un giorno
che ffâmio
2
a gatta-sceca-chi-t’ha-ddato,
3
una man de giandarmi se n’entrorno
coll’ordine de facce er percurato.
4
Senza dicce nemmanco: si’ ammazzato,
5
aggnédero
6
freganno
7
attorn’attorno;
e smòsseno inzinenta er tavolato,
ma grazziaddio senza trovacce un corno.
Io fesce stenne a ppiazza montanara
8
p’er general Quitolli
9
un mormoriale,
10
che jje l’aggnede a ddà la lavannara,
discennoje accusí: «Ssor generale,
cuesta pe ddio sagrato è una cagnara:
ché de la grazzia eccetera.
11
Pasquale».
9 ottobre 1830
1
All’improvviso senza sapere che si fosse.
2
Facevamo.
3
Vedi nota del Sonetto…
4
Perquiratur: perquisizione.
5
Senza
neppur dirci motto, senza pur salutarci.
6
Andarono.
7
Frugando.
8
V. nota del sonetto…
9
Il generale Sesto Miollis, già
Governatore degli Stati Romani sotto il Governo Napoleonico. Il popolo lo chiamava Miòdine, Quitòllis e Quitòlli.
10
Memoriale.
11
Finale di tutte le suppliche romane.
83. Un miracolo grosso
Pijjate un grancio: er fatto der dragone
nun fu un cazzo
1
a Ssan Chirico e Ggiuditta.
2
Ditelo a mmé, cche mme l’ha ddetto Titta
che jje l’ha ddetto Bbonziggnor Ciardone!
3
Voi ’ntennete de quer che ssan Leone,
doppo avé lletto un po’ de carta scritta,
lo portò ccor detino de mandritta
a spasso a spasso com’un can barbone?
Manco male! Ebbè, er fatto, sor Felisce
mia, fu assuccesso ggiù a Campo Vaccino
sott’a Ssanta Maria l’imperatrisce.
4
Cosa sa ffà la fede! Un cordoncino
regge
5
un dragone, che er barbiere disce
nun potería legà mmanco un cudino.
6
10 ottobre 1830
1
Affatto.
2
SS. Quirico e Giuditta.
3
Ciardone, per «Giardoni».
4
Santa Maria Liberatrice.
5
Reggere.
6
Codino.
84. Fremma, fremma
Ohó! ohó! prr!
1
come vai de trotto!
Abbada a tté dde nun buttà la soma.
Ch’edè sta furia? Adascio Bbiascio:
2
Roma
mica se frabbitutt’in un botto.
Chi poteva sapé che tt’eri cotto
de sta maggnèra pe la fìa de Moma?
3
Che vvolevi pe llei Rroma e ttoma
2
senza conosce cuer che ccova sotto?
La donna, fijjo, è ccome la castagna,
2
disceveno Bertollo e Bertollino:
4
bbella de fora, e ddrento ha la magaggna.
A la prima ostaria scerchi er bon vino?!
2
Si ddarai tempo averai la cuccagna,
2
e mmaggnerai li tordi uno a cquadrino.
2
10 ottobre 1830
1
Suono delle ruote di un carro in fuga.
2
Tutti modi proverbiali.
3
La figlia di Girolama.
4
Bertoldo e Bertoldino, scaltri
contadini, eroi di una leggenda, ridotta poi in versi da una società di valenti poeti.
85. Le mano a vvoi e la bbocca a la mmerda
Ajjo,
1
cazzo! che ppizzico puttano!
Te penzeressi
2
ch’abbi er cul de pajja?
È tutta sciccia; e nun ce porto majja,
antro che
3
sto boccon de taffettano.
Co la bbocca, va bbe’, ddimme canajja,
e ppú... e bbú..., mma ttiètte a tté le mano.
Giochi de mano, ggiochi da villano;
e la tua pare propio una tenajja.
Fermo, ve dico, sor faccia ggialluta.
Fateve arreto; e ssi vve piasce er mollo,
annate a smaneggià le chiappe a Ttuta.
Te seggno, Pippo ve’! Pippo, te bbollo.
Te ne vai? famme sta grazzia futtuta.
Sia laüdat’Iddio! Rotta de collo!
10 ottobre 1830
1
«Ahi».
2
Penseresti.
3
Fuorché.
86. Audace fortuna ggiubba tibbidosque de pelle
1
Che sserve, è ll’asso!
2
Guardeje in ner busto
si cche ggrazzia de ddio sce tiè anniscosta.
Sangue d’un dua com’ha da êsse tosta!
Quanto ha da spiggne! ah bbenemio, che ggusto!
Si cce potessi intrufolà
3
sto fusto,
me vorrebbe ggiucà ppropio una costa
che cce faria de risbarzo e dde posta
diesci volate l’ora ggiusto ggiusto.
Tre nnotte sciò portato er zor Badasco
4
a ffà ’na schitarrata co li fiocchi,
perché vviènghi a ccapì che mme ne casco.
4a
Mó vvojjo bbatte,
5
e bbuggiarà li ssciocchi.
E cche mmale sarà? de facce
6
fiasco?
’Na provatura costa du’ bbajocchi.
11 ottobre 1830 - De Peppe er tosto
1
«Audaces fortuna iuvat, timidosque repellit».
2
Esser l’asso, vale «essere il primo in checchessia».
3
Ficcar dentro.
4
Badaschi: cognome di un piccolo uomo colle gambe torte, il quale suona bene la chitarra.
4a
Muoio d’amore.
5
Battere:
far la dichiarazione.
6
Farci.
87. Er contratempo
Ecco cqui er bene come incominciò
co la cuggnata de Chicchirichí.
Fascemio a ggatta-sceca cor zizzi,
1
a ccasa de la sgrinfia de Ciosciò.
Toccava er giro a llei: me s’appoggiò
co cquer tibbi de culo a ssede cqui.
Nun zerv’antro: de sbarzo se svejjò
mi’ fratelluccio che stava a ddormí.
Sentenno quer lavoro sott’a ssé,
lei s’intese le carne a ffriccicà,
e arzò la testa pe ffà un po’ ccescé.
2
Io me diede a ccapí cch’ero io llà:
allora, a cquer c’ha cconfessato a me,
lei fesce
3
in core: «Je la vojjo dà».
11 ottobre 1830
1
Giuoco di compagnia. Una persona bendata va in giro assidendosi, or qua or là, sulle ginocchia di questo o di quello.
Profferisce col solo sibilo dei denti quelle due sillabe zizi, e ad una eguale risposta di colui o di colei su cui siede,
deve indovinare chi sia. Se indovina, passa la sua benda a chi si fece conoscere, altrimenti segue il suo giro.
2
Far
cecé: traguardare da uno spiraglio.
3
Disse.
88. Che disgrazzia!
1
li peccati mii, fijja: pascenza!
2
Io te l’avevo trovo
3
a mmutà stato,
cor un omo de garbo e de cusscenza,
e ’r mejjo nu lo sai: ricco sfonnato.
Che ccasa! che ccantina! che ddispenza!
C’è llatte de formica, oro colato.
Ah! ppropio era pe tté una providenza
da fà ccrepà d’invidia er viscinato.
Pe ccaparra, ecco cqui, mm’ero ggià ppresi
sti sei ggnocchi;
4
e tte sento stammatina
rigràvida mommó
5
dde scinque mesi.
C’avevo da sapé
6
cche la spazzina
7
te fasceva parlà cco li francesi?
Fàmme indovina ché tte fo rreggina.
8
Roma, 12 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Sono.
2
Pazienza.
3
Trovato.
4
Scudi.
5
Oggimai.
6
Come avevo io da sapere.
7
Spazzina: venditrice di minuti oggetti,
per lo più ad uso di donne.
8
Fammi, ecc.: proverbio.
89. Ce conoscemo
Bella zitella che ffate a ppiastrella
cor fijjo der Ré,
1
pss,
2
dite, nun sbajjo?
sete voi quella che la date a ttajjo,
viscin’all’arco della Regginella?
Pasciocchettuccia
3
mia, quanto sei bbella!
Ahú, fedigo fritto,
3
spicchio d’ajjo,
3
quanno che vvedo a voi tutto me squajjo
3
in acquetta de cul de rondinella.
Eh voi, s’aggiusta inzomma sto negozzio?
Se poderebbe fà sto pangrattato?
4
Me crepa er core de vedevve in ozzio.
Ma ssèntila! nnun vò pperché è ppeccato!
Oh ddatela a d’intenne ar zor Mammozzio:
gallina che nun becca ha ggià bbeccato.
4a
12 ottobre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Detto popolare.
2
Suono di chiamata.
3
Modi accarezzativi.
4
Accordo.
4a
Proverbio.
90. L’inzogno
Ner zoggnamme stanotte l’esattore,
m’ero tirato a lletto in pizzo in pizzo,
finarmente che sscivolo, e tte schizzo
propio cor culo in cima ar pisciatore.
Un coccio piú ttajjente d’un rasore
m’ha sbuggiarato tutto er cuderizzo;
e mmo mme se fa nero com’un tizzo,
e cce sento un inferno de bbrusciore.
Madama Squinzia,
1
che a cquer zerra serra
se svejjò ppuro lei, come una matta
se messe a ride de vedemme in terra.
Io je scarico allora una ciavatta;
e llei butta er lenzolo, e me s’afferra
su li tre appiggionanti de la patta.
13 ottobre 1830
1
Nome di scherno.
91. Er cotto sporpato
1
Evviva er zor-Don-Dezzio-co-le-mela!
Ste strade sce l’avete ariserciate…
2
Ah, ddiscevo accusí de scèrta tela
3
che sse venneva sulle cantonate.
Dite la verità, ttanto ve pela?
4
Sú ffateve usscí er rospo,
5
vommitate:
6
eh vvia, co’ nnoi cucchieri ste frustate?
7
Cascate male assai:
8
semo de vela.
9
Pare che cquanno ve smicciate
10
quella
benedetta-pòzz’-èsse, for dall’occhi
ve vojji schizzà vvia la coratella.
Pare c’avete d’aspet li ggnocchi!
11
V’annerebbe un bocchino,
12
eh sor Brighella?
Oh annateve a ccerca cchi vve l’immocchi.
13
13 ottobbre 1830 - De Pepp’er tosto
1
Innamorato cotto-spolpato.
2
Riselciate. Questa si usa con chi passa continuamente sopra una strada per alcun fine.
3
Quando chi parla è interrogato sul senso del suo discorso ed egli non vuole rispondere a tuono, dice quello che riporta
il verso.
4
Vi scotta? (questo amore).
5-6
Parlate.
7
A noi non se ne dànno ad intendere di queste.
8
Capitate male.
9
Siamo
in umore di dar la baja.
10
Guardate.
11
State a bocca aperta come aspettaste, ecc.
12
Vi andrebbe a genio un bocchino?
Bocchino: cosa che cade in bocca aperta a riceverla.
13
Che ve la imbocchi.
92. Er ciàncico
1
A ddà rretta a le sciarle der governo,
ar Monte nun c’è mmai mezzo bbaiocco.
Je vienissi
2
accusí, sarvo me tocco,
3
un furmine pe ffodera
4
d’inverno!
E accusí Ccristo me mannassi
5
un terno,
quante ggente sce campeno a lo scrocco:
cose, Madonna, d’agguantà
6
un batocco
e dàjje
7
in culo sin ch’inferno è inferno.
Cqua mmaggna er Papa, maggna er Zagratario
de Stato, e cquer d’abbrevi
8
e ’r Cammerlengo,
e ’r tesoriere, e ’r Cardinàl Datario.
Cqua ’ggni prelato c’ha la bbocca, maggna:
cqua… inzomma dar piú mmerda ar majorengo
9
strozzeno
1
tutti-quanti a sta Cuccaggna.
27 novembre 1830 - Der medemo
1
Il ciancico. Ciancicare significa presso i Romani «masticare», e in altro senso «mangiare alle spese d’altri». Questo
secondo senso appartiene allo strozzare in significazione neutra.
2
Gli venisse.
3
Salvo dove mi tocco.
4
Per fodera di
panni.
5
Mi mandasse.
6
Da afferrare.
7
E dargli.
8
E quello de’ Brevi.
9
Dall’infimo al sommo.
93. L’upertura der concrave
Senti, senti castello come spara!
Senti montescitorio come sona!
È sseggno ch’è ffinita sta caggnara,
e ’r Papa novo ggià sbenedizziona.
Bbe’? cche Ppapa averemo? È ccosa chiara:
o ppiù o mmeno la solita-canzona.
Chi vvôi che ssia? quarc’antra faccia amara.
Compare mio, Dio sce la manni
1
bbona.
Comincerà ccor fà aridà li peggni,
cor rivôtà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congeggni.
Eppoi, doppo tre o cquattro sittimane,
sur fà
2
de tutti l’antri
3
Santi-Padri,
diventerà, Ddio me perdoni, un cane.
2 febbraio 1831
1
Ce la mandi.
2
Sul fare.
3
Altri.
94. Er negozziante de spago
1
Certi ggiorni c’ar Papa je viè a ttajjo
2
de scelebb
3
la tale o ttar funzione,
in sti tempi d’abbissi e rribbejjone
4
che lo fanno annisconne
5
e mmaggnà ll’ajjo,
6
conforme che jje porteno er ragguajjo
che Rroma è cquieta e ha stima der cannone,
lui va, sse mette in chicchera,
7
e indispone
8
le cose nescessarie ar zu’ travajjo.
Ma infilato che ss’è ll’abbito longo,
si jj’aricacchia
9
quarch’idea de prima,
er vappo
10
scerca
11
de fà nnassce un fongo.
12
Trovato c’ha er protesto,
13
allora poi
se vorta
14
a un Minentissimo, e jje disce:
«Sor Cardinale mio, fatela voi».
1° marzo 1831
1
Spago vuol dire «paura».
2
Gli venne a taglio.
3
Di celebrare.
4
Ribellioni.
5
Nascondere.
6
Mangiar l’aglio: invelenire.
7
Mettersi in chicchera: vestirsi in pompa.
8
Dispone.
9
Se gli ripullula.
10
Il millantatore.
11
Cerca.
12
Di far nascere un
fungo: suscitare un improvviso pretesto.
13
Pretesto.
14
Si volta.
95. Giusepp’abbreo
Sonetti due
Certi Mercanti, doppo ditto: aéo,
1
se sentinno
2
chiamà ddrento d’un pozzo.
Uno sce curze
3
all’orlo cor barbozzo,
4
e vvedde move,
5
e intese un piaggnisteo.
«Cazzo! qui cc’è un pivetto
6
pe ssan Ggneo,
come un merluzzo a mmollo inzino ar gozzo!».
Caleno un zecchio: e ssú, frascico e zzozzo,
7
azzécchesce chi vviè? Ggiusepp’abbreo.
L’assciutteno a la mejjo cor un panno,
je muteno carzoni e ccamisciola,
e ppoi je danno da spanà,
8
jje danno.
E doppo, in cammio
9
de portallo a scola,
lo vennérno in Eggitto in contrabbanno
pe cquattro stracci e un rotolo de sola.
Morrovalle, settembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Grido degli Ebrei che comperano robe vecchie.
2
Si sentirono.
3
Ci corse.
4
Col mento.
5
Vide movere.
6
Un fanciullo.
7
Fradicio e zozzo.
8
Da mangiare.
9
In cambio.
96. Giusepp’abbreo
Sonetto
In capo a una man-d’anni er zor Peppetto
addiventato bbello granne e ggrosso,
la su’ padrona jjotta
1
de guazzetto,
j’incominciò a mettéjje l’occhi addosso.
Ce partiva cor lanzo
2
de l’occhietto,
3
sfoderava sospiri cor palosso:
4
inzomma, a ffalla curta, dar giacchetto
lei voleva la carne senza l’osso.
Ecchete ’na matina che a sta sciscia
5
lui j’ebbe da portà ccert’acqua calla,
la trova zur zofà ssenza camiscia.
Che ffa er cazzaccio! Bbutta llí la pila;
e a llei che tte l’aggranfia
6
pe ’na spalla
lassa in mano la scorza,
7
e mmarco-sfila!
8
Morrovalle, 7 settembre 1831 - Der medemo
1
Ghiotta.
2
Col vezzo.
3
Dell’occhiolino.
4
Armàti, fieri.
5
Cicia: bella donna.
6
L’afferra.
7
La livrea.
8
E fugge.
97. A Nina
1a
Imitazione del sonetto milanese del Porta:
«Sura Catterinin», etc.
Tra ll’antre
1
tu’
2
cosette che un cristiano
ce se
3
farebbe scribba e ffariseo,
tienghi,
4
Nina, du’ bbocce e un culiseo,
propio da guarní er letto ar gran Zurtano.
A cchiappe e zzinne, manco in ner moseo
5
sc’è
6
robba che tte po arrubbà la mano;
7
ché ttu, ssenz’agguantajje er palandrano,
8
sce fascevi appizzà
9
Ggiuseppebbreo.
Io sce vorrebbe
10
franca
10a
’na scinquina
11
che nn’addrizzi ppiú ttu ccor fà l’occhietto,
che ll’antre
1
cor mostrà la passerina.
12
Lo so ppe mmé, cche ppe ttrovà l’uscello,
s’ho da pisscià, cciaccènno
13
er moccoletto:
e lo vedessi mó,
14
ppare un pistello!
15
Fatto in Morrovalle, il 7 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1a
Caterina.
1
L’altre.
2
Tue.
3
Ci si.
4
Tieni.
5
Museo.
6
C’è.
7
Metafora presa dal maneggio de’ cavalli. Vale «vincere».
8
Afferrargli il mantello.
9
Appizzare, v. n.: «tener dietro, appetendo, ad una cosa».
10
Ci vorrei.
10a
Sicura.
11
Una cinquina
al giuoco del lotto.
12
V. sonetto…
13
Ci accendo.
14
E se tu lo vedessi ora.
15
Pestello.
98. A Teta
1
Sonetto 1°
Sentime, Teta, io ggià cciavevo dato
che cquarchiduno te l’avessi rotta;
ma che in sto stato poi fussi aridotta
nun l’averebbe mai manco inzoggnato.
De tante donne che mme sò scopato,
si ho mmai trovo a sto monno una miggnotta
c’avessi in ner fracoscio un’antra grotta
come la tua, vorebb’èsse impiccato.
Fregheve, sora Teta, che ffinestra!
che ssubbisso de pelle! che ppantano!
Accidenti che cchiavica maestra!
Eppoi cazzo, si un povero gabbiano
te chiede de sonatte in de l’orchestra,
lo fai stà un anno cor fischietto in mano!
Morrovalle, 10 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Questo sonetto e il seguente sono un’amplificata imitazione del sonetto del Porta, in dialetto milanese, che comincia:
«Sent, Teresin, m’el sera daa anca mi», etc.
99. A Teta
Sonetto 2°
Pe tterra, in piede, addoss’ar muro,
a lletto, come c’ho ttrovo d’addoprà l’ordegno,
n’ho ffatte stragge: e pe ttutto, sii detto
senz’avvantamme,
1
ciò llassato er zegno.
Ma cquanno me sò visto in ne l’impegno
drento a cquer tu’ fienile senza tetto,
m’è parzo aritornà, peddío-de-legno,
un ciuco
2
cor pipino
3
a ppignoletto!
Eppuro, in cuanto a uscello, ho pprotenzione
che ggnisun frate me pò ffà ppaura:
basta a gguardamme in faccia er peperone.
4
Ma co tté, ppe mmettésse a la misura,
bisoggnerebbe avé mmica un cannone,
ma la gujja der Popolo addrittura!
Morrovalle, 10 settembre 1831 - Der medemo
1
Vantarmi.
2
Fanciulletto.
3
Membruccio.
4
Naso.
100. A Ghita
Sonetto 1°
Sto sciorcinato
1
d’uscelletto cqui
da tanti ggiorni sta ssenza maggnà,
perché nun j’ho saputo aritrovà
canipuccia che ppozzi diggerí.
Ce sarebbe pericolo
2
che llí
tu cciavessi da fallo sdiggiunà?
Eh? Ghita, la vòi fà sta carità
de riarzà er becco ar povero pipí?
Ciaveressi mó scrupolo?! e de che?
E a cquer proverbio nun ce penzi piú,
de fà ccoll’antri quer che piasce atté?
Eppoi, dove mettemo er zor Monzú
che tte bbattevva la sorfamirè?...
Ma ggià, ttu sei zitella, dichi-tú.
Morrovalle, 13 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Questo tapino.
2
Caso.
101. A Ghita
Sonetto 2°
Nun zia mai pe ccommanno, sora Ghita:
diteme un pò, cch’edè
1
sta scolarella
che ssibbè
2
cche vvoi èrivo
3
zitella,
puro
4
pe bbontà vvostra oggi m’è usscita?
Sta pulentina cqui dduncue ammannita
ve tienevio pe mmé nne la scudella?
Dio ve n’arrenni merito, sorella,
propio ve sò obbrigato de la vita.
E nun potevio fanne con de meno,
5
sora puttanellaccia a ddu’ facciate,
6
de viení a bbuggiaramme a ccier sereno?
7
Mó ccapisco perché cquer zor abbate,
che inzin’all’occhi ne dev’èsse pieno,
te porta a ffà le cotte pieghettate.
Morrovalle, 13 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Che è.
2
Sebbene.
3
Eravate.
4
Pure.
5
Farne a meno.
6
Ipocrita.
7
A ciel sereno: apertamente.
102. L’incisciature
1
Che sscenufreggi,
2
ssciupi, strusci e ssciatti!
Che ssonajjera
3
d’inzeppate a ssecco!
Iggni bbotta peccrisse annava ar lecco:
soffiamio
4
tutt’e dua come ddu’ gatti.
L’occhi invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co ppelo, e bbecc’a bbecco.
Viè e nun viení, fà e ppijja, ecco e nnun ecco;
e ddajje, e spiggne, e incarca, e strigni e sbatti.
Un po’ piú che ddurava stamio grassi;
5
ché ddoppo avé ffinito er giucarello
restassimo intontiti
6
com’e ssassi.
È un gran gusto er fregà! ma ppe ggodello
più a cciccio,
7
ce voria che ddiventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’uscello.
Morrovalle, 17 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Le fottiture.
2
Quasi dicesse flagelli.
3
Quasi batteria.
4
Soffiavamo.
5
Equivalente di «stavamo freschi».
6
Restammo
istupiditi, immobili.
7
Più a dovere.
103. A Nnannarella
Voi sapé ll’arte mia, core mio bbello?
M’ingeggno, fijja: fo er pittore a sguazzo.
E ssi mme voi provà, ttiengo un pennello
che ho ccapato pe tté ppropio in ner mazzo.
A llavorà nun ce la pò un uscello:
schizza piú mmejjo che si ffussi un razzo:
e a le vorte, cquà e llà, senza sapello,
è ffigura de fà cquarche ppupazzo.
Anzi m’ha dditto la mastra de scola
che un marchesino te viè a ddà ’ggni mese
certa tinta color de lazzarola.
Dunque famo negozzio: io fo le spese;
e ttu mm’impresterai la cazzarola
dove ce squajji er rosso der marchese.
Morrovalle, 20 settembre 1831 - De Peppe er tosto
104. A Ccrementina
A che ggioco ggiucamo, eh Crementina?
Si nun me la vôi dà, bbuttela ar cane.
Sò stufo de logrà le settimane
cantanno dietr’a tté sta canzoncina.
Inzomma, o la finimo stammatina,
o ttiettela
1
pe tté, cché nun è ppane:
e a Roma nun ciamancheno
2
puttane
da viení ccarestia de passerina.
3
Varda che schizziggnosa, si’ ammaíta!
Se tratta che de té ne fanno acciacchi,
che nun ciài
4
buscio
5
sano pe la vita.
Sò in cuattro a pportà er morto:
6
Puntattacchi,
er legator de libbri ar Caravita,
Chiodo, e ’r ministro der caffè a li Scacchi.
Morrovalle, 20 settembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Tientela.
2
Ci mancano.
3
V. sonetto…
4
Ci hai.
5
Buco.
6
Espressione che si usa quante volte s’incontrino in questo
numero le persone che facciano alcuna cosa censurabile.
105. A Nnunziata
Eh sora Nunziatina, cuanno fussi
lescito a la dimanna, me voría
levà un dubbio, si mmai, nun zapería...
1
ciavessivo pijjati pe bbabbussi,
2
oppuramente per ingresi, o russj,
o ppe ggreghi sbarcati da turchia;
che nnun ze conosscessi, giogglia
3
mia,
cual’è er tu’ ggioco, e indove strissci e bbussi:
e nun ze sa ppe ttutti li cantoni,
da ponte-rotto
4
a ppiazza-montanara,
che nnu li capi
5
si nun zò ccojjoni?
Ma a mmé la bbajocchella
6
me sta ccara:
e pe cquer fatto drento a li carzoni
nun ce vojjo chiamà la lavannara.
Morrovalle, 20 settembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Non saprei.
2
Uccelletti semplici.
3
Gioia.
4
L’antico Ponte Palatino, presso lo sbocco della Cloaca massima, fatto e
rifatto in più epoche, ed oggi esistente soltanto a metà.
5
Scegli.
6
Nome generico di «danari».
106. A Menica-Zozza
1
Oh ccròpite le cosce, ché peccristo
me fai rivommità co quelle vacche!
2
Io sò avvezzo a vedé ffior de patacche
3
a strufinasse
4
pe bbuscacce er pisto.
5
Fa’ a modo mio, si ttu vvoi fà un acquisto
c’a mmoscimmàno
6
te pò stà a le tacche:
7
vatte a ffà ddà tra le nacche e le pacche
8
da cuarche sguallerato
9
de San Sisto.
10
Chi antro vò affogasse in cuel’intrujjo
11
d’ova ammarcite, de merluzzo e ppiscio,
che appesta de decemmre com’e llujjo?
Ma a me! ’gni vorta che ttu bbussi, io striscio,
12
e un po’ un po’ che ciallumo de sciafrujjo,
13
passo, nun m’arimovo, e vvado liscio.
12
Morrovalle, 21 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Sozza.
2
Macchie violacee, prodotte dall’uso del fuoco sulle cosce delle donne.
3
Vulve.
4
Strofinarsi, esibirsi con
moine e carezze.
5
Per essere lavorate.
6
Mosciame, qui per «parti moscie, vizze».
7
Starti a pari.
8
Ne’ luoghi naturali.
9
Ernioso.
10
Ospizio de’ vecchi.
11
Guazzo, pantano.
12
Translati tolti da’ giuochi di carte; cioè: «non corrispondo al
giuoco».
13
107. Li penzieri libberi *
Sonajji, pennolini, ggiucarelli,
e ppesi, e ccontrapesi e ggenitali,
palle, cuggini, fratelli carnali,
janne,
1
minchioni, zebbedei, ggemmelli.
Fritto, ova, fave, fascioli, granelli,
ggnocchi, mmannole,
2
bruggne, mi’-stivali,
cordoni, zzeri, O, ccollaterali,
piggionanti, testicoli, e zzarelli.
Cusí in tutt’e cquattordici l’urioni,
3
pe pparlà in gerico,
4
inzinent’a glieri
5
se sò cchiamati a Roma li Cojjoni.
Ma dd’oggi avanti, spesso e vvolentieri
li sentirete a dí ppuro Cecconi,
pe vvia de scerta mmerda de Penzieri.
6
Pel 1829 (ma scritto a Morrovalle, - De Peppe er tosto
(21 settembre 1831)
* Imitazione del sonetto milanese del Porta: Ricchezz del Vocabolari milanes.
1
Ghiande.
2
Mandorle.
3
Rioni.
4
Gergo.
5
Ieri.
6
L’avvocato Luigi Cecconi ha pubblicato un libercolettaccio sotto il titolo di: Pensieri liberi.
108. Du’ sonetti pe Lluscia
Er primo a llei
Ma ffa’ la pasce tua: nun c’intennemo?
Te parlassi mó in lingua tramontana!
Fa’ la tu’ pace, dico, e ddiscurremo
cor core in mano, uperto, a la romana.
Attorno a un osso in troppi cani semo;
poi tu attanfi
1
’n’arietta
2
de puttana:
dunque iggnuno
3
da sé: cciarivedemo
li quinisci de st’antra settimana.
Ho vorzuto
4
provà: sò stato tosto:
5
ho abbozzato
6
da pasqua bbefania
7
inzino a la madon de mezz’agosto.
Ma ’ggni nodo viè ar pettine, Luscia.
Mó ffa’ li fatti tua, mettete
8
ar posto,
dàjje er zordino:
9
e cchi tte vô tte pía.
10
Morrovalle, 22 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Puzzi.
2
Alquanto.
3
Ognuno.
4
Voluto.
5
Saldo.
6
Pazientato.
7
Epifania.
8
Mettiti.
9
Dargli il sordino: quel sibilo con cui
le meretrici chiamano avventori.
10
E chi ti vuol, ti piglia.
109. Du’ sonetti pe Lluscia
Er siconno a Cremente
Me sento arifiatato! Infinarmente
oggi ho ffatto lo stacco der ceroto,
1
co ttutto che Lluscia, quell’accidente,
facci le sette peste,
2
e ’r terramoto.
Pozzi èsse ammazzataccio chi sse pente,
e sta’ cquieto, che cquì nun ciariscoto:
3
prima voría tajjamme er dumpennente
4
e ffacce
5
un Pe Gge Re
6
come pe vvoto.
Già, è stata la Madonna de l’assunta
che ha vvorzuto accusí ddelibberamme
quanno ero ar priscipizzio in punta in punta.
Ma dd’oggimpoi si azzecco un’antra lappa
7
medema che
8
Luscia, me metto a ggamme;
9
ché a sta vergna
10
che cquì vvince chi scappa.
Morrovalle, 22 settembre 1831 - Der Medemo
1
Il distacco.
2
Faccia il gran romore.
3
Non ci soccombo.
4
Vocabolo tolto dal Dum pendebat dell’inno Stabat Mater.
5
Farci.
6
P.G.R. lettere che si veggono in tutte le tavolette votive, e significano: Per Grazia Ricevuta.
7
Donna scaltra.
8
Eguale a.
9
Fuggo.
10
Qui per intrigo pericoloso.
110. L’inappetenza de Nina
Eh sor dottore mia, che vvorà ddí
che mm’è sparita quell’anzianità
1
che ’na vorta sentivo in ner maggnà,
anzi nun pozzo ppiú addiliggerí?
2
Me s’è mmessa ’na bboccia
3
propio cquì:
ggnisempre ho vojja d’arivommità;
e cquanno, co rrispetto, ho da cacà,
sento scerti dolori da morí.
Perché nun m’ordinate quer zocché
4
che pij Ttuta quanno s’ammalò
pe sgranà
5
ttroppi dorci der caffè?
Oppuramente un po’ d’asscenzo,
6
o un po’
de leggno-santo: ché ar pij ppe mmé
io nun ciò
7
ggnisun scrupolo,
nun ciò.
8
Morrovalle, 22 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Ansietà.
2
Digerire.
3
Un peso, una grevezza, indicando lo stomaco.
4
Quel non so che.
5
Mangiare.
6
Assenzio.
7
Non ci
ho…
8
Difficoltà.
111. La scolazzione
Hai la pulenta? Ebbè? ggnente de male:
eh a sta robba co tté mme sce la stiggno:
1
eppuro, quanno viè lo sbarzo,
2
intiggno,
2a
ciavessi d’aricurre a lo spedale.
Senti, và a nnome mio da lo spezziale
de facciata
3
ar canton de Torzanguiggno,
4
e fàtte
5
un po’ d’acqua de grespiggno
stillata
6
cor un pizzico de sale.
Tu ppijjela a ddiggiuno domatina
ammalappena che tte sei svejjato:
pijjela, e vederai che mmediscina!
Poi maggna puro,
7
e ddoppo avé mmaggnato
bbévete
8
la tu’ bbrava fujjettina,
abbasta
9
che nun zii
10
vino annacquato.
Morrovalle, 22 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Stignarsela con alcuno, vale «vedersela, combattersela».
2
Sbalzo: occasione proprizia.
2a
Da intiggne (intingere), non
da intiggnà (ostinarsi), altro verbo romanesco.
3
Incontro.
4
Tor Sanguigna: nome di una torre e della piazza in cui
sorge.
5
Fatti dare.
6
Distillata.
7
Pure.
8
Beviti.
9
Purché.
10
Non sia.
112. La devozzione der Divin’Amore
Dimenica de llà
1
Rinzo, Panzella,
io, Roscio e le tre fijje der tintore
vòrzimo
2
annà a fà un sciàlo
3
in carrettella
a la madonna der divinamore.
4
Che t’ho da dí, Sgrignappola? co cquella
solina
5
llà che t’arrostiva er core,
eccheme aritornà la raganella,
6
ecco arincappellasse
7
er rifreddore.
Credime, cocca mia,
8
ma dda cristiano
ce direbbe aresie: ch’è ’na miseria
d’avé a stà sempre co ppilucce in mano.
Mó er zemplicista me dà ’na materia
appiccicosa: e un medico brugnano
9
lo ssciroppo de radica d’arteria.
10
Morrovalle, 22 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
La domenica antecedente all’ultima.
2
Volemmo.
3
Scialare vale «sfogarsi in ricreazione».
4
Chiesolina campestre
dove in un giorno del mese di… sono i fedeli condotti dalla divozione a bagordo.
5
Sole ardente e non riparato.
6
Il
rauco del catarro.
7
Rinforzarsi.
8
Mia ben amata.
9
Browniano.
10
Altea.
113. Le spacconerie
1
’Gni sordo-nato dice che ssei l’asso,
2
e vvòrti
3
l’ammazzati co la pala!
Prz,
4
te fischieno, Marco: tiette bbasso:
c’ereno certi frati de la Scala.
5
Te vedo, Marco mia, troppo smargiasso,
6
e cquarchiduna de le tue se sala.
7
Lassa de spacconà, nun fà er gradasso,
e aricordete er fin dé la scecala.
8
A ssentí a tté fai sempre Roma e ttoma:
9
e poi ch’edè? viè spesso e vvolentieri
chi tt’arizzolla
10
e tte ne dà ’na soma.
Ognomo hanno d’avé li su’ mestieri:
chi ffa er boia, chi er re, chi scopa Roma:
sei bbraghieraro tu? ffà li bbraghieri.
Morrovalle, 21 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
«Millanterie»: come spacconà sta per «millantare».
2
Asse: principal carta a vari giuochi.
3
Rivolgi.
4
Il suono del peto.
5
Parte di ciò che si suol dire e cantare a chi millanta, cioè: C’erano certi frati della Scala che dicevano cala cala. - Il
Convento della Scala è in Trastevere, abitato dai Teresiani.
6
Smargiasso, smargiassata, smargiassare, tutti vocaboli
sinonimi di «spaccone», ecc. Se non che lo smargiasso è «un millantatore che al romore delle parole unisce certa
importanza di mimica».
7
Si sala onde fermare la corruzione.
8
A’ ciarloni si ricorda il fine della cicala, che canta canta
e poi crepa.
9
Mari e monti.
10
Ti dà busse.
114. A la Torfetana
1a
Te penzeressi
1
mó, gguercia pandorfa,
2
befana nera, crapa
3
mocciolosa,
faccia da bbiribbisse stommicosa,
fijjaccia de Coviello e dde Margorfa,
4
d’èsse vienuta a Rroma da la Torfa
pe ffà l’impimpinata
5
e la prezziosa?
Eh bbella fijja, sete voi la sposa?
6
Ditesce un po’, se bbatte cqui la sorfa?
7
Ciovetta mia, va’ a ccaccia de franguelli,
ché ss’io sciò, ggrazziaddio, tanta de nerchia,
8
quella tua nun è ggabbia pe st’uscelli.
Scortica, bbrutta arpia, chi tt’incuperchia,
ma pprima de dà a tté li mi’ piselli
9
pozzino addiventà ttanta sciscerchia.
Morrovalle, 23 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1a
Del paese della Tolfa.
1
Ti penseresti.
2
Pandolfa: nome che si per beffe alle donne alquanto passate e goffone.
3
Capra: motto ingiurioso.
4
Personaggi di scena.
5
L’azzimata.
6
Frase di scherno.
7
Espressione di senso laido.
8
V.
Sonetto…
9
Denari.
115. Er partito bbono
E crederessi tu Sartalaquajja
a stelocanna
1
come vò Felisce?
Tratanto l’arimistica,
2
e ffa e ddisce,
3
che ccarza e vveste, magna e bbeve, e scuajja.
4
Lui strilla gnao,
5
lui dorce la fusajja,
6
venne er regolo,
7
bbono pe l’alisce;
raschia li muri, allustra la vernisce,
va a ppesà er fieno e a ccarreggià la pajja.
Uno che nun avessi arte né pparte,
8
pò appettattelo
9
un’antra, nò Artomira,
10
che nun viè ffinta a rrivortà le carte.
Dice er proverbio che chi ammira attira;
11
e un omo, fijja, che ssa ffà ttant’arte,
pò avé in culo ggirone e cchi lo ggira.
12
Morrovalle, 25 settembre 1831 - D’er medemo
1
L’est-locanda è un cartello scritto anche oggidì in carattere gotico, che si appone alle porte delle case da
appigionarsi. Qui è metafora di «vacuità di borsa; povertà».
2
Procaccia con industria.
3
E tanto fa e dice, ecc.
4
Spende
senza economia.
5
Grido de’ venditori di carne di carogne pe’ gatti.
6
Grido di venditori de’ lupini.
7
Nome romano di
un’erba che condisce bene le alici salate.
8
Non sapesse e non possedesse.
9
Appettare: porre in avanti con audacia.
10
Altomira.
11
Chi mira, tira. Metafora presa dalla venatoria.
12
Checchessia e chicchessia.
116. Li culi
Hai visto er mappamonno de l’ostessa?
Búggerela, pezzío!,
1
che vviscinato!
Si cquella se fa mmonica, sagrato,
zompa de posta
2
a ddiventà bbadessa!
Tentela, Cristo!: e, servo de pilato,
si nun m’inchiricozzo
3
pe ddí mmessa
e cconfessà sta madre bbattifessa,
pozzi trovà ’ggni bbuscio siggillato.
Ma chi ssà cche vvertecchio
4
s’aridusce,
si ppoi sce levi quarche imbrojjo attorno?
Nun è ttutt’oro quello c’arilusce.
Ne so
5
ttant’antre, che, all’arzà, bbon giorno!:
6
ma in cammio scianno poi scime de bbusce,
da fà ccrepà pe l’invidiaccia un forno.
Morrovalle, 25 settembre 1831 - D’er medemo
1
Per zio, in cambio di per Dio.
2
Di slancio.
3
Se non mi fo la chierica.
4
L’anello del fuso.
5
Ne conosce.
6
Tutto è
scomparso.
117. Er carcio-farzo
1
Rosa, nun te fidà de tu’ cuggnata:
quella ha ddu’ facce e nun te viè ssincera.
Dimannelo cqui ggiú a la rigattiera
si ccome t’arivorta la frittata.
Stacce a la lerta,
2
Rosa: io t’ho avvisata.
A la grazzia..., bbon giorno..., bbona sera...;
e ttocca la viola:
3
ché a la scera
je se smiccia la quajja arisonata.
4
Sibbè cche
5
(a ssentí a llei) tiè er core in bocca,
fa ddu’ parte in commedia la busciarda,
e vò ddí ccacca si tte disce cocca.
6
Quanno tu pparli, a cchi ttira la farda,
a chi ttocca er piedino: e intanto, ggnocca,
7
tu la crompi pe alisce, e cquella è ssarda.
Morrovalle, 25 settembre 1831 - D’er medemo
1
Tradimento.
2
All’erta.
3
E basta così; e va’ pe’ tuoi fatti.
4
Lei si conosce l’idea di furba, di maligna.
5
Sebbene,
benché.
6
Cuor mio.
7
Semplice che sei.
118. La carestia
Donne mie care, bbuggiaravve a tutte,
ma cc’è troppa miseria de cudrini:
e si a ttenevve drento a li confini
nun ciarimedia Iddio, ve vedo bbrutte.
Oggiggiorno sti poveri paini
1
tiengheno le saccocce accusí assciutte,
che chi aggratis nun pijja er gammautte,
la pò ddà ppe ttrippetta a li gattini.
Oggiggiorno a sta Roma bbenedetta
lo spaccio der Merluzzo è aruvinato,
e nun ze pò ppiú ffà ttanto-a-la-fetta.
Ma ppe vvoi sole er caso è ddisperato;
ché ll’ommini si stanno a la stecchetta
ponno fà ccinque sbirri e un carcerato.
2
Morrovalle, 26 settembre 1831 - D’er medemo
1
Zerbini.
2
Manustuprarsi.
119. Er tisichello
Semo a li confitemini:
1
sò stracco:
me sento tutto ssciapinato
2
er petto:
e si cqua nun famò arto
3
a sto ggiuchetto,
se finisce a Sa’ Stefino der Cacco.
Sta frega
4
de turacci che tte metto,
tu li pijji pe pprese de tabbacco:
ce vôi sempre la ggionta e ’r zoprattacco,
come si er cazzo mio fussi de ggetto.
5
Oggi ch’è festa pôi serrà nnegozzio,
ché lo sa ggni cristiano che la festa
nun è ppe llavorà, mma ppe stà in ozzio.
Manc’oggi? ebbè dduncue àrzete la vesta:
succhia ch’è ddorce. Ma nun zo’ Mammozzio,
si nun t’attacco un schizzettin de pesta.
Morrovalle, 26 settembre 1831 - Der medemo
1
Siamo agli estremi.
2
Malconcio.
3
Fare alto: arrestarsi.
4
Moltitudine.
5
Di metallo fuso.
120. Li protesti
1
de le cause spallate
Hai la coda de pajja,
2
Titta mia:
3
te bbutti avanti pe nnun cascà arreto.
Quanno entrassi alla vigna in ner canneto,
nun me lo poi negà, cc’era Maria.
Ahà, lo vedi, porco bbú-e-vvia?
4
Nun t’attaccà a San Pietro,
5
statte quieto:
er giurà è da bbriccone: ggià a Ccorneto
o cce sto o cciò d’annà pe cquell’arpia.
Che cià cche ffà la storia de Lionferne
5a
co le fufigne
6
tue? fussi gabbiana!
Ste lucciche vôi damme pe llenterne?
7
Bè, và a dí l’istorielle a la tu’ nana.
Và, ppassavia, ché nun te pozzo sscerne;
8
e ssi tte la do ppiú ddimme puttana.
Morrovalle, 26 settembre 1831 - D’er medemo
1
Pretesti.
2
Chi ha la paglia, sempre teme non gli si abbruci: proverbio che dimostra il fare di chi sentendosi in
fraude, si scopre col troppo studio di difendersi.
3
Giovambattista mio. Il pronome segue per analogia l’ultima lettera
del nome.
4
Cioè Porco bu e quel che resta.
5
Non ispergiurare.
5a
Oloferne.
6
Trappole, contrabbandi.
7
Lucciole per
lanterne.
8
Non posso soffrirti. Modo venuto dal napolitano.
121. La lettra de la Commare
Cara Commare. Piazza Montanara,
1a
oggi li disciannove der currente.
Ve manno a scrive che sta facciamara
de vostra fijja vò pijjà
1
un pezzente.
Poi ve faccio sapé che la taccara
morse, in zalute nostra, d’accidente:
e l’arisposta sò a pregavve cara -
mente a dàlla alla torre
2
der presente.
Un passo addietro.
3
Cquà la capicciola
curre auffa,
4
mannandove un zaluto
pe pparte d’Antognuccio e Lusciola.
Me scordavo de divve, si ha ppiovuto
che sta lettra nun pò passà la mola,
come, piascenno a Dio, ve dirà el muto.
Titta nun ha possuto;
e con un caro abbraccio resto cquane
vostra Commare Prascita Dercane.
5
A l’obbrigate mane
de la Signiora Carmina Bberprato,
Roccacannuccia, in casa der curato.
Morrovalle, 26 settembre 1831 - Der medemo
1a
In Piazza Montanara, presso l’antico Teatro di Marcello, siedono alcuni scrivani o segretari in servizio de’ villani
dello Stato, che ivi si radunano, particolarmente le feste, per aspettare occasioni di vendere la loro opera pe’ lavori
delle campagne romane; questi segretari hanno certa tassa per le varie lunghezze di lettere, le più preziose delle quali
sono le dipinte a cuori trafitti, sanguinolenti e infiammati.
1
Sposare.
2
Al latore.
3
Frase usata spessissimo dagli indòtti,
i quali nel discorso hanno obliata qualche circostanza.
4
La bavella va a vil prezzo. Sull’auffa, a ufo, vedi il sonetto…
5
Placida del cane.
122. La guittarìa
1
Sonetti 2
1° — Cacaritto a Cacastuppini
Guitto
1
scannato,
2
e cché!, nun te conoschi
d’êsse ar zecco,
3
a la fetta
4
e a la verdacchia?
5
Stai terra-terra come la porcacchia,
6
abbiti a Ardia
7
in casa Miseroschi.
Ha spiovuto,
8
sor dommine, la pacchia
9
d’annà in birba,
10
burlà, e gguardacce loschi.
11
Mo arrubbi er manichetto a Ppuggnatoschi,
12
maggni a bbraccetto,
13
e bbatti la pedacchia.
14
De notte all’osteria de la stelletta,
15
de ggiorno ar Zole;
16
e cquer vinuccio chiaro
17
che bbevi, viè a stà un cazzo
18
a la fujjetta.
Mostri ’na chiappa, un gommito e un ginocchio;
e chi tte vò, fa ccapo all’ammidaro
a li greghi,
19
a l’inzegna der pidocchio.
20
Morrovalle, 26 settembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Miseria, miserabile.
2
Senza danari.
3
Essere in secco.
4
Essere alla fetta: vivere assegnato per povertà.
5
Essere al
verde, rovinato.
6
Erba porcellana.
7
Ardea, antica città del Lazio. Essere ad Ardea: ardere.
8
È finito.
9
Il comodo.
10
Andare in tresca o in cocchio.
11
Guardarci bieco.
12
Manico e pugno; qui si parla di onanismo. Poniatovski dicevasi in
Roma Pugnatoschi.
13
Mangiare a braccetto, a braccio: cibarsi magramente e senza neppure apparecchiare la mensa.
14
Pedacchia: via di Roma. Batter la pedacchia: andare a piedi.
15
Dormire alla bella stella, vale «allo scoperto».
16
Altra osteria di Roma. Metafora consimile.
17
Acqua.
18
Non costa nulla alla foglietta.
19
Essere all’amido, all’amidaro:
essere fallito. Presso la chiesa di S. Anastasio dei Greci era un mercante di amido.
20
Pidocchio: si prende per simbolo
della miseria.
123. La guittarìa
2° (co la coda)
Risposta de Cacastuppini a Cacaritto
Sò un pò spiantato: ebbè? nnun me vergoggno
de dillo a ttutto er monno a uno a uno.
Mejjo pe mmé: cussí nun ho bbisogno
d’imprestà ddiesci pavoli a ggnisuno.
Nun te crede però;
1
ché cce sbologgno:
2
sò conosce er Panbianco
2a
dar panbruno:
e nnun m’intraviè
3
mmai, manco in inzoggno,
d’annà a la cuccia a stommico a ddiggiuno.
E vvoi che ffate l’ammazzato
4
ar banco
de Panza er friggitore a Ttiritone,
5
conosscete er panbruno dar Panbianco?
2a
V’annerebbe
6
un boccon de colazzione?
Ve rode er trentadua?
7
Ve sfiata er fianco?
7
Le bbudelle ve vanno in priscissione?
Sete voi che a ppiggione
tienete lassú a Ttermini er palazzo
8
dove s’appoggia
9
e nun ze spenne un cazzo?
Quer landào
10
pavonazzo,
è robba crompa
11
in ghetto, oppuramente
12
scarti de Bonsiggnor Viscereggente?
13
Un accicí ccor dente,
14
sor ricacchio
15
de fijjo de puttana,
lo mettete ar cammino a la bbefana?
16
Quella porca mammana
v’avessi ssciorto subbito er bellicolo,
camperessivo mó ssenza pericolo
d’avé l’abbiffa ar vicolo
de li tozzi,
17
e d’annà, ppe piú ccordojjo,
a sbatte er borzellino in Campidojjo.
18
Co ssale, asceto e ojjo,
fateve un’inzalata de cazzocchi,
19
che vve ponno costà ppochi bbajocchi.
Sò rradiche pell’occhi
20
che cor un po’ de fréghete
21
suffritto
fanno abbozzà
22
er cristiano
23
e stasse
24
zitto.
Dico, eh sor Cacaritto,
si vve bbattessi mai la bbainetta,
volete che vve manni una sarvietta?
25
La povera Ciovetta,
quanno annerete poi da monziggnore,
26
v’ariccommanna de cacavve er core.
Morrovalle, 27settembre 1831 - De Peppe er tosto medemo
1
Non credere però, non prendere abbaglio.
2
Ci vedo.
2a
Panbianco: uomo stolido.
3
Non mi accade.
4
Far
l’ammazzato: patire desiderio innanzi a qualche cosa.
5
Tritone. Fontana in Piazza Barberini.
6
V’appetirebbe.
7
Avete
fame?
8
Istituto di carità alle Terme Diocleziane.
9
Appoggiare, in senso neutro: «darsi a spese altrui».
10
Vestito.
11
Comperata.
12
O pure.
13
Vicegerente.
14
Un accidente.
15
Germoglio.
16
Si usa esporre al camino della casa i denti che
cadono a’ bambini onde la Befana vi sostituisca qualche moneta.
17
Gola.
18
In Campidoglio sono le carceri dei
debitori, i quali dalle inferriate sporgono alcune borsette all’estremità di una canna, per avere elemosina da chi passa.
19
Ironia di mazzocchi. Un cazzo vuol dir «nulla».
20
Dicesi che il nulla è buono per gli occhi.
21
Alteramento malizioso
del vocabolo fegato.
22
Cagliare.
23
L’uomo.
24
Starsi.
25
Equivoco romanesco di saetta.
26
Sinonimo ironico di cesso.
124. Er tempo bbono
Dimani, s’er Ziggnore sce dà vvita,
vederemo spuntà la Cannelora.
1
Sora neve, sta bbuggera è ffinita,
c’oramai de l’inverno semo fora.
2
Armanco sce potemo arzà a bbon’ora,
pe annà a bbeve cuer goccio d’acquavita.
E ppoi viè Mmarzo, e se pò stà de fora
a ffà ddu’ passatelle
3
e una partita.
St’anno che mme s’è rrotto er farajolo,
m’è vvienuta ’na frega
4
de ggeloni
e pe ttre mmesi un catarruccio solo.
Ecco l’affetti
5
de serví ppadroni
che ccommatteno er cescio cor fasciolo,
6
sibbè, a sentilli,
7
sò ricchepulloni.
8
In legno, da Morrovalle a Tolentino: - D’er medemo
28 settembre 1831
1
La Candelaia.
2
Dicesi in Roma: Quando vien la Candelora , dall’inverno siamo fuora; lo che con altri due mesi di
giunta si verifica sempre.
3
Specie di giuoco, che consiste nel ber vino: vino che sì e chi no, con certe leggi.
4
Una gran
quantità.
5
Effetti.
6
Combattere il cecio col fagiuolo: essere di assai magre fortune.
7
Sentirli.
8
Ricchi Epuloni: frase
tolta dal Vangelo.
125. Er decane e er chirico
Te pare un cazzo a ssapé ffà er decane?
E io te dico che cce vô ppiú ccosa
a ffà st’arte indiffiscile e ggelosa,
che a sserví mmesse e a ffà ssonà ccampane.
Tu cquanno hai contentato ste puttane
de le moniche tue, vàtte a rriposa;
ma ppe nnoi sce vô ttesta talentosa
pe rregge in zala e ppe nun perde er pane.
Distribbuí er zervizzio a la famijja,
tiené er reggistro de visite e gguardia,
barcamenà la madre co la fijja,
passà imbassciate, arregge er cannejjere,
fà er tonto, spar mmance, fasse d’Ardia,
e mmorí in zanta pasce cor braghiere.
In legno, da Morrovalle a Tolentino: - Der medemo
28 settembre 1831
126. Quarto, alloggià li pellegrini
Ahú, bbocchin de mèle, occhi de foco,
faccia de perzicuccia de Scandrijja!
1
Faressi in nner tu’ letto un po’ dde loco
a sto povero fijjo de famijja?
Nun te ne pentirai, perch’io sò ccoco,
e in ner tigàme assaggerai ’na trijja
scojjonata
2
pe tté, ggrossa e vvermijja,
che in de la panza te farà un ber gioco.
Mòvete a ccompassione d’un regazzo
iggnud’e ccrudo,
3
senza casa e ttetto,
tu che mmetti li cònzoli in palazzo.
Se raccapezza inzomma sto buscetto,
già che mmó è nnotte, e cqui nun vedo un cazzo
4
che t’impedischi d’arifajje er letto?
A Valcimara, 28 settembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Scandriglia è un paese della Sabina rinomata per grosse e saporose pesche, dette a Roma pèrziche.
2
Formazione
maliziosa di un vocabolo equivoco, la cui perifrasi sarebbe nata di scoglio o sopra di scoglio.
3
Così dicesi di chi non
ha attorno che cenciolini.
4
Equivoco di nulla.
127. Er zervitore in zala
«Chi è?» «Amici». «Favorischi puro:
1
Entri drento, lustrissimo». «Addio, Tacchia».
«Oh ggente! sto paino
2
c’aricacchia,
3
lui mette er chiodo, e la padrona er muro.
4
Er povero sor Conte st’osso duro
nun vorrebbe iggnottillo,
5
ma ss’abbacchia.
6
Già cc’ha arzato le penne de cornacchia,
nun vò ffà rride er monno, io me figuro.
Pe mmé nnun parlo mai, perch’ho pprudenza:
che ssi vvolessi dí, cce n’ho, Mmadonna!,
d’empinne un cassabbanco
7
e ’na credenza.
Bbasta, l’amico ch’è mo entrato, affonna;
8
lui
9
abbozza;
10
ma llei ch’è dde cuscenza,
a uno la fa cquadra e all’antro tonna».
11
A Valcimara, 28 settembre 1831 - De Peppe er tosto
1
Pure.
2
Zerbino.
3
Ricacchiare vale «risbocciare, ricomparire dopo essersi alquanto dilungato».
4
Metafora indicante
intrigo carnale.
5
Inghiottirlo.
6
Si accomoda, cede, abbassa l’umore.
7
Panca ove si assidono i servi nelle sale.
8
dentro.
9
Lui, assolutamente nella bocca de’ servi, vale sempre «il padrone», come in quella delle mogli significa «mio
marito».
10
Questo verbo corrisponde perfettamente al senso dell’endurer dei francesi.
11
Farla tonda, cioè «farla
pulita», inganna entrambi.
128. È tardi
1
Ma che te vôi sônà, si nun zei bbona
manco a mmaneggià er pifero a la muta?!
Ma che te vôi ggiucà, mmó cche pportrona
nun zai bbatte ffà la ribbattuta?!
2
Ma che tte vôi succhià, Ciucciamellona,
3
si nun risputi mai quanno che sputa?!
Ma che tte vôi sperà?! Nun zai, cojjona,
che nun l’ajjuta Iddio chi nun s’ajjuta?
Datte l’anima in pace; e li pelacci
che nun ponno vedé piú mmarachelle,
4
sarvali pe rrippezzi de setacci.
5
E si pporta-leone
6
nun t’arrubba,
un tammurraro
7
te vò ffà la pelle,
pe rrimette li fonni a ’na catubba.
8
In legno, da Valcimara al ponte della trave.
D’er medemo - 28 settembre 1831
1
Tutto questo sonetto è una continua serie di modi proverbiali, metafore ed equivoci relativi al giuoco de’ sessi.
2
Translati dal giuoco del pallone.
3
Baccellona.
4
Contrabbandi.
5
Stacci.
6
Becchieri di carogne destinate a pasto di gatti.
7
Tamburaio.
8
Grancassa della banda militare.
129. Er purgante
Cuanno cuela bbon’anima d’Annotta
ebbe l’urtima frebbe e stiede male,
pe avé ll’ojjo de ríggini
1
che sbotta
2
vorzi curre da mé dda lo spezziale.
E cco la cosa
3
ch’er Cumpar Natale
m’ha ttienuto a bbattesimo Carlotta,
acquàsi ne cacciò mmezzo-bbucale,
e mme lo vorze dà ffresco de grotta.
Ma cch’edè e cche nun è,
4
du’ ora doppo
lei sentí ggran dolori a le bbudella,
e scaricò tamanto de malloppo.
5
E ppoi da mmerda in merda, poverella,
bbisogna dí che ll’ojjo fussi troppo,
morze, salute a nnoi, de cacarella.
6
In legno da Valcimara al ponte della trave:
De Peppe er tosto - 28 settembre 1831
1
Olio di ricino.
2
Scarica.
3
Pel motivo.
4
Espressione di sorpresa per cosa imprevista.
5
Massa di materie.
6
Cacaiuola.
130. Un mistero spiegato
Ce sò a sto monno scerte teste matte
de cristianacci che nun hanno fede,
che vonno attastà tutto e ttutto véde:
1
ddi’ Ssantomassi inzomma e ppappefatte.
Ste testacce che ar muro le pòi sbatte
prima peccristo che le vedi scède,
2
c’averemo da entrà nun zanno créde
3
tutti drento a la Val-de-Ggiosaffatte.
Ma io che ho ffede e cche nun zò ccojjone
je fo vvedé ch’entrà ttutti sce ponno,
portannoje a ccapí sto paragone.
Ch’io cqui ddereto in cuer buscetto tonno
ciò ssito d’alloggià ttante perzone
cuante n’ha rette e ne pò arregge er monno.
In legno da Valcimara al ponte della trave,
De Pepp’er tosto - 28 settembre 1831
Imitazione del sonetto in dialetto milanese del Porta: Gh’è al mond di cristian tant’ostinaa, ecc.
1
Vedere.
2
Cedere.
3
Credere.
131. Lo scarpinello vojjoso de fà
Starebbe ccqui dde casa una largazza,
1
che jje dicheno Ciscia Scola-nerbi?
Ebbè, io sò lo scarpinel de piazza,
mastro Grespino de-li-culi-ascerbi,
2
che jj’ho da mette un paro de spunterbi
3
a ’na su’ sciavattella
4
pavonazza;
e doppo je dirò cquattro proverbi,
s’in ner lavore mio nun me strapazza.
Presempio: Omo incazzito
5
è un merlo ar vischio.
La donna è un cacciator de schiopperete
6
che vva a ccaccia cojjoni senza fischio.
Pelo de sorca, gola de crastato,
7
ugna de gatto,
8
e cchirica de prete,
quanno pisceno a letto, hanno sudato.
9
Fuligno, 29 settembre 1831 - Der medemo
1
Storpiamento maligno di ragazza.
2
Era in roma un sodomista (abate), così detto dal piacergli le primizie.
3
Rattoppamenti di pelle alle scarpe usate: qui è anfibologia.
4
Ciabattella, ecc.
5
Infoiato, preso da una donna.
6
Schioppa e rete son riunite onde produrre una parola ingiuriosa.
7
Castrato: musico.
8
Ladro.
9
Hanno sempre la scusa
del fatto.
132. Er poscritto
1a
Quela bbona limosina
1
d’Irena
m’ha mmesso a tterra m’ha, mm’ha arruvinato.
Quanno a mmarenna, quanno a ppranzo e a ccena,
le pennazze dell’òcchi m’ha maggnato.
E ggià che mm’è arimasto er core e ’r fiato,
(sia bbenedetta Maria grazzia prena)
pe nnun dormí la notte a la serena
me toccherà ingaggiamme pe ssordato.
Tra ccarne e ccorne, e ttra ttant’antri guai,
me sce mancava adesso er tiritosto
2
der chivvalà cche nun l’ho ddato mai.
Abbasta, si mme vôi,
3
passa dar posto
de Scimarra,
4
e llí ssú mme vederai
co la cuccarda der mezz’ovo tosto.
5
In legno, da Fuligno alle Vene - De Peppe er tosto
29 settembre 1831
1a
Coscritto.
1
Quel cattivo soggetto.
2
La giunta.
3
Se mi vuoi.
4
Caserma del Palazzo Cimarra.
5
Coccarda pontificia,
mezza bianca e mezza gialla che pe’ suoi colori e la disposizione di essi imita la sezione di un uovo lesso,
perpendicolarmente all’asse maggiore.
133. Che core!
Scannello, er mascellaro c’ha bbottega
su l’imboccà ddell’arco de pantani,
nun basta che ssu’ mojje nu la frega,
la vò ppuro trattà ccome li cani.
Li mejjo nomi sò pputtana e strega:
la pista a manriverzi e a ssoprammani:
e arriva a la bbarbària che la lega
peggio d’un Cristo in man de luterani.
E ddoppo dà de guanto ar torciorecchio
e jje ne conta senza vede indove
quante ne pò pportà ’n’asino vecchio.
E ttratanto er governo nun ze move,
e llassa fà che cco sto bbello specchio
naschino sempre bbuggiarate nove.
In legno. Dalle Vene a Spoleto - Der medemo
29 settembre 1831
134. Er cornuto
Ch’edè, sor testicciola de crapetto?
Da sí cche
1
vvostra mojje annò a Ssan Rocco,
2
avete arzato un’aria de sscirocco
e un muso duro da serciate
3
in petto!
Parlo co vvoi, eh sor cacazibbetto:
4
volet’êsse chiamato cor batocco?
Co ttutto che
5
ssapemo de lo stocco
che ttienete agguattato in ner corpetto.
Sor pioviccica
6
mia, qui nun ce piove:
potressivo cavavve la frittella:
7
tanto avete la testa in Dio sa ddove.
Ma lo sapemo che ttienete quella
drento a la torre de Capo-de-bbove
coll’antra de Sciscilia Minestrella.
8
A Strettura la sera de’ 29 settembre 1831
De Peppe er tosto
1
Da quando.
2
Ospedale per le donne che vogliono partorire segretamente.
3
Selciate.
4
Presso i Romaneschi significa
uomicciattolo di niun conto, o ragazzaccio.
5
Benché.
6
Nome di scherno.
7
La berretta.
8
Il sepolcro di Cecilla Metella
sulla via Appia è chiamato Capo-di-bove per motivo de’ crani bovini che vi sono scolpiti d’attorno.
135. Nozze e bbattesimo
Sò cquattro mesi sette giorni e un’ora,
si
1
tt’aricordi, che pijjassi
2
mojje;
e già a cquesta je viengheno le dojje
e un mammoccetto vò pissciallo fora?!
Cancheri che ppanzetta fijjatora!
Si ssempre de sto passo je se ssciojje,
te sfica tanti fijji quante fojje
ponno bbuttà le scerque
3
a Ssantafiora.
4
Beato te cche vedi a sti paesi
certi accidenti novi de natura
che nun ponno vedé mmanco l’Ingresi!
Uà:
5
cch’è stato?! Nun avé ppaura.
Un’ora sette ggiorni e cquattro mesi
sò passati, e vviè fora la cratura.
A Strettura, la sera de’ 29 settembre 1831
De Peppe er tosto
1
Se.
2
Pigliasti.
3
Querce.
4
Tenimento.
5
Il grido de’ bambini.
136. La stiticheria *
Rosa der froscio
1
sò ’na bbagattella
de sei ggiorni e ssei notte che nun caca.
Io je l’ho ddetto: «Pijja la trïaca».
2
M’hai dato retta tu? Bbe’, accusí cquella.
Ma un giorno o ll’antro l’hai da véde bbella
quanno da oro se farà
3
ttommaca.
4
Allora quer zor corna-de-lumaca
der marito je soffi a la bbarella.
Io lo vedde iersera a Ssant’Ustacchio
che stava sbattajjanno der piú e ’r meno
sur un ciorcello
5
e sur un mezz’abbacchio.
Je fesce:
6
«Eh, dico, o de pajja o de fieno,
sibbè cche Rrosa nun pò pprenne un cacchio,
7
voi er budello lo volete pieno».
Ivi, etc. D’er medemo
A Strettura, la sera de’ 29 settembre 1831
* Stitichezza.
1
Tedesco.
2
Teriaca.
3
Diverrà.
4
Tombacco.
5
Fascio di viscere di bestie minute.
6
Gli dissi.
7
Nulla.
137. La risìpila
1
Ho vvorzuto dà un zompo cquì ar Bisscione
2
pe vvède come stava Cudicuggno,
che se tiè ’na risìpila da ggiuggno
pe pportà lo stennardo in priscissione.
Poveraccio! fa ppropio compassione.
Pare c’ar naso ciàbbi avuto un puggno.
L’occhi nun je se vedeno, e cor gruggno
somijja tutto-quanto a un mascherone.
Beve er tremor de tartero in bevanna;
e ’ggni ggiorno je fanno un lavativo
d’acqua de fonghi, capomilla e mmanna.
Uhm!, pe mmé, buggiarallo; ma si arrivo
a vedello guarito, lo condanna
er brodo de marvone e ssemprevivo.
Ivi, etc. D’er medemo
A Strettura, la sera de’ 29 settembre 1831
1
La resipella.
2
Piazza o via del Biscione.
138. Un’immriacatura sopr’all’antra
Voi sapé cche ccos’è cche jje dà in testa
ar fijjo de la mojje de Pascuale?
Vôi sentí cche ccos’è cche jje mmale?
Sta cosa sola: er zugo de l’agresta.
1
Sii vino bbono, o mmezza-tacca,
2
o ppesta,
nun ze n’esce mai meno d’un bucale.
Je fa er vin de Ripetta,
3
er padronale
4
bbasta je monti a ingalluzzí la cresta.
Er zu’ padrone jerassera aggnede
a mmétteje su in mano un cornacopio,
perch’era notte e cce voleva vede.
Nun ze lo fesce cascà ggiú? cché proprio
era arrivato,
5
e ss’addormiva in piede
come avessi maggnato er Grano d’opio.
6
In legno da Strettura a Terni, De Peppe er tosto
30 settembre 1831
1
Il vino.
2
Di mezzana qualità.
3
Il porto minore del Tevere, dove viene un cattivo vino di Sabina.
4
Vino de’ magazzini
padronali.
5
Ubbriaco perfetto.
6
Errore derivato in alcuno della plebe dall’udire ordinarsi grani di oppio.
139. Le bbevanne pe llui
E ppe cquer panza gonfia de spedale,
pe cquer mulo futtuto, eh sora Nanna,
ve sciannate a spregà sto fior de manna?
Fidateve de me, voi fate male.
Che vvino furistiero e vin nostrale!:
dateje da ingozzà bbrodo de jjanna:
1
dateje vin de fregna che lo scanna
a sto gruggno de vesta d’urinale.
Cosa bbeveva cuanno da regazzo
scardazzava la lana a sammicchele?
2
Acqua de pozzo e vvino de melazzo.
3
Pe mmé ddirebbe
4
un zuccherino, un mele
cuanno se dassi a sto faccia de cazzo,
come a nnostro Signore, asceto e ffele.
Ivi 30 settembre 1831 - D’er medemo
1
Ghianda.
2
Discolato da ragazzi.
3
Così è chiamata una mela selvatica, sempre aspra ed acerba. Quindi «vino acre».
4
In quanto a me, direi.
140. A chi soscera e a chi nnora
1
Pe llui vin de castelli,
2
e ppe mme asceto:
duncue a llui tutta porpa, e a me tutt’osso:
lui sempre a ggalla, io sempre in fonno ar fosso:
bella ggiustizia porca da macchieto!
3
M’ho da fà mmette un po’ de mane addosso,
ficcammelo a su’ commido dereto;
e ppoi puro in catorbia,
4
e stamme quieto:
cose, peddío, da diventacce rosso!
5
Lui ha d’aringrazzià ddio bbenedetto
ch’io sò cristiano, e nun ho ccore cquane
6
de fà mmale nemmanco a un uscelletto.
M’abbasteria c’a sto fijjol d’un cane
l’accoppassi un ber furmine in guazzetto:
accusí cce pò intigne un po’ de pane.
In legno, da Strettura a Terni, De Peppe er tosto
30 settembre 1831
1
Chi preferito, chi posposto.
2
Il vino de’ castelli, cioè de’ paesi circonvicini a Roma, qui è stimato il migliore.
3
Da
macchia, da ladri.
4
Carcere.
5
Rosso di furore.
6
Qua, in petto.
141. La Compagnia de li servitori
1
Saette puro a st’antra gargottara:
m’intenno de Sant’Anna in borgo-Pio.
Pare che ttutto, cuanno sce sò io,
s’abbi da sfotte
2
e dda finí in caggnara.
S’aveva da crompà du’ par de para
de lampanari e mmazze da un giudio:
oggni fratello vorze
3
fà una tara,
e ssore mazze e llampanari addio.
L’orgheno sfiata: nun ce sò ccannele:
li bbanchi sò tarlati attorno attorno:
s’hanno d’arippezzà ttutte le tele...
Ebbè, se sciarla, e nun ze striggne un corno.
Già, ddisce bbene er Mannatar Micchele:
co ttanti galli nun ze fa mmai ggiorno.
Terni, 30 settembre 1831 - D’er medemo
1
Ogni arte, mestiere e condizione di uomini, ha in Roma la sua confraternita.
2
Da scomporre.
3
Volle.
142. Le tribbolazione
Questo pe Cchecco: in quanto sii poi Teta,
nun me la pôzzo disgustà, ssorella.
Biggna
1
che mme la còccoli,
2
ché cquella
sa ttutte le mi’ corna dall’A ar Zeta.
L’ho dda sbarzà?!
3
Tte la direbbe bbella!
E indove ho da mannàmmela? A Ggaeta,
dove le donne fileno la seta,
e ll’ommini se spasseno a ppiastrella?
Iddio che nun vô ar monno uno contento
me l’ha vvorzuta dà ppe ccrosce mia,
perch’io nun averebbe antro tormento.
Con chi l’ho da pijjà? ’ggna che cce stia
e che ddichi accusí, mettenno drento:
4
fiàtte volontà stua e cussí sia.
Terni, 30 settembre 1831 - D’er medemo
1
Bisogna.
2
Coccolare: lusingare, piaggiare, accarezzare, ecc.
3
Balzar via.
4
Nascondendo il rancore.
143. Er padre pietoso
Dàjje anza tu, ffa’ cquer ch’Iddio t’ispira,
ma ppoi nun te lagnà cquer che ddiventa.
Quanno in casa uno tira e ll’antro allenta,
un giorno ha da viení che sse sospira.
Povera Nina tua tribbola e stenta
pe smorbinallo, e ttu jj’attizzi l’ira!
Quanno in casa uno allenta e ll’antro tira,
se frigge un ber pasticcio de pulenta.
Si un remo scede quanno l’antro incarca,
doppo fatto un tantin de mulinello
se va a ffà bbuggiarà ttutta la bbarca.
Viè sur passo a Ripetta oggi a vedello:
eppoi di’ a cquer zomaro de la Marca
che cchi cconsijja l’antri abbi sciarvello.
Terni, 30 settembre 1831 - D’er medemo
144. Girolamo ar Cirusico de la Conzolazzione
Servo, sor Tajjab e la compaggnia!
Ché, annate a ffà un giretto ar culiseo?
A pproposito, è vvero che Mmatteo
v’ha mmannato Noscenzo
1
a la curzía?
2
Avessi creso
3
a le parole mia
che jje disse quann’era er giubbileo,
nun ze saría mo ttrovo in sto scangèo
4
de fàsse scortellà pe ggallaria.
5
Ma ggià che cc’è ccascato in ner malanno,
adesso, sor Cirusico mio caro,
l’ariccommanno a vvoi, l’ariccommanno.
Nun l’avete da fà pe sto somaro,
ma pe cquelle crature che nun cianno
ggnente che ffà ssi er padre è un cicoriaro.
6
Terni, 1 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Innocenzo.
2
Corsia dell’ospedale.
3
Se avesse creduto.
4
Guaio.
5
Per ischerzo.
6
Stizzoso, permaloso.
145. Er galantomo
E cquer grugno de scimminivaghezzi
1
dell’orzarolo, m’accusò ppe mmiscio!
2
Poi ha vvorzuto
3
arippezzalla
4
er griscio,
5
ma li rippezzi sò ssempre rippezzi.
Io l’ho avvisato che nun ce s’avvezzi
a rifamme
6
mai ppiú sto bbon uffiscio,
si nun vô ssotto ar casaccone biscio
7
portà le spalle com’e pperi-mezzi.
7a
Pe mmé nun zo che ggente mai sò cquelle
che ppòzzi
8
arillegralle
9
e fajje gola
er fà ar prossimo suo ste sciampanelle.
9a
Una cosa perantro me conzola,
che ssi de tante e ppoi tante quarelle
10
me n’hanno provo
11
dua, grasso che ccola!
12
Terni, 1 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Vedi son…
2
Micio: gatto, ladro.
3
Voluto.
4
Rappezzarla.
5
Nome che si agli orzaruoli.
6
Rifarmi.
7
Bigio.
7a
Pesti:
colla e stretta come avvezzi.
8
Possa.
9
Rallegrarle.
9a
Per «sotterfugi».
10
Querele.
11
Provato.
12
È abbondante, ne avanza.
146. A li caggnaroli sull’ore calle
Bastardelli futtuti, adess’adesso
si nun ve la sbiggnate
1
tutti quanti,
viengo giú, ccristo!, e vve n’ammollo
2
tanti,
tutti de peso e cco la ggionta appresso.
Che sso! mmai fussim’ommini de ggesso,
da piantà llí cco la fronnetta avanti!
Guarda che sconciature de garganti!
3
Fùssiv’arti
4
accusì ttanto è l’istesso.
È ggià da la viggilia de Sanpietro
che vve tiengo seggnati uno per uno
pe ggonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat’Iddio, fijjacci de nisuno,
pregat’Iddio d’arisfassciamme un vetro,
e vvedete la fin de sto riduno.
Terni, 1 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Sbignarsela: andar via.
2
Ve ne do.
3
Uomini di fieri modi.
4
Alti così: mostrando una misura con alzare una mano da
terra.
147. Le stizze cor regazzo
1
Nun me vò ppiú ppijjà? cche se ne stia.
E ppe cquesto mó ccasca ponte-rotto?
Nun me vò ppiú? Vadi a fà ddàsse
1a
un bôtto:
nun m’è ssonata a mmé la vemmaria.
Sò ssempre fijja de l’azzione mia:
sò zzitella onorata, e mme ne fotto.
Mó cche sto in lista a la dota der lotto,
chi nnò la madre me darà la fia.
De scerto me sciammalo! e ssò ccapasce
de stiracce le scianche da la pena,
Dio l’abbi in grolia, e requieschiatt’in pasce.
Dijje intanto pe mmé: «Llena mia Lena,
sto core sta in catena»; e ssi jje piasce,
che ll’ho in ner culo, e cche ll’aspetto a ccena.
Terni, 1 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Amante.
1a
Vada a farsi dare.
148. L’incontro cor padrone vecchio
«Sor Conte...» «In grazia, chi?...». «Vostr’accellenza
che! nun m’ariffigura?» «...Non m’inganno...».
«Tăccāgna». «Ah, sì: e di dove?» «Da Fiorenza».
«Che siete stato a farvi?» «Er contrabbanno».
«Buono!. Ed or...?» «Servo er Papa». «In quale essenza?»
«De sordato». «E da quanto?» «Eh, mmuffalanno».
1
«In qual’armi servite?» «Culiscenza,
2
Reggimento Canajja
3
ar zu’ commanno».
«Cioè?» «Guardia-d’onor-de-pulizzia».
«Corpo di poco onor». «Ma cce se maggna».
«Dunque, siete contento». «Eh, ttiro via».
«Dove state?» «A Marittimo-e-Ccampagna».
4
«Ma ora?» «Sto in promesso
5
a ccasa mia».
«Ed abitate sempre... » «A la Cuccagna».
6
«Addio, dunque, Taccagna».
«Voria bascià la mano...». «Oh! un militare!
Nol permetterò mai». «Come ve pare».
Terni, 1 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Mo fa l’anno: è un anno.
2
Con licenza.
3
Dall’epoca della rivolta del 1831 è stata organizzata una milizia di bravi
papalini anfibia tra il soldato e il birro, la quale ha ottenuto dai popoli il nome di Regimento-Canaglia.
4
Marittima e
Campagna: provincia a sud-est di Roma.
5
In permesso.
6
Così è detta una estremità della gran Piazza Navona, già
Circo di Alessandro Severo, e ciò, come si vuole, perché ivi si eseguiva in tempi non remoti il giuoco detto della
Cuccagna.
149. Er zìffete
1
Cuanto saría mejjo pe vvoi, sor tappo,
2
d’ariscode le vostre
3
e pportà via:
o mommò li cojjoni io ve l’acchiappo
pe llevamme ’na bbella fantasia.
Che vvolete ggiucà che vve li strappo,
e cce fo un fritto de cojjoneria?
E ddoppo, tela, gamme in collo,
4
e scappo
e vve li vado a rricrompà
5
in Turchia.
Ma ggià, che sserve de bbuttà sta spesa,
cuanno sc’è mmodo e verso d’aggiustalla,
senza arrischiavve a cantà er grolia in chiesa?
Ché o vve se vienghi a rrifilà
6
una palla,
o ttutt’e ddua, nun ze pò favve offesa,
tanto
7
è una marcanzía tutta la bballa.
Terni, 1 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Taglio risoluto.
2
Uomo di bassa statura.
3
Di riscuotere le vostre busse.
4
Tela e gambe in collo, vale: fuggire.
5
Ricomperare.
6
Rifilare, non da nuovamente filare, ma da sottrarre, ecc.
7
Tanto, qui vale: poiché, ad ogni modo.
150. Abbada a cchi ppijji!
Santi
1
che va a strillà cco la cariola
2
nocchie rusicarelle
3
e bbruscoletti,
4
che jer l’antro sce diede li confetti
pe avé ppresa la fijja de Sciriola;
dio s’allarga,
5
peddio, la fischiarola!,
6
come vorze
7
infroscià
8
li vicoletti,
s’impiastrò immezzo a un lago de bbrodetti,
de cuelli che cce vô lla bbavarola.
Ecco cuer che succede a ttanti ggnocchi
che nun zanno addistingue in ne l’erbajja
le puntarelle
9
mai da li mazzocchi.
Donna che smena
10
er cul com’una cuajja,
11
se
11a
mozzica
12
li labbri, e svorta
13
l’occhi,
si
13a
pputtana nun è, ppoco la sbajja.
Terni, 1 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Nome d’uomo.
2
Carriuola.
3
Nocchie infornate.
4
Semi di zucca salati e poi abbrustoliti.
5
Espressione imitativa di
«Dio sagrato».
6
Tutto questo verso è una comune esclamazione romanesca.
7
Volle.
8
Penetrare.
9
Insalata fatta dal tallo
di cicoria presso all’insemenzire.
10
Dimena.
11
Quaglia.
11a
Si.
12
Morde.
13
Volge.
13a
Se.
151. La schizziggnosa
1
Nun te vôi fà ttoccà? Vatte a fà oggne.
2
Tiette sù, ttiette sù,
3
pòzz’esse fritta!
Nun ze sapessi che tte lassi moggne
4
dar bocchino bbavoso der zor Titta!
Caso mai fussi perché ttiengo l’oggne,
5
mó ppropio me le tajjo a la man dritta.
Manco?! accidenti a tutte le caroggne.
Saettacce a ’ggni scrofa che ss’affitta.
Senti come sa ffà la mozzorecchia,
quante ne sa inventà pe ffasse arreto
6
sta scolatura de pilaccia vecchia!
Te vorrebbe aridusce
7
cor un deto
8
ch’er piú ppezzo
9
de té fussi un’orecchia
fonno de morchia, visscido
10
d’asceto.
Terni, 1 ottobre 1831
1
Schizzinosa.
2
Ungere. «Và in malora».
3
Tienti in sussiego.
4
Mungere.
5
Unghie.
6
Per rifiutarsi.
7
Ridurre.
8
Dito.
9
Che il più grosso pezzo.
10
Viscidume.
152. L’imprestiti de cose
Nīna: Nīnă. Ah, de carta! Oh Nīnă: Nīnă.
Indove sei, pôzzi morí crepata?
De scerto sta pettegola capata
ha da stà su in zoffitta o ggiú in cantina.
Te vienghi ’na saetta foderata,
dove se’ ita tutta stammatina?
Già in zónzola, se sa, co la viscina,
senza nemmanco dimme si’ ammazzata.
E mo nun me ce ride?! quant’è ccara!
Alò, damme ’na scursa qui ar macello,
e, si cc’è, ddi’ accusí a la macellara:
«Sora Diamira, ha dditto accusí mamma
che je mannate er vostro filarello
ché a cquello suo je s’è rotta ’na gamma».
Terni, 2 ottobre 1831 - D’er medemo
153. Vonno cojjonatte e rrugà!
1a
Jer l’antro ebbe
1b
d’annà a li ggipponari
1
pe ruscì
1c
verzo punta-de-diamante,
2
a crompamme un corpetto da un mercante,
che, disce Sgorgio, nu li venne cari.
Er padrone era ito a li ssediari
3
a cercà un tajjo de pelle de Dante.
C’era un giovene
4
vecchio, ma ggargante
5
da fatte saccheggià li cortellari.
Io je disse de damme sto corpetto;
e cquer faccia de grinze a mossciarella
6
me ne diede uno che nemmanco in ghetto.
Io bbúttelo
7
pe tterra. Er zor Brighella
se scalla er pisscio:
8
io te l’agguanto
9
in petto.
E ssai come finí? Cco la bbarella.
Terni, 2 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1a
Ingannarti.
1b
Ebbi.
1
I giubbonari, contrada dove si vendono giubboni ed altre vesti ordinarie per lo più da contadini.
1c
Riuscire.
2
Luogo speciale di detta contrada.
3
Altra contrada di Roma.
4
Garzone di bottega.
5
Di mala fede.
6
Castagna infornata.
7
Per concepire bene questo modo, conviene figurarsi che l’interlocutore dica a se stesso: buttalo,
ecc.
8
Si accende di collera.
9
Lo afferro.
154. Me ne rido
E da capo Maghella! A ssentí a tté
chi nun diría che mm’hanno da impiccà?
Oh cammínete a ffà strabbuggiarà:
male nun fà, pavura nun avé.
E che mme frega li cojjoni
1
a mmé
si
2
er bariscello
3
me sce vò acchiappà?!
Prima, cristo!, che mm’abbi da legà,
l’ha da discurre cor un certo ché.
Anzi, come lo vedi, dijje un po’
che Peppetto lo manna a rriverì,
pregannolo a risceve un pagarò.
Questo è de scentodua chicchericchì,
4
che si me scoccia piú li C, O, cò,
presto se l’averà da diggerì.
Terni, 2 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Che mi cale.
2
Se.
3
Bargello.
4
Parola insignificante, che talora si prende per «galletto». Qui per «colpi di un uomo
imbizzarrito»
155. Li cancelletti
1
Ma cchi ddiavolo, cristo!, l’ha ttentato
sto pontescife nostro bbenedetto
d’annàcce
2
a sseguestrà ccor cancelletto
quella grazzia-de-ddio che Iddio scià
3
ddato!
La sera, armanco,
4
doppo avé ssudato,
s’entrava in zanta pace in d’un buscetto
5
a bbeve
6
co l’amichi
7
quer goccetto,
e arifiatà
8
lo stommico assetato.
Ne pô ppenzà de ppiú sto Santopadre,
pôzzi avé bbene
9
li mortacci sui
e cquella santa freggna de su’ madre?
Cqui nun ze
10
fa ppe mmormorà, ffratello,
perché sse
10
sa cch’er padronaccio è llui:
ma ccaso lui crepassi,
11
addio cancello.
12
Terni, 2 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Leone XII fece porre alle porte delle bettole un cancello onde per mezzo a quello si spacciasse il vino, ed alcuno non
si fermasse dentro a bere. Così tutti bevevano per le strade, con non minorazione di scandalo.
2
Andarci.
3
Ci ha.
4
Almeno.
5
Buchetto.
6
Bere.
7
Con gli amici.
8
Ristorare.
9
Possano aver bene.
10
Si.
11
Nel caso ch’egli crepasse.
12
Di fatti
Pio VIII, successore di Leone, fece tor via i cancelletti, de’ quali in certi rioni il popolo fece tanti falò.
156. Er vino
Er vino è ssempre vino, Lutucarda:
indove vôi trovà ppiú mmejjo cosa?
Ma gguarda cquì ssi cche ccolore!, guarda!
nun pare un’ambra? senza un fir de posa!
Questo t’aridà fforza, t’ariscarda,
te fa vviení la vojja d’esse sposa:
e vva’,
1
si mmaggni ’na quajja-lommarda,
2
un goccetto e arifai bbocc’odorosa.
È bbono asciutto, dorce, tonnarello,
solo e ccor pane in zuppa, e, ssi è ssincero,
te se confà a lo stommico e ar ciarvello.
È bbono bbianco, è bbono rosso e nnero;
de Ggenzano, d’Orvieto e Vviggnanello:
ma l’este-este
3
è un paradiso vero!
Terni, 3 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
E ve’, e vedi.
2
Sterco.
3
Celebre è la storia dell’est est est di Montefiascone.
157. Er matto da capo
Sonetti 2
Sai chi ss’è rriammattito? Caccemmetti:
e ’r padrone, c’ha ggià vvisto la terza,
l’ha mmannato da Napoli a la Verza,
1
pe rrifajje passà ccerti grilletti.
Lí pprincipiò a sgarrà tutti li letti,
dava er boccio
2
a la dritta e a la riverza:
ma mmó ttiè tutte sciggne pe ttraverza,
e ccià er muro arricciato a cusscinetti.
Che vvôi! Nun t’aricordi, eh Patacchino,
che ggià jje sbalestrava er tricchettracche
3
sin da quanno fasceva er vitturino?
Che ccasa! Er padre e ddu’ fratelli gatti;
4
la madre cola,
5
e ttre ssorelle vacche:
e ttra ttutti una manica de matti.
Terni, 3 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Aversa.
2
Il capo.
3
Il cervello.
4
Ladri.
5
Spia.
158. Er matto da capo
Er cavarcante novo der Marchese
è aritornato in giú co li cavalli,
e ha rriccontato che da quasi un mese
er matto dà li luscid’intervalli.
Eh, ggià sse sa cc’a mmostaccioli, a bballi,
mattería, maccaroni e mmal francese,
se sa che a ttrippa verde e a ggruggni ggialli
nun c’è da stacce appetto antro paese.
E ppe cquesto ho ppaura ch’in nemmanco
de ’n’antra settimana ar cucchieretto
j’è aritornato ar posto er fritto-bbianco.
1
Ma inziememente ancora sce scommetto,
si ppassa da cassetta ar cassabbanco,
2
che vva da capo a svorticasse er tetto.
3
ivi, etc. Terni, 3 ottobre 1831- Der medemo
1
Cervello.
2
Dalla scuderia alla sala.
3
A voltarsi la testa.
159. Una disgrazzia
Stammatina a San Neo Luca er facocchio
s’è arrisicato a sen mmessa accanto
a cquer ladraccio d’usuraro santo,
che cquanno schiatta hai da sentí lo scrocchio!
Ecchete a l’improviso a sto santocchio,
ch’è ccatarroso a nun poté dì cquanto,
j’incomincia la tossa, e, in tossì tanto,
bloà, schizza a Luca un’ostrica in un occhio.
Luca che vvede er lampo e sente er botto
tutt’in un corpo assieme co l’impiastro,
attaccato un perdio je se fa ssotto.
E, ssi nun era quer portapollastro
der chirico, coll’ojjo der cazzotto
metteva er boccio in un gran brutto incastro.
Terni, 3 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
160. L’invidiaccia
Uhm! bella, bbella! cuanno è ’na scert’ora,
nun è ppoi Nastasía tutto st’oracolo.
1
È ccento vorte piú bbella Lionora,
e ggnisuno la tiè per un miracolo.
Cos’ha dde raro? Er culo è ’no spettacolo,
tiè ddu’ occhi de gatto e un dente in fora:
e ddillo tu si nun è un antro stàcolo
2
cuer fiato puzzolente che tt’accora.
Nun fo ppe ddí, ma cco sta donna bbella,
co sta puttana, co sto pezzo raro
nun ce bbaratterebbe una sciafrella.
3
Sai cuer che mm’hai da dí, Nofrio mio caro?
Che ssi ha vvent’anni soli a la bbardella,
4
ruga co la bbellezza der zomaro.
5
Terni, 3 ottobre 1831 De Pepp’er tosto
1
Rarità.
2
Altro ostacolo.
3
Ciabatta.
4
Sul dorso.
5
Cioè «colla gioventù». Proverbio.
161. Puro l’invidiaccia
Nun ce vò mmica l’argebra a ccapillo
pe ccosa Nofrio mette in celo a cquesta
donna bbissodia,
1
e jje fa ttanta festa,
bbè cche, ssiconno me, vale uno strillo.
2
Vienghi una scimmia co la scuffia in testa,
lui subbito ce mette ostia e siggillo:
3
e a cquesta vonno (nun sta bene a dillo)
j’abbi sgrullato er farpalà
4
a la vesta.
Co ddu’ parole ecchete ssciorto er nodo
de Salamone: e, ssenz’avecce rabbia,
de vedello incescito,
5
anzi sce godo;
mó llui zappa sta Vènera, e la stabbia;
ma ppresto, a ffuria d’aribbatte er chiodo,
s’ha da trovà come l’uscello in gabbia.
6
Terni, 3 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Nome di scherno, tolto dal da nobis hodie.
2
Un nonnulla.
3
Ci si attacca; vuol pórci del suo.
4
Sgrullà er farpalà
(scuotere il falbalà), vale «conoscere carnalmente». Il falpalà è a Roma «la guarnizione inferiore d’una sottana».
5
Imbalordito.
6
Proverbio.
162. La machina lèdrica
Oggi quer zeppo de Padron Zarlatta,
lui coll’antro bbidello a la Sapienza
che ddietr’ar collo tiè tanta de natta,
m’hanno fatto portacce una credenza.
Ce sta lí drento una gran rota, senza
razzi, tra du’ cusscini, e ttutta fatta
de vetro; e pe bbarile cià in cusscenza
quer manico c’ha ll’omo in de la patta.
Come se fa, nun n’ho capito un ette:
ma ddicheno che avanti a ’na colonna
serve a ccompone furmini e ssaette.
Eppuro paghería, corpo de Nonna,
de sapé cquanno ggiucheno a ttresette
si er primo è mmaschio e la siconna è ddonna.
Terni, 3 ottobre 1831 - Der medemo
163. Er comparato e commarato
La santarella appiccicata ar muro,
la bbizzochella de commare Checca
da tre ggiorni me cúnnola
1
e mme lecca;
2
ma io nun gonfio,
3
e mme sò messo ar duro.
Ce fa la gonza,
4
e mme sce tiè a lo scuro,
come vienissi adesso da la mecca!
Si
5
bbastone nun è ssarà battecca,
ma mme l’ha ffatta o la vô ffà ssicuro.
Ghiggna,
6
me fa la ronna,
7
se
8
strufina,
arza l’occhi, l’abbassa, se
9
tiè er fiato,
che ppare er gioco de passa-e-ccammina.
Ma ppoi se
10
sa la fin der Comparato:
cor un piggnolo e un po’ de passerina
11
è ffatto er connimento a lo stufato.
Terni, 3ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Mi fa vezzi.
2
Mi lusinga.
3
Non secondo.
4
La semplice.
5
Se.
6
Sorride.
7
Ronda.
8, 9, 10
Si.
11
I due strumenti della
generazione.
164. Er Ziggnore, o vvolemo dì: Iddio
Er Ziggnore è una cosa ch’è ppeccato
sino a ccredese indegni
1
de capilla.
Piú indiffiscile è a noi sto pangrattato,
1a
che a la testa de david la sibbilla.
2
A Ssanta Potenziana e Ppravutilla,
3
me diceva da ciuco er mi’ curato
ch’è ccome un fiàt, un zoffio, una favilla,
inzomma un vatt’a-ccerca-chì-tt’-ha -ddato.
4
E ppe spiegamme in tutti li bbuscetti
si ccome
4a
Iddio ce se trova a ffasciolo,
5
metteva attorno a ssé ttanti specchietti.
Poi disceva: «Io de cqui, vvedi, fijjolo,
faccio arifrette tutti sti gruggnetti:
eppuro
6
è er gruggno d’un Curato solo».
Terni, 3 ottobre 1831 – D’er medemo
1
Degni.
1a
Un atto qualunque; qui per «atto d’intelletto».
2
«Teste David cum Sybilla».
3
Chiesa.
4
Parole che si
profferiscono al giuoco della gatta ceca.
4a
Se come, semplicemente «come».
5
A pennello, esattamente.
6
Eppure.
165. La creazzione der Monno
L’anno che Ggesucristo impastò er monno,
ché pe impastallo ggià cc’era la pasta,
verde lo vorze
1
fà, ggrosso e rritonno
all’uso d’un cocommero de tasta.
Fesce un zole, una luna, e un mappamonno,
ma de le stelle poi, di’ una catasta:
sù uscelli, bbestie immezzo, e ppessci in fonno:
piantò le piante, e ddoppo disse: Abbasta.
Me scordavo de dì che ccreò ll’omo,
e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva;
e jje proibbì de nun toccajje un pomo.
Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti,
strillò per Dio con cuanta vosce aveva:
«Ommini da vienì, ssete futtuti».
Terni, 4 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Volle.
166. lndovinela grillo
1
Tu mm’addimanni
2
a mmé ssi
3
ffu pputtana
a li su’ tempi la casta Susanna.
Che vvôi che t’arisponni
4
a sta dimanna?
Bisoggnerebbe dillo
5
a la mammana.
Ma ccerto cuella vorta che in funtana
l’acchiapponno
6
li bbocci
7
a la lavanna,
se pô rride
8
d’accusa e de condanna
ch’entrassino
9
li lupi in de la tana.
Che vvôi che sse fascessi
10
de du’ vecchi
co cquelle sscimmesscimme-cose-mossce?
Nun je la vorze
11
dà: díllo, e cciazzecchi.
12
Ma ssi
3
la donna tu la vôi conossce,
métteje
13
avanti un par de torciorecchi,
eppoi guardeje
13
er gioco de le cossce.
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Giuoco di sorti.
2
Dimandi.
3
Se.
4
Risponda.
5
Dirlo.
6
Acchiapparono.
7
Vecchi.
8
Si può ridere.
9
Entrassero.
10
Facesse.
11
Volle.
12
C’indovini.
13
Mettile, guardale.
167. L’innamorati
Semo da capo. Hai detto tante vorte
che pe tté nun c’è ar monno antro che Gghita.
Sempre ggiuri e spergiuri che la morte
sola pe mmé te pò llevà la vita.
E ggià scassi, e arïochi
1
la partita,
e m’aritorni a ffà le fuse-torte.
2
Ma io cojjona carzata e vvestita
che mme fido d’un cane de sta sorte!
Mamma bbè mme lo fesce er tu’ ritratto,
discenno c’avé ar core scento stilli
è mmejj’assai che mmette amore a un matto.
Ma zzitto, zitto: che sserve che strilli?
Già lo so er bene tuo si ccome è ffatto:
è ffatto quanno a tordi e cquanno a ggrilli.
Terni, 4 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Ripeti.
2
Corna.
168. Er pane casareccio
Hai fatto er pane in casa
1
eh pacchiarotta?
2
parla, racchietta
3
mia friccicarella.
4
Perch’io t’allumo
5
ccqui sta bbagattella
de patume
6
all’usanza de paggnotta.
La pasta smaneggiata viè ppiú jjotta,
7
dunque lasseme dà
8
’na manatella;
9
eppoi fàmme assaggià la sciumachella
10
c’hai ’nniscosta llí ggiú ccalla che scotta.
Io te do in cammio
11
un maritozzo
12
fino
de scerta pasta scrocchiarella
13
e ttosta
che nun te la darebbe un cascherino.
14
Sto maritozzo a mmé ccaro me costa,
e tte lo vojjossenza un quadrino:
15
anzi de ppiú cciabbuscherai la posta.
Terni, 4 ottobre 1831 – D’er medemo
1
Fare il pane in casa, dicesi di una donna che abbia petto abbondante.
2
Donna paffuta.
3
Bella e geniale giovane.
4
Che
move l’estro.
5
Ti veggo, ti discopro.
6
Carname.
7
Ghiotta.
8
Lasciami dare.
9
Un colpo di mano.
10
Vedine il senso al
Sonetto…
11
Cambio.
12
Pasta condita con olio, zucchero, uve passe, finocchi, anaci, e cotta al forno. Vedine il
significato, nel nostro caso, al Sonetto…
13
Croccante.
14
Garzone di fornaio.
15
Gratis.
169. Er Culiseo
Quest’era pe la ggiostra e li fochetti
come se fa oggiggiorno da Corea.
1
C’ereno attorno ccqui ttutti parchetti,
lassú er loggiato, e immezzo la pratea.
Eppoi fàtte inzeggnà da Mastr’Andrea
er butteghin de chiave e dde bbijjetti,
er caffè pe ggelati e llimonea,
e scale, e rrimessini, e ttrabbocchetti.
Oh, la viacrusce l’hanno messa doppo,
perché li Santi martiri ccqui spesso
c’ebbero da ingozzà ccerto ssciroppo.
Co un po’ de sassi e un po’ de carcia e ggesso,
lassa che jje se dii quarche arittoppo
e un’imbiancata, e ppô sserví anc’adesso.
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Anfiteatro Corèa (annesso al palazzo della famiglia di questo nome) fondato sulle sostruzioni del mausoleo
d’Augusto.
170. Er Culiseo
E nnò ssortanto co mmajjoni e ttori
ccqui se ggiostrava, e sse sparava botti,
ma cc’ereno cert’antri galeotti
indifferenti dalli ggiostratori.
Se chiamava sta ggente Gradiatori
e ll’arte loro era de fà a ccazzotti.
Ste panzenére co li gruggni rotti
daveno assai da ride a li Siggnori.
Un de sti bbirbi, e mme l’ha ddetto un prete,
cuscinò
1a
cor un puggno un lionfante,
eppoi se lo maggnò, ssi cce credete!
Je danno nome o Melone o Rugante:
1
ma, o ll’uno o ll’antro, mai
1b
tornassi
1c
a mmete
2
nu lo vorrebbe un cazzo appiggionante.
Terni, 4 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Milone, o Creugante.
1a
Uccise.
1b
Se mai.
1c
Tornasse.
2
Mietere, per «divorare».
171. Santo Toto a Campovaccino
Nun c’è da repricà: ll’antichi puro
ereno bboni e ppopolo devoto.
Pregaveno li santi addoss’ar muro
de scampalli da guerra e tterremoto.
Si de sto fatto nun vôi stà a lo scuro,
oggi fascemo un tantinel de moto,
e annamo a un tempio antico de sicuro
che sse seguita a ddí dde Santo Toto.
1
Quanno le cose, Pippo, le dich’io,
t’hai da capascità che ssò vvangeli,
ché tu cconoschi er naturale mio.
Ner mi’ ovo, ehèe, nun ce sò ppeli;
e tte saprebbe a ddí ssi ccome Iddio
fesce pe ffrabbi li sette-sceli.
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Antico tempio di Vesta, oggi di S. Teodoro.
172. L’oche e li galli
Ar tempo de l’antichi, in Campidojjo,
dove che vvedi tanti piedestalli,
quell’ommini vestiti rossi e ggialli
1
c’ingrassaveno l’oche cor trifojjo.
Ecchete che ’na notte scerti galli
viengheno pe ddà a Roma un gran cordojjo:
ma ll’oche je sce messeno uno scojjo,
ché svejjorno un scozzone de cavalli.
Quell’omo, usscito co la rete in testa
e le mutanne sole in ne le scianche,
cacciò li galli e jje taj la cresta.
Pe cquesto caso fu che a ste pollanche
er gran Zenato je mutò la vesta,
ch’ereno nere, e vvorze fàlle bbianche.
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
I così detti Fedeli del Campidoglio. Vedi la nota… del Sonetto…
173. La Salara de l’antichi
Viscino ar Culiseo,
1
tra li cantoni
de li fienili de Padron Vitale,
’Ggnazzio, sce troverai sette stanzioni,
c’abbiteressi mejo a lo spedale.
Vonno che llí, si nun ho inteso male,
a cquer tempo de ddio de li Neroni
se fascessi la frabbica der zale
2
pe cconní le coppiette
3
e li capponi.
E mmó mme viè un’idea! che llí, per bacco,
chi ssa che nun ce fussi er zito puro
pe ttutto er magazzino der tabbacco?
4
Guasi guasi lo tiengo pe ssicuro:
ma mmo cche vvado a ricuscimme un tacco,
5
per dina che lo so, ssi mme ne curo.
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Colosseo.
2
Sono le così dette Sette-Sale, già terme erette da Tito sull’Esquilino, sopra una porzione della casa di
Nerone: donde si vuole che Raffaello Sanzio trasse l’idea de’ suoi ornati delle Logge Vaticane. I Romaneschi sono
molto propri a confondere il sale, con le sale.
3
Polpette.
4
Unitamente a quelle del sale va in oggi amministrata la
regalia de’ tabacchi.
5
Taccone. I ciabattini, i calzuolai e i barbieri sono i dottori della plebe.
174. L’arco de Campovaccino, cuello in qua
Cuello che tte viè in faccia mezzo nero
cuanno se’ appiede de la cordonata,
1
è ll’arco lui de Sittimio s’è vvero,
2
ché pò esse che ssii ’na bbuggiarata.
Oh vvedi che ccrapiccio de penziero,
vedi si cch’idea matta sconzagrata,
de nun annallo a ffrabbicallo intiero,
ma co una parte mezza sotterrata!
E nun t’hai da ficcà nner cucuzzolo
3
ch’io te viènghi cquì a ddì ’na cosa ssciàpa
4
e a ddatte ’na stampella pe mmazzòlo.
5
Me l’aricordo io che nnun zò rrapa
6
che pprima se vedeva un arco solo,
e ll’antri dua ce l’ha scuperti er Papa.
7
Terni, 4 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Appié del Campidoglio, sull’ingresso del Foro Romano, detto oggi Campovaccino o Foro Boario.
2
Settimio Severo.
3
Capo.
4
Scipita.
5
Gruccia da civetta.
6
Stupido.
7
Pio VII vi disotterrò la metà inferiore di quest’arco, interrata delle
vecchie rovine.
175. Roma capomunni
Nun fuss’antro pe ttante antichità
bisognerebbe nassce tutti cquì,
perché a la robba che cciavemo cquà
c’è, sor friccica
1
mio, poco da dí.
Te ggiri, e vvedi bbuggere de llí:
te svorti, e vvedi bbuggere de llà:
e a vive l’anni che ccampò un zocchí
2
nun ze n’arriva a vvede la mità.
Sto paese, da sí cche
3
sse creò,
poteva fà ccor Monno a ttu pper tu,
sin che nun venne er general Cacò.
4
Ecchevel’er motivo, sor monzú,
che Rroma ha perzo l’erre,
5
e cche pperò
de st’anticajje nun ne pô ffà ppiú.
Terni, 5 ottobre 1831 - Der medemo
1
Nome di scherno.
2
Un non-so-chi.
3
Da quando.
4
Principio della Repubblica Francoromana.
5
Perdere l’erre: perdere
il di sopra, la importanza, e i simili.
176. Le scorregge
1a
da naso solo
Che odor de puzza! Puhf! Loffe
1a
ariposte!
Avvisi sordi de scorreggia
1a
muta!
Senti si
1
cche pprofumi d’ovatoste!
E pporti st’acqua de melissa, eh Tuta?
Ner cul de ’na piluccia ggiú dall’oste,
fatte pistà un tantin d’erba fottuta,
co ’na pera spadona in de le coste,
seme de tuttocazzo, ojjo, ajjo e rruta.
Sò mmano-sante
2
puro
3
un manganello,
una stanga de porta de cantina,
o una cavola presa a un caratello.
La prima tù a ssentí sta cantarina
4
sei stata? A cquesto c’è un proverbio bbello,
che disce: Cunculina cunculina…
5
Nun fà
6
l’innocentina:
quanno dereto a nnoi tôna o llampeggia,
se
7
dice chiaro: ho ffatto una scorreggia.
Terni, 5 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1a
Peti.
1
Se.
2
Rimedi miracolosi.
3
Pure.
4
Cantaro, per «fetore».
5
Concolina, concolina chi la fa, la sente prima.
6
Non
fare.
7
Si.
177. Le scorregge
1a
da naso e da orecchie
Nun ce pijjate un cazzo
1
pe sta tossa
che vve sfiata le canne all’orghenetto?
Pe ccarità, che ssi vve passa in petto,
la bbava ggialla se pò ttiggne rossa!
Povera sor’Usebbia! Un’antra sbiossa
2
che vve sturi, dio guardi, er cuccometto,
nun ze
3
pô mmai sapé, vve s’empie er letto
d’inguento cavarcato a la disdossa.
Bbasta, si ccaso ve scappassi un raschio
senza liscenza delli suprïori,
fa bbene er latte de l’uscello
4
maschio.
Anzi a mmé mm’è vvienuto oggi de fori
un lavativo, ch’è capace, caschio!
5
de schizzavvelo inzino all’interiori.
Co questi arifreddori
nun z’ha da perde tempo; Usebbia mia:
bisogna dajje dietro e ttirà vvia.
Terni, 5 ottobre 1831 - D’er medemo
1a
Peti.
1
Nulla.
2
Una specie di spellicciatura rotta, ecc.
3
Si.
4
V. Sonetto…
5
Interiezione.
178. Le scurregge che se curreno appresso
Gran contrasto de venti oggi se sente:
ciaddomina perantro lo scirocco!
Guarda come cquà e llà scappa la ggente
pe ppaura ch’er tempo arzi lo scrocco!
Ma er temporale nun sarebbe ggnente
sino che le campane hanno er batocco:
er malann’è che st’arie d’accidente
1
ponno appestacce in barba de san Rocco.
Lo so bbè io, che mme ce sò incontrato
dove un lebbeccio straportò una pesta
propio de quelle da levatte er fiato.
Se stava a la parrocchia, e ffu de festa:
e lo pò ddí la serva der curato,
ché cquer vento j’arzò ssino ha vesta!
Terni, 5 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Equivoco d’Occidente.
179. Le forbiscette
Si tte bbastarda l’animo de fallo,
mulacciame sta scarpa, bbella fijja;
ché ssu sto deto me sc’è nnato un callo
piú ttosto der tu’ corno de famijja.
Sto callaccio ’ggni tanto m’aripijja,
e nun me so arisorve de tajjallo.
Ammalappena ho ffatto un par de mijja,
me te dà ccerte fitte che ttrabballo.
Tu che in logo de lingua hai ne la bbocca
lo stuccio d’un bon par de forbiscette,
me serviressi tu, bbella pasciocca?
Sfileme li carzoni e le carzette
pe ppreparatte a ffà cquer che tte tocca;
eppoi doppo ggiucamo a ccaccia e mmette.
Terni, 5 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
180. Li dottori
Sta somaraja che ssa scrive e llegge,
sti teòlichi e st’antre ggente dotte,
saria mejjo s’annassino a ffà fotte
co li su’ libbri a ssôno de scorregge.
Oh vvedi, cristo, si cche bbella legge!
Dà le corne a li spigoli la notte:
1
sudà l’istate come pperacotte:
e l’inverno p’er freddo nun arregge!
2
Er vento bbutta ggiú, ll’acqua t’abbagna,
te cosce er zole; e, ppe ddeppiú mmalanno,
senza er priffete
3
un cazzo
4
che sse maggna!
E cco ttutti li studi che sse sanno,
a sta poca freggnaccia de magaggna
nun cianno
5
mai da rimedià nun cianno!
Terni, 6 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Batti la testa ai cantoni pel buio.
2
Non reggersi.
3
«Danaro»; così detto da’ plebei, e da altri il pliff, per imitazione del
suono che rende nel cadere sotto il conto.
4
Equivale ad una negativa. Devesi pronunziare battendo con vigore la
lettera a.
5
Ci hanno.
181. La musica
In ner mentre aspettavo si er padrone
volessi la carrozza o ttornà a ppiede,
stavo all’apparto de li bbusci
1
a vvede
’na fetta de commedia a Ttordinone.
De llí a un po’ venne sú dda lo scalone
un paino scannato
2
pe la fede,
discenno a un antro: «Nun lo vonno crede,
ma a Ddavide
3
nun c’è ppiú pparagone.
La vorta che ffu cquì prima de questa,
cacciava, come ttutti li tenori,
note de petto, e mmó ssolo de testa».
«Dunque, dimanno scusa a llorziggnori»,
io fesce
4
allora, «tutta sta tempesta
la potrebbeno fà ll’arifreddori».
Terni, 6 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Stare all’appalto de’ buchi: spiare attraverso le fessure e i buchi delle chiavi.
2
Uno zerbino di pochi soldi.
3
Il tenore
Giovanni David.
4
Io dissi.
182. La frebbe
1
Quanno pe vvia de cari la leggna
er viggnarolo me mannò a la viggna,
lui stava fora, e cc’era la madreggna
’na stacca
2
vedovella da gramiggna.
Quer commido der cazzo e de la freggna
ce messe
3
vojja de grattà la tiggna.
Che bbella notte! Ma cquell’aria indeggna
m’attaccò ppoi ’na mmalatia maliggna.
Sai che mme disse quer dottor da roggna
che vvà dar zempriscista a la cuccaggna?
4
«Quì cc’è una bbona frebbe!, e nnun bisoggna...».
Ma io, pe nnun sentí ll’antra compaggna,
te l’azzittai
5
ccusì: «Ssora caroggna,
la frebbe è bbona? annàtevel’a mmaggna».
Terni, 6 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Febbre.
2
Puledra.
3
Mise.
4
Contrada di Roma.
5
Lo quietai.
183. Er medico
Vôi sapé cchi è sto medico dell’oggna,
1
ch’io nun faria castracce una castaggna?
È cquer tufo,
1a
quer fijjo de caroggna,
che vvenne ccqui da Strongoli a ppedaggna,
1b
Principiò, ppe strappalla,
1c
a ddà l’assoggna
2
a le bbastarde
3
de piazza de Spaggna:
poi cor un ciarlatano annò a Bbirboggna
a ffà le paste frolle
4
de Raffaggna.
5
E ppe l’appunto ar fatto de la viggna,
diventato dottore de la Zzuggna,
6
era tornato a mmedicà la tiggna.
Fu allora che ppe via de la caluggna
che llui diede a la mi’ frebbe maliggna,
te j’atturai la bbocca co sta bbruggna.
7
Terni, 6 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Dell’unghia: medico da nulla.
1a
Zotico.
1b
A piedi.
1c
Procacciare la vita alla meglio.
2
Dar la sugna: blandire, star
d’attorno ad alcuno per fini particolari.
3
Specie di cocchio, e figlie di meretrici che avevano asilo e immuni nelle
giurisdizioni del Palazzo di Spagna. Da vari anni ne sono state eliminate. Insomma, il nostro dottore faceva in origine
il ruffiano.
4
Lavoratore di paste frolle: agire con artificio e malizia.
5
Frode.
6
Parola insignificativa, che sta per
«nulla» e si profferisce talora nelle esclamazioni d’impazienza. Oh la zugna!
7
Brugna, per «risposta a proposito».
184. Caino
Nun difenno Caino io, sor dottore,
ché lo so ppiú dde voi chi ffu Ccaino:
dico pe ddí che cquarche vvorta er vino
pò accecà l’omo e sbarattajje er core.
Capisch’io puro che agguantà un tortore
1
e accoppacce un fratello piccinino,
pare una bbonagrazia da bburrino,
2
un carciofarzo
3
de cattiv’odore.
Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
e a le su’ rape je sputava addosso,
e nnò ar latte e a le pecore d’Abbele,
a un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
aveva assai da inacidijje er fele:
e allora, amico mio, tajja ch’è rosso.
4
Terni, 6 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Pezzo di ramo di albero.
2
Contadino romagnolo.
3
Calcio falso: tradimento.
4
Frase usata per esprimere l’abbandono
di ogni riguardo od esitazione. È metafora presa dal tagliare i cocomeri.
185. Er vino novo
Noè, vvedenno in ne la viggna sua,
ch’era cas’-e-bbottega
1
ar zu’ palazzo,
la vita a spampanasse,
2
c’un rampazzo
pesava armeno una descina o ddua,
se spremé in bocca er zugo de quell’ua,
e ddisse: «Bbono, propio bbono, cazzo!»
Ma nun essenno avvezzo a sto strapazzo,
n’assaggiò ttroppo, e cce trovò la bbua.
Quer zugo inzomma fesce a llui lo scherzo
che ffa adesso a noantri imbriaconi
stramazzannoce in terra de traverzo.
E ccome lui cascò ssenza carzoni,
ne la sagra scrittura ce sta un verzo
che disce: E mmostrò er cazzo e lli cojjoni.
Terni, 6 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Vicina.
2
Spampanarsi: allargarsi.
186. Er gran giudizzio de Salamone
Tu inzomma te lo spenni pe sbrillacco
1
er giudizzio che ffesce Salamone?
Io sce voría vedé l’Abbate Sacco,
2
o er presidente nostro de l’urione!
3
Tramezzo a ddu’ donnacce cannarone,
4
zuppo,
5
arrochito,
6
sscelonito,
7
stracco,
pe ttirà ffora er torto e la raggione
com’aveva da fà? Vvenne a lo spacco.
Perché, ttu dichi, nun guardò ar casato
e ar nummero dell’anno e dder millesimo
in tutt’e ddua le fede der Curato?
Ecco mó indove io te darebbe er pisto!
Dunque t’arriva novo, eh?, cche er battesimo
fu, doppo, un’invenzion de Ggesú Cristo?
Terni, 7 ottobre 1831
1
Bislacco.
2
Il giudice privativo de’ poveri mercenarii. Si chiama sempre l’abate Sacco, dal nome o dal primo che
esercitò quella magistratura, o di uno che vi si distinse.
3
Rione.
4
Gridatrici con gran voce.
5
Bagnato, per «sudato».
6
Rauco.
7
Stordito.
187. La Ritonna
Sta cchiesa è ttanta antica, ggente mie,
che cce l’ha ttrova er nonno de mi’ nonna.
Peccato abbi d’avé ste porcherie
da nun essesce
1
bbianca una colonna!
Prima era acconzagrata a la Madonna
e cce sta scritto in delle lettanie:
ma doppo s’è cchiamata la Ritonna
pe ccerte storie che nun zò bbuscíe.
Fu un miracolo, fu; pperché una vorta
nun c’ereno finestre, e in concrusione
je dava lume er buscio de la porta.
Ma un Papa santo, che ciannò in priggione,
fesce una Croce; e ssubbito a la Vorta
se spalanco da sé cquell’occhialone.
2
E ’r miracolo è mmóne
3
ch’er muro cò cquer buggero de vôto,
se ne frega de sé
4
e dder terremoto.
Terni, 7 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Esserci.
2
Credenza popolare.
3
Mo: ora.
4
Si ride di se stesso.
188. Sant’Ustacchio
Sto scervio co sta crosce e co sta bboria
ch’edè?
1
Babbào!
2
ciazzeccherai dimani.
Viè cquà, tte lo dich’io: cuesta è ’na storia
der tempo de l’aretichi pagani.
T’hai duncue da ficcà nne la momoria
c’a li paesi lontani lontani
sant’Ustacchio era un Re, ddio l’abb’in gloria,
3
c’annava a ccaccialepri
4
co li cani.
Un giorno, tra li lepri ecco je scappa
un cervio maschio, accusí ppoco tristo,
che llui s’affigurò de fallo pappa.
5
Ma cquanno a bbrusciapélo l’ebbe visto
co cquella crosce in fronte e in d’una chiappa,
lo lassò in pasce, e vvorze
6
crede a Ccristo.
Terni, 7 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Cos’è?
2
Voce di scherno.
3
Veramente il termine di maggior purità romanesca è grolia: ma talvolta dalle stesse
bocche si ascoltano sdrucciolare vocaboli e frasi improntate dal ceto civile.
4
Il vocabolo caccialepri significa in Roma
anche un’erbuccia da insalata, cioè…
5
Colpirlo e ucciderlo a un tratto.
6
Volle.
189. Er pranzo de li Minenti
1
C’avessimo?
2
un baril de vin asciutto,
3
du’ sfojje
4
co rragajji
4a
e ccascio tosto,
5
allesso de mascello,
6
un quarto
7
arrosto,
e ’na mezza grostata:
8
ecchete tutto!
Ce fussi stato un frittarello, un frutto,
o un piattino ppiú semprice e ccomposto!...
Cert’antra ggente che ce stiede accosto
c’ebbe armanco deppiú fichi e presciutto!
Si ppoi vôi ride, mica pan de forno
ce diede, sai? ma ppagnottoni a ppeso,
neri arifatti
9
de scent’anni e un giorno.
Oh, tu azzecchece
10
un po’ cquanto fu speso!...
Du’ testonacci
11
a ttesta, o in quer contorno!
12
E cce vonno riannà?
13
Bravo, t’ho ’nteso!
14
E io che mm’ero creso
15
d’impiegà un prosperuccio-lammertini,
16
ciò impeggnato a mmi mojje l’orecchini.
Terni, 8 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Minenti (da eminenti): così chiamansi coloro che vestono l’abito proprio del volgo romanesco.
2
Avemmo.
3
Vin
brusco.
4
Lasagne.
4a
Visceri di pollo.
5
Cacio pecorino.
6
Carne di macello dicesi la «carne grossa».
7
Quarto,
assolutamente, è un «quarto di bacchio o abbacchio, cioè agnellino da latte».
8
Specie di sfogliata.
9
Stantii.
10
Indovinaci.
11
Testone è una moneta d’argento da tre paoli.
12
Incirca.
13
Riandare, ritornare.
14
Così dicesi da chi non
vuol far nulla di quanto udì.
15
Creduto.
16
Vedi la nota… del Sonetto…
190. Er pranzo de le Minente
1
Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli,
allesso de vaccina e ggallinaccio,
garofolato,
2
trippa, stufataccio,
3
e un spido
4
de sarsicce
5
e ffeghetelli.
6
Poi fritto de carciofoli e ggranelli,
certi ggnocchi da fàcce er peccataccio,
7
’na pizza aricresciuta de lo spaccio,
8
e un’agreddorce de ciggnale
9
e ucelli.
Ce funno peperoni sott’asceto
salame, mortatella e casciofiore,
vino de tuttopasto e vvin d’Orvieto.
Eppoi risorio
10
der perfett’amore,
caffè e ciammelle: e tt’ho llassato arreto
certe radisce da slargatte er core.
Bbè, cche importò er trattore?
Cor vitturino che mmaggnò con noi,
manco un quartin
11
per omo:
12
e cche cce vòi?
Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Vedi la nota 1 del Sonetto precedente.
2
Garofanato: specie di umido di manzo.
3
Altro umido tagliato in pezzi.
4
Spiedo.
5
Salsicce.
6
Quando è così nominato, intendesi sempre per «fegato di maiale».
7
Peccato di gola.
8
Comperata.
9
Cinghiale.
10
Rosolio.
11
Il quartino era una moneta d’oro del valore di un quarto di zecchino; oggi è rarissima e quasi
irreperibile, ma n’è restato il nome di convenzione fra il volgo per dinotare paoli cinque.
12
Per «cadauno»: e in questo
senso, il per omo vale anche per «donna».
191. Er marfidato
O credece, o nun credece,
1
e ppe cquesto
l’acqua nun vorà ppiú ccurre pe ffiume?
Quanno bussassi
2
io nun potei ppresto,
perché er vento de ggiú me smorzò er lume.
Tu pperò co cquer birbo vassallume
de li parenti tui, nun dico er resto,
hai pijjato st’ancino
3
pe pprotesto
4
de famme un fascio co’ ttant’antre schiume.
Sí, è vero, ce trovassi Zuzzovijja:
be’, da sto fatto che ne strigni? Oh guarda
si cche ccasi da fanne maravijja!
Me venne a salupe Ggesuarda.
Ma tu, attacchino mio, crede a Cicijja,
sei l’urtimo a ttrattamme da bbusciarda.
Terni, 8 ottobre 1831- D’er medemo
1
O credici o non ci credere.
2
Bussasti.
3
Uncino.
4
Pretesto.
192. Er pidocchio arifatto
1
Pe vvienimme a pparlà fanno a l’aggara
2
donne tutte de garbo e obbrigazzione.
Me saluta Maria de lo scozzone,
la Chiappina e Lluscia la salumara.
E ttu, cco cquer grostin de protenzione
de tienettela sú,
3
vacca somara,
saressi
4
mai la bbella Pulinara
che mmonta su la scala der pavone?
5
Inzin a jjeri hai fatta la servaccia;
e mmó cche ssei, Dio guardi, er pissciatore
d’un Conte, soffi e mme ce sputi in faccia?
Ricordete però cche cchi ssetaccia
fa ssemmola e ffarina. Er cacciatore
quanno pía
6
starne e cquanno storni a ccaccia.
Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Il parvenu dei francesi.
2
A gara.
3
Di stare in alterigia.
4
Saresti.
5
Frasi di un gioco da fanciulli.
6
Piglia.
193. Nun zempre ride la mojje der ladro
1
Pe ffasse strascinà
2
Mmenica zozza,
3
chi nu lo sa?, rinegheria la fede:
e tte fa spesce si mmó vva in carrozza?
Lasscia fà: ciarivedemo appiede.
Sin che ddura la robba de Pressede
lei se la ride, se la sciala, e strozza.
4
Scorta
5
poi che ssarà, tu ll’hai da vede,
uf,
6
l’hai da vede piaggne a vvita mozza.
Cuella bbenedett’anima requiesca
se sscervellava
7
pe arricchí er marito;
e llui se va a spiantà ppe sta ventresca!
Nun ze n’accorge, mó cc’ha er fiasco empito;
ma llasselo aridusce
8
all’acqua fresca,
e a tte Ccannella
9
a mmozzicatte er dito!
Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Proverbio.
2
Per andare in carrozza.
3
Sozza.
4
Mangia.
5
Colla o stretta come corta.
6
Interiezione esprimente
persuasione intima.
7
Si stordiva in pensieri.
8
Ridurre.
9
La voce Cannella è un puro ripieno.
194. Er viaggio de Loreto
Ito che ffui co tté a la Nunziatella,
1
agnéde
2
a vvisità la Santacasa,
pe strufinà ne la sagra scudella
3
sta coroncina d’ossi de scerasa.
De fĕdĕ è cche per aria sii rimasa,
3
ma ggnisuno c’è degno de vedella;
e un anno ’na Reggina ficcanasa
4
ce perze l’occhi. Si cche ccosa bbella!
Bè, llí a Maria Santissima, in ner mentre
disse: E cciancilla Dommine, er Ziggnore
je mannò ne la panza fruttusventre.
Eh? cche ttibbi
5
de casa in cuella Cchiesa!
Oh vvà che sse trovassi un muratore,
da fanne un’antra pe cquant’oro pesa!
Terni, 9 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Chiesa suburbana, dove in dato tempo dell’anno corre il popolo divoto a gozzovigliare.
2
Nella Santa Casa di Loreto
si conserva e mostra la vera scodella in cui mangiava il pancotto N.S.G. Su di essa i pii pellegrini fregano le loro
corone le quali ipso facto rimangono benedette e operatrici di portenti anche meteorologici.
3
Pretendevasi, ma in oggi
que’ buon preti van più a rilento nel sostenerlo, che quella sagra Casa fosse sospesa in aria come la cassa di
Maometto, e che in prova di ciò poteva passarlesi per di sotto un nastro. Una dama però che accettò l’esperimento,
rimase cieca miracolosamente, prima della consumazione dell’atto. Bel testimonio è venuto a mancare! È da leggersi
un’opera di un Vescovo Lauretano sulla nostralità de’ materiali betlemici onde è costrutta quella casa volante.
4
Curiosa.
5
Che tocco! Che specie solenne.
195. E ddoppo, chi ss’è vvisto s’è vvisto
Come sò st’omminacci, Aghita, eh?
Pareno cose de potesse dí?
Sin che nun te lo fai mettelo ccqui,
sò tutti core e ffedigo
1
pe tté.
Ma una vorta che jj’hai detto de sí,
appena che jj’hai mostro si cc’or’è,
bbada, Aghituccia, e ffidete de
che te sfotteno er cane
2
llí per lí.
Ecchete la mi’ fine co Cciosciò:
viè: ppare un santo, un fiore de vertú:
io me calo le bbraghe
3
e jje la do.
Ce sei ppiú stata da quer giorno tu?
Accusí llui: da sí che
4
mme sfassciò,
Ggesú Ggesú nnun z’è vveduto ppiú!
Terni, 9 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Fegato.
2
Ti abbandonano. Frase presa dal volgare de’ militari francesi: foutre le camp.
3
Calarsi le braghe: cedere.
4
Da quando.
196. Venti dì ttrent’otto mijja,
è un cojjon chi sse ne pijja.
Doppo quella frebbaccia bbuggiarossa,
che a ffà tterra pe cecci era d’avanzo,
sto ggiuggno e llujjo, pe scampà la fossa
sò ito a mmutà aria a pportodanzo.
1
Maggnavo poco a ccena e ggnente a ppranzo:
puro
2
de punt’in bianco
3
ebbe
4
una smossa,
che ssi ar guarí nun me se dà uno scanzo,
già aristavo llí llí ppe stirà ll’ossa.
Mo cc’agosto ariviè ccapo d’inverno,
me n’aritorno a Rroma a ppijjà ffresco,
o ppe annamme a ffà ffotte in zempiterno.
Tu lo sai, Schizza mia, ch’io sò ttodesco
5
vojjo svariamme,
6
e cquanno vinco un terno
vado ar perdon-da-Sisi a Ssan Francesco.
Terni, 9 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Porto d’Anzio.
2
Pur tuttavia.
3
All’improvviso.
4
Ebbi.
5
Testardo.
6
Divertirmi.
197. Li bbaffutelli
1
No ppe ccristaccio, nun volemo un cazzo
sti bbaffetti pe Rroma in priscissione;
che vviengheno a ddà er zacco su a ppalazzo,
e a bbuggiarà la santa riliggione.
Ma er Papa nostro, si nun è un cojjone,
ce l’ha dda fà vvedé cquarche rrampazzo!
2
Bast’abbino l’idea de frammasone
pe mmannalli a impiccà tutt’in un mazzo.
E ppe nnun fà a chi fijjo e a chi ffijjastro,
3
a le mojje bbollateje la sorca,
4
e a li fijji appricateje l’incastro.
5
Si a ddà un essempio a sta canajja porca
poi manca er boja, sò cquà io pe mmastro,
che sso ccome se sta ssott’a la forca.
Terni, 9 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Giovanetti vaghi d’andare in mustacchi.
2
«Impiccato»; translato di racemo, detto in Roma rampazzo.
3
Parzialità.
4
La
pudenda.
5
Castratura.
198. A Bbucalone
1
Ah? pijji mojje? ebbè mmó cche cce sei
abbada a li capelli, Bbucalone.
Sibbè co ccerte razze de drondrone,
2
l’abbi o nun l’abbi è sempre tre e ttre a sei.
Te li tajji? Ma ppoi lassa a llei
pe mmostrà tutta l’arma de Prutone.
3
Li fai cresce? aricordete Sanzone
pettinato pe mman de filistei.
Che jje ggiovonno le su’ bbelle porpe,
4
e cquella ganassòla
5
de somaro,
e cquelle code de trecento vorpe?
Che jje giovò de rompe uno scatorcio,
6
e d’avé cojjonato er portinaro?
Pe ffà la morte de che mmore er zorcio.
7
Otricoli, 10 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Gocciolone, babbaccio.
2
Meretrici.
3
Le corna.
4
Polpe: la sua vigoria.
5
Mascella.
6
Catorcio.
7
Proverbio.
199. Muzzio Sscevola all’ara
Tra ssei cherubbiggneri e ddu’ patujje,
co le mano dereto manettate,
Muzzio Scevola in tonica da frate
annò avanti ar Zoprano de le trujje.
1
Stava Porzenno a ssede in zu le gujje
che sse vedeno a Arbano inarberate.
«Sora mmaschera, come ve chiamate?»,
er Re jje disse, «e ccosa sò ste bbujje?».
2
Disce: «Sagra Maestà, sò Mmuzziosscèvola:
ve volevo ammazzà; ma ppe ’n equivico
ho rotto un coppo in cammio d’una tevola».
Ditto accusí, pe ariscontà er marrone,
cor un coraggio de sordato scivico
se schiaffò la mandritta in ner focone.
Otricoli, 10 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Dell’Etruria.
2
Buglia: subbuglio, chiasso.
200. Li malincontri
Si tte piace er zalame:
1
Padron Biascio
fu assassinato attacc’a la Merluzza.
Dimme de nò! ppuzza de cascio puzza!
E intiggnete a nnegà! ppuzza de cascio!
Quer vitturino testa de cucuzza
mannava li sturioni adasciadascio,
e jje fasceva er verzo che ffa er bascio
quanno tra mmaschio e ffemmina se ruzza.
Quanto,... se sente un fischio!, e jje se serra
addoss’a la carrozza un zett’o otto
pezzi d’irededdio cor facciatterra!
Ebbè un de questi edè quer galeotto
ch’io l’ho ttienuto a ccresima in galerra
quanno ciaggnede pe avé vvinto all’otto.
Otricoli, 10 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Certo, così è.
201. Er gioco de la ruzzica
1a
Sta cacca
1
de fà a rruzzica, Dodato,
co la smaniaccia d’abbuscà ll’evviva,
nun è ggiro pe tté,
2
cche nun hai fiato
de stril mmanco peperoni e oliva.
Come sce pôi ggiucà, tisico nato,
senza dajje ’na càccola
3
d’abbriva?
Nun vedi la tu’ ruzzica sur prato
c’appena ar fin de ’na scorreggia arriva?
Co ddu’ pormonettacci de canario,
d’indove mommò er zangue te se sbuzzica,
4
tu protenni
5
de prennete
6
sto svario?
7
Stattene in pasce: ggnisuno te stuzzica;
si
8
ppoi vôi vince tu, vva’ a Montemario,
pijja la scurza e bbutta ggiú la ruzzica.
In legno, da Civitacastellana a Monterosi,
10 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1a
Ruzzola.
1
Vanità.
2
Non è affare per te.
3
Alcun poco.
4
Ti sgorga.
5
Pretendi.
6
Prenderti.
7
Sollazzo.
8
Se.
202. Er gioco de piseppisello
Io lo faria co tté piseppisello
1
colore ccusí bbello e ccusí ffino!
2
In der mejjo però der ritornello
me stremisco de quer Zantomartino.
Perché sto santo ar povero bboccino
dell’omo je fa un certo ggiucarello,
che quanno va ppe mmettese er cappello
nun je carza piú un cazzo in zur cudino.
Caso che allora me spuntassi un porro,
io subbito direbbe: bbona sera!,
ecchesce a la viggija der ciamorro.
Te pare arisicamme
3
a sta maggnera?
Ste mmànnole ppiú ppresto
4
me l’attorro.
5
Pur ch’er reo nun ze sarvi ecco le pera.
In legno. Da Civitacastellana a Monterosi,
10 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Giuoco da fanciulli.
2
Parole che si profferiscono con altre, in quel giuoco.
3
Arrischiarmi.
4
Piuttosto.
5
Mandorle
attorrate: abbrustolite, cioè, poi conciate con zucchero.
203. So tutt’e ttre acciaccatelli
Che averà, cciscia mia, sto fratiscello
che inzin da ggiuveddí nun ze scappuccia?
Che averà, ccocca mia,
1
sto mi ’cardello
che sta ggrufo e nun chiede canipuccia?
Che averà sto caggnolo poverello
che ttiè la coda tra le gamme, e ccuccia?
Dì, pp’er frate, p’er cane e ppe l’uscello
ciaveressi
2
un rimedio, eh Bbarberuccia?
Io crederia che li svariassi
3
er zôno
de quarche cciufoletto e cchitarrina:...
nun ride, picchia mia,
4
nun te cojjono.
Quanno pôzzi
5
serví dde mediscina,
(già cche lo so cche ttienghi er core bbono)
je la volemo fà sta sonatina?
In legno da Civitacastellana a Monterosi,
D’er medemo - 10 ottobre 1831
1
Cuor mio.
2
Ci avresti.
3
Li divertisse.
4
Mia vaga.
5
Possa.
204. Nun ze bbeve e sse paga
Vedemo un po’ ssor oste da finocchi
fùssimo Cacasenno e Bbertollino!
Mezzo bbicchiere quinisci bbaiocchi!
Quant’a la bbotte l’arivenni er vino?
Fa ccommido eh sor Lappa er fiaschettino
quanno capita er passo de l’alocchi?!
Chi smezza paga: tu ppoi l’aribbocchi,
1
e ccusí un fiasco te viè a ddà un quartino.
1a
Tu dunque doveressi avelle
1b
intese
quele sstorie inventate da Margutte,
dove disce accusí, che a cquer paese
a ttempi der Patriarca Sorfautte
se cantava st’antifona a le cchiese:
un cojjone che vviè le paga tutte.
In legno, da Civitacastellana a Monterosi,
De Pepp’er tosto - 10 ottobre 1831
1
Lo riempi.
1a
Cinque paoli.
1b
Dovresti averle.
205. L’amichi all’osteria
«Hai raggione per Dio! nun zò ccattive
ste sciriole». «E tte piasce er marinato?».
«Me tiro un antro pezzo de stufato.
Maggnete st’ova che ssò ffresche vive».
«Pe mmé, cquanno ho ppijjato antre du’ olive
ce n’ho dd’avanzo, ché ssò ggià arrivato.
...No, nun me fà piú bbeve: ho ssiggillato.
Chi bbeve pe mmaggnà mmaggnà pe vvive».
«Ma eh? ccorpo dell’anima de ghetto!
pare er pisscio, sto vin de pontemollo,
dell’angelo custode bbenedetto?».
«Ohò! cciavemo ancora un antro pollo?!
Maggni ala o ccoscia?» «No, nnemmanco er petto:
si mme vôi fà sscialà, ttajjeme er collo».
Nella locanda di Monterosi,
De Pepp’er tosto - 10 ottobre 1831
206. Spenni poco e stai bene
Càpita a Monte-Rosi, o a li confini,
la Storta vojjo dí, Nnepi e Bbaccano;
e nnun te dubbità: sei ’n bone mano,
ch’è ttutta ’na fajola
1
d’assassini.
Te coceno du’ polli bbufolini:
te cacceno un vinetto de Pissciano
battezzato coll’acqua de pantano:
te danno un letto morbido de spini.
Te metteno la notte in compagnia
purce, zampane, cimisce e ppidocchi,
che tte fanno cantà Vviva Maria!
E cquanno er zonno t’ha sserrato l’occhi
te viengheno a cchiamà per annà vvia.
E ttutto questo pe ppochi bbaiocchi.
In legno. Da Monterosi a Baccano,
De Pepp’er tosto - 11 ottobre 1831
1
Foresta famosa per copia di ladri.
207. Aripíjemesce
1
Lassa de stroligà,
2
pisciacquasanta,
3
bona serva de ddio, mugnetta grega,
4
prima che ttrovi piú chi tte ce prega
s’hanno da sprofonnà Ssantiquaranta.
5
Fremma! pascienza! e cce n’ho avuta tanta,
che ssur collo sce porto la risega.
6
Ma adesso che pe tte sserro bbottega,
7
te fo ccredenza cuanno er gallo canta.
Serra tu ppuro,
8
e appoggeje l’abbiffa;
9
e ’r po’ d’avanzo c’hai de farinella
10
si nu lo vôi spregà mettelo in riffa.
11
Io nun crompo ppiú vvacca pe vvitella:
m’abbasta de strozzà
12
ll’urtima miffa.
13
La bbrascia scotta ppiú dde la padella.
14
In legno, da Baccano alla Storta,
D’er medemo - 11 ottobre 1831
1
Ripigliamoci, se puoi.
2
Arzigogolare.
3
Pinzochera.
4
Mummia greca, cioè modestina in apparenza.
5
Chiesa di Roma.
6
Il solco.
7
Non ci penso più.
8
Pure.
9
Applicaci le biffe, i suggelli legali.
10
Gonorrea.
11
Le riffe sono certi lotti
particolari, risoluti dalla estrazione del pubblico.
12
Ingoiare.
13
Bugia fraudolenta.
14
Proverbio, cioè: «non voglio
peggiorare, cadendo dalla padella sulla bragia».
208. L’armata nova der Sommo Pontescife
Com’è ita a ffiní la ribbijjone
c’aveva da sfascià Ppiazzacolonna?
1
Ce l’ha mmesse le mane la Madonna!
È vvienuto Sanpietro cor bastone!
La bbarca de la fede nun z’affonna,
nun ha ppaura un cazzo de bbarbone:
2
duncue chi vvò alloggià ssenza piggione,
3
ce vienghi a rriprovà cco la siconna.
Pe ffà mmejjo addannà
4
li ggiacobbini
mo ss’ariveste ’n’antra truppa vera,
e sse sò ttrovi ggià li tammurrini.
Già s’arippezza a nnovo la bbanniera;
e ddoppo a li sordati papalini
je s’ha da fà ’na statua de scera.
5
In legno, da Baccano alla Storta,
De Pepp’er tosto - 11 ottobre 1831
1
In Piazza Colonna accadde il movimento rivoluzionario alla prima ora di notte del giorno 12 febbraio 1831, ultimo
sabato di carnovale.
2
Una delle larve da spauracchio pe’ fanciulli.
3
Andare in carcere.
4
Arrabbiare.
5
Fare una statua
di cera ad uno, vale: «riputarlo per l’ottimo fra’ suoi eguali».
209. Lo Stato der Papa
Come er Papa ha da stà ssenza lo Stato
quann’è vicario lui de Ggesucristo?
M’ha ddetto er Coco a me de San Calisto
1
che insinente
2
a ddiscorrene è peccato.
Ggesucristo c’ha ttanto faticato
pe ffacce tuttoquanto avemo visto,
dovería cede puro a chi è piú tristo
sto cantoncel de monno conzagrato?!
Cede un par de cojjoni! E dde sto passo
s’arriva a llevà Iddio dar paradiso,
pe mmettece in zu’ logo Satanasso!
Duncue pare che ssii bell’e indisciso
ch’er Zantopadre a sto monnaccio è ll’asso,
3
e ppò ddí riso ar farro e ffarro ar riso.
In legno presso il Fosso, D’er medemo - 11 ottobre 1831
1
Chiesa e Convento de’ Monaci Benedettini, donde uscì Pio VII.
2
Sino.
3
L’asso è la principal carta alla briscola e a
vari altri giuochi popolari.
210. Er civico de guardia
Chi evviva? Chi vvalà? Pss, ssor grostino,
1
nun ze risponne ppiú a la sentinella?
Voi volete finí dde bevve vino.
Ve dico Chivvalà, Ddio serenella!
2
Chi evviva?... ah, ssete voi, Mastro Grespino?
Che! ve puzzeno sane le bbudella?
Eh, ssi avevo la pietra all’acciarino
un antro po’ vve la fascevo bbella!
Cuanno la guardia dar zu’ posto v’urla,
risponnete: si nnò, vvienissi l’orco,
cquà sse tira de netto, e nnun ze bburla.
Ma ddio guardi lo schioppo me fa ffoco,
co sto vostro stà zitto eh nun ve corco?
Bella cazzata de morí ppe ggioco!
In legno, presso la Storta, De Pepp’er tosto - 11 ottobre 1831
1
Nome di spregio.
2
Esclamazione comunissima.
211. Un deposito
Dove nassce la cassia,
1
a mmanimanca,
nò a ppontemollo, tre mmía
1a
piú llontano,
ce sta ccome un casson de pietra bbianca
o nnera, cor P. P. der posa-piano.
Lí, a Rromavecchia, ha dditto l’artebbianca,
ce sotterronno un certo sor Mariano,
2
che mmorze de ’na palla in una scianca
a la guerra indov’era capitano.
Duncue, o cqui er morto è stato sbarattato;
e allora me stordisco de raggione
ch’er governo nun ciabbi arimediato.
O cchi ha scritto er pitaffio era un cojjone:
perché, da sí cch’er monno s’è ccreato,
questa è la sepportura de Nerone.
3
In legno, presso al Sepolcro di Nerone.
De Pepp’er tosto - 11 ottobre 1831
1
Equivoco preso dalla Via Cassia, che si può dire nascere a Ponte Molle.
1a
Contrazione di miglia.
2
P. Vibio Mariano,
il cui nome è scritto sullo stesso sarcofago.
3
A malgrado di ciò che si dice nella nota 2, questo sepolcro è da tutti detto
e creduto di Nerone.
212. Ar Tenente de li scivichi
Sor uffizziale mio, nun v’inquietate,
venita cquà, ssentite la raggione:
perché ffà ssanguemmerda a ssciabbolate
si ppotemo
1
aggiustasse
2
co le bbone?
Cuanno trenta maggnère
3
ho aripescate
pe ddà ar prossimo nostro der cojjone
4
e cchì ciaripensava
5
ar battajjone
che voi, co riverenza, commannate?
Ma mmó c’ar trentunesimo c’ho ttrovo
6
ve vienite a llaggnà com’e cquarmente
cuelle cose che ddico nu le provo;
s’arimedia cor cazzo:
7
nun è ggnente.
8
Ve darò ppe ccojjone un nome novo,
e ssarà er trentadua: dite Tenente.
Roma, 12 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Se possiamo.
2
Aggiustarsi.
3
Maniere.
4
Vedi il sonetto che principia: Sonaji, pennolini, ggiucareli.
5
Ci ripensava.
6
Trovato.
7
Si rimedia col nonnulla.
8
Niente.
213. La bbella Ggiuditta
Disce l’Abbibbia Sagra che Ggiuditta
doppo d’avé ccenato co Llionferne,
smorzate tutte quante le luscerne
ciannò a mmette er zordato a la galitta:
che appena j’ebbe chiuse le lenterne
1
tra er beve e lo schiumà dde la marmitta,
cor un corpo
2
da fia
3
de Mastro Titta
lo mannò a ffotte in ne le fiche eterne:
e cche, agguattata la capoccia,
4
aggnede
5
pe ffà la mostra ar popolo ggiudio
sino a Bbettujja co la serva a ppiede.
Ecchete come, Pavoluccio mio,
se pò scannà la ggente pe la fede,
e ffà la vacca pe ddà ggrolia a Ddio.
Roma, 14 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Gli occhi.
2
Colla o stretta: colpo.
3
Figlia.
4
Nascosto il capo.
5
Andò.
214. Er mariggnano
1
Ah Scariotto che pporti pe strapazzo
la bbanniera
2
de Cristo ar cudicuggno,
3
c’hai de pietra
4
er coggnome com’er gruggno,
botte de furberia sscerta
5
in ner mazzo;
aringrazzia er tu’ Ddio, faccia de cazzo,
aricacchio
6
d’un fijjo de bburzugno,
7
si ccor zugo de fior de tuttopuggno
nun t’hanno tinto er muso pavonazzo.
Strappete da le spalle quella vesta,
levete da la gola er collarino,
e rrapete la chirica
8
da testa:
perché la riverea d’un assassino
deggno de scelebbrà ll’urtima festa,
è una coppola, un zacco e uno strozzino.
Nu la pijjà cco Nnino:
9
ma, ssi
10
me vôi conossce, viè a bbottega,
e llí cce troverai chi sse ne frega.
Roma, 20 ottobre 1831
1
Melanzana, per «prelato».
2
Mantelletto da prete.
3
Cudicugno: vestito.
4
Monsignor Di Pietro.
5
Scelta.
6
Germoglio.
7
Zotico, villano.
8
Ràditi la chierica.
9
Giovannino. Questo sonetto fu scritto e mandato a Giovanni Giraud dopo la
pubblicazione che fece egli di uno scritto contro Monsignor Di Pietro, per un tradimento da lui ricevuto in un affare di
appalto di neve.
10
Se.
215. Er servitor-de-piazza ciovile
1
Lei sappi, si vvò véderle, che cquelle
indove el vostro Cane-colso
2
abbaglia,
3
tutte cuperte di stole de paglia,
suono
4
le stufe delle Capandelle.
5
Eh! sti Abbagni da noi vanno a le stelle!
Gente o di garbo, o nnobbile, o bbirbaglia,
bardassaria,
6
omminità, o vecchiaglia,
vonno tutti mettérce la sua pelle.
Chi ha ccallo..., dico caldo, di staggione,
o un caldo a un piede, o acqualche occhiopullino,
capa o la capandella o el Capandone.
La meno folla spendano un carlino
per quelle chiuse: ma le ppiú pperzone
a lo sbaraglio impiegheno un lustrino.
7
Roma, 20 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
ANALOGIE
SE NON SI DICE
NON SI PUÒ DIRE
prendérle, ma: prènderle vedérle, ma: véderle
porzo, ma: polso còrso, ma: còlso
raja, ma: raglia abbaja, ma: abbaglia
véderci, ma: vedérci métterci, ma: mettérci
1
Civile.
2
Còrso.
3
Abbaia.
4
Sono.
5
Capannelle: bagni nel Tevere.
6
Ragazzaglia.
7
Moneta d’argento da cinque
baiocchi: un grosso.
216. Er parlà ciovìle de piú
Quando el Signiore volse in nel deselto
albelgare l’Abbrei senza locanda,
per darglie un cibbo a gòdere piú scelto,
mandò come una gomba: era la Manda.
1
Questa glie vende giù, come la janda
scende su li magliali a campo apelto.
E ‘l giudio vendembiava,
1a
e a dogni canda
c’impiegava sei gombiti di celto.
Nun mi pare mondezza
1a
sto guadambio,
2
ché puro a sembolella era faccenda
di lassà un pranzo pagaticcio in cambio.
Se ci mettemo poi cena e marenda,
facevano un sei giuli di sparambio,
a conti fatti a caldamaro e penda.
Roma, 21 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
ANALOGIE
SE NON SI DICE NON SI PUÒ DIRE
scerto, ma: scelto
sverto, ma: svelto
deserto, ma: deselto
aperto, ma: apelto
certo, ma: celto
scergo, ma: scelgo albergo, ma: albelgo
locanna, ma: locanda
manna, ma: manda
canna, ma: canda
manna, ma: manda
rodére, ma: ròdere godére, ma: gòdere
tomma, ma: tomba gomma, ma: gomba
rajo, ma: raglio
majja, ma: maglia
majale, ma: magliale
cammio, ma: cambio guadammio, ma: guadambio
cemmalo, ma: cembalo semmola, ma: sembola
merenna, ma: merenda
faccenna, ma: faccenda
penna, ma: penda
1
Dal verbo mandare.
1a
Vendembia per Vendemmia, Mondezza per Immondezza sono pel volgo vocaboli assai civili,
particolarmente Mondezza che si distingue da Monnezza, parola dell’uso comune.
2
Il popolo dice guadagna e
guadammio, sparagno e sparammio, risparagno e risparammio.
217. Lo sscilinguato
Oh che ddiggazzia,
1
Chitto!:
2
oh che bbullacca!
3
D’effe
4
jeli
5
ito via calo
6
me cotta!
7
Nu ttà bbe’
8
in ne’ ppottone
9
quella vacca,
10
fi
11
e’ mmi’ padon
12
de cafa
13
nu la ccotta.
14
Cuanno ttò p’alientà
15
ddento
16
a la potta
17
vedo ch’e’ ppupo mio ccivola e ccacca.
18
Io nu mme leggo
19
ppiú: chiamo Callotta,
20
e bbutto e’ ffitto
21
de melluzzi
22
e llacca.
23
Poi vado pe annà llà, ma in ne’ ffà e’ ppazzo,
24
pun, chioppo in tella e do la tetta a’ mmulo;
25
ma e’ ppelicolo
26
mio te ce lo sccazzo.
27
Cuello che mm’impottava,
28
e tte lo ggiulo,
29
ela
30
la fetta
31
de favvà
32
el lagazzo:
33
del letto
34
lo fa
35
Iddio fi mme ne culo.
36
Roma, 21 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Disgrazia. Aspirazione dentale delle due z presso a poco come la th degl’Inglesi in think, ma più inclinante alla
durezza.
2
Cristo.
3
Burrasca.
4
Essere.
5
Ieri.
6
Caro.
7
Costa.
8
Non istà bene.
9
Portone.
10
Vasca.
11
Si, per «se».
12
Padron.
13
Casa.
14
Scosta.
15
Sto per rientrare.
16
Dentro.
17
Porta.
18
Scivola e casca.
19
Reggo.
20
Carlotta.
21
Fritto.
22
Merluzzi.
23
Lasca.
24
Passo.
25
Schioppo in terra e do la testa al muro.
26
Pericolo.
27
Te ce lo scasso per «casso».
28
Importava.
29
Giuro.
30
Era.
31
Fretta.
32
Salvare.
33
Ragazzo.
34
Del resto.
35
Lo sa.
36
Se me ne curo.
218. Er ritorno da Rocca-de-papa
Va’ vva’ vva’ ssi cchi è! che si’ squartata!
Chi tt’arifigurava?, che tte strozzi!
Hai d’avé empito a cquattro gargarozzi,
perché, ssi vvedi, stai come una fata!
Bbe’ cche zzitella, hai fatto un par de bbozzi
c’assomijji a una bbalia spiccicata:
Dio te li bbenedichi, Furtunata,
te l’accreschi, e ’r malocchio nun ce pôzzi.
Va’ cche zzinne!... che cchiappe!!... che gganasse!!!...
Ma ttarantola vienghi e tt’entri in culo,
1
ch’in quant’a mmé tte le voría piú ggrasse.
Tutte le sorte a tté, fijja d’un mulo!
Prima eri un terenosse-e-ttinducasse,
e mmó ppari una vacca, e nnun t’adulo.
Roma 21 ottobre 1831 De Pepp’er tosto
1
Espressione contro il fascino.
219. Er Zervitor de piazza, er Milordo ingrese,
e er Vitturino a nnòlito
1a
SERV. Non ziggnora, Milordo; è uno spedale
1
de ggente che nun crede a Ssanta Pupa.
1b
Oh, adesso andamo poi verso la rupa
dove stava el gran fico luminale.
2
Qui cc’era dunque una sbilonga
3
cupa,
c’aveva per coggnome el Lupigale;
4
perché Rromolo e Rremolo in la quale
s’allattorno per mano d’una lupa.
Questo? È el gran tempio de Giov’Esattore.
5
Nò, nnò, le tre ccolonne e una scimasa.
Guardi, Eccellenza mia, che bbel lavore!
Quello là ssopra? El Monte Paladino
6
dov’el Re Ccampomarzo
7
alzò una casa
che ppijjava dal Monte, e annava inzino
sotto al Collo Inquilino…
8
MIL. Ma, cwí, in buco
9
... ho una... vacca, una phuttana. Yes, come
dite voi? futta... futtana?...
SERV. Ahà, vvasca, funtana.
C’era sicuro a ttempo de l’antichi:
ma mmó cche ha da restà? mmanco li fichi.
Cosa vò cche glie dichi?
Oggi c’a Rroma se fa un antro bballo
l’hanno fatta zompà a Mmonte cavallo.
Coprilla di cristallo
s’averebbe; ché ccosta piú dell’oro:
ma cqui?! mannaggia l’animaccia loro...
MIL. Bene: e cquesti è il... Foro...
SERV. Foro bbovaro,
9a
a ggià, Ccampovaccino:
se lo seggni, Monzù, nnel taccuino.
MIL. … Come scrivete ... cino?
SERV. Come gradissce lei, Milordo mio.
MIL. Ti, ess, ecce, i, enn, o:
10
... scritto bene io?
SERV. Vedemo Pio pio pio
10a
...
Va a mmaravijja. Oh, adesso...
MIL.
Caa... valcantē,
Tornate il Coccio
11
a la Metà sudante.
12
VITT. Che ddisce sto gargante?
12a
SERV. Portelo un pò ddove te pare e ppiasce;
ma vvàcce cor baston de la bbambasce.
12b
VITT. Er tempio de la Pasce
è cc’ha vvorzuto intenne sta caroggna?
MIL. Come dite? Goddamn!...
VITT. Ah, ccert’assoggna...
MIL. Oh no,... non vi bisogna...
Io... voglio dare voi, cattivi.., mulo,
gran colpo di... mio piedi in vostro culo.
Roma 22 ottobre 1831 - Di Peppe il tosto
1a
A nolo.
1
La Consolazione: ospedale.
1b
Santa che presiede ai pericoli specialmente de’ fanciulli.
2
Il fico ruminale,
da ruma, mammella.
3
Spelonca.
4
Lupercale.
5
Giove Statore (grecostasi, meglio).
6
Palatino.
7
Anco Marzio.
8
Colle
Esquilino.
9
Libro (inglesismo).
9a
Foro Boario.
10
Tshino, che per gl’inglesi rappresenta il suono similare di cino.
10a
Affettando di leggere, dice con fretta quelle tre parole.
11
Coach (che si pronuncia coc): carrozza.
12
Mèta Sudante.
12a
Persona sinistra.
12b
Vacci colle dolci.
220. La Dogana de terra
1
a piazza-de-Pietra
NINO Subbito che nun zò ssane né ttonne
e ddoverebbeno èsse tonne e ssane,
c’era bbisogno cqua de le colonne?
Le colonne de pietra nun zò ppane.
PEPPE Ma ssi nun fussi ste colonne cquane,
(stà in ciarvello co mmé, nnun te confonne)
come le chiameressi le Dogane?
De pietra nò: e dde che? pparla, risponne.
NINO Che ccosa?! Le Dogane sò de terra
e nnò de pietra: de pietra è la piazza.
Oé! me sbarchi mo da Stinchinterra?
2
PEPPE Terra e ppietra viè a stà a cchicchera e ttazza,
a ffemmina e mmignotta, a cchiude e sserra...
NINO E a cazzo che tte frega e cche t’ammazza.
Sor tignoso
3
de razza,
avete da sapé ch’io vado e vviengo
pe ccasa der decan der Cammerlengo;
e ste cose le tiengo
tutte cqui su le punte de le deta
4
dar conne e rronne ar pisilonne e zzeta.
5
PEPPE Si la gallina feta
sai puro senza mette er piede in fallo
si ppoi quell’ovo fa ggallina o gallo?
Quanno vierà er pangiallo
te vojjo ’na fetta de Natale
6
cor un bicchier de vin de l’urinale.
NINO Si er cazzo avessi l’ale
tu cche ttienghi l’apparto der cazzaccio
già staressi a la gujja de testaccio.
7
PEPPE Perché ppe ggallinaccio
nun vai tu invece ar tiro a pontemollo?
8
Cusí arisparmi una stirata ar collo.
Poi ’na pelata, un bollo,
un pizzico de sale, un po’ d’erbetta,
du’ bocconi, du’ ròtti,
9
e a la cassetta.
NINO Tu pparli pe vvennetta.
Ma ttratanto, sor fijjo de puttana,
nun ce vanno colonne a una dogana.
Roma, 23 ottobre 1831 - D’er medemo
1
La di cui facciata è decorata dalle Colonne di un fianco del tempio di Antonino Pio, presso il foro di Antonino, parte
di cui è in oggi la Piazza Colonna.
2
Storpiamento maligno d’Inghilterra.
3
Ostinato.
4
Le ho familiari.
5
I segni V) e R)
cioè versetto e responsorio coi quali termina il vecchio abbecedario delle scuolette di Roma sono chiamati dalle
maestre «conne» e «ronne», e finiscono così la loro istruzione: fijjo, dite icchese, ippisilonne e zzeta: conne, ronne e
bbus, sia laudato er bon Gesù.
6
Proposizione beffarda. Per Natale in Roma si mangia un pane composto, chiamato
«pangiallo».
7
Piramide di Caio Cestio.
8
Al Ponte Milvio, a 2 miglia da Roma, sul bivio delle vie Cassia e Flaminia,
usasi, come anche altrove, di colpire da lungi col fucile un gallinaccio, col premio del cadavere al vincitore.
9
Rutti.
221. La Colonna trojana
1
Piano, sor Tibbidò, nun tanta foja,
2
ché vve pijja una frebbe settimana.
Pe ddí a sto modo Colonna trogliana,
bisoggnerebbe dí Ttroglia e nnò Ttroja.
Ma nun fu la Repubbrica Romana
che dda l’incennio sce sarvò sta ggioja,
epperò pare stata in man de bboja,
e è nnera com’er cul de la bbefana?
Ebbè, ssi vviè dda Troja sta colonna,
s’ha da dí, ssi tte piasceno li fichi,
trojana, pe l’amor de la Madonna!
Ché a cchiamalla sinnò ccome tu ddichi,
sarebbe com’a ddí cche nun è ttonna,
e vvolenne sapé ppiú dde l’antichi.
Roma, 21 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Traiana.
2
Ira.
222. La colonna de piazza-Colonna
Ma cch’estro ha da viení a ’no scarpellino
de stampà le colonne a cresceccala,
come jerzera tu fascessi in zala
co cquer rotolo tonno de scerino!
Sti pupazzetti poi vestiti in gala
sò ttutte l’Arte antiche: c’è er rotino,
er barcarolo, er muratore, e inzino
la ggente co la sega e cco la pala.
Ce sò puro le forche, li tormenti,
la Carestia
1
cor Zanto Madrimonio
e tutti l’antri sette Sagramenti.
Pare fatta per arte der demonio!
Eppuro nò, cché in diesci ggiorni o vventi
la bbuttò ggiune un certo Mastr’Antonio.
2
Roma, 23 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Eucaristia.
2
Colonna Antonina.
223. Le du’ Colonne
1
E ss’ha oggnisempre da sentí sto ggnavolo
2
che li pittori antichi da li tetti
seppeno tirà ssú pe ddu’ bbuscetti
3
st’accidenti
4
de San Pietro e Ssan Pavolo!
Pe nnun dí un cazzo, io nun ce credo un cavolo,
che scalini-a-llumaca accusí stretti
potessino a sti Santi bbenedetti
dajje er passo senz’opera der diavolo.
In quarant’anni e ppiú cc’ho ssur groppone
io pe la parte mia nun ho mmai visto
un palazzo infroscià
5
ddrent’a un portone.
E ssete puro
6
scerto, sor Calisto,
che o ’r monno antico è stato ’no stregone,
o cche cquesto è un miracolo de Cristo.
Roma, 23 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Antonina e Traiana.
2
Ripetizione noiosa.
3
Buchetti.
4
Gran volumi, gran pesi.
5
Imboccare.
6
Siate pure.
224. L’acqua rumatica
1
«Che ccrompi?» «Crompo l’acqua de lavanna».
2
«Che ddiavolo sce fai?» «Pe ddà l’odore».
«E ppoi dove la porti?» «A la locanna».
«E ppe cchi sserve?» «P’er Commannatore».
3
O mmatti come la raggion commanna!
4
Sciacquatura de culi de signore
ha da esse ’no spirito de manna
da méttete p’er naso un bon fragore!
5
Ma ssi tte dico, cristo, che ssò ccose
cose da diventacce sticcaleggna,
6
e ddoppo imminestrà
7
bbôtte fecciose.
Sto monno-novo tanto se l’ingeggna
c’ha ttrovo a ddà ppe bbàrzimo de rose
l’acqua che cce se laveno la freggna.
Roma, 23 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Aromatica.
2
Lavanda, lavandola o «spigo».
3
Commendatore.
4
A non più su.
5
Fragranza.
6
Tagliatore di legna da
fuoco.
7
Ministrare, dispensare.
225. La commedia
«Tata, ch’edè cqui ssú?» «La Piccionara».
1
«Tata, e nun c’è gnisuno?» «È abbonora».
«Chi è quella a la finestra?»
2
«Una signora».
«E cquest’accant’a noi?» «La lavannara».
«Uh quanta ggente! E indove stava?» «Fora».
«E mmó?» «Ssona la tromma».
3
«... Cuant’è ccara!
E sto lampione
4
immezzo c’arippara?»
«Poi lo tireno sù». «Nun vedo l’ora!
Chi cc’è llà ddrento in cuella buscia scura?»
«C’è er soffione».
5
«E sti moccoli de scera?»
«Sò ppe la zinfonía». «Sí? E cquanto dura?»
«Zitta, va ssú er telone».
6
«... Ih! è ggente vera?»
«Ggià». «E cquelli tre chi ssò?» «Rre da frittura,
7
che cce viengheno a un pavolo pe ssera».
Roma, 23 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Ultimo ordine di palchi.
2
Palchetto.
3
Il tuono dell’accordo.
4
Il lampadario.
5
Il suggeritore.
6
Il sipario.
7
La frittura
è «il pesce minuto e dozzinale».
226. Quanno er gatto nun c’è
li sorci bballeno
Eh! cquanno te ved’io chi nun te pijja
pe ’na bbocca de bbasci a ppizzichetto?
pe ’na pupa che ffa la pisscia a lletto?
pe ’na serva de ddio senza viggijja?
Ciabbassa l’occhi, tiè er barbozzo in petto,
se fa rossa se fa com’una trijja!
Inzomma, a vvoi! nun pare mó la fijja
che sso... de la Madonna de l’Archetto?
Ma appena io svorto er culo, ehé, bbon giorno!
Allora se dà er levito a la pasta,
se smena
1
er pane, e ppoi se scopa
2
er forno.
E intanto che cchi spizzica e cchi attasta,
tu ssoni la tïorba, io sono er corno...
Già, ssei nata a la Scrofa,
3
e ttanto bbasta.
Roma, 23 ottobre 1831 - Der medemo
1
Si maneggia.
2
V. sonetto…
3
Via di Roma.
227. La sorella de Matteo
Quanno stavo a ccrompà
1
le callalesse
è ppassato Matteo co la sorella.
Sai che tte dico, Ggnacchera? ch’è bbella,
ma bbella che ppiú bbella nun pô êsse.
Lei s’è affermata
2
a ssalutà l’ostesse
c’annaveno a Ttestaccio in carrettella:
e io j’ho ddato a llei ’na squadratella
che mm’ha mmesse le bbuggere m’ha mmesse.
Com’è llarga de cquì! cche bbella faccia!
Ha ddu’ occhietti, un nasino e ’na boccuccia,
che cchi la pô assaggià bon prò jje faccia.
Ah! jje volevo di’
3
: ffior de mentuccia,
si ttu vvôi fà cco mmé ’na fumataccia,
ciò una pippa co ttanta de cannuccia.
Roma, 23 ottobre 1831 - Der medemo
1
Comperare.
2
Fermata.
3
Il seguente è un ritornello.
228. Li comprimenti a ppranzo
E cche jje pare a llei, sor Zebbastiano?
Lei me fa ggrazzia de servimme lei.
Sú, sú, accusí:
1
già nn’ho pprenduti sei.
Uh! er cucchiaro! e lli pijji co le mano.
Mó vvojjo favorillo io: nun zaprei...
Armanco sto bboccon de parmisciano.
Ah, ah,
2
la proscedenza
3
va ar piú anziano:
lo sanno cuesto cquà ppuro l’abbrei.
4
Sibbè cche nun è robba pe la quale,
5
puro,
6
dico, che sso, in certa maggnera,
ce poterà scusà si è stato male.
Vale ppiú cquer piattin de bbona scera
7
che ttutto sto sscialà der carnovale.
Tanto,
8
mó mmaggni, eppoi? Cachi stasera.
Roma, 24 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Basta, basta così.
2
In senso di «no», coll’a molto prolungata, esprime la negativa assoluta ad un’insistenza attuale.
3
Precedenza.
4
Gli Ebrei non istimansi quali uomini a Roma, tantoché, dovendosi parlare d’uomo, si dice un cristiano.
5
Non conveniente al caso e alla persona.
6
Purtuttavia.
7
Il piatto di buona-cera, cioè: «il buon viso nel dare».
8
Vale:
«poiché ad ogni modo».
229. Er tosto
Chi? llui? Gèsus maria! Quello è un cojjone
scappato da le man der crapettaro,
e tte pôi figurà cquant’è ccacone
1
che ttiè inzino a mmesata er braghieraro.
Ce rescita da marro e da spaccone;
fa lo spazzacampagna e ’r pallonaro:
2
eppoi curre a ssarvasse
3
in d’un portone
come sente fà un ròggito
4
a un zomaro.
Senti questa ch’è fresca d’oggi a otto.
Giucamio
5
a mmora all’osteria de Marta:
quanno dereto a llui se sente un botto!
E sto bbravaccio che mmazzola e squarta,
curze ar bancone e cce se messe sotto.
Sai ch’era stato? Un schioppettin de carta.
6
Roma, 24 ottobre 1831 - D’er medemo
1
Pauroso.
2
Tutti vocaboli esprimenti affettazione di coraggio.
3
Salvarsi.
4
Ruggito, invece di «ragghio».
5
Giuocavamo.
6
Trastullo fanciullesco, fatto con carta in modo ripiegata che ad una agitazione di braccio, uscendone
una parte per l’aria che vi si interna, si tende con violenza e produce un fragore.
230. Er dua de novemmre
Oggi che ssò li Morti, di’ un po’, Ammroscio,
1
vienghi a vvedé l’Arippresentazzione?
E cc’hai pavura, che cce ssii bbarbone?
Oh statte zitto che mommó te sfroscio.
2
E io cazzaccio mó che mme ce svoscio!
3
Omo de mmerda, cimiscia,
4
cacone.
Du’ pupazzi de scera e dde cartone
sò ddiventati bbobo e mmaramoscio!
5
Oh, ppe li schertri
6
poi der cimiterio
cqui la raggione è ttua: cqui er guaio è ggrosso!
Tante teste de morto! eh, un fatto serio!
Vedo però che cquanno dài addosso
a le galline de padron Zaverio,
nun tremi un cazzo d’arrivajje all’osso.
Roma, 2 novembre 1831 - D’er medemo
1
Ambrogio.
2
Le fròce sono le «narici».
3
Svòcio: ci perdo il fiato.
4
Cimice.
5
Nomi di due larve di spauracchio.
6
Scheletri.
231. Poveretti che mmoreno pe le campagne
e sseppelliti pe la-mor de Ddio
in questo santo logo
Cristiana mia, fai bbene pe li morti?
Pijji li pellegrini in dormitorio?
Io sciò un’anima drento ar purgatorio
che sta speranno in ne li tu’ conforti.
Pe ffà ccantà le messe a Ssan Grigorio
ce vô l’inguento de zecchini storti:
e la santa indurgenza che ttu pporti
fa mmejjo de diasilla e rrisponzorio.
Penza, sorella mia, che inzin da maggio
st’anima a cchiede er bene arza la testa,
senza potenne avé mmanco un assaggio.
Via, mòvete a ppietà, ’na cosa lesta.
Opri la cappelletta der zuffraggio,
damo du’ tocchi, e poi sonàmo a ffesta.
Roma, 2 novembre 1831 - Der medemo
232. Primo, nun pijjà er nome de Ddio in vano
Bbada, nun biastimà, Ppippo, ché Iddio
è Omo da risponne pe le rime.
Ma che ggusto sce trovi a ste biastime?
Hai l’anima de turco o dde ggiudío?
C’è bbisoggno de curre in zu le prime
a attaccà cor pettristo e cor pebbío?
1
Chi a sto monno ha ggiudizzio, Pippo mio,
pijja li cacchi e lassa stà le scime.
2
Poi, sce sò ttante bbelle parolacce!
Di’ ccazzo, ffreggna, bbuggera, cojjoni;
ma cco Ddio vacce cor bemollo
3
vacce.
Ché ssi lleva a la madre li carzoni,
4
e jje se sciojje er nodo a le legacce,
5
te sbaratta li moccoli
6
in carboni.
Roma, 12 novembre 1831 - D’er medemo
1
Equivalenti per chi vuole e non vuole bestemmiare.
2
La pianta principale del cavolo-broccolo in Roma è detta una
cima, e i suoi rigermogli cacchi. Quindi la morale dell’Offendi i minori e rispetta i grandi.
3
Vacci col bimolle, adagio,
tenuamente.
4
Una donna che siasi usurpata l’autorità dell’uomo, dicesi in Roma essersene messa i calzoni: e perciò
qui Cristo deve riprendersi i suoi calzoni, poiché presso il volgo di questa città la Madonna va sempre dinnanzi al
figliuolo, ed anche al padre del figliuolo.
5
Legami delle calze attorno a’ ginocchi: qui «perder pazienza».
6
Sinonimo
di «bestemmia».
233. Er biastimatore
Quer giorno in Croce che Ggesú fu mmesso
1
e in faccia de Maria se crocefisse,
du’ parole turchine che llui disse
se scurí er Sole co la luna appresso.
Quello scurore se chiamò le crisse:
2
e ecchete perché cquann’uno adesso
vò ddí peccristo je viè a stà l’istesso
discenno, senza bbiastimà, pe ccrisse.
3
Quanno se possi a fforza de talento
trovà uno sguincio
4
pe nnun fà ppeccato,
chi è er cristiano che nun zii contento?
Duncue, che sserve a dì ppe ddio sagrato?
Ciariparlamo ar brutto sagramento,
5
a llume de cannela
6
cor curato.
Roma, 21 novembre 1831 - De Pepp’er tosto medemo
1
Sintassi non infrequente nei romaneschi.
2
L’eclissi.
3
Modificazione di bestemmia.
4
Così chiamasi un piccolo adito
o vacuità a sghembo. Nel nostro caso equivarrebbe anche a «scappatoia».
5
L’olio-santo.
6
All’ardere del lume che si
accende nell’agonia.
234. A ppijjà mojje penzece un anno e un giorno
Io je l’avevo detto a cquer bardasso:
1
sin che ccampa tu’ madre êssi
2
zitello.
Ma lui ha ttrovo un porton de trapasso,
3
e l’ha vvorzuta fà de su’ sciarvello.
La vecchia
4
sbuffa come un zatanasso,
la ggiovene
5
tiè in culo farfarello:
6
e si annamo ppiú avanti de sto passo,
famme bbusciardo, cqua nnasce un mascello.
Cquella llí la vò ccotta, e cquesta cruda:
cquesta vò iggnommerà?
7
quell’antra innaspa;
e ffanno come lo strozzino
8
e Ggiuda.
Se dícheno impropèri a ttutte l’ora:
sò er cane e ’r gatto, la lima e la raspa:
9
via, cuer che sse pò ddí soscera e nnora.
Roma, 12 novembre 1831 - D’er medemo
1
Questo vocabolo non esprime in Roma che la semplice idea di «ragazzo giovinetto».
2
Sii.
3
Donna aperta da tutti i
canti.
4
La suocera.
5
La nuora.
6
Il demonio.
7
Da gnommero, gomitolo.
8
Capestro.
9
Proverbi.
235. Accusí và er monno
Quanto sei bbono a stattene a ppij
1
perché er monno vô ccurre
2
pe l’ingiù:
che tte ne frega
3
a tté? llassel’annà:
tanto che speri? aritirallo sù?
Che tte preme la ggente che vvierà,
4
quanno a bbon conto sei crepato tu?
Oh ttira, fijjo mio, tira a ccampà,
e a ste cazzate
5
nun penzacce
6
ppiù.
Ma ppiú de Ggesucristo che ssudò
’na camiscia de sangue pe vvedé
de sarvà ttutti; eppoi che ne cacciò?
Pe cchi vvò vvive
7
l’anni de Novè
ciò
8
un zegreto sicuro, e tte lo dò:
lo ssciroppetto der dottor Me ne…
9
Roma, 14 novembre 1831 - Der medemo
1
Startene a pigliar pena.
2
Correre.
3
Che te ne cale.
4
Verrà.
5
Sciocchezze.
6
Non pensarci.
7
Vuol vivere.
8
Ci ho: ho.
9
Me ne buggero: non me ne incarico.
236. Fidasse
1a
è bbene, e nnun fidasse è mmejjo
Pe ste tu’ communelle co Ttomasso
hai da stà fresco tu ccom’er pancotto.
Cuello è un gargante
1
che nun move un passo
si nun ce viè la su’ morale sotto.
Dijje le tu’ bbudelle ché stai grasso!
Seguita a cconfettà sto galeotto:
e cquanno hai gusto d’arimane a spasso,
2
lasselo lavorà ssotto cappotto.
In-primi-e-Antonia
3
te vò ffà ccornuto:
ma cquesto è ggnente: eppoi cor tu’ padrone
te buggera a la dritta e ssenza sputo.
E tu, abbasta opri bbocca un chiacchierone,
vai ’n estis,
4
t’incecischi,
5
resti muto
come parlassi
6
er gran Re Salamone.
Roma, 14 novembre 1831 - Der medemo
1a
Fidarsi.
1
Uomo di dubbia fede.
2
Di rimanere senza impiego.
3
In primis et ante omnia.
4
In estasi.
5
T’imbalordisci.
6
Parlasse.
237. L’uscelletto
Sor Maria Battifessa,
1
v’ho pportato
un uscelletto d’allevasse
2
a mmano,
che lo cacciò mmi’ Madre da un pantano,
dove Tata
3
sciaveva seminato.
Nun guardate ch’è cciuco
4
e spennacchiato:
lo vederete cressce
5
a mmano a mmano.
Anzi allora tienetelo ingabbiato,
perché ssi vvola ve pô annà llontano.
Sin ch’è da nido, fateje carezze:
cerca l’ummido poi, ma nnò lo sguazzo;
e la gabbia la vò ssenza monnezze.
De rimanente è uscello da strapazzo:
e nn’averete le sette allegrezze
fascennolo ruzzà ss’un matarazzo.
Roma, 15 novembre 1831 - Der medemo
1
Badessa.
2
Da allevarsi.
3
Mio padre.
4
Piccolino.
5
Crescere.
238. Er viaggiatore
È un gran gusto er viaggià! St’anno sò stato
sin a Castèr Gandorfo co Rrimonno.
Ah! cchi nun vede sta parte de Monno
nun za nnemmanco pe cche ccosa è nnato.
Cianno fatto un ber lago, contornato
tutto de peperino, e ttonno tonno,
congeggnato in maggnera che in ner fonno
sce s’arivede er Monno arivortato.
Se pescheno llí ggiú ccerte aliscette,
co le capòcce, nun te fo bbuscía,
come vemmariette de Rosario.
E ppoi sc’è un buscio indove sce se mette
un moccolo sull’acqua che vva vvia:
e sto bbuscio se chiama er commissario.
1
Roma, 16 novembre 1831 - Der medemo
1
L’emissario del lago Albano. Chi lo visita, si diletta di mandarvi dentro dei moccoletti accesi sostenuti da pezzetti di
legno galleggianti sull’acqua che vi s’interna.
239. Le cose nove
Ma ttutte ar tempo nostro st’invenzione?!
Tutta mó la corona je se sfila!
1
P’er viaggià ssolo sce ne
2
ttremila!
Pell’aria abbasta de gonfià un pallone;
pe tterra curri scento mijja in fila,
senza un cazzo
3
cavalli né ttimone;
pe mmare sc’è una bbarca de carbone
che sse
4
spiggne cor fume de la pila.
Ma in quant’ar mare io mo dimannería
5
s’oggi un cristiano co st’ingegni novi
pôzzi scampalla
6
de finí in Turchia.
Perché cquer palo che llaggiú tte covi
7
poderebbe sturbatte
8
l’alegria.
Ggià, ppaese che vai
8a
usanza che ttrovi.
Roma, 17 novembre 1831 - D’er medemo
1
Sfilar la corona: metter fuori tutto di seguito.
2
Ce ne sono.
3
Affatto.
4
Si.
5
Dimanderei.
6
Possa scamparla.
7
Ti covi:
Covare per «avere sotto».
8
Potrebbe sturbarti.
8a
Aiu: trittongo alla maniera dei classici che fecero altrettanto; per
esempio: Monosillabo: «un paio di calze di messer Andrea» (Berni); Dissillabo: «Farinata e il Tegghiaio che fur
degni» (Dante); Trisillabo: «Non sia più pecoraio, ma cittadino» (Berni); «Perch’io veggio il fornaio che si prolunga»
(Della Casa); Quadrisillabo: «Con un rinfrescatoio pien di bicchieri» (Berni), ecc.
240. È mejjio perde un bon’amico
che una bbona risposta
Jjer ar giorno pe vvia de sto catarro
der mi’ pover’uscello arifreddato,
maggnat’appena du’ cucchiar de farro
curse
1
da quer cirusico arrabbiato.
Ma io c’una ch’è una nun n’ingarro
2
te lo trovai che ggià sse n’era annato
in frett’e in furia a rinnaccià uno sgarro
3
co lo spezziale, er medico e ’r curato.
La mojje che mme vedde mette a ssede
4
disse inciurmata:
5
«Ihì! ppuro
6
la ssedia!
Ve dà ffastidio d’aspettallo in piede
«Che! vve la logro?
7
», io fesce
8
a la scirusica:
«pozziat’êsse
9
ammazzata a la Commedia!
Accusí armanco
10
creperete in musica».
Roma, 17 novembre 1831 - D’er medemo
1
Corsi.
2
Non ne indovino.
3
A medicare una ferita.
4
Mi vide mettermi a sedere.
5
Ciurma: cipiglio.
6
Pure.
7
Logoro.
8
Dissi.
9
Possiate essere.
10
Almeno.
241. Lo scommido
Sor Inguento-de-tuzzia,
1
a la grazzietta:
2
m’ha dditto adesso quer taddeo
3
de Sferra
che mme scercavio
3a
pe mmare e ppe tterra.
Che vve s’è ssciorto?
4
Ecchene cquì ’na fetta.
4a
Sapete eh, ddico a voi, sor fiaccoletta:
1
oh cquesta ppe ccristo ch’è ccascerra!
5
Tutta sta furia cquì, sto serraserra,
eppoi scià
5a
la pitina a la linguetta!
6
Volete vede
7
che mmommó vv’appoggio
’na rincarzata ar cofino,
8
eppo’ un carcio
sei deta
9
sotto ar zito dell’orloggio?
E sto cazzotto che vve fa scacarcio,
10
sur gruggno vostro vò pijjacce
11
alloggio,
pe ddàvve vinta la partita e ’r marcio.
12
Roma, 18 novembre 1831 - Der medemo
1
Nome di scherno.
2
Modo di saluto, quando naturale e quando ironico.
3
Quel grullo.
3a
Mi cercavate.
4
Cosa volete.
4a
Ecchene qui ’na fetta; Ecchene un pezzo, ecc. Sono modi equivalenti a «eccomi qui; son da voi» e simili.
5
Bella,
curiosa.
5a
Ci ha: ha.
6
Cioè: «è mutolo».
7
Vedere.
8
Un colpo di mano al cappello, sì che discenda sugl’occhi.
9
Dita.
10
Vi fa timore.
11
Vuol prenderci.
12
Per darvi la derrata e la giunta.
242. Li ventiscinque novemmre
Oggiaotto ch’è Ssanta Catarina
se cacceno le store
1
pe le scale,
se
2
leva ar letto la cuperta fina,
e ss’accenne er focone in de le sale.
Er tempo che ffarà cquela matina
pe Nnatale ha da fàllo tal’e cquale.
3
Er busciardello
4
cosa mette? bbrina?
La bbrina vederai puro a Nnatale.
E ccominceno ggià li piferari
5
a ccalà da montagna a le maremme
co cquelli farajôli
6
tanti cari!
Che bbelle canzoncine!
7
oggni pastore
le cantò spiccicate
8
a Bbettalemme
ner giorno der presepio der Zignore.
18 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Si cavano le stuoie. Alle porte d’ingresso delle case di persone nobili o agiate si pone una stuoia, o bussola
imbottita.
2
Si.
3
Opinione volgare costantissima, che si ride dell’esperienza. Vari altri simili giorni di osservazione
sono nel corso dell’anno.
4
Il bugiardello, il lunario.
5
Abruzzesi, suonatori di pive e cornamuse o cennamelle, che il
popolo chiama ciaramelle.
6
Mantelletti rattoppati che raramente giungono loro al ginocchio.
7
Niuno può vantarsi di
aver mai inteso ciò che essi cantano.
8
Tali e quali.
243. La piggion de casa
Nun pôi
1
sbajjà
ssi vvôi.
2
Cquà ssu la dritta,
ner comincio
3
der vicolo de Bbranca,
doppo tre o cquattro porte a mmanimanca
4
te viè
5
in faccia una pietra tutta scritta.
Svorta er collo tra ll’oste e ll’artebbianca
6
e ppropio attacc’a cquella casa sfitta
llí a ppianterreno sciabbita er zor Titta
7
er barbiere a l’inzeggna de la scianca.
8
L’hai capito mó adesso indove arresta?
9
Bbe’, ddomatina tu vvàcce a cquest’ora,
ché ll’ora lui de nun trovallo è cquesta.
Di’: «Cc’è zor Titta?» «No». Tu ddijje allora:
«Disce zia che a ppagà viè st’antra
10
festa
11
ché gglieri
12
lei lo rifasceva fora».
13
Roma, 19 novembre 1831 - Der medemo
1
Non puoi.
2
Se vuoi.
3
Principio.
4
A mano manca.
5
Ti viene.
6
Venditore di minestre ed altri minuti.
7
Ci abita il
signor Giovan Battista.
8
I barbieri de’ luoghi meno civilizzati di Roma usano ancora la vecchia insegna di una gamba
in salasso, dinotante la flebotomia, al cui esercizio erano essi obbligati, cosa che va cadendo in disuso.
9
Resta.
10
Altra.
11
Le pigioni dell’infimo popolo si pagano per solito settimanalmente; e gli stessi inquilini si recano a
soddisfarle nelle domeniche, giorni per essi di libertà non solo, ma di maggior facoltà per gli stipendi esatti il sabato
sui loro mestieri. Di più, questa frequenza di pagamenti in piccole frazioni riesce insieme ai locatori di maggior
facilità, ed ai locatori di minor rischio.
12
Ieri.
13
«Ella lo credeva assente di bel nuovo». È frase altresì d’ingiurioso
equivoco, esprimendo anche l’atto del recere.
244. L’Omo
Guarda che ccosa è ll’omo, e ssi
1
è ppeccato
de fà sparge a la guerra er zangu’ umano!
Dio, che ppô ffà ’ggni cosa da lontano
e ppiscià a lletto e ddí dd’avé ssudato,
pe ccreà l’Omo sc’impiegò le mano;
e ddoppo avello
2
bbene smaneggiato,
je fesce hâh:
3
e Adamo, pe cquer fiato,
da un pupazzetto diventò un cristiano.
E aveva appena cominciato a vvive,
4
che ggià ssapeva rescità l’istoria
com’un de quarant’anni, e llêgge, e scrive.
E ssapeva chiamà ppuro
5
a mmomoria
tutte le bbestie bbone e le cattive
come noi conosscemo la scicoria.
Roma, 19 novembre 1831 - Der medemo
1
Se.
2
Averlo.
3
Gli fece hâh: spirò sopra a lui il suo alito.
4
Vivere.
5
Pure.
245. Eppoi?
Séguita a ffà sta vita, Zzaccheria:
freghete l’orbo
1
co ste tu’ donnacce:
la dimenica a mmessa nun annacce:
2
immriàchete
3
sempre all’ostaria.
Strapazza er nome de Ggesummaria:
giuchete er core,
4
intosta a parolacce.
5
Tu tte penzi
6
che Ccristo nun ce sia,
e llui te sta a ssegnà ttutte le cacce.
7
Va’, ccontinuva a vvive
7a
in ner peccato,
fra ccarte e ddonne, fra bestemmie e vvino:
ma ar capezzale
8
quer ch’è stato è stato.
C’è ppoco ar bervedé,
9
ssor figurino;
e cquanno Cristo er culo l’ha vvortato
10
vall’a rripijja allora p’er cudino.
11
Roma, 20 novembre 1831 - Der medemo
1
Fregarsi l’orbo: darsi alla cieca alle carnalità.
2
Non andarci.
3
Ubbriàcati.
4
Giuòcati tutto.
5
Rincara con parolacce;
ostinati a dir parolacce oscene e empie.
6
Ti pensi: ti vai figurando.
7
Segnar le cacce: notare i falli. Metafora presa dal
giuoco di palla.
7a
Vivere.
8
Al punto di morte.
9
Al belveder c’è poco: è vicino il successo. Belvedere è una parte del
Vaticano.
10
Voltare il culo, le spalle.
11
Vallo a ripigliare allora pel codinio: richiamalo indietro, se puoi.
246. Er traghetto
1
Ahàggnola!
2
a la fine te sciò ttrova
3
a ppreparamme
4
er barzimo
5
der corno!
Ma ttanto e ttanto me credevi ssciorno
6
de nun capillo
7
cquà ccosa se
8
cova?
Sputa:
9
chi è cquello c’a la Cchiesa-nova
un quarto fà tte ronneggiava
10
intorno?
eppoi entrò cco tté llí accant’ar forno
da quella donna c’arivenne
11
l’ova?
Io ve vedevo, sai? Lui chiotto chiotto
a vvienitte a le tacche,
12
e ttu a gguardallo
co la coda dell’occhi pe dde sotto.
E mmó ccosa sarebbe sto bbarbotto?
13
Fussi
14
quarche ttumore da riontallo
15
come jjeri coll’ojjo der cazzotto!
16
Roma, 20 novembre 1831 - Der medemo
1
Occulto commercio d’amore.
2
Esclamazione propria di chi gode aver trovato ciò che cercava.
3
Ti ci ho trovata.
4
Prepararmi.
5
Balzamo.
6
Stolido.
7
Da non capirlo.
8
Si.
9
Confessa, parla.
10
Rondeggiare: far la ronda.
11
Che rivende.
12
A venirti alle tacche: a seguirti da presso.
13
Questo borbottio.
14
Fosse mai.
15
Da riontarlo: riungerlo.
16
Coll’olio dei
pugni.
247. Er Profeta de le gabbole
1
Voi sce gonfiate
2
da ’na man de
3
sere
sor uscellaccio de le male nove
4
che in tutto quanto er Carnovale piove:
pôzzi crepà lo stroligo
5
in braghiere!
6
C’abbitassivo
7
ar vicolo der bove
8
co vostra mojje a rregge er cannejjere
9
lo sapevo, ma nnò st’antro
10
mestiere
de rubbà ll’occhialino a Bbarbaggiove.
11
Io ve lassai cuggnato
12
de li preti,
e vv’aritrovo mó tutt’in un botto
13
diventato Spacoccio de Rieti.
14
Dunque, sor Casamia,
14
sor Omo dotto,
sor Barbanera,
14
a nnoi, tra sti segreti
s’ariccapezza sto ternuccio all’Otto?
14a
Roma, 20 novembre 1831 – Der medemo
1
Cabale.
2
Ci annoiate.
3
Da una mano di, ecc.: da cinque.
4
Uccello di cattivo augurio.
5
Possa crepar l’astrologo.
Così rispondesi a chi predice sventure.
6
Il brachiere è a Roma tenuto per un famoso barometro.
7
Che abitaste, ecc.
8
Cioè: «che foste cornuto».
9
Candeliere.
10
Quest’altro.
11
Di antivedere il futuro.
12
Cognato. Dicesi in Roma cognato a
chi partecipa con altri d’una medesima donna.
13
D’improvviso.
14
Tre famosi facitori e titoli di lunari.
14a
Al lotto.
248. Er cucchiere e ’r cavarcante
Sonetti 3
Nun ho mai fatto un cazzo l’assassino,
ma er cucchiere co ccime de padroni;
e ho ssempre strascinato in carrozzino
principesse co ttanti de cojjoni.
1
Ma ttu, lladro, a sti poveri sturioni
2
la maggnatora j’hai sbusciato inzino,
pe ffà ccascà la bbiada a ffuntanoni
come fussi un orloggio a pporverino.
Ecco er perché ddiventen’ossa e ppelle!
Ecco si ccome mostreno le coste,
e ss’arreggeno sú cco le stampelle!
Ma sse sa, ggatto mio, chi ssò le poste
che jje venni la bbiada a mmisurelle:
du’ cavajjeri de Galanti,
2a
e un oste.
Roma, 20 novembre 1831 - Der medemo
1
Di grado più eccelso.
2
Storioni: cavalli magri.
2a
Birri monturati che si fanno chiamare Guardie di polizia, capitanati
da un cavalier Galanti, già Bargello.
249. Er cucchiere de grinza
1
Un cazzo che vv’arrabbi! A Ssan Ghitano
2
so’
3
vvent’anni che bbatto la cassetta:
e nnun tienevo un pelo a la bborzetta
che Ttata
4
me metté la frusta in mano.
Ma ssai tu a Rroma, a Nnapoli, a Mmilano
quanti cucchieri ho ffatti stà a la fetta?
5
Sti bbanchieri
6
strillaveno vennetta
riccojjenno li ferri
7
da lontano.
Ho gguidate parijje io co la vosce
8
c’averebbeno, a un dì,
8a
ttramonto er zole,
9
cavalli da fà ffà sseggni de crosce!
10
E ssò arrivato co le bbrijje sole
a pportamme
11
da mé ssedisci frosce!
12
Duncue fâmo
13
per dio poche parole.
In legno, da Morrovalle a Tolentino,
De Pepp’er tosto - 28 settembre 1831
1
Di vaglia.
2
Gaetano.
3
Sono.
4
Mio padre.
5
Ho tenuti in suggezione.
6
Cocchieri mal destri.
7
Raccorre i ferri, nel
gergo volgare vale: «rimanere molto indietro nel corso».
8
Col solo soccorso de la voce.
8a
Per modo di dire.
9
Tramontato il sole. Cavallo che tramonta il sole, cioè: «focoso e velocissimo».
10
Cavalli da sbigottire.
11
A portarmi.
12
Sedici froge: otto cavalli.
13
Facciamo.
250. Er cucchiere for der teatro
Eh? che bber gode!
1
Immezzo de ’na piazza,
sott’a ste quattro gocce de bbrodetto,
senza poté nnemmanco acchiappà un tetto,
2
fà ’ggni notte ’na vita de sta razza!
E ttratanto quer gruggno de pupazza
de la padrona mia, drent’ar parchetto
se
3
diverte cor ghiggno e cco l’occhietto,
pe ffà ride
4
la freggna che l’ammazza.
4a
Eppuro
5
a ccasa scià
6
ttanto de specchio
pe ppotella capí
7
cche cquanno fiocca
8
la donna se pô vvenne
9
ar ferravecchio.
Ma llei de cazzi!
10
sin c’ha un dente in bocca,
de sughillo
11
’ggni ggiorno ne vô un zecchio,
una marmitta, un cuccomo e una bbrocca.
In legno, da Morrovalle a Tolentino,
D’er medemo - 28 settembre 1831
1
Che bel godere!
2
Prendere un tetto: per «ricoverarsi».
3
Si.
4
Per far ridere: per soddisfare.
4a
Che l’ammazzi.
5
Eppure.
6
Ci ha: ha.
7
Per poterla capire.
8
Fioccare: qui sta per «avere i capelli bianchi».
9
Si può vendere.
10
Ma ella al
contrario!
11
Di sugo. Ciò è relativo al senso della nota 4.
251. Er falegname cor regazzo
Famme la carità, ma cche tte fai!,
cosa te freghi, pe l’amor de Ddio!
Nu lo vedi che ddritto nun ce vai,
mannaggia li mortacci de tu’ zio?
Gran ché de nun potesse fidà mai
co sto scolo d’un cazzo de ggiudio!
Animo, lass’annà, cché nun ce dai:
a cchi ddico? aló, cquà, ché ssego io.
Lasseli stà sti poveri strumenti,
ché, a cquer che vvedo, er legno, fijjo caro,
nun è pane adattato a li tu’ denti.
Và piuttosto a fà er medico o ’r notaro,
oppuro er mercordì, si tte la senti,
viaggia a piazza-ladrona
1
pe ssomaro.
Roma, 21 dicembre 1831 - D’er medemo
1
Piazza Navona, detta talvolta ladrona, a causa del fraudolento traffico che vi fanno i rivenduglioli, ossia i bagherini.
252. La corda ar Corzo
Cquì, e cquant’è ggranne Roma
1
l’aricorda,
propio in ner mezzo a sta ritiratella,
c’era piantato un trave e una ggirella
dove prima sce daveno
2
la corda.
Sto ggiucarello era una lima sorda,
o ffussi a tratti oppuro a ccampanella,
3
che cchi ss’è intesa in petto la rotella
de le spalle, pe ddio nun ze ne scorda.
Sia benedetto sempre er cavalletto!
Armanco mó tte n’eschi con onore,
e nun ce fai li cardinali in petto.
4
Ché ffor de quer tantino de bbrusciore,
un galantomo senza stacce
5
a lletto
pô annà pp’er fatto suo com’un ziggnore.
Roma, 21 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Roma tutta intiera. Lo ricorda anche l’autore di questi versi, benché giovane.
2
Ci davano.
3
Il tirar su e poi ricalare il
paziente, senza abbandonarne il peso a se stesso come si usava ne’ tratti, da’ quali, restando il corpo sospeso e legato
per le mani dietro il dorso, riceveva l’infelice dolore acutissimo e slogamento di ossa.
4
Sputi di sangue. Metafora
presa dal riserbarsi che talora fa il Papa de’ Cardinali in petto, per pubblicarli in tempo avvenire. Fare i cardinali,
vale: «sputar sangue».
5
Starci.
253. Er primo bboccone
Qual è ttra li peccati er piú ppeccato
c’abbi fatto ppiú mmale a ttutt’er monno?
Quello primo? ggnornò: mmanco er ziconno,
o er terzo, o er quarto. Er quinto-gola è stato.
Pe una meluccia, c’averà ccostato
mezzo bbaiocco, stamo tutti a ffonno!
Pe cquesto er zeggno de st’ossetto tonno
cquà immezzo de la gola sc’è
1
restato.
Vedi che bber zervizzio sce fasceva
2
quer cornuto d’Adamo, nun zia mai,
co cquella jjotta
3
puttanaccia d’Eva,
si
4
mmai Dio Padre, c’ha ttalento assai,
nun mannava er fijj’unico c’aveva
ggiú in terra a rrippezzà ttutti li guai.
Roma, 21 novembre 1831 - Der medemo
1
C’è.
2
Ci faceva.
3
Ghiotta.
4
Se.
254. Er morto devoto de Maria Bbenedetta
Prima usscí co la crosce er chirichetto,
po’ er prete co la stora ner’e ggialla,
quattro facchini poi cor moccoletto
smorzat’in mano e ’r catalett’in spalla.
Uno de questi in capo ar vicoletto
dà un bôttaccio, e la cassa je trabballa:
e ssi un morto va ggiú dar cataletto,
l’anima è seggno che sta a ccasa calla.
Ma la Madonna che llui fu ddevoto
nu lo permesse. Er vivo s’ariarza,
e tutt’e ddua sce ponno attaccà er voto.
Pe ttirà ssú li sui, moneta farza
fa la Madonna e ttanto terramoto,
che o de riffe o de raffe sce li sbarza.
Roma, 21 novembre 1831 - Der medemo
255. Morte scerta, ora incerta
Staveno un par de gatti a ggnavolà
in pizzo ar tettarello accant’a mmé
ggiucanno in zanta pace e ccarità
a quer giuchetto che de dua fa ttre:
quanto quer regazzaccio der caffè
accosto a la Madon de la pietà
j’ha ttirato de posta un nonzocché
che l’ha ffatti un’e ll’antro spirità.
Povere bbestie, j’è arimasta cquì!
1
Ma cquer ch’è ppeggio cento vorte e ppiú,
sò rrotolati tutt’e ddua de llí.
Doppo lo schioppo c’hanno dato ggiú,
uno s’è mmesso subbito a fuggì,
e ll’antro è mmorto senza dí Ggesú.
Roma, 22 novembre 1831 – Der medemo
1
Toccando la gola, quasi per indicare un boccone non ancor bene inghiottito.
256. Li bburattini
Checca, sei stata mai ar teatrino
de bburattini in der palazzo Fiano?
Si vvedi, Checca mia, tiengheno inzino
er naso com’e nnoi, l’occhi e le mano.
C’è ll’Arlecchin-batocchio, er Rugantino,
er Tartajja, er Dottore, er Ciarlatano:
ma cquer boccetto poi de Casandrino,
nun c’è un cazzo da dí, ppare un cristiano!
1
Jeri per la ppiú ccorta io sce sò annata
incirca ar tocco de la Vemmaria
c’allora s’ariopre l’infornata.
2
E ppoi cor pesator de pescheria
co Pipp’e Peppe Menica e Nnunziata
ce n’annassimo a ccena all’osteria.
Roma, 22 novembre 1831 - Der medemo
1
Un uomo.
2
Quel teatrino ripete ogni sera di ora in ora lo stesso spettacolo per tre o quattro volte, rinnovando sempre
gli spettatori. Quei rinnovamenti di popolo diconsi camerate o infornate, perché per l’angustia del luogo si soffre il
caldo di un forno.
257. Er tignoso vince l’avaro
Che cce faressi? oh mméttesce una zeppa!
1
L’hai ddata inzin’adesso a ttant’e ttanti,
c’oggi o da me t’hai da scibbà una sleppa,
2
o fàmme intiggne,
3
ar men che ssia, davanti.
Quà, for che mmé, chi ccià l’uscello inzeppa,
e tu nun je lo tocchi co li guanti:
io dunque vojjo entrà, sora Ggiuseppa,
in paradiso a ddispetto de santi.
A temp’e llogo de spanà, tu spani:
4
te piasceno li pranzi e le marenne:
eppoi me tratti peggio de li cani.
Guarda cquì com’er ciscio arza le penne...
Che ccos’hai detto? me la dài dimani?
Passi l’Angeledèi e ddichi ammenne.
Roma, 22 novembre 1831 – De pepp’er tosto
1
Vacci a porre rimedio.
2
Cibare una percossa.
3
Intingere.
4
Mangi.
258. Er punto d’onore
Bbè, vvia, bbasta che ssii senza malanni
viè ddimani su a casa de Vincenza.
Oggi nun pozzo dattela in cusscenza
perché vvado a l’erliquie a Ssan Giuvanni.
Sta ggiornata che cquì da tre o cquattr’anni
me confesso e ffò un po’ de pinitenza,
perché cchi pijja oggi l’indurgenza
va in paradiso co ttutti li panni.
Che tte fa un giorno ppiú o un giorno meno?
Mica è ggrano che ccasca! morissi oggi,
te voría compatí: tanto sei pieno?
Oé però, si è vvero de st’orloggi,
1
pe nnun mancà a li patti te lo smeno,
ma cqui ddrento cuccú cche mme l’appoggi!
Roma, 22 novembre 1831 - Der medemo
1
Buboni.
259. Er tiratira
1
Nun te so cche risponne
2
e ddichi
3
poco
quanno me chiami crapa
4
e ggallinaccio:
su sta mmerda sce
4a
do ssempre er gruggnaccio:
5
e ’r piú pegg’è
6
che mmai nun trovo loco.
La strega che ccapiva ch’er mi’ foco
stava agguattato
7
sotto ar cenneraccio,
m’ha pijjato nell’ora der cazzaccio,
8
e ecco cqui ricominciato er gioco.
L’ambra nun trova sempre la pajjetta:
9
tutto er ferro nun cià
10
la calamita;
e nun c’è pe ’ggni uscello
11
una sciovetta.
12
Ma p’er cristiano
13
sta ssempre ammannita,
come tavola d’oste, una saetta
che de natura sua tira la vita.
Roma, 23 novembre 1831 - Der medemo
1
Tira tira: «un oggetto attraente», e specialmente una «donna amata».
2
Non so che risponderti.
3
Dici.
4
Capra:
sciocco.
4a
Ci.
5
Il viso.
6
E il peggio è.
7
Nascosto.
8
Dicesi che qualsivoglia uomo abbia ogni giorno un’ora di
debolezza.
9
Paglietta.
10
Non ci ho: non ha.
11
Per ogni uccelletto.
12
Civetta.
13
Pel cristiano: per l’uomo. I soli cristiani
sono uomini. Tutti gli altri non sono uomini, ma turchi, ebrei, ecc.
260. A le prove
Ecco ch’edè:
1
vô êsse
2
solo er Marro
3
a ccugnà
4
le patacche a la tu’
5
zecca:
pe cquesto te viè a ddí,
6
llinguaccia secca!,
7
che, cquanno sparo io, raro sc’ingarro.
8
De che?!
9
la mi’ pistola nun fa ccecca,
10
sibbè cche ffussi
11
caricata a ffarro.
Eppoi, Tuta,
12
viè cquà,
13
ffâmo
13a
un bazzarro,
e ssi
14
nun cojjo
15
a tté ddàmme la pecca.
16
È vvero c’a sto monno in centomila
nun c’è ggnisuno che ppô ffàsse
17
bbravo,
ché sse
18
ponno crepà mmanico e ppila.
Però ssi
14
ll’anni addietro io me cavavo
un ott’o ddiesci gustarelli in fila,
pe ddodisci oggi puro
19
me li cavo.
Roma, 23 novembre 1831 - Der medemo
1
Che è, cos’è.
2
Vuol essere.
3
Il marro, nome che si alla parte più rozza e risoluta del popolo.
4
Coniare.
5
Tua.
6
Ti
viene a dire.
7
Malédica.
8
Ingannare, dar nel segno.
9
Come?!
10
Far cecca: fallire.
11
Benché fosse.
12
Gertrude.
13
Vieni
qua.
13a
Facciamo.
14
Se.
15
Còjjo: colpisco.
16
Dar la pecca, trovar la pecca: criticare.
17
Può farsi.
18
Si.
19
Pure.
261. Er beccamorto
Tu ccapischi cor culo, abbi pascenza:
nun dico questo, ch’averebbe torto.
Bell’e bbono è er mestier der beccamorto
quanno Iddio vò mmannà la providenza.
Io dico, e sto discorzo è una sentenza,
che cquanno er tempo de l’istate è scorto,
sò spicciati
1
li cavoli pell’orto,
2
e ssi
3
ppoi vôi maggnà mmagni a ccredenza.
Sta Roma è un paesaccio mmaledetto
dove l’inverno nun ce more un cane,
e tte se tarla puro er cataletto.
Oh vvedi pe abbuscà un boccon de pane
quanto s’ha da pregà Ddio bbenedetto
perché illumini medichi e mmammane!
Roma, 23 novembre 1831 – Der medemo
1
Finiti.
2
Cioè: «è finita la raccolta, è finito il guadagno».
3
Se.
262. La Compaggnia de Vascellari
1
Si ccaso mai, sor faccia de pangiallo,
l’arreggemo noi puro er bardacchino.
Ch’edè?
2
nun zemo indeggni
3
de portallo?
E vvoi chi ssete? er fio
4
der re Ppipino?
Nun t’aricordi ppiú, bbrutto vassallo,
de quelli scarponacci da bburrino
quanno a le mano sce tienevi er callo
e mmaggnavi a ppagnott’-e-ccortellino?
Oggi che cc’è er Zantissimo indisposto
potressi armanco usà pprudenza, e a cquelli
che ssò pprima de té ccedeje er posto.
Er bardacchino tocca a li fratelli
de segreta: epperò ssor gruggno tosto
levàtevesce for da li zzarelli.
Roma, 23 novembre 1831 - Der medemo
1
Confraternita di Vasellai.
2
Che è?
3
Degni.
4
Figlio.
263. L’Apostoli
T’hai da capascità cche, o bbianco, o rosso,
o nnero, o ppavonazzo, te sfraggella.
Sin che in ner mare sce sta er pessce grosso,
er piccolo ha d’avé la cacarella.
1a
Triste chi nassce sott’a cquella stella,
e a le snerbate nun za ffacce
1b
l’osso!
Bisoggna fasse mette
1c
la bbardella
e bbascià er culo che tte caca addosso.
Prima sce bbuggiarava er zor Pietruccio:
1
oggi nun è ppiú bbroccolo, ma ccavolo,
e cce bbuggera in cammio Pavoluccio.
2
Inzomma, un giorno Pietro e un giorno Pavolo,
noi stamo sempre com’e ddon Farcuccio
3
sott’a le granfie o dd’un demonio o un diavolo.
Roma, 23 novembre 1831 - Der medemo
1a
Deve temere.
1b
Non sa farci.
1c
Farsi mettere.
1
Pietro Fumaroli, favorito di Leone XII.
2
Paolo Massani, favorito del
cardinal Bernetti, gran visir di Gregorio XVI.
3
Stare o restare come don Falcuccio: restar delusi.
264. L’editto pe la cuaresima
Er curato a la messa ha lletto er fojjo
che cc’è l’indurto, e ccià spiegato tutto.
A ppranzo se connissce co lo strutto,
ma la sera però ssempre coll’ojjo.
Carne de porco mai: sai che ccordojjo
sti jotti
1
de salame e dde presciutto!
Pe mmé ciò un zanguinaccio, ma lo bbutto,
ché io nun vojjo scrupoli, nun vojjo.
La matina se pò pe ccolazzione
pijjà un deto
2
de vino e un po’ dde pane,
da non guastà er diggiuno in concrusione.
Poi disce a li cristiani e a le cristiane
d’abbandonà er peccato, e ffà orazzione
sin che nun s’arissciojje
3
le campane.
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Si sottintende a: «per questi ghiotti».
2
La misura di un dito.
3
S’arissciojje: si riscioglie, si sciolgono di nuovo.
265. L’editto pe tutto l’anno
Ho vvisto propio mó a le cantonate
curre er libbraro a appiccicà un editto.
È un lenzòlo de carta tutto scritto,
che le ggente sce fanno a ggommitate.
Bisoggna avé ggiudizzio, cammerate,
perché cchi ssa che ce pô esse
1
scritto?
E ppotrebbeno avé ffatto un delitto
che nun ze ggiuchi ppiú mmanco a ssassate.
Sortanto ho ’nteso un quèquero
2
in perucca
a bbarbottà, svortannose
3
de fianco:
«Chi cce governa, nun tiè ssale in zucca».
Nun c’è ppiú dunque da sperà nnemmanco;
perché ssi cchi cce ll’ha, ppuro
4
te cucca,
5
figurete
6
chi ha perzo
7
er fritto bbianco.
8
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Essere.
2
Anticaglia.
3
Voltandosi.
4
Pure.
5
Te la fa.
6
Figurati.
7
Perduto.
8
Il cervello.
266. Er marito ammalato
Avevo inteso da che mmonno è mmonno
ch’er piú ppeggio che ffussi era la morte,
e cche dde dua c’aspettano sta sorte
un’e ll’antro vorebb’esse
1
er ziconno.
2
Ma ttu cc’hai sempre st’ideacce storte,
mannaggia la nepote de tu’ nonno!,
dichi mo che sta mmejjo chi vva a ffonno,
ché ’r penà de chi rresta è ttroppo forte.
E mme vôi fà pparé ddorce st’agresta
oggi che la salute me se sfraggne!
Tristo chi mmore e bbuggiarà cchi resta.
Ebbè, píjjete
3
tu le mi’ magaggne,
e ppe llevatte
4
sti grilli da testa
vatt’a ffà bbuggiarà, cch’io resto a ppiaggne.
5
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Essere.
2
Secondo.
3
Pigliati.
4
Levarti.
5
Piangere.
267. Er conto dell’anni
Mó ffamo er conto. Avevo ammalappena,
quanno che mme sposai, quattordiscianni:
de quattordisci e mmezzo fesce
1
Nena:
de disciassette partorii Ggiuvanni.
Questi c’ho detto sò li dua ppiú granni:
Nena ha ddiescianni pe la Madalena;
e Nnino, senza tanto che m’affanni,
finí jjerzera dodiscianni a ccena.
Cqua ddunque nun ce fiocca e nun ce piove:
2
dodisci e ddisciassette ar mi’ paese
viengheno a stà, mme pare, a vventinove.
Perché nun zò ’na gallina pollese,
3
mostro un po’ d’avantaggio; ma a le prove
ho in punto mó vventinov’anni e un mese.
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Feci.
2
Questo è sicuro.
3
Gallina pollese si dice «a quelle donne, le quali, per gentil proporzione i piccole membra,
dimostrano età minore del vero».
268. Chi s’impicca se spicca
1
È ddar giorno de llà dde l’antro jjeri
che sta galletta
2
nun z’è ppiú affacciata.
Chi lo sa cc’antra fregna
3
j’ha ppijjata?
Io nun sto ddrento in ne li su’ penzieri.
Si sse tratta de dajje un’ingrufata,
4
je la darò ’ggnisempre volontieri:
de rimanente de sti su’ braghieri
5
me ne faccio un zuffritto
6
a la frittata.
Se penza la cojjona che mm’addanni
7
perché nun viè du’ ggiorni a la finestra?
Che me ne frega
8
che nun stia scent’anni!
Pare peccristo un fiore de gginestra!
E, ssi ttanto è dde fora, sotto panni
Dio lo sa ssi cche bbrodo de minestra!
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Modo proverbiale per significare che quei che si piccano, poi tornano in pace.
2
Sinonimo qui di «fraschetta».
3
Capriccio.
4
Goderla, ecc.
5
Ciance.
6
Farsi un soffritto: non por mente, non calère.
7
M’arrabbi.
8
Vedi la nota 6.
269. L’ordegno spregato
Pare un destino ch’er piú mmejjo attrezzo
che ffesce Gesucristo ar padr’Adamo,
ciavessi da costà, ssi ll’addopramo,
da strillacce Caino
1
per un pezzo!
Questa nun ce la dà ssi nnun sposamo,
quella vô er priffe
2
e nnun je roppe er prezzo,
3
l’antra t’impesta e tte fa vverd’e mmezzo:
4
e er curato sta llí ssempre cor lamo.
5
Bbenedetta la sorte de li cani,
che sse ponno pijjà cquer po’ de svario
senz’agliuto de bborza e dde ruffiani.
E pponno fotte in d’un confessionario,
ché nu l’aspetta com’a nnoi cristiani
sta freggna de l’inferno e dder Vicario.
Roma, 24 novembre 1831 - Der medemo
1
Gridare come i cani.
2
Denari.
3
Non cala il mercato.
4
Mézzo, colla o stretta: «tristanzuolo, malaticcio».
5
L’amo da
pesca.
270. La ggiostra a Ggorea
1
Ieri sí che ffu ggiostra! Che bbisbijjo!
Figùrete che Mmeo de bborgonovo
a vvent’ora er bijjetto nun l’ha ttrovo:
epperò dde matina io me li pijjo.
Cristo, che ccarca!
2
pieno com’un ovo!
nun ce capeva ppiú un vago de mijjo!
Le gradinate poi!... io e mmi’ fijjo
paremio
3
propio du’ purcini ar covo.
Che accidente de toro! D’otto cani
a ccinque j’ha ccacciato le bbudella,
e ll’antri l’ha schizzati
4
un mio
5
lontani.
E cquer majjone
6
vôi ppiú ccosa bella?
Eppoi, lo vederai doppodomani:
bbast’a ddí c’ha sfreggnato
7
Ciniscella!
8
25 novembre 1831 – Der medemo
1
Anfiteatro detto di Corea, dal palazzo già della famiglia di quel nome, al quale è aderente. È fabbricato sugli avanzi
del famoso Mausoleo D’Augusto.
2
Calca.
3
Parevamo.
4
In senso attivo: «scagliàti».
5
Un miglio.
6
Toro castrone.
7
Ferito con lacerazione.
8
Cinicella: soprannome di un famigerato giostratore nativo di Terni.
271. La Chinea
M’ha ddetto stammatina quella rapa
qui ar Babbuino der Milord’ingrese,
che ccor una chinea e mmezza ar mese
le ggente da serví llui se le capa.
L’hanno portata dunque ar zu’ paese
la Chinea che baciava er piede ar Papa?!
Però mme pare una gran cosa ssciapa
d’annasse a ffà cco la Chinea le spese!
Eppoi, che mme ne faccio de quer pezzo?
Se dà a porta-leone una cavalla
quann’è spaccata a mmodo suo pe mmezzo.
E ssi ppe mezzo culo e ppe ’na spalla
j’annassi
1
ar Papa de roppejje er prezzo,
poderebbe cor Re
2
ppuro aggiustalla.
Roma, 25 novembre 1831 - Der medemo
1
Gli andasse a garbo.
2
Di Napoli.
272. L’assegnati
1
Ecco si cche vvor dí de sta
2
ddu’ mesi
drento in concraudio
3
e ffà li Papi frati:
se svortica er budello
4
a li paesi,
eppoi s’ha da ricurre all’assegnati.
Quanno che li stamporno li francesi,
ce restassimo
5
tutti cojjonati,
6
Sò ccartacce da culo: e cchi l’ha spesi
all’un per cento o ar dua, nun l’ha bbuttati.
Io, co st’orecchie, venti vorte in fila,
l’ho inteso oggi ar vangelio, che dde sbarzo
7
ce ne vonno appoggià ddodisci mila.
8
Vedi che llume de luna de marzo!
E cquanno er prete a mmessa te le sfila,
pijjesce puro
9
un giuramento farzo.
1° novembre 1831
1
Carta moneta della Repubblica Gallo-Romana.
2
Ecco se che vuol dir di stare.
3
Conclave.
4
Si rivolge; si esaltano.
5
Ci
restammo.
6
Gabbati.
7
D’un colpo.
8
Duodecim milia signati.
9
Pigliaci pure.
273. C’è de peggio
E le scedole
1a
fu ppoco strapazzo?
Pare a ddí ggnente a tté, dde punt’in bianco
1
annà ar Monte
2
o a Ssanspirito in ner banco
3
pe sbarattalle, e nun trovacce un cazzo?!
Mi’ padre a mmé mme n’ha llassate un branco,
ma stanno llí a ddormí tutte in un mazzo,
che tte ggiuro da povero regazzo
4
ner caso mio m’arifarebbe un fianco.
Oggi avé ddua, trescento, mille scudi,
eppoi domani diventatte marva,
5
tratanto che a ccampà ffatichi e ssudi!
Ma pperò ssi nun pagheno sta sarva
6
de scedole che ccià aridotti iggnudi,
bbuggiarà sto Governo si sse sarva.
25 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1a
Cedole.
1
D’improvviso.
2
L’Erario.
3
Banca di proprietà dell’Ospedale di S. Spirito.
4
In aria di persona mortificata,
anche un uomo, non ammogliato, si darà questo titolo.
5
Malva.
6
Salva: cumulo.
274. Che ccristiani!
‘Gna sentì mmessa e arispet er governo
chi vvô ssarvasse
1
l’anima, Donizzio,
2
si nnò vviè Cristo ar giorno der giudizzio
e ce bbuggera a ttutti in zempiterno.
Metti, cumpare mio, metti ggiudizzio,
caso te puzzi er foco de l’inferno,
ché, mmettemo
3
la sfanghi in ne l’inverno,
ar tornà de l’istate è un priscipizzio.
Povero Ggesucristo! dar zu’ canto
s’è ammascherato sin da vino e ppane:
be’, dov’è un cazzo
4
che sse fa ppiú ssanto?
Le donne sò, pper dio, tutte puttane,
5
l’ommini ladri:
5
e ttutto er monno intanto
de Cristo se ne fa strenghe de cane.
6
25 novembre 1831 – Der medemo
1
Salvarsi.
2
Dionisio.
3
Ponghiamo che, ecc.
4
Nessuno. Dove si trova più un qualunque uomo che, ecc.
5
Iperbole non
secondo l’opinione dell’autore.
6
Se ne fa ogni strapazzo.
275. La fin der Monno
Come saranno ar monno terminate
le cose c’ha ccreato Ggesucristo,
se vederà usscí ffora l’Anticristo
predicanno a le ggente aridunate.
Vierà ccor una faccia da torzate,
er corpo da ggigante e ll’occhio tristo:
e pper un caso che nun z’è mmai visto,
nasscerà da una monica e dda un frate.
Poi pe ccombatte co sta bbrutta arpia
tornerà da la bbùscia de San Pavolo
doppo tanti mil’anni er Nocchilia.
1
E appena usscito da l’inferno er diavolo
a spartisse la ggente cor Messia,
resterà er Monno pe sseme de cavolo.
25 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Credenza romanesca, che da un buco, sconosciuto, presso la Basilica di S. Paolo usciranno Enoc ed Elia, chiamati
dal popolo, con un solo vocabolo: er Nocchilia.
276. Er giorno der giudizzio
Cuattro angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno pe cantone
a ssonà: poi co ttanto de voscione
cominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.
Allora vierà ssù una filastrocca
de schertri da la terra a ppecorone,
1
pe rripijjà ffigura de perzone,
come purcini attorno de la bbiocca.
2
E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,
che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo usscirà ’na sonajjera
3
d’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera.
25 novembre 1831 – Der medemo
1
Camminando cioè con mani e piedi.
2
Chioccia.
3
Un formicaio, ecc.
277. Er peccato d’Adamo
È ttanto chiaro, e ste testacce storte
nu la sanno capí, che dda cuer pomo
che in barba nostra se strozzò er prim’omo
pe ddegreto
1
de ddio nacque la morte;
e cche llui de l’inferno uprì le porte,
e o granne, o cciuco, o bbirbo, o ggalantomo;
ce fesce riggistrà ttutti in un tômo,
ce fesce distinà ttutt’una sorte!
Perché pperché! se sturino l’orecchie,
vienghino a ffalla loro un’antra lêgge
2
sti correttori de le stampe vecchie.
3
Perché pperché! bber dí dda ggiacobbino!
Er libbro der perché, cchi lo vô llêgge
sta a ccovà ssott’ar culo de Pasquino.
4
26 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Decreto.
2
I Romaneschi pronunciano legge colla e larga.
3
Proverbio.
4
Proverbio. Pasquino è chiamata una statua
antica mutilata di gambe e braccia, creduta di Patroclo, che addossata ora al Palazzo Braschi dà il proprio nome a una
piazza di Roma.
278. Li ggiochi
«Famo a bbuscetta? » «No». «Sssedia papale?
Sartalaquajja?» «No». «Ppiseppisello?»
Gattasceca? Er dottore a lo spedale?
A la bberlina?» «No». «A nnisconnarello?
Potemo fà li sbirri e ’r bariscello,
la ggiostra, li sordati e ’r caporale,
a scaricabbarili, a acchiapparello,
a llippa, a bbattimuro, a zzompà scale.
Ggiucamo a bboccia, ar piccolo, a ppiastrella,
a mmorè, a mmora, a ppalla, a mmarroncino,
a ccavascescio, a ttuzzi, a gghiringhella,
a attaccaferro, a ffilo, a ccastelletto,
a curre, a pparesseparo...». «No, Nnino,
dàmo du’ bbottarelle a zzecchinetto».
Roma, 26 novembre 1831 – Der medemo
279. La papessa Ggiuvanna
Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ’r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er Papa maschio stiede male,
e mmorze,
1a
c’è cchi ddisce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
ché ssanbruto
1
je preseno le dojje,
e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia
2
sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa.
26 novembre 1831 – Der medemo
1a
Morì.
1
Ex abrupto.
2
Sedia stercoratoria.
280. Er Papa
Iddio nun vô cch’er Papa pijji mojje
pe nnun mette
1
a sto monno antri papetti:
sinnò a li Cardinali, poverelli,
je resterebbe un cazzo da riccojje.
2
Ma er Papa a ggenio suo pô llegà e ssciojje
tutti li nodi lenti e cquelli stretti,
ce pô scommunicà, ffà bbenedetti,
e ddàcce
3
a ttutti indove cojje cojje.
E inortr’a cquesto che llui sciojje e llega,
porta du’ chiave pe ddacce
4
l’avviso
che cquà llui opre e llui serra bottega.
Quer trerregno che ppoi pare un zuppriso
5
vô ddí cche llui commanna e sse ne frega,
ar monno, in purgatorio e in paradiso.
26 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Per non mettere.
2
Un nonnulla da raccorre.
3
Darci.
4
Darci.
5
Pallottola ovale di riso fritto.
281. Er mortorio de Leone duodescimosiconno
Jerzera er Papa morto c’è ppassato
propi’avanti, ar cantone de Pasquino.
Tritticanno
1
la testa sur cuscino
pareva un angeletto appennicato.
2
Vienivano le tromme cor zordino,
poi li tammurri a tammurro scordato:
poi le mule cor letto a bbardacchino
e le chiave e ’r trerregno der papato.
Preti, frati, cannoni de strapazzo,
palafreggneri co le torce accese,
eppoi ste guardie nobbile der cazzo.
Cominciorno a intoccà tutte le cchiese
appena uscito er Morto da palazzo.
Che gran belle funzione a sto paese!
26 novembre 1831 – De Peppe’er tosto
1
Tritticare: tremolare. Qui in senso attivo.
2
Leggermente addormentato.
282. Le ssequie de Leone
duodescimosiconno a S. Pietro
Prima, a palazzo, tanti frati neri
la notte e ’r giorno a bbarbottà orazzione!
1
Pe Rroma, quer mortorio bbuggiarone!
2
cqua, tante torce e tanti cannejjeri!
Messe sú, mmesse ggiú, bbenedizzione,
2a
bôtti, diasille, prediche,
3
incenzieri,
sonetti ar catafarco,
3a
arme, bbraghieri,
4
e sempre Cardinali in priscissione!
Come si
4a
er Papa, che cquaggiú è Vvicario
de Crist’in terra, possi fà ppeccati,
e annà a l’inferno lui quant’un zicario!
Li Papi sò ttre vvorte acconzagrati:
e ssi Ccristo sciannò, cciannò ppe svario
a ffà addannà
5
li poveri dannati.
28 novembre 1831 - Der medemo
1
Orazioni.
2
Grande, sfoggiato.
2a
Benedizioni.
3
Panegirici.
3a
Iscrizioni.
4
Oggetti affastellati.
4a
Se.
5
A dar rovello.
283. Er bon conzijjo
Co sti cuattro
1
che ttienghi ar tu’ commanno
mó ppijji puro
2
un po’ de mojje pijji?
Eppoi cosa sarai de cqui a cquarc’anno?
Un pover’omo carico de fijji.
Menicuccio, dà retta a li conzijji:
abbada a cquer che fai: penza ar malanno:
donna! chi ddisce donna disce danno:
tu t’aruvini co sti tu’ puntijji.
Si ppoi scerchi una forca che tt’impicca,
nun te sposà sta guitta scorfanella:
3
procura armanco de trovalla ricca.
La ricca nun te vò? ccàpela
4
bbella:
ché cquanno a Rroma una mojjetta spicca,
vanno mojje e mmarito in carrettella.
27 novembre 1831 - Der medemo
1
Intendesi danari: frase impiegata coi poveri.
2
Pure.
3
Piccola e sciancata.
4
Capare: scegliere.
284. Fortuna e ddorme
1
Bisoggna che sta strega de mignotta
2
all’ommini je facci
3
le fatture,
si
3a
cco ttutto quer gruggno de marmotta
nun fa a ttempo a smartí
4
ll’ingrufature!
5
Nun pare un piatto d’inzalata cotta,
o una pila da mette le pavure?
6
Nun faria sta figura der Callotta
smove
7
la verminara a le crature?
Eppuro
8
ecchela llí: ccristiani, abbrei,
frati, preti, avocati, monziggnori,
vestí, bbeve,
9
maggnà...: tutto pe llei!
E cquella fijja mia, pover’Aggnesa,
bella, che nun fuss’antro
10
li colori,
è affurtunata com’un cane in chiesa.
27 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Fortuna e dormi. Proverbio.
2
Bagascia.
3
Faccia.
3a
Se.
4
Smaltire.
5
Dal verbo ingrufare. (Atto venereo).
6
Si fora una
pila, così che sembri una faccia, e vi si chiude un lume per mettere paura.
7
Muovere.
8
Eppure.
9
Bere.
10
Non
foss’altro.
285. La Reverenna Cammera Apopretica
1a
Sta Cammera de cristo è una puttana:
bbeati quelli che la ponne fotte,
1
e ddàjje
2
che sse sentino
3
le bbôtte
sino ar paese de la tramontana.
Da pertutto quì sbarcheno marmotte,
che nun
4
ussciti ancora da dogana
che ssubito, alò,
5
cchirica
6
e ssottana,
eppoi tajjele
6a
ggiú che ssò ricotte!
7
A Rroma, abbasta de sapé er canale
e trovà er buscio
8
pe fficcà un zampetto,
a cquaresima puro
9
è ccarnovale.
Ma er padre de famijja poveretto
nassce pe tterra, more a lo spedale,
e si
10
ffiata sciabbusca
11
er cavalletto.
27 novembre 1831 - Der medemo
1a
R.C.A. (Reverenda Camera Apostolica).
1
Fottere.
2
Darle dentro.
3
Si sentano.
4
Non sono.
5
Allons.
6
Chierica.
6a
Tagliale.
7
Eppoi al comando su tutti e su tutto.
8
Il buco.
9
Pure.
10
Se.
11
Ci busca.
286. La spiegazzione
Che razza de dimanne
1
oggi me fai?!
Cosa vô ddí Cconzurta, Dateria,
e Bbongoverno, e Llemosinería!...
Che tte premeno a tté ttutti sti guai?
2
Bbubbú, bbubbú,
3
nnun la finischi mai!
oggni ggiorno una nova fantasia!
Ha rraggione sta matta de tu’ zia
che pe cciarvello sciai
4
pancotto, sciai.
Vai stroliganno
5
su li fatti antichi!...
Se vede bbe’ cche nun hai da fà un cazzo,
fijjolo mio, che ddio te bbenedichi.
Dunque, aló, ddàmo gusto ar dottorazzo:
a Rroma ste parole che ttu ddichi
nun zò antro
6
che nnomi de palazzo.
28 novembre 1831 - Der medemo
1
Dimande.
2
Pensieri gravi, intrighi, faccende altrui.
3
Suoni dinotanti l’insistenza di un parlante.
4
Ci hai: hai.
5
Strologando.
6
Non sono altro.
287. La lingua tajjana
1
«Eh zia, quela regazza che sse vede,
guercia, a pponte sant’angelo,
2
la festa,
che sta llí a sséde, e ttrittica
3
la testa,
zia, chiede la lemosina? la chiede?»
«E cche mmaniera di discorre è cquesta?
Bbestia, se disce sédere e nnò ssede.
Nun zerve, cquì sse predica la fede
in ghetto,
4
se fa el brodo in d’una scesta.
5
Guardatela mó llí la pupa nercia!
6
Ha mommó dodiscianni su la groppa
e ancora nun za ddí cceca ma gguercia!
Ehéi! cquà nun ze trotta, se galoppa!
Cquà la matassa è frascica e nnò llercia:
7
va bbene un po’, ma cquanno è ttroppa è ttroppa.
28 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Italiana.
2
L’antico ponte Elio, poi detto Adriano, quindi San Pietro e finalmente Sant’Angiolo.
3
«Tremola», in senso
attivo.
4
Ricinto degli Ebrei.
5
Proverbio.
6
Bambina tristanzuola.
7
Fracida e non già fragile: proverbio.
288. La bbona famijja
Mi’ nonna a un’or de notte che vviè Ttata
se
1
leva da filà, ppovera vecchia,
attizza un carboncello, sciapparecchia,
2
e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Quarche vvorta se fâmo
3
una frittata,
che ssi
4
la metti ar lume sce se specchia
4a
come fussi
4b
a ttraverzo d’un’orecchia:
quattro nosce,
5
e la scena
6
è tterminata.
Poi ner mentre ch’io, Tata
6a
e Ccrementina
seguitamo un par d’ora de sgoccetto,
7
lei sparecchia e arissetta
7a
la cuscina.
E appena visto er fonno ar bucaletto,
’na pissciatina, ’na sarvereggina,
e, in zanta pasce, sce n’annamo a letto.
28 novembre 1831 - Der medemo
1
Se.
2
Ci apparecchia.
3
Ci facciamo.
4
Se.
4a
È trasparente.
4b
Fosse.
5
Noci.
6
Cena.
6a
Mio padre.
7
Lo sgoccetto, lo
sgoccettare è quel «seguitare a sbevazzare alcun tempo».
7a
Rassetta.
289. Er presepio
Sta notte a mmezza notte, sorcia bbella,
1
tra un bove e un asinello, s’un tantino
de fieno, Cristo in d’una capannella
è nnato bbianco rosso e rriccettino.
Via, dàmo un’attizzata a lo stuppino,
cominciamo a ssonà la ciaramella.
2
È ora d’arimettelo er bambino,
ché ggià cquí avanti a mmé ss’arza la stella.
Guarda che ccoda se
3
strascina, oh Teta!,
longa magaraddio ’na mezzacanna,
e nun è usscita tutta da segreta!
Scropi
4
dunque er presepio e la capanna;
e fàmo a lo spuntà dde la cometa
nassce er bambino e ddiluvià la manna.
29 novembre 1831 – D’er medemo
1
Mia cara, mia vaga e simili.
2
Cennamella.
3
Si.
4
Scopri.
290. Er trenta novemmre
Ma ccome nun z’ha er tempo oggi da smove?!
Nun zai che ffest’è oggi, eh Sarvatore?
Li trenta, sant ‘Andrëa pescatore.
De sta ggiornata tutti l’anni piove.
E cche vvor dí? cce fai tanto er dottore,
e ppoi tutto pe tté ssò ccose nove!
Manco si ttu nun fussi nato indove
chi maggna more e cchi nun mmaggna more.
1
E l’istesso der trenta de novembre
è er marito de Checca la mammana,
che nun zapeva der dua de discembre.
Si ppiove er giorno de Santa Bbibbiana,
piove (e ddillo pe mmano de notaro)
quaranta ggiorni e ppoi ’na sittimana.
30 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Grido de’ venditori di more-prugnole, nelle ore di vespro.
291. La carità de li preti
No dde Campo-carleo:
1
cuell’è, ssorella,
parrocchia der curato Spadolino.
2
Io vorzi dì Ssan-Lorenzo-in-lucino
3
dov’è ccurato er Padre Carbonella.
4
Ebbè, mme perzi puro una sciafrella
5
pe ccurre a bbussà ppresto ar finestrino,
6
cuanno a cquella bbon’anima de Nino
jer notte je pijjò la raganella.
7
Tre ora a ffila j’averò bbussato!
M’arisponnessi tu che llí nun c’eri?
Accusí m’arispose er zor Curato.
E ppoi ridenno me sce disse jjeri,
ch’er zomaro ch’er giorno ha ffaticato
la notte vò ddormí ssenza penzieri.
10 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Santa Maria in Campo-Carlèo, al foro Traiano.
2
Soprannome di quel curato. È da sapersi che il nominato Spatolino
fu un famoso masnadiero, fucilato sotto l’ultima dominazione francese.
3
S. Lorenzo in Lucina, chiesa presso il Corso.
4
Soprannome di quel parroco.
5
Ciabatta.
6
Quel parroco tiene ufficio a pianterreno, al solito, e questo ha una finestrina
di molto facile accesso.
7
Suono che rende la gola degli agonizzanti.
292. Er civico ar quartiere
Buggiaralle peddìo chi ll’ha inventate
st’armacciacce da foco bbuggiarone!
Ché ggià de scerto dovett’esse un frate
co un po’ de patto-tascito a Pprutone.
Sor zargente, nun famo
1
bbuggiarate:
cuanno che mme mettete de piantone,
o ccapateme l’arme scaricate,
o ar piuppiù ssenza porvere ar focone.
Cortello santo! Armanco nun è cquello
vipera da vortasse
2
ar ciarlatano!
3
Pe mmé, evviva la faccia der cortello!...
Lo scanzate quer buggero, eh, sor Pavolo?
Nun ze pô mmai sapé co st’arme in mano!
E ppô a le vorte caricalle er diavolo.
30 novembre 1831 - Der medemo
1
Facciamo.
2
Voltarsi.
3
Proverbio.
293. Li musi
1
de lei
2
Vèstete via, nun fâmo regazzate:
per oggi nun vô ppiove:
3
è ttempo grasso.
4
Ma nnun è ttempo, nò, dde fà ffracasso:
nu le vedi le nuvole squarciate?
Le carrettelle ggià ssò ttutte annate?
5
E nnoi se
6
n’anneremo a spass’a spasso.
Che cc’è da Ripa a Papaggiulia?
7
un passo.
Poi, sibbè
8
ppiove, pioveno sassate?!
Che ffiocca! fiocca er cazzo che tte frega!
Mó ddo de guanto
9
a un manico de scopa,
e tte tratto ppiú peggio de ’na strega.
10
Che ffate a ccasa? nun c’è mmanco Muccio!
11
Volete restà ssola, sora Popa,
12
come un torzo de cavolo
13
cappuccio?
30 novembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Star col muso: essere di malumore.
2
Lei: mia moglie.
3
Non vuol piovere.
4
Tempo grasso è quando l’atmosfera si
vede ingombra di nuvoli immobili e come incantati.
5
Sono tutte andate.
6
Ce.
7
Dalla Ripa Grande in Trastevere sino al
luogo suburbano detto Papa-Giulio, e dal popolo Papaggiulia, correrà una distanza di circa una lega.
8
Sebbene.
9
Dar
di guanto, a ecc.: afferrare.
10
La scopa vuolsi essere il flagello delle povere streghe.
11
Giacomuccio.
12
Personaggio da
marionette.
13
Restar sola come un cavolo, vale: «esser lasciato da tutti».
294. La bbotta de fianco
1
E cchi vv’ha ddetto mai, sora piccosa,
che in ne la zucca nun ciavete sale?
Io nun ho detto mai sta simir-cosa,
ché discennola a vvoi, direbbe
2
male.
Anzi, le bburle a pparte, sora Rosa:
pô esse tistimonio er zor Pascuale
si jjerzera vôtanno l’orinale
nun disse
3
che vvoi sete appititosa.
E cciaggiontai,
4
guardate si cce cojjo,
5
c’ortr’ar zale c’avete in ner griterio
6
tienete er pepe drento a cquell’imbrojjo.
Scappò
7
allora ridenno er sor Zaverio:
«Co ssale e ppepe e cquattro gocce d’ojjo
poderissimo
8
facce
9
er cazzimperio».
10
10 novembre 1831 - Der medemo
1
Il frizzo.
2
Direi.
3
Dissi.
4
Ci aggiuntai (aggiunsi).
5
Ci colgo.
6
Criterio.
7
Scappare, in romanesco, vale anche: «uscir
dicendo».
8
Potremmo.
9
Farci.
10
Nome volgare della salsa, composta cogli anzidetti ingredienti.
295. La serva de lo spappino
1a
Sai dove sta a sserví mmó cquela strega
che ssciacquava li piatti a la locanna?
Dar gobbetto cquaggiù cche ttiè bbottega
d’anticajje e ppietrelle a Ppropaganna.
1
Er bell’è cch’er padrone se la frega,
sibbè che jje stii sotto mezzacanna.
Ma ssi jje sce dài guai, lei te lo nega,
e cce sforma cappelli
2
che ss’addanna.
Io vorebbe vedé er zor Gobbriello
3
co cquer po’ de bbaullo in guardarobba
come s’ingeggna a intrufo
4
l’uscello.
Co ttutto che cchi ssa spiegà sta robba
disce c’a sti derfini
4a
er manganello
5
se
5a
misura dar giro de la gobba.
3 dicembre 1831 - De Pepp’er tosto
1a
Uomo piccolo e storto.
1
Un tal Pericoli, gobbo.
2
Va in collera.
3
Il gobbo.
4
Ficcar dentro.
4a
Delfini.
5
Bastone.
5a
Si.
296. Pe ddispetto
Che jje disse a mmi’ mojje io, sor Fedele?
Tòta, da’ udienza a mmé, ffa’ la puttana,
ma nun batte acciarini:
1
e cche cc’è? er mele?,
che tte piasce in nell’arte de ruffiana?!
Ma cche! nun curze un’antra sittimana
che ggià er Vicario che cciaveva er fele,
2
la messe in monistero a Ssammicchele
pe rruccherucche
3
a llavorà la lana.
E io in barba sua e dder Ficario
me ne sto cco la sposa de mi’ zio,
che llei puro ha er marito in zeminario.
Sin ch’è ggiorno, a incannà cquì lei cquà io;
eppoi, ’na terzaparte de rosario,
du’ bbocconi, e a ddormí in grazzia de ddio.
3 dicembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Non battere acciarini: non arruffianare.
2
Che era già con lei irritato.
3
L’arte del ruffianesimo.
297. Che llingue curiose!
Sta tu’
1a
Francia sarà una gran Città,
ma li francesi che nnascheno llí
hanno una scerta gorgia de parlà
che ssia ’mazzato chi li pô ccapí.
Llà ttre e ttre nun fa ssei, tre e ttre ffa ssì,
1
e, cquanno è rrobba tua, sette a ttuà.
2
Pe ddì de sì, sse
2a
bburla er porco: :
e cchi vvô ddì de nò disce: nepà.
E mm’aricordo de quer zor Monzù
che pprotenneva
2b
che discenno a s,
3
discessi
3a
abbasta, nun ne vojjo ppiú.
E de quell’antro che mme se maggnò
’na colazzione d’affogacce un Re,
e me sce disse poi che ddiggiunò?!
7 dicembre 1831
1a
Questa tua.
1
Per esempio: six pauls, ecc.
2
C’est à toi.
2a
Si.
2b
Pretendeva.
3
Assez.
3a
Dicesse.
298. E fora?
Tu che ssei stato a Spaggna a cconcià ppelle
è vvero che Ppariggi è un gran locale,
dove pe ddí mojje, tutt’uno, e ssale,
se disce fame, sette galli, e sselle?
Ce sò llà ll’osterie, le carrettelle?
Pissceno com’e nnoi nell’urinale?
Le case pe annà ssú ccianno le scale?
Cala la luna llà? ssò assai le stelle?
Li muri sò de leggno o ssò de muro?
Va a Rripetta er carbone o a Rripagranne?
L’acqua de Trevi, di’, ffuma llà ppuro?
1
Chi Ppapa sc’è?... Li gobbi hanno la gobba?
Se troveno a Ppariggi le mutanne?
Ggira pe Rroma llà ttutta la robba?
7 dicembre 1831 - Der medemo
1
Pure.
299. L’uffizziale
1
francese
Voi, sor gianfutre mio, sete uno sciocco
ar brusco, ar zugo, ar burro e in gelatina,
cor una testicciola piccinina
d’avenne
1a
er mercordí vvent’a bbaiocco.
Ma ccome un gallo pò cchiamasse un cocco,
2
si er cocco ar monno è un ovo de gallina!
Voi pijjate campana pe bbatocco,
voi confonnete er re cco la reggina.
E ssull’ova ch’edè
2a
a st’antra bbaruffa?
Se sa,
2b
mme fate dì a la pollarola
che vve ne manni du’ duzzine a uffa;
3
e cquella c’ha studiato a un’antra scôla,
appena ha inteso st’immassciata
3a
bbuffa,
ve l’ha mmannate
3b
co la coccia sola.
4
8 dicembre 1831 - D’er medemo
1
Cuoco.
1a
Averne.
2
Coq.
2a
Che è.
2b
Si sa.
3
Oeuf.
3a
Ambasciata.
3b
Mandate.
4
Cioè: «il solo guscio».
300. Primo, bbattesimo
Sentenno
1
a Roma chiacchie un ciarlone,
e ddí oggnisempre cuarche ccosa ssciocca,
semo soliti a ddí: cquesto opre bbocca
e jje dà fiato poi come ar pallone.
Ma sta bbocca e sto fiato è un paragone
da mettelo
2
a ddormí ssott’a la bbiocca,
3
ché a nnoi sce tocca a rrispettà, cce tocca,
le cose de la nostra riliggione.
E nun zò affari de scipoll’e bbieta:
4
me ne sò accorto glieri
5
si
6
è ppeccato
in ner fà battezzà la fìa
7
de Teta:
perché pprima dell’acqua dà er curato
sale, ojjo e sputo: e cquanno ha dditto: Feta,
8
opre bbocca lui puro e jje dà ffiato.
6 dicembre 1831 - Der medemo
1
Sentendo.
2
Metterlo.
3
Cioè: «da farlo maturare».
4
Affari da nulla.
5
Ieri.
6
Se.
7
Figlia.
8
Effeta. Nota bene che féta
(che a Roma viene da fetare, far l’uovo) vale: «sii feconda, fa’ figli».
301. Siconno: cresima
Jeri, a strada Connotta,
1
in quer palazzo
che cce sta Mmonziggnor Viscereggente
2
aggnède a famme
3
cresimà er regazzo,
che mme lo tenne a ccresima Cremente.
C’era assieme co nnoi tant’antra ggente
tutti o cco la pupazza o ccor pupazzo:
però er zor Monziggnore indeggnamente
de scera
4
sola n’ariccorse
5
un mazzo.
Capisco er zignatea,
6
er zignacruccia
6a
l’ojjosanto, la mancia, la bbammasce,
7
le cannele, er compare e la fittuccia;
ma, ssi
8
avessi da dí, ddoppo der baffo
in ner nome-de-padre,
9
nun me piasce
quella malacreanza de lo schiaffo.
5 dicembre 1831 - Der medemo
1
Via Condotti.
2
Vicegerente.
3
Andai a farmi.
4
Di cera.
5
Ne raccolse.
6
Signo te.
6a
Signo crucis.
7
Bambagia.
8
Se.
9
In
fronte.
302. E ssettimo madrimonio
Saria bbuscía de dí che cquasi tutto
quello che ss’è inventato er padreterno
nun zii
1
cor zu’ perché. L’istate è assciutto
perché vvòrze creà zzuppo l’inverno.
Perché ha ccreato er porco? p’er presciutto.
Perché la carn’umana? p’er governo.
Perché li turchi? pe ccavà un costrutto
dell’antro Monno e nun spregà l’inferno.
Ma cquanno fesce er zanto madrimonio,
pe nnun fajje
2
sto torto che ddormissi
3
bisogna dí cche lo tentò er demonio.
Certo chi ppijja mojje è un gran cazzaccio:
e ha rraggione er francese che ssentissi
4
ch’er madrimonio lo chiamò marraccio.
5
9 dicembre 1831 – D’er medemo
1
Sia.
2
Fargli.
3
Dormisse.
4
Sentisti per «udisti».
5
Mariage. Il marraccio è «un gran coltello da colpire di taglio: specie
di piccola mannaia».
303. La santa commugnone
La sera ch’er Zignore a ôr de scena
1
distituí
2
la santa caristia,
3
nun zo ccapí pperché ffussi de vena
de dàjje
3a
er nome de sta bbrutta arpia.
Tratanto scerto è una gran cosa piena
d’amore pe sta porca de gginía
de ggentacce der monno, ammalappena
deggni de mentovà Ggesummaria.
Te pare amore a tte ppoco futtuto
4
quer cacciasse
5
in d’un’ostia cuant’abbasta
pe ssiggillà una lettra co lo sputo?
E ssotto poi sto scerotin de pasta
calà in ner corpo d’un cristian cornuto
pe rriusscí dda dove entra la tasta?
6
10 dicembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
A ora di cena.
2
Instituì.
3
Eucaristia.
3a
Dargli.
4
Poco rimarchevole, poco grande.
5
Cacciarsi.
6
Dal basso, ecc.
304. La santa Confessione
Avessi fatto ar monno ancora ppiú
de tutto er bene che ppò ffasse cquí;
fussi un santo, una cosa da stordì,
fussi un mostro infernale de vertù;
maggnete, fijjo mio, lecchete tu
’na fetta de salame er venardì,
e bbona notte: hai tempo a ffà e a ddì:
se va a ffà le bbrasciole
1
a Bberzebbù.
Ringrazziamo però la bboni
de Ddio, ché ppuro er vicoletto sc’è
1a
pe ffà ppeccati in pasce e ccarità.
Basta ’ggnitanto d’annà a ffà cescè
2
in cuella grattacascia
3
che sta llà,
eppoi te sarvi si scannassi
3a
un Re.
11 dicembre 1831 - De Pepp’er tosto
1
Bragiuole.
1a
C’è il modo.
2
Il mostrarsi e il non mostrarsi per mezzo di una cosa che copre e non copre.
3
Gratino del
confessionale.
3a
Seppure tu scannassi.
305. Er penurtimo sagramento,
e quarc’antra cosa
Si
1
ttu mme parli de turchi e dd’abbrei,
loro nun zò cattolichi, Cremente.
Questi, compare mio, sò ttutta ggente
c’adora scinque Ggesucristi
2
o ssei.
E li sammaritani e ffilistei,
e ll’antre riliggione puramente,
3
nun zò ccome la nostra un accidente:
4
je ponno tutte bbascià er culo a llei.
Vammel’a ttrova un’antra riliggione
che sappi fà ccor mosto e la farina
quer che la nostra fa a le levazzione.
5
E indove sta ttra ttutta sta caggnara
chi arrivi com’e nnoi, pe ccristallina,
6
ar zest’Ordine e ssino in piccionara?
7
1 dicembre 1831 - Der medemo
1
Se.
2
Dii.
3
Pure, enziandio.
4
Affatto.
5
All’elevazione.
6
Giuramento di convenzione.
7
Cioè lo Spirito Santo. La
piccionara è l’ultimo ordine de’ teatri di Roma.
306. Li peccati mortali
Er Padre Patta, indove ce va a scola
er fìo de quer che ffa la regolizzia;
1
ha ddetto c’ortre ar peccato de sola
2
sette sò li peccati de malizzia.
Eccheli cquì pparola pe pparola:
primo superbia, siconno avarizzia,
terz’usura, quart’ira, quinto gola,
sesto invidia, e ssettimo pigrizzia.
Cuanno Iddio creò ssette sagramenti,
er demonio creò ssette peccati,
pe ffà cche ffussi contrasto de venti.
E cquanno che da Ddio furno creati
ar monno confessori e ppenitenti,
er diavolo creò mmonich’e ffrati.
12 dicembre 1831 – Der medemo
1
Liquerizia.
2
L’urtarsi ne’ piedi che fanno gli amanti per occulti segni.
307. La particola
Avess’inteso quelo storto cane
che sse messe l’antr’anno er collarino
come spiegava chiaro er belarmino,
1
j’averessi sonato le campane.
«Nun te fidà ddell’occhi e dde le mane»,
disceva a un regazzetto piccinino:
«quello che ppare vino nun è vvino,
quello che ppare pane nun è ppane.
Cos’è la riliggione senza fede?
sarebbe com’a ddì cquattro e ddua venti,
e mmette
2
un fiasco senza vesta in piede.
Pe cquesto, fijjo, quer che vvedi e ssenti
è inganno der demonio, e nun lo crede.
3
Quelli sò, fijjo mio, tutti accidenti».
5 gennaio 1832 - Der medemo
1
La dottrina cristiana del cardinal Bellarmino.
2
Mettere.
3
Non crederlo.
308. L’ojjo santo
E ccome vôi che stii, povero Nino!
Sta c’un momento more e un’antro campa:
e ssi nun fussi che jje gusta er vino,
già nun ce ne sarìa manco la stampa.
Mò aspetta fra Ppetronio cor bambino
de la rescelì:
1
e ccasomai la scampa,
ha ffatto voto d’attaccà una zampa
1a
a la Madonna de Sant’Agustino.
2
A bbon conto jerzera ebbe ’na stretta
ner magnà ccerto pane e ccompanatico,
che lo communiconno pe staffetta.
E ’r prete poi che de ste cose è ppratico,
je vorze puro dà, ddoppo un’oretta,
quela cosa ppiú ppeggio der viatico.
5 gennaio 1832 – D’er medemo
1
Dell’Ara-coeli.
1a
Il voto di una gambetta di argento.
2
Tenuta da pochi anni in concetto di sommamente miracolosa.
È statua, e si chiama la Madonna del parto.
309. Caster-Zant’-Angelo
Quer dottor de Saspirito in zottana
1
c’a Ttuta, aggratis, je guarì la tiggna,
che ll’anpassato la portò a la viggna
e st’agosto j’ha ffatto da mammana,
disce che, a la Repubbrica Romana,
lassù, ppe vvia de ’na frebbe maliggna
c’era invesce dell’angelo una piggna
2
e Ccastello era la gran mola driana.
2a
Accidenti! che buggera de mola!
Averanno impicciato tutt’er fiume
co li rotoni de sta mola sola!
Oh vvarda,
2b
cristo!, come va er custume!
Mascinà pprima er grano pe la gola,
eppoi pell’occhi ggirelli e ffume!
6 gennaio 1832 - D’er medemo
1
Gli addetti allo spedale di Santo Spirito indossano una veste turchina, consimile a una zimarra.
2
Confusa allusione
alla pestilenza del…: alla cui occasione fu inalzata la statua di bronzo di S. Michele Arcangelo dove era la pigna di
bronzo.
2a
Mole Adriana.
2b
Guarda.
310. Caster-Zant’-Angelo
Quer buggero llí sotto ar piedestallo
dell’angelo, in ner mezzo de Castello
che ppare un cuppolone de cappello
o un zetaccio o una forma de timballo,
1
c’è cchì ddisce ch’è mmaschio,
2
bbuggiarallo!,
come li sassi avessino l’uscello!
3
Eppoi, l’antro ch’è ffemmina indov’ello
4
pe ppoté ffà la razza e mmaritallo?
Quer che cce cricca,
5
se
6
fa ppresto a ddillo,
ma pprima de poté mettesce er bollo,
’ggna dàjje tempo e staggionà er ziggillo.
Una spesce llaggiú dde ponte-mollo!
7
È mollo un cazzo, e cchi llo vò ccapillo
se lo vadi a ffà ddà tra ccap’e collo.
6 gennaio 1832
1
Vivanda di riso.
2
Il maschio del Castello.
3
4
Dov’è.
5
Piace.
6
Si.
7
Ponte molle o milvio.
311. La vedova co ssette fijji
È un mese ch’er più ffijjo piccinino
lo manno a scôla cquì a l’iggnorantelli
1
e ggià pprincipia a ffà li bbastoncelli
2
e a rrescità all’ammente l’abbichino.
3
Uno a Ttatagiuvanni
4
fa l’ombrelli,
un antro a Sammicchele
5
è scarpellino,
e ar piú ggranne ch’è entrato all’Orfanelli
6
j’impareno li studi de latino.
Le tre ffemmine, Nina se n’annette,
7
Nannarella se l’è ppresa la nonna,
e Nnunziatina sta a le Zoccolette.
8
E io la strappo via, povera donna,
cor rimette le pèzze a le carzette,
sin che nun me provede la Madonna.
6 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Le scuole gratuite di S. Salvatore per l’istruzione primaria.
2
Le aste colla penna.
3
A mente l’abbachino, l’abbaco.
4
Ospizio fondato da un Giovanni, a cui dicevano Tata (padre).
5
Vedi nell’opera pubblicata da Monsignor Morichini.
6
Ospizio.
7
Se ne andò: morì.
8
Conservatorio di povere fanciulle.
312. La spia
Che arte fate mò, vvoi, sor Ghitano?
Fate er curier de corte,
1
o la staffetta?
Fate er zoffione, er pifero, er trommetta,
l’amico, la minosa, o er paesano?
2
Quanno stavio a abbità ttra Rruff’e Ffiano
ve volevio bbuttà ggiú da ripetta;
2a
e mmó pportate ar petto la spilletta
du’ lumache
3
a la panza, e ’r pomo immano.
4
Che cc’è a ppiazza Madama
5
ch’è da maggio
c’ogni ggiorno l’avete pe ccustume
d’annacce a ffà ttra er lusco e ’r brusco
6
un viaggio?
Nun arzarmo però ttutto sto fume,
per via ch’er vicoletto der vantaggio,
7
sor Cavajjere mio, rïesce a ffiume.
7 gennaio 1832 - Der medemo
1
Corte, per «birraglia».
2
Otto sinonimi di spia.
2a
Gettare a fiume.
3
Oriuoli da tasca.
4
Con in mano il bastone guarnito
di pomo d’argento.
5
V’è il palazzo della Polizia.
6
Sull’imbrunir del giorno.
7
Una delle vie di Roma, che dal Corso,
traversando Ripetta, fa capo al Tevere.
313. Er grosso dell’incoronazzione
1
Duncue lo vôi sentì si pperché ttosso?
Perché dd’avanti all’arba inzin’a mmone
sò stato a bbervedéde piantone
iggnud’e ccrudo e cco la guazza addosso.
Eppoi quann’è stat’ora de dà er grosso
cianno uperto un spirajjo de portone
pe infilacce un’a uno ar cortilone,
come se fa a l’agnelli er zegno rosso.
Ladri futtuti! a mmé mmezzo grossetto
m’hanno dato a lo sbocco der cortile,
e a cquarche ddonna poi fino un papetto.
2
E ar vortà li cartocci in ner bascile,
se tienevano er fonno immano stretto
rubbanno un cuartarolo oggni bbarile.
3
7 gennaio 1832 - Der medemo
1
Nella ricorrenza dell’incoronazione del Papa si distribuisce un mezzo paolo di elemosina a chi si presenta. A questo
fine s’introducono tutti i postulanti nel così detto Cortilone di Belvedere nel Vaticano, e facendoli passare ad uno ad
uno è loro dato il grosso.
2
Ordinariamente le donne non prive di meriti esterni, e capaci di eccitare qualche sentimento
di più ne’ pietosi animi de’ distributori, ottengono una elargizione maggiore della consueta, talora per cagioni
anticedenti, talora per motivi susseguenti. Né poi è raro che tra la moltitudine de’ grossi siasi cacciato qualche mezzo-
grosso, il quale la mala combinazione fa sempre toccare al vecchio o alla vecchia.
3
Gli onorevoli distributori, nel
votare i cartocci nel recipiente d’onde si tolgono i grossi per distribuirli, sogliono stringerlo con la mano alquanto al di
sopra del fondo, e poi intascano la cartaccia, ove talvolta rimane un quarto dell’intiero.
314. La cattura
Da sì cch’ebbe er proscetto era er compare
ggià ppecora segnata der curato,
e jj’annava a la longa ammascherato
1
un sbirro
2
com’e nnoi da secolare.
3
Bbe’, gattone gattone asscivolato
lo vedde in ner porton de la Commare?
E llui subbito curze er militare
4
a ssonà la trommetta
5
ar vicariato.
Detto fatto ordinonno ar bariscello
dua de cuell’abbatacci farisei
d’annà co ccinque bbracchi e un grimardello.
6
Pe ffalla curta entronno tutt’e ssei,
e acchiapponno er Compare poverello
propio in freganti-grimini
7
co llei.
7 gennaio 1832 - Der medemo
1
Ai birri, in un tempo non remoto, fu data certa specie di uniforme. Ciò fu poco prima della venuta dei Francesi nel
1808.
2
Birro.
3
Alla borghese. In Roma chi veste l’abito comune dicesi assolutamente che veste da secolare.
4
Il birro in
uniforme.
5
A fare la spia.
6
Cinque birri e un grimaldello, strumento per aprir serrature senza chiave.
7
In flagrante
crimine.
315. Lo sposalizzio de le ssciabbole
1
Hanno sposato adesso a la parrocchia
madama Timistufa
2
e cquer futticchio,
3
che ppareveno er fuso e la conocchia,
la sora Zinforosa e ’r zor Uticchio.
4
Lui è ggobbo più ppeggio de no spicchio
de merangolo, e Llei è ’na ranocchia.
Dunque chi ll’ha ttentati? Farfanicchio?,
5
je pôzzi
6
calà er latte a le gginocchia!
Perché, mettemo,
7
nun faranno fijji;
ma ssi li fanno e Ccristo nu l’ammazza,
le nottole nun cacheno cunijji.
Dunque pregamo Iddio che de sta razza
de marmottine vive s’aripijji
chi l’averebbe da mettelle in piazza.
8 gennaio 1832 - Der medemo
1
Sciabole, gambe storte: quindi sciabolotti gli storti.
2
Donna nauseante.
3
Omiciattolo.
4
Notissimo personaggio della
Casa disabitata, farsa di Giovanni Giraud.
5
Il diavolo.
6
Possa loro, ecc.
7
Supponghiamo.
316. Le nozze de li sguallerati
1
Appena er Zor Uticchio e Zzinfarosa,
che ppareveno un par de peracotte,
furno sposati, io fesce co la sposa:
2
«Sora Commare, annateve a ffà fotte».
3
Tre ggiorni appresso poi, doppo la notte
de cuella gran faccenna sbrodolosa,
4
vorzi
5
sapé si ccome annò lla cosa,
e si er boccio
6
poté rregge a le bbotte.
E jje disse accusí: «Ssora Commare,
in cuella tar nottata sce fu bbujja?
7
Annassivo d’accordo cor Compare?
Ar Zor Uticchio je s’arzò la gujja?».
Lei m’arispose allora: «e cche vve pare?
no, ppover’omo: ciafrujja, ciafrujja».
8
Roma, 27 novembre 1832
1
Allentati, erniosi: dicesi de’ vecchi.
2
Io dissi alla sposa.
3
Equivoco tra una grossolana ingiuria ordinariamente usata,
e la qualità dell’attuale situazione della donna.
4
Brodosa.
5
Volli.
6
Vecchio.
7
Buglia: tumulto.
8
Ciafrugliare: cioè
«acciabattare, procacciare alla meglio».
317. Li fijji
Come campa Mattia? campa er cazzaccio
1
a le spalle der vecchio Zzaccaria.
Fa ll’arte che fasceva er Micchelaccio:
maggnà e bbeve, annà a spasso, e ttirà vvia.
E io porco somaro gallinaccio
che mme vado a ddannà ll’anima mia,
che schiatt’e ccrepo, e sbuggero, e mme sbraccio
pe mmantené la pacchia
2
ar zor Mattia!
Fijji?! Accidenti a cchi li scerca, io dico!
Eppuro sto gustaccio che cc’è mmone
2a
d’annalli seminanno è accusí antico!
Uh ppotessi tornà ddrent’ar ficone
de mi’ madre, voría,
2b
sin a un ciníco,
3
tajjamme st’uscellaccio bbuggiarone.
8 gennaio 1832 - Der medemo
1
Ironicamente «lo sciocco».
2
Il buontempone.
2a
Adesso.
2b
Vorrei.
3
Fino all’ultimo pezzetto.
318. Er corpo de guardia scivico
Er capitan’abbate Debbiticci
1
che ssi mmette per dio mano ar palosso,
è ssalame capasce de dà addosso
a un squadron de carote e ppajjaricci,
2
spesso spesso ar quartiere se fa rrosso
discenno lui che cce n’ha ppochi spicci,
3
e che ssi ar ronneggià
4
ffamo
5
pasticci
ce fotte a tutt’inzieme in ner profosso.
E sfodera oggnitanto la guainella
pe ffà ffà le sercizzie
6
a la scappona
7
a cquelli che nun stanno in zentinella.
A ddu’ ora poi caccia la corona
pe ddí er rosario, e ttiè la coratella
8
de mannacce
9
a ddormí cco la padrona.
10
8 gennaio 1832 - Der medemo
1
Alteramento del cognome russo Diebitsch, onde satirizzare l’avvocato, giudice, cavaliere, capitano Barbèri, uomo
pieno di debiti e di stipendi.
2
Pagliariccio: cipolla cotta al forno.
3
Ch’è uomo risoluto.
4
Nella ronda.
5
Facciamo.
6
Gli
esercizi.
7
In fretta in fretta.
8
Ha il coraggio.
9
Di mandarci.
10
Tracolla.
319. La sala de Monzignor Tesoriere
1
Hai sentito c’ha detto oggi er padrone?
C’avenno inteso er grann’Abbreo Roncilli
2
c’ar monte
3
ce ballaveno li grilli
3a
ha ddato ar Papa imprestito un mijjone.
Cusí oggnuno averà la su’ penzione,
e nnun ze sentiranno ppiú li strilli
c’a sto paese ggià tutt’er busilli
3b
sta in ner vive a lo scrocco e ffà orazzione.
Perantro è un gran miracolo de ddio,
che pe sspigne la Cchiesa a ssarvamento
abbi toccato er core d’un giudio.
Ma er Papa farà espone er Zagramento
pe cconvertí a Ggesú benign’e ppio
chi l’ha ajjutato ar zessant’un per cento.
8 gennaio 1832 - Der medemo
1
Mettesi in bocca dei servitori del Tesoriere una proposizione del cardinal De Gregorio, che è quella riferita nella
prima terzina (vedi l’altro sonetto intitolato Er prestito de l’abbreo Roncilli).
2
Rotschild.
3
Pubblico erario.
3a
Ballare i
grilli in un luogo, vale «esser vòto».
3b
Tutto il punto.
320. Er prestito de l’abbreo Roncilli
1
Ma eh? Cèssummaría!
2
che Mmonno tristo!
Fin che sse vedi fà a li ggiacubbini
va bbe’, ma un Papa ha da pij cquadrini
da un omo c’ha ammazzato Ggesucristo!
Uh rriarzassi la testa Papa Sisto
ch’empí zzeppo Castello de zecchini
3
strillerebbe: «ah ppretacci mmalandrini,
c’era bbisogno de sto bbell’acquisto?
Nun ciavete perdio tanta de zecca
pe cugnà mmille piastre ogni minuto,
senza falle vení sin da la Mecca?
E cco ttutto sto scànnolo futtuto
maneggiate a Ssan Pietro la bbattecca
4
pe bbuggiarà la ggente senza sputo».
9 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Vedi l’altro sonetto intitolato La sala de Monzignor Tesoriere.
2
Gesù Maria, esclamazione ordinaria di maraviglia.
3
Allude ai cinque milioni depositati da Sisto V in Castel Sant’Angiolo.
4
Bacchetta, col cui tocco sul capo i Penitenzieri
della Basilica Vaticana cancellano i peccati veniali di chi genuflette avanti ad essi.
321. L’ordine de Cavallaria
Er Papa, ch’er Zignore lo conzoli,
doppo avé co ddu’ editti solamente
fatto viení, ddeograzzia, un accidente
a sti ggiacubbinacci romaggnoli,
pe ddistingue de ppiú ggente da ggente
e ddivide accusí ccesci e ffascioli,
ha mmannato una crosce
1
a li fijjoli
che in cuer frufrù
2
nun hanno fatto ggnente.
3
E st’antri cavajjeri c’ha inventati
nun hanno d’annà mmai contro er Granturco
4
pe avé la rimissione de peccati.
Pe spiegà ppoi chi ssò, ll’ha bbattezzati
fijji de San Grigòrio ’e ttamaturco
protettor de li casi disperati.
5
9 gennaio 1832 - Der medemo
1
Allude al nuovo ordine cavalleresco di S. Gregorio, instituito da Gregorio XVI per rimunerare chi gli è sembrato bene
dopo la rivoluzione del 5 febbraio 1831.
2
Confusione.
3
Qui propriamente vuol dire non aver essi fatto male
bene.
4
Gran signore e grano turco.
5
Un mandataio della Confraternita di S. Gregorio Taumaturgo grida sotto le
finestre de’ benefattori: Devoti de san Gregòri’ ettamaturco protettor de li casi disperati, deo ghéerazzia. Qui si può
alludere a disperazione politica.
322. Er giornajjere
1
de Campovaccino
La sera a ttordinone fo er zordato
ar ballo de commedia er zicch’ezzacche,
che ddoppo una bburrasca viè Ppilato
co li soni c’a ffatto Pijjavacche.
1
Er zoffione
2
che ssoffia sta agguattato
2a
a drent’un zoffietto immezz’a ttante pracche:
2b
e cc’è un lampanarone intigamato
tra ccerti vetri a uso de patacche.
3
Poi c’è un omo
4
che zzompa co ddu’ donne
ner cortile der Re ttutto guarnito
de colonnati a ffuria de colonne,
5
e ddicheno che st’omo è un manfrodito.
6
Poi c’è un incennio a ffoco c’arisponne
a ffiume.
7
E sse va vvia doppo finito.
9 gennaio 1832 - Der medemo
1
In mancanza di milizie, negate dal Governo nel carnovale 1832, furono stipendiati seralmente tanti scavatori del
Foro Romano e vestiti da soldati di comparsa nell’opera il Zadig, musica del maestro Vaccai, e nel ballo il Pirata,
composto dal maestro Piglia.
2
Suggeritore.
2a
Nascosto.
2b
Placche, per «lumi della bocca d’opera».
3
Nuovo
lampadaio, costrutto a guisa di una gran tazza, formata colla unione di tanti piccoli quadri di cristallo a faccette. I lumi
sono dentro e ne trasparisce lo splendore.
4
Il primo ballerino M. Priora, che balla un terzetto colle due prime ballerine
SS…
5
In un atrio.
6
Il detto ballerino ha il malvezzo di mostrare il petto nudo alla foggia di una donna.
7
Incendio e
caduta di una fabbrica creduta un ponte, con che termina il ballo.
323. Er ballerino d’adesso
Quer Monzù a ttordinone
1
che ttiè ffora
le zinne in ner ballà ccom’e Mmadama,
si vvolete sapé ccome se chiama,
io j’ho inteso de dí Rocca-priora.
2
Tiè ccerti quarti tiè, per dina nora!,
che ’ggni donna coll’occhi se lo sbrama:
2a
frulla le scianche
2b
poi com’una lama,
e ccrederessi che cce ggiuchi a mmora.
Io so cche cquanno terminò er duetto
che ffasceveno lui co le du’ donne,
pareva propio che ccascassi er tetto.
E ddisse in piccionara er Zor Marchionne
che mmanco ha inteso fà ttutto quer ghetto
quanno upriveno l’occhi le Madonne.
3
9 gennaio 1832 - Der medemo
1
Teatro Torre-di-Nona.
2
Il signor Priora. Rocca-Priora è una terra della Sabina.
2a
Sbrana.
2b
Gambe.
3
Prodigio
narrato dal tempo della venuta de’ Francesi repubblicani, alla caduta del secolo passato.
324. Li Manfroditi
1
Li manfroditi sò (ggià cche tte preme
de stillatte er ciarvello in st’antra bbega),
2
sò ppe ffattucchieria de quarche strega
ommini e ddonne appiccicati inzieme.
Loro sò mmaschi e ffemmine medeme,
3
e ssi jje viè er crapiccio d’annà in frega
cazzo e ffreggna je sta ccas’e bbottega
pe ddà ar bisogno e ppe rrisceve er zeme.
Quer poté appiccicasse
4
e ffà ll’amore
co cchiunque te capita d’avanti,
nun te pare un ber dono der Ziggnore?
All’incontrario poi tanti e ppoi tanti,
gente lescit’e oneste e dde bbon core,
nun troveno a scopà mmanco li santi.
9 gennaio 1832 - Der medemo
1
Ermafroditi.
2
Imbroglio.
3
Medesime: ad un tempo.
4
Appiccicarsi.
325. Er teatro Pasce
Giuveddí cc’è a la Pasce, e ggià sta ffori
sur Cartellone accost’ar butteghino,
La gran battajja der gran Re de mori
fatta dar gran Orlanno Palattino,
Co Ppurcinella finto spadaccino
e ddisperato tra li creditori.
Eppoi fanno pe ffarza Traccagnino
servo de du’ padroni, co li Cori.
Sai che rride ha da esse Purcinella
si ppe ppagà li debbiti va ar Monte
de la Pietà a impegnasse la guainella!
1
Poi, sabbito, er gran Carro de Fedonte,
co la bburletta nova tanta bbella
Muzzio-Scivol’all’ara e Orazzio ar ponte.
10 gennaio 1832 - De Peppe er tosto
1
Spada.
326. Er coronaro
Ma cche tte vai freganno
1
vemmarie
e ppaternostri pe infilà ccorone!
Passò cquer temp’Enea der re ddidone:
oggi è ttempo d’uprí fforni e osterie.
Da quanno ch’è vvienuto Napujjone
uffizzioli, rosari e llettanie
le donne l’hanno mess’in d’un cantone
e nun penzeno ppiù cc’a cciafrerie.
2
Fiori, occhiali, smanijji, orloggi, anelli,
pennenti, farpalà, ppettini, veli,
fittuccie, e ccappelloni com’ombrelli.
Senza statte a ccon
3
ttutti li peli,
che ssò de li paini poverelli
che mmoveno a ppietà li sette sceli.
10 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Qui nel senso di «fare».
2
Bagatelle.
3
Contare per «numerare»; poiché per «narrare» dicesi dai Romaneschi
solamente raccontare.
327. Er roffiano onorato
È nnata e bbattezzata a la Matriscia:
cuà nun ze viè pe sbarattà le carte,
vienghi a vvedé coll’occhi sui che cciscia,
e ddoppo me dirà s’io sò dell’arte.
Se la facci spojjà ssenza camiscia,
la tasti puro da tutte le parte,
la provi, e vvederà cchi è la Miscia,
e ssi ppropio è un boccon da Bbonaparte.
Se ne troveno pochi de sti musi.
Le regazze, Monzù, che jje do io,
lei pò ppuro
1
fregalle a occhi chiusi;
ché nun zò le puzzone, Monzù mmio,
che jje porta un zocchí,
2
ppiene, me scusi,
de tutte sorte de grazzia de ddio.
10 gennaio 1832 - Der medemo
1
Pure.
2
Un non-so-chi.
328. Li Santi grossi
Quer zacconaccio
1
indove ciariscoto
1a
er giulio pe mmi’ soscero la festa,
nun za
2
de santi che cce n’è una scesta
che pponno dà in ner culo a Ssanto Toto.
San Rocco è pprotettore de la pesta:
Sant’Emidio protegge er terramoto:
Santa Bbibbiana sta ssopra la testa:
Santa Luscia sull’occhi. Eppoi te noto
pe la gola San Biascio, pe li denti
Sant’Appollonia, e Ssant’Andrea Vellino
pe cchi mmore, dio guardi, d’accidenti.
Pe li morti-de-fame San Carlino,
3
Sant’Anna pe le donne partorienti,
e ppe li maritati San Martino.
4
10 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Confratello de’ Sacconi nella chiesa di S. Teodoro, chiamata volgarmente Santo Toto.
1a
Ci riscuoto.
2
Non sa.
3
Un
carlino è in Roma moneta da sette baiocchi e mezzo.
4
Nel giorno di S. Martino dicesi per ischerzo farsi la processione
de’ cornuti.
329. Le capate
Co st’antre ammazzatore
1
sgazzerate
2
c’hanno vorzuto
3
arzà
4
ffora de porta,
5
nun ze
6
disce bbuscia che Rroma è mmorta
più ppeggio de le bbestie mascellate.
Dove se
6
gode ppiú com’una vorta
quer gusto er Venardí dde le capate,
7
quanno tante vaccine indiavolate
se
6
vedeveno annà ttutte a la sciorta?
8
Si
9
scappava un giuvenco o un mannarino,
10
curreveno su e ggiú ccavarcature
11
pe rripetta, p’er corzo e ’r babbuino.
12
Che ride
13
era er vedé ppe le pavure
l’ommini mette mano
14
a un portoncino,
e le donne scappà cco le crature!
15
11 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
La pubblica ammazzatoia di animali destinati al cibo.
2
Voce di spregio.
3
Voluto.
4
Alzare.
5
Del Popolo.
6
Si.
7
Erano
dette capate que’ branchi di bestie vaccine che sino agli ultimi tempi s’introducevano in Roma disciolte nel giovedì e
venerdì d’ogni settimana per portarsi ai macelli.
8
Alla sciolta.
9
Se.
10
Mandarino: nome che si dava a ciascuno de’
quei buoi, muniti di un campanaccio al collo, destinati a guida delle altre bestie.
11
Butteri a cavallo.
12
Le tre vie che
mettono capo alla Piazza del Popolo.
13
Che ridere! ecc.
14
Metter mano, per «entrare».
15
Creature.
330. La Nunziata
Ner mentre che la Verginemmaria
se magnava un piattino de minestra,
l’Angiolo Grabbiello via via
vieniva com’un zasso de bbalestra.
Per un vetro sfasciato de finestra
j’entrò in casa er curiero der Messia;
e co ’na rama immano de gginestra
prima je rescitò ’na Vemmaria.
Poi disse a la Madonna: «Sora spósa,
1
sete gravida lei senza sapello
pe ppremission de ddio da pascua-rosa».
2
Lei allora arispose ar Grabbiello:
«Come pò esse mai sta simir cosa
s’io nun zo mmanco cosa sia l’uscello?».
12 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Colla o stretta, come amorósa, ecc.
2
La Pentecoste, detta a Roma Pasqua Rosa.
331. La visita
Maria Vergine gravida a la posta
trovò una lettra: A Maria bbenedetta.
«Chi ddiavolo me scrive?… ah, è la risposta
de mi’ cugnata Santa Lisabbetta».
Je raccontava lei c’a ffall’apposta
je cresceva a llei puro la panzetta.
Allora lei, sibbè ch’er viaggià ccosta,
j’annò a ffà cor su’ bboccio
1
una bburletta.
Disce
2
che la trovò co ppoca panza,
senz’appitito e ccolla sputarella,
in zur comincio della gravidanza.
San Giuseppe tratanto s’ariscarda:
3
doppo leva ar zomaro la bbardella,
e appoggeno tre mmesi la libbarda.
4
14 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Vecchio.
2
Dicono, si dice.
3
Sta riscaldandosi al fuoco.
4
Appoggiare, piantare l’alabarda è un bel modo d’esprimere
la stazione che si fissa in un luogo.
332. Er presepio de la Resceli
1
Er boccetto
2
in perucca e mmanichetti
è Ssan Giuseppe spóso
3
de Maria.
Lei è cquella vestita de morletti
4
e de bbroccato d’oro de Turchia.
Vedi un pupazzo pieno de fiocchetti
tempestati de ggioje? ecch’er Messia.
Cazzo! evviva sti frati bbenedetti,
che nun ce fanno vede guittaria!
5
Cuello a mezz’aria è ll’angelo custode
de Ggesucristo; e cquelli dua viscino,
6
la donna è la Sibbilla e ll’omo Erode.
Lui disce a llei: «Dov’ello sto bbambino
che le gabbelle mie se vò ariscòde?».
7
Lei risponne: «Hai da fà mórto
8
cammino».
12 gennaio 1832 - Der medemo
1
Il presepio de’ frati zoccolanti dell’Ara-Coeli sul Campidoglio (dov’era il tempio di Giove Capitolino) è costruito
ogni anno veramene secondo la descrizione che qui se ne dà.
2
Vecchietto.
3
Colla o stretta come ascoso, ecc.
4
Merletti.
5
Miseria.
6
I due seguenti personaggi, a ragionamento fra loro, si trovano quasi a contatto col gruppo del
mistero.
7
Riscuotere, per «esigere».
8
Colla o stretta: molto.
333. La scirconcisione der Zignore
Sette ggiorni e un po’ ppiú ddoppo de cuello
che ccor fieno e li scenci inzino ar gozzo
la Madonna tra un bove e un zomarello
partorí er bon Gesù ppeggio d’un mozzo;
er padre sputativo
1
poverello
pijjò in braccio er bambino cor zangozzo;
2
e annorno ar tempio a fajje fà a l’uscello
er tajjo d’un tantin de scinicozzo.
3
Eppoi doppo trent’anni fu pe mmano
de San Giuvanni bbattezzat’a sguazzo
in cuer tevere
4
granne der giordano.
In cuanto a cquesto è vvero ch’er regazzo
venne a la fede e sse fesce cristiano:
ma le ggirelle
5
io nu le stimo un cazzo.
12 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Putativo.
2
Singhiozzo.
3
Prepuzio. Con questa voce i Romaneschi burlano gli Ebrei.
4
Tevere, per nome appellativo di
fiume.
5
I volubili.
334. Pascua Bbefania
1
Da quer paese indov’hanno er vantaggio
de frabbicà er cacavo
2
e la cannella,
fescero sti tre Rré tutto sto viaggio
appress’ar guidarello
3
de la stella.
Se portava pe Ccorte ogni Remmaggio
4
cuattro somari, tre ccavar
5
da sella,
du’ guardie-nobbile, un buffone, un paggio,
un cameo,
6
du’ cariaggi e una bbarella.
7
Arrivati a la stalla piano piano
er ré vvecchio, er ré ggiovene e ’r ré mmoro,
aveven’oro, incenz’e mmirra immano.
8
L’incenzo ar Dio, la mirra all’omo, e ll’oro
toccava a Ccristo com’e ré soprano,
9
ché li Ré ggià sse sa, ttutto pe lloro!
10
14 gennaio 1832 - Der medemo
1
Pasqua Epifania.
2
Cacao.
3
Pecora conduttrice delle altre.
4
Re Mago. I Romaneschi dicono remmaggi e per analogia
remmaggio.
5
Cavalli.
6
Cammello.
7
Palanchino. La barella è in Roma una bara coperta da trasportare infermi.
8
In
mano.
9
Sovrano.
10
Colla o larga.
335. Er fugone de la Sagra famijja
Ner ventisette de dicemmre a lletto,
San Giuseppe er padriarca chiotto chiotto
se ne stava a rronfà ccom’un porchetto
provanno scerti nummeri dell’Otto;
1
cuanno j’apparze in zogno un angeletto
cor un lunario che ttieneva sotto;
e jje disse accusì: «Gguarda, vecchietto,
che ffesta viè quì ddrento a li ventotto».
2
Se svejjò San Giuseppe com’un matto,
prese un zomaro ggiovene in affitto,
e pe la prescia manco fesce er patto.
E cquanno er giorn’appresso uscì l’editto,
lui co la mojj’e ’r fìo ggià cquatto quatto
viaggiava pe le poste pe l’Eggitto.
12 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Del lotto.
2
A’ 28 dicembre è la commemorazione della strage degl’innocenti.
336. La stragge de li nnoscenti
Com’er Re Erode fesce uscí l’indurto
de scannà tutte quante in ne la gola
le crature de nascita in fasciola,
fu pe ttutta Turchia propio un tumurto.
Le madre lo pijjorno pe ’n’insurto:
e mmettenno li fijji a la ssediola,
1
fasceveno dí mmesse a Ssan Nicola;
2
ma er tempo pe ssarvalli era assai curto:
ché li sbirri d’Erode a l’improviso
escheno a imminestrà bbotte, e ’gni bbotta
vola ’na tacchiarella
3
in paradiso.
Cristo tratanto sur zomaro trotta,
verzo l’Eggitto pe nnun esse acciso,
4
e ll’ha scampata pe la majja rotta.
5
12 gennaio 1832 - Der medemo
1
Mettere alla sediola è «porre i bambini al comodo»: lo che dalle madri non si fa sempre per occorrenza, ma spesso
per essere più libere nelle loro faccende, ecc.
2
Protettore de’ fanciulli.
3
Ogni botta ’na tacchia, proverbio denotante la
efficacia de’ colpi. Qui tacchiarella per allusione ai bambini.
4
Acciso, tolto da’ Romaneschi ai Napolitani.
L’espressione de’ primi è propriamente ammazzato.
5
Proverbio ovvio.
337. Le nozze der cane de Gallileo
1
Sonetti 3
Ner più bbello der pasto de le nozze
venne drento a li fiaschi a mmancà er vino;
e, ppeggio, era serrato er bettolino
pe ppoté rrïempí le bbarilozze.
Che ffesce er cantignere bbirbo fino!
Cormò d’acqua der pozzo tre ttinozze,
e dda sei serve affumicate e zzozze
la mannò in zala avanti ar padroncino,
acciò ppregassi Maria bbenedetta
a prennese l’impegno cor fijjolo
de falla diventà vvin de ripetta.
2
«Bisogna er fijjo mio pijjallo a volo»,
lei disse: «abbasta, si vvò ddamme retta,
farò ffajjene
3
armanco un quartarolo».
4
13 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Le nozze di Cana in Galilea.
2
Scalo del Tevere, dove si vende vino ordinario de’ paesi posti lungo il fiume.
3
Fargliene.
4
La quarta parte di un barile.
338. Le medeme
[Le nozze der cane de Gallileo]
Appena ebbe sentita la Madonna
pregallo a vvennemmià senza un rampazzo,
1
Ggesucristo, che ancora era regazzo,
soffiò istesso ch’er zasso d’una fionna.
Poi disse incecalito: «Eh quela donna,
voi de sti guai che vve ne preme, un cazzo?
Che cce penzi er padrone der palazzo,
e nnun vadi a ccercà cchi jje li monna.
2
Pe ddà la cotta a cquarche bbeverino
3
che vvorà ppasteggià le callaroste,
io ho da fà er miracolo der vino?!
Che?! M’hanno da toccà ggià tante groste,
4
senz’annamme accattanno cor cerino
puro mó st’antra odiosità dell’oste!».
13 gennaio 1832 - Der medemo
1
Grappolo di uva.
2
Questo verbo significa qui: «togliere la cura, il pensiero, la fatica».
3
Procurare di inebriarsi a’
bevitori.
4
Colpi.
339. Le medeme
[Le nozze der cane de Gallileo]
Credo però che tutta sta sparata
che cquà ffesce Ggesú bbona-memoria,
lui nu la facess’antro che ppe bboria,
o, ccome dimo noi, pe ppallonata.
Ma la madre, che ss’era sbilanciata
1
de volé ppropio vince sta vittoria,
disce er Vangelio ch’è una bbell’istoria
che ddiventò Mmadonn’addolorata.
Fijji, mo ddico io, mai fussi vera
st’istoria cquì, bisogna avé ggiudizzio,
pe vvia c’ar tempo suo casca ’gni pera.
Specchiateve in Gesú, che ppe cquer vizzio
de risponne a la madre in sta magnera
Dio permesse c’annassi in pricipizzio.
13 gennaio 1832 - Der medemo
1
Compromessa.
340. Le nove fresche
La mi’ fijja zitella che ppartí
pe ggovernante de cuer tar Monzù,
me scrisse un anno-fa da Sciammilí,
1
e dda cuer tempo nun m’ha scritto ppiú.
Ho ssortanto tranteso ggiuveddí
dar coco der Ministro Bbarberú,
2
che dda sí ch’er francese je morí,
povera fijja, s’è bbuttata ggiú.
3
Puro, ammalorcicata
4
come sta,
ha sservito tre mmesi in d’un caffè
ar cammino e ar bancone a imminestrà.
5
E adesso sposa un certo... Lamirè,
uno che ffa le Mediriane
6
fa,
che ssò orloggi che ssoneno da sé.
13 gennaio 1832 - Der medemo
1
Chambéry.
2
Barbarù, già incaricato di Sardegna presso la Santa Sede.
3
Ha scapitato nella salute per tristezza e mala
cura di sé.
4
Malaticcia.
5
Ministrare.
6
Meridiane.
341. Santa Luscia de quest’anno
Oggi è Ssanta Luscia occhi e ccannele,
1
per urbi-e-t-orbi c’è granne allegria.
Le donne che sse chiameno Luscia
oggi vònno magnà zzuccher’e mmèle.
Doppo-pranzo
2
dà un pranzo er zor Micchele
pe ddivozzione a sta santa, pe vvia
ch’è stato male de ’na malatia
che ddrent’all’occhi je s’è sparz’er fele.
3
Pare che Iddio quattr’occhi j’abbi fatto
a sta Sant’avocata de li guerci,
si ddua ne porta in fronte e ddua ner piatto;
e sti dua che jj’avanzeno li smerci,
ché accusí c’è a la Chiavica er ritratto,
cusí a la Tinta, a li Gginnasi e in Zerci.
4
13 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Santa Luscia occhi e cannele è un espressione di maraviglia, con che si rimprovera chi non abbia veduto alcuna cosa
patente.
2
Le ore dopo il mezzodì fino al tramontare del sole sono detto il doppo-pranzo, senza aver poi assolutamente
riguardo al pranzare. Così la parte illuminata del giorno si divide a Roma in mattina e dopo-pranzo.
3
Spargimento del
fiele per la superficie del corpo.
4
Quattro chiese dedicate in Roma a S. Lucia, cioè S. Lucia della Chiavica, S. L. della
Tinta, S. L. de’ Ginnasi e S. L. in Selci.
342. Le Cchiese de Roma
Quer prete a la Madon de la Pusterla
1
secco secco, arto arto, bbrutto bbrutto,
che sse maggnò de sabbito
2
una merla
cotta co li lardelli e cco lo strutto:
sto quequero
3
de prete, che ssa ttutto,
disce che Ssan Lorenzo panepperla
4
in todesco vò ddí pan’e ppresciuto:
ma sta volata je se pò ccredérla?
5
Nun ze nega però ch’in quant’a cchiese
a Roma uno ppiú bbazzica
6
e ppiú ttrotta
e ppiú bbuffe ne trova a sto paese.
C’è Ssan Spirito in Zassi a la longara,
7
metti San Biascio poi de la paggnotta,
poi la Minerba
8
e ppoi la Pulinara.
9
Senti quest’antra e impara:
Santa Maria in Cacàbberi!
10
e ssi ccerchi
trovi er Zudario
11
e la Madon de Scerchi.
12
Levamo li cuperchi
a st’antre dua: San Neo e Ttacchineo,
13
e la Madonna de Campocarlèo.
14
Lí a San Bartolomeo
c’è in faccia San Giuvanni Gabbolita,
15
e c’è a piazza de Sciarra er Caravita.
16
Ma cquà nun è ffinita:
ce sò li Stimiti,
17
e ppoi dua ppiú bbrutte,
Sastèfino der Cacco
18
e Sammautte.
19
E nu l’ho ddette tutte.
C’è er San Tomasso accenci
20
e l’Imperíone,
21
San Lorenzo immiranna
22
e ’r Confalone.
23
Poi viè ll’antra porzione
de San Giorgio in Vel’apro,
24
e in certi vicoli
la cchiesa de Sastèfino in pescicoli.
25
Vôi ppiú nnomi ridicoli
de Subburra,
26
Rescèli
27
e Strapuntina?
28
Se pò ppassà
29
Santa Maria Carina?
30
Manco a scappà in cantina
da li tre Ssan Giuvanni uno se sarva
dell’Aino, de la Piggna e de la Marva.
31
Farai la coccia carva,
32
e ssempre n’averai de le ppiú bbelle.
ortr’a Ssan Zarvator de le Cupelle
33
ce ne sò c’a volelle
dì ttutte sce voría de stenne un fojjo
cquà da Scossciacavalli
34
a Ccampidojjo.
E pe cquesto nun vojjo
protenne tanto che nun vadi ar lecco
cuer prete amico mio, bbrutto, arto e ssecco.
15 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
S. Maria in Posterula.
2
Sabato.
3
Di spiacevole e antiquato aspetto.
4
Panis-perna (lat.).
5
Tratto di romanesca
pretensione in bel parlare.
6
Bazzicà: andar praticando.
7
S. Spirito in Sassia, presso la Via della Lungara.
8
S. Maria
sopra Minerva.
9
S. Apollinare.
10
S. Maria in Cacaberis.
11
Il Sudario presso la Curia di Pompeo.
12
S. Maria in Cerchi,
al circo Massimo.
13
SS. Nereo e Achilleo.
14
S. Maria in Campo Carleo: presso il Foro Traiano.
15
S. Giovanni Calibita,
detto S. Giovanni di Dio, fondatore dello spedale dei così chiamati Fate-bene-fratelli, nome corrotto in Roma in
Bonfratelli. È sull’isola Tiberina.
16
Oratorio fondato dal padre Caravita, famiglia di Terni, chiamata oggi Garavita.
17
Le Stimmate di S. Francesco.
18
S. Stefano sopra Cacco.
19
S. Macuto.
20
Chiesa contigua e attinente al palazzo della
famosa Beatrice Cenci, fondata, dicesi, dal crudele Francesco padre di questa, onde seppellirvi tutti i suoi figliuoli.
21
S. Tommaso in Parione: presso il Foro Agonale.
22
S. Lorenzo in Miranda.
23
Confraternita del Gonfalone.
24
S.
Giorgio, sul luogo dell’antico Velabro di Romolo e Remo.
25
S. Stefano in Piscinula.
26
S. Agata alla Suburra, contrada
che prende il nome dall’antica famiglia (estinta) di Suburra, di cui un Pandolfo fu senatore di Roma sul principio del
sec. XIII; benché se Suburra significhi Suburbium, il luogo può aver dato il nome alla famiglia che vi abitava.
27
S.
Maria in Aracoeli, dov’era il tempio di Giove Capitolino.
28
S. Maria in Traspontina, cioè di dal ponte (S. Angelo,
già Elio).
29
Ammettere, scusare.
30
S. Maria in Carinis.
31
S. Giovanni in Aino. S. Giovanni della Pigna. S. Giovanni
della Malva (oggi demolita).
32
Testa calva: invecchierai.
33
S. Salvatore delle Coppelle.
34
S. Giacomo Scossacavalli,
presso il Vaticano.
343. Li teatri de Roma
Otto teatri fanno
1
in sta staggione
de Carnovale si mme s’aricorda:
Fiani, Ornano, er Nufraggio, Pallaccorda,
Pasce, Valle, Argentina e ttordinone.
2
Crepanica nun fa, manco er Pavone,
3
ma c’è invesce er Casotto:
4
e ssi ss’accorda
quello de le quilibbrie e bball’in corda,
caccia puro Libberti
5
er bullettone.
Nun ce sò Arcídi
6
grazziaddio cuest’anno,
ché st’Arcídi sò arte der demonio,
e cquer che fanno vede è ttutto inganno,
Io però, si ddio vò, co Mmanfredonio
vad’a ppiazzanavona,
7
che cce fanno
la gran cesta der gran Bove d’Antonio.
8
15 gennaio 1832 - Der medemo
1
Termine generico: qui per «agiscono».
2
I tre primi, Fiano ed Ornani, agiscono con marionette, ed anche il terzo che
ha poi più recentemente cambiato il nome in teatro della Fenice. Il quarto ed il quinto, Pallacorda e Pace, sono i due
teatri di commedia pel basso popolo. Il sesto, della Valle, è drammatico e per solito di opera buffa. Il settimo, Torre
Argentina, già dava opera regia, ma in questi ultimi anni si è questa trasportata al rinomato magnifico teatro di
Tordinona (Torre di Nona).
3
Capranica, teatro annesso a un collegio di questo nome. Talora si affitta ed agisce
venalmente. Il Pavone era già teatrino domestico del Duca Cesarini Francesco, e prende ora il nome della via ov’ha
ingresso.
4
Casotto vagante dei burattini.
5
Teatro delle Dame detto d’Alibert.
6
Alcidi. Atleti de’ quali è venuta moda
dopo il francese Mathevet.
7
Cioè, al Teatro Ornani.
8
Le gesta di Bovo d’Antona.
344. L’astrazzione farza
1
Stamio
2
da scento
3
servitori in zala
der gran Ministro Russio Cacarini,
4
ché c’era un ballo de ticchetta
5
in gala
pe la vittoria delli ggiacobbini,
6
cuann’ecco entra scosciato da la scala
un curiero der Re de fiorentini,
orlato d’oro farzo de zecchini
e de zàcchera
7
messa co la pala.
Chiese de parlà ar prencipe: e in cuer pezzo
che cc’è cche vvadi l’immasciata e ttorni,
ce diede a ttutti l’astrazzion d’Arezzo
Presto a li bbutteghini
8
a li contorni
spedissimo un lacchè perc’a ’gni prezzo
ce curresse a incettà tutti li storni.
9
S’aspetta che sse sforni
la matina la nova de
10
Toscana...
Manco un nummero! Fijjio de puttana!
16 gennaio 1832
1
La estrazione falsa.
2
Stavamo.
3
Circa cento.
4
Gagarin.
5
D’etichetta.
6
Soffocamento della rivoluzione del 1831.
7
Fango abbondante.
8
Uffici di prenditoria de’ lotti.
9
Numeri già giuocati che il prenditore rivende a un prezzo alquanto
maggiore della posta.
10
Escire la nuova di, ecc. vale: «pubblicarsi la estrazione».
345. L’astrazzione de Roma
Che cce vorressi fà? ciavevo tanta
speranza a l’astrazzion de stammatina,
e vvarda si cche ssorte de scinquina!
Tre, ssette, ventiquattro, otto, quaranta.
Buggiarà er cannarone
1
che li canta
2
e cchi lli mette ggiú ne la terina:
3
ch’io me voría ggiucà n’anguillottina
4
si llí ddrento ce sò ttutt’e nnovanta.
E pperché cc’è a l’Impresa er castelletto?
5
Pe cconcertasse prima tra de loro
cuello c’ha da tirà ddoppo er pivetto.
6
Ecco si cche vvò ddí cquer conciastoro,
7
quer passamano
8
addietr’ar parapetto:
9
nun ze sapessi mai tutt’er lavoro!
16 gennaio 1832 - Der medemo
1
Gridatore, persona di voce alta.
2
Cantare i numeri è in Roma l’«annunziarli».
3
Bussolo d’argento in forma di urna,
consimile presso a poco ad una zuppiera, detta in Roma terrina, e dal comune terina.
4
Uno degli storpiamenti di
guillotine (ghigliottina): quajjottina, anguillottina, ecc.
5
Congregazione de’ notabili della Impresa de’ Lotti, i quali,
raccolti insieme, mercé alcuni loro metodi riconoscono e mettono fuori di giuoco pel di pquei numeri che abbiano
ecceduto nelle poste il carico delle vincite a cadaun numero assegnato.
6
Fanciullo. È un alunno dell’ospizio degli
orfani.
7
Drappello composto dal prelato tesoriere e di altri camerali.
8
I già detti, dal punto in che l’orfano estrae una
palla e la per di dietro alle spalle, si vanno passando uno all’altro il cartellino numerato che dentro vi era: e ciò per
verifica della susseguente pubblicazione.
9
Della loggia di Monte-Citorio.
346. La Nasscita
Sora Ggiuvanna mia, a sto Monnaccio
è stato un gran cardéo
1
chi cc’è vvienuto!
Nun era mejjo de pijjà un marraccio
2
e d’accoppasse cor divin’ajjuto?
Su la porta der Monno ce sta: Spaccio
de guainelle
3
a l’ingrosso e a mminuto:
4
de malanni passati pe ssetaccio
5
de giojje appiccicate co lo sputo.
6
Da regazzi, la frusta ce sfraggella,
da ggioveni, l’invidia de la ggente,
e da vecchi, un tantin de cacarella.
Bbasta, ggià cche cce semo, alegramente:
e nun ce famo dà la cojjonella
7
cor don-der-fiotto che nun giova a ggnente.
17 gennaio 1832 - Der medemo
1
Caldeo, imbecille.
2
Grosso coltello da colpo.
3
Le guainelle sono le «carubbie». Qui stanno per metafora di guai.
4
Formula tolta dalle inscrizioni sovrapposte per lo più alle osterie. Spaccio di vino di…,all’ingrosso e al minuto.
5
Raffinati.
6
Fragili.
7
Dar baia.
347. Lotte a ccasa
Sonetti 3
Cor zu’ bbravo sbordone
1
a mmanimanca,
2
du’ pellegrini, a or de vemmaria
3
cercaveno indov’era l’Osteria,
perc’uno aveva male in d’una scianca.
4
Ce s’incontra er zor Lotte, e jje spalanca
er portone discenno: «A ccasa mia».
E lloro je risposeno: «Per dia,
5
dimani sarai fío dell’oca bbianca».
6
Quelli ereno du’ angeli, fratello,
che ar vedelli passà li Ghimorrini
7
se sentinno
8
addrizzà ttutti l’uscello.
E arrivonno
9
a strillà, fijji de mulo:
«Lotte, mannece
10
ggiú li pellegrini,
che cce serveno a nnoi pe ddajje in culo».
17 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Bordone.
2
Mano sinistra.
3
Ave Maria: le ventiquattro ore italiane.
4
Gamba.
5
Restrizione di bestemmia.
6
Il figlio
dell’oca bianca è «l’esente privilegiato da un danno comune».
7
Abitanti di Gomorra.
8
Sentirono.
9
Arrivarono.
10
Mandaci.
348. Sara de lotte
Disse l’Angelo a Llotte tal’e cquale:
«Tu, le tu’ fijje, e la tu’ mojje Sara
currete sempre ggiú pe la Longara
1
senza mai guardà arreto
2
a lo spedale».
Però la mojje, ficcanasa
3
e avara,
ammalappena l’Angelo arzò ll’ale,
svortò la testa, e ddiventò de sale
mejjo de quer che danno a la Salara.
S’oggiggiorno tornassino ste cose,
dico de diventà ssale in un sarto
4
tutte le donne avare e le curiose,
co le molliche
5
sole de lo scarto
ce se farebbe un ber letto de rose
a sti ladri futtuti de l’apparto.
6
17 gennaio 1832 - Der medemo
1
Strada di Roma in capo alla quale è lo Spedale di Santo Spirito.
2
Indietro.
3
Curiosa.
4
Salto.
5
Bricioline.
6
Correva in
Roma una voce che accusava gli appaltatori dell’amministrazione de’ sali e tabacchi di avere jugulato il Governo in
que’ tempi difficili, guadagnando il doppio della corrisposta annua a scapito dell’esausto erario.
349. Lotte ar rifresco
Già a Ssodema e Gghimorra ereno cotte
tutte le ggente arrosto com’e ttrijje,
e dde tante mortissime
1
famijje
pe ccaso la scappò cquella de Lotte.
Curze
2
er Padriarca finamente
3
a nnotte
senza mai pijjà ffiato e staccà bbrijje:
ma cquà, ssiconno er zolito, a le fijje
je venne fantasia de fasse fotte.
Ma pe vvia
4
che nun c’era in quer contorno
neppuro un cazzo d’anima vivente,
disseno:
5
«È bbono Tata»:
6
e ll’ubbriacorno.
Poi fatteje du’ smorfie ar dumpennente,
7
lí dda bbone sorelle inzin’a ggiorno
se spartirno le bbotte alegramente.
17 gennaio 1832 - Der medemo
1
Moltissime.
2
Corse.
3
Sino, fino.
4
Per motivo.
5
Dissero.
6
Papà.
7
Vocabolo composto dal dun pendebat dello Stabat
Mater, ecc.
350. La mala stella
Lo vedete Ggesú, ssore Madame?
Nascé ccome le bbestie in ne la pajja:
doppo cor un martello e una tenajja
je toccò a llavorà dda falegname.
Da ggiuvenotto annò mmorto de fame
a ppredicà er Vangelio a la canajja:
poi da omo je messeno la tajja
p’er carciofarzo
1
de cuer Giuda infame.
E li raschi, e le spine, e la condanna,
e li chiodi, e li schiaffi, e cquella posca
2
che jje mannorno
3
in bocca co la canna!...
Inzomma tutto su cquell’ossi sagri:
epperò c’è ’r proverbio c’ogni mosca
va ssempr’addosso a li cavalli magri.
19 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Tradimento.
2
Posca è veramente una miscela di aceto e acqua.
3
Mandarono.
351. Er terramoto de venardí
1
(Sonetti 4)
Rimonno
2
ha scritto da Fuligno ar nonno
c’un trave che ccascò dar primo piano,
mentre lui stava a ppranzo in ner siconno
l’acchiappò in testa e jje stroncò le mano.
E sseguita la lettra de Rimonno
che nun c’è bbarba-d’omo de cristiano
che ss’aricordi da che mmonno è mmonno
un antro terramoto meno piano.
E ddisce ch’è un miracolo chi ccampi,
perché la scossa venne a l’improviso
peggio de cuer che viengheno li lampi.
E mmó, pe nnun fà er fine de li sorci,
e nnun annà, ddio guardi, in paradiso,
stanno tutti in campagna com’e pporci.
19 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Il terribile terremoto di Foligno, del venerdì 13 gennaio 1832, alle due pomeridiane, che si sentì leggiermente anche
a Roma.
2
Raimondo.
352. Er medemo
1
[Er terramoto de venardí]
Io stavo in piede avanti der cammino
posanno la marmitta sur fornello,
quanto sento uno scrocchio ar tavolino,
e ddà ddu’ o ttre ttocchetti er campanello!
M’arivorto, e tte vedo er credenzino,
tu ttu ttu ttú, ttremajje lo sportello.
Arzo l’occhi ar zolaro, e ppare infino
fà de questo
2
la gabbia de l’uscello.
Tratanto er gatto, fsc, zompa tant’arto,
3
er campanello ricomincia er zono,
e una luscerna me va ggiú de cuarto.
Io mo ddunque te dico, e nnun cojjono,
che sti tocchi sto trittico e sto sarto
4
vonno dí tterramoto bbell’e bbono.
19 gennaio 1832 - Der medemo
1
Vedi nota I dell’antecedente.
2
Accompagnando le parole col moto d’un braccio a pendolo.
3
Misurando colla mano
tesa un’altezza da terra.
4
Salto.
353. Er medemo
[Er terramoto de venardí]
E io? pe sscegne
1
in chiesa, propio allora
m’ero appuntata in testa la bbautta,
quanno che mme sentii cunnolà
2
ttutta,
e ccome una smanietta de dà ffora.
3
Nun te so ddí ccome arimasi bbrutta:
so cche ccurzi a bbussà a la doratora:
«Sora Lionora mia, sora Lionora,
uprite oh dio che lla luscerna bbutta».
Tra ttutto sce
4
poté ccurre er divario
d’un par de crèdi, c’uscì mmezza morta
da la stanzia der letto cor vicario.
E llí un zuttumpresidio;
5
e a ffalla corta
su ddu’ piedi intonassimo er rosario
tutt’e ttre ssott’er vano de la porta.
6
19 gennaio 1832 - Der medemo
1
Scendere.
2
Cunnare, tentennare.
3
Recere.
4
Ci.
5
Sub tuum praesidium, antifona che precede il rosario.
6
È opinione
del volgo che nel vano di una porta si sia salvi e sicuri.
354. Er medemo
[Er terramoto de venardí]
C’ha cche ffà er terramoto de Fuligno
co la commedia der teatro Pasce?!
1
C’entra come ch’er fischio e la bbammasce
2
come la fregna e ’r domminumzuddigno.
3
E cquì ha rraggione lui Mastro Grespigno,
cuer c’abbotta li fiaschi a la fornasce,
ch’er terramoto è un spirito maligno
che ttanto
4
fa cquer che jje pare e ppiasce.
Nun ze pò
5
ppregà Iddio matin’e ggiorno
e annassene la sera a la commedia?
Cuesto che gguasta ar terramoto, un corno?
Bella raggion der cazzo! propio bbella!
Perché ar Papa je trittica
6
la ssedia
se mette la mordacchia
7
a Ppurcinella!
19 gennaio 1832 - Der medemo
1
Correva voce che si dovesse celebrare un triduo di penitenza con sospensione di recite nei teatri di Roma.
2
Bambagia.
3
Domine nun sum dignus.
4
Ad ogni modo.
5
Non si può.
6
Trema. Può anche riguardarsi come allusione
politica.
7
Strumento da serrare la lingua.
355. Er teremoto
Che ccos’è er teremoto de la terra
me l’ha spiegato tutto-quanto Toto.
Disce che ggiù ggiù ggiù c’è un buscio
1
vôto
dove ce scola l’acqua e cce se serra.
E cche cquanno er zor diavolo fa vvoto
a ccas’e cchiese d’intimajje guerra,
va llí cor una fiaccola e cce sferra
sto Sartarello
2
cquì der teremoto.
La fiaccola de pesce
3
e dde caperchio
4
manna l’acqua in bullore
5
e ll’arza in fume,
e er fume che vvo uscí smove er cuperchio.
Toto, che ssa ste cose perch’è ccoco,
disce, si ttira l’acqua e accenne er lume:
«Acqu’e ffoco er Zignore je dia loco».
20 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Buco.
2
Saltarello, notissimo ballo romano.
3
Pece.
4
Capecchio.
5
Bollore.
356. La Cchiesa dell’Angeli
1
Li discorzi peccristo ch’io v’intavolo,
sor imbriaconaccio d’acquavita
che vve snerbate er culo ar Caravita,
2
nun zò ccarote
3
da fà rride un cavolo.
Ve dico che la cchiesa ch’er zor diavolo
sopr’a Ffuligno ha ttutta scompartita,
4
s’ha da rifrabbicà, doppo finita
la bbasilica nostra de San Pavolo.
5
E ggià in un antro cuccomo der Papa
disce
6
che sse prepareno li fonni
7
pe ffà un mijjone de fette de rapa.
8
Diteme che ssi er cuccomo è dde vetro
com’er primo, c’è ’r caso che sse sfonni,
e li cocci arimanino a Ssan Pietro.
9
21 gennaio 1832 - Der medemo
1
Chiesa assai vasta nella pianura sotto Assisi, rovinata dal tremuoto del 13 gennaio 1832.
2
Oratorio così detto dal
padre Caravita, dove la sera alcuni divoti sogliono darsi la disciplina al buio.
3
Menzogne.
4
Aperta in più parti.
5
Notissima riedificazione, intrapresa con fondi largiti dai credenti dell’Orbe.
6
Si dice.
7
Ironia presa dalla cuccoma di
caffè.
8
Piastre.
9
I maldicenti spargono essersi dalla Santa Sede distratti in altri usi i depositi di S. Paolo.
357. La carotara
1
Lassamo stà la pifera
2
c’ha in faccia,
nun guardamo quer po’ de rastijjera,
3
passamo ch’è ’na bbannerola
4
vera
’na ladra da impiccà, ’na ruffianaccia.
Ma ppe le miffe
5
sole che llei spaccia
pe ffa ’gnisempre la confusioniera,
bisognerebbe co mod’e mmagnera
6
un giorn’o ll’antro roppeje
7
le bbraccia.
Eppuro te la trovi foravia
8
sempre co la corona tra le deta,
come annava la Vergine Mmaria.
E cquanno in Chiesa sta santifisceta
9
vede uscì er prete for de sagrestia,
je s’accosta e jje bascia la pianeta.
20 gennaio 1832 - Der medemo
1
Bugiarda.
2
Lungo naso e largo.
3
Rastrelliera. Qui per «isconcia dentatura».
4
Senza carattere.
5
Menzogne.
6
Modo e
maniera.
7
Romperle.
8
Fuori, per via.
9
Santificetur, donna pia.
358. Li segreti
Ecchete
1
cquà si ccome l’ho ssaputa,
Nanna s’è cconfidata co Vvincenza;
questa l’ha ddetto a Nnina a la Sapienza:
2
Nina l’ha ddetto in confidenza a Ttuta.
Ccusí è annato a l’orecchia de Cremenza,
ch’è ccurza a rraccontallo a la bbaffuta:
e llei, ch’è amica mia, oggi è vvienuta
a dimmelo a cquattr’occhi in confidenza.
E, s’io l’ho ddetto a tte, sso de raggione
che ttu ssei donna ch’er zegreto mio
l’hai sentito in ziggir
3
de confessione.
Commare, abbada pe la mòrdeddio,
4
si tte pijjassi mai la tentazzione
de dillo, nu lo dí cche ll’ho ddett’io.
20 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Eccoti.
2
Contrada di Roma.
3
Sigillo.
4
Per l’amor di Dio.
359. Er ricordo
T’aricordi quer prete cajellone
1
c’annava pe le case a ffà le scôle,
cor una buttasù
2
dde bborgonzone
e cquà ssur canterano
3
du’ bbrasciole?
4
che sse vedeva co le su’ stajole
5
a ’gni morto che ddassi er moccolone?
che annava a ppranzo all’Osteria der Zole,
e nnun spenneva mai mezzo testone?
6
Bbè’, l’anno trovo jjeri a cquer rampino
che jj’arreggeva er Cristo accap’alletto,
impiccato pe un laccio ar collarino.
E vva’ cche smania aveva a sto ggiuchetto,
ch’er giorn’avanti, pe rricordo, inzino
ce s’era fatto er nodo ar fazzoletto.
20 gennaio 1832 - Der medemo
1
Messo trascuratamente, malfatto, antico.
2
Abito largo, da indossare su per comodo.
3
Petto.
4
Bragiuole. Qui stanno
per quelle facciuole che pendono dal collare ai preti francesi. E così chiamasi pure le simili di lino che veggonsi in
petto ai confratelli di Sodalizi, ecc.
5
Gambe lunghe e sottili, come staggi da reti.
6
Il testone è moneta di 3 paoli.
360. Un po’ pper uno nun fa mmale a gnisuno
Te strasecoli tanto che Cciscijja,
1
la ppiú fijja regazza de Sabbella,
fa a mmezzo co la madre, e sse lo pijja
dar su’ compare, bbé cche ssii zitella?
Rinzo se l’è allevata a mmollichella:
e cchi ffotte la madre e ppoi la fijja
sai c’ortr’ar gusto de mutà la sella
va in paradiso poi co la mantijja.
Cuanno la donna arriva a cquarant’anni
è de ggiusto che rresti a ddenti asciutti
e vvadi a ffiume co ttutti li panni.
E Rrinzo che nun vò li musi bbrutti
pijjò li passi avanti a Ssan Giuvanni
2
ché ognuno penza a ssé, Ddio penza a ttutti.
3
21 gennaio 1832 - Der medemo
1
Cecilia.
2
Cioè fin dal battesimo della sua figlioccia.
3
Questo sonetto è un accozzamento di modi sentenziosi e
proverbiali del popolo.
361. L’ommini der Monno novo
Questo dallo a d’intenne ar Padre Patta
1
quello che disce: Vienite davanti.
Lo so dda me cche cce sò ttanti e ttanti
che nun vonno ignottì la pappa fatta.
2
Ma st’anime de miccio,
3
sti fumanti,
sti frammasoni, sta ggentaccia matta,
li spadini li tiengheno de latta:
sò bboni a cciarle, ma nnò a ffasse avanti.
La bballa
4
de sti poveri Cardèi
5
vò scopà li soprani
6
e ffalli fori
pe ddí pôi scirpa
7
e ffà le carte lei.
Ma ppôi puro risponne a sti dottori
che Iddio l’ommini, for de cinqu’o ssei,
tutti l’antri l’ha ffatti servitori.
19 gennaio 1832 - Der medemo
1
È in Roma rinomanza di un padre Patta confessore, che non potendo credere a una certa continenza protestatagli da
un suo penitente, gli dicesse: «Figlio, venite davanti» e portatosi questi innanzi al confessionale, a lui soggiunse:
«Datela ad intendere a questi coglioni».
2
Le cose da altri ordinate.
3
Gente di perduta vita.
4
Congrega.
5
Caldei, per
«imbecilli».
6
Sovrani.
7
Parola che pronunziata dal volgo nell’impadronirsi manescamente di alcuna cosa, la rende
secondo essi irrepetibile.
362. Li soprani der Monno vecchio
C’era una vorta un Re
1
cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
«Io sò io, e vvoi nun zete
2
un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pòzzo vénneve
3
a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo».
Co st’editto annò er Boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: «È vvero, è vvero».
21 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
C’era una volta un Re, c’era una volta una Regina, è il principio generale di ogni favola che dal popolo si racconta.
2
Non siete.
3
Posso vendervi.
363. Chi va la notte, va a la morte
Come sò lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
co cquell’infern’uperto de nottata
me ne tornavo da Testa-spaccata
1
a ssett’ora indov’abbita Vittoria.
Come llí ppropio dar palazzo Doria
sò ppe ssalí Ssanta Maria ’nviolata,
2
scivolo, e tte do un cristo de cascata,
e bbatto apparteddietro la momoria.
3
Stavo pe tterra a ppiagne a vvita mozza,
4
quanno c’una carrozza da Signore
me passò accanto a ppasso de bbarrozza.
5
«Ferma», strillò ar cucchiero un zervitore;
ma un voscino ch’escì da la carrozza
je disse: «Avanti, alò: cchi mmore more».
21 gennaio 1832 - Der medemo
1
Via di Roma.
2
Santa Maria in Via Lata, antico nome del Corso.
3
È comunque opinione del popolo che la memoria
risieda nella parte posteriore del capo, la quale perciò si chiama propriamente la memoria.
4
A gocciole, come una vite
recisa che dia umore.
5
Baroccio, carretta da buoi.
364. Er Momoriale
Diteme con di grazia,
1
sora sposa,
cuanno agnède
2
ar rifresco
3
er Cardinale,
voi je dassivo
4
un certo momoriale
de carta bbianca senza la scimosa?
5
Dite, je sce chiedevio
6
cuarche ccosa
perc’avevio er marito a lo spedale,
e vvoi dormivio sotto a un zottoscale
co cquattro fijji ignudi e una tignosa?
Dite, de for der momoriale sc’era
scritto da piede: Per Agnesa Inguenti
co ccinque fijji, poverella vera?
Bbe’, Ssu’ Eminenza che vve vò ccontenti
me disse sbadijjanno jer’assera
che cc’incartassi li stuzzicadenti.
22 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Pretensione di ben dire.
2
Andò.
3
Rinfresco.
4
Daste.
5
Cimosa: lembo estremo dei panni. Qui «carta intonsa».
6
Chiedevate.
365. Er Cardinale
M’ha ddetto er zotto-coco der Marchese
che cquer zervo-de-ddio der Cardinale
che cce pranzava trenta vorte ar mese,
e annava ogni tantino all’urinale,
cuer giorno c’annò a ffà le sette cchiese
1
se magnò ccinque libbre de majale:
e a mmezzanotte te je prese un male
senza poté ccapí ccome je prese.
Presto du’ preti la matina annorno
a ffà escì er Zagramento e ddì orazzione
pe tutti li conventi der contorno.
A sta nova la mojje der padrone,
che svejjonno abbonora a mmezzoggiorno,
ce se fesce pijjà le convurzione.
22 gennaio 1832 - Der medemo
1
A fare la visita delle sette chiese. Divozione molto in voga a Roma, premiata con gran ricchezza d’indulgenze, e
terminate come quasi tutte le altre in un cristiano banchetto.
366. Er cane furistiero
Sete voi la padrona de cuer cane
che vviè a mmagnà l’avanzi cquà dall’oste
e scrope
1
li tigami, e arrubba er pane,
e ssi sse caccia via sarta
2
a le coste?
Duncue da parte sua v’ho d’avvisane
che sta bbestia je svia tutte le poste,
e pportassi
3
per dio cento collane
er mi’ padrone je vo ddà le groste.
4
E aricurrete poi, sora paìna,
5
cuann’er cane è slombato in su la piazza,
ar giudice Accemè de la farina.
6
Voi ggià rrugate perché ssú a Ppalazzo
ciavete
7
er sor Ennenne,
8
ché pper dina
tra ccani nun ze mozzicheno un cazzo.
22 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Scopre.
2
Salta.
3
Portasse.
4
Dar le groste: battere.
5
Azzimata.
6
Qui, tra per ischerno ed ignoranza, colui che parla
confonde il giudice A. C. Met., cioè l’uditore della camera stesso, Auditor Camerae Met., e l’altro della farina,
magistrato in oggi a Roma non esistente, ma al quale per derisione si esortano a ricorrere coloro che non troverebbero
giustizia altrove sulle loro querele.
7
Ci avete.
8
Questo nome di Ennenne è tratto dai due protogrammi N.N. che si
pongono, scrivendo, nel luogo che dovrà occupare un nome personale.
367. Lo scozzone
Tu ssai dov’è Ssan Nicola in Narcione:
1
bbè, a la svortata llí der Gallinaccio
er cavallo je prese un scivolone,
turutuffete,
2
e llui diede er bottaccio.
3
Ecco si cche vvor dí mmontà un sturione,
4
mette la vita in mano a un cavallaccio:
coll’antri è annato via sempre bbenone:
co cquesto è ito ggiú ccom’uno straccio.
Restò ggelato, povero Cammillo!
Ce s’incontrò er decane de Caserta
5
che nu l’intesemmanco uno strillo.
Disce Iddio: Morte scerta, ora incerta:
chi er risico lo vò, ribbinitillo
6
omo a ccavallo sepportur’uperta.
7
22 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Via di S. Niccola in Arcione, accanto alla quale chiesa è la via del Gallinaccio.
2
Parola d’uso, per esprimere il
rumore della caduta.
3
Precipitò sonante.
4
Cavallo magro.
5
Il servitore decano del Duca di Caserta.
6
«Qui amat
periculum, peribit in illo». (Libri ecclesiastici, III, 27).
7
Proverbio.
368. Er marito de la serva
Nun zerv’a ddí: cquann’uno è ddisgrazziato
tutti strilleno ar lupo e ddanno sotto.
Si Cchecca va ppulita e ss’è avanzato
cuarche bbajocco, è pperché vvince all’Otto.
1
Cuer pettine che ttiè sott’ar cappotto,
sissignora, je l’hanno arigalato:
e ha ppreso a la padrona er manicotto,
acciò nu jje l’avessino arubbato.
Nun c’è da dajje un cazzo farzamento
2
pe onore a Cchecca: e ssi cce vò pperzone
pe ttestimoni, pò pportanne scento.
In cuanto ar fatto poi de le corone,
cuanno sce sò le medajje d’argento
bbenedette, le vò ppe ddivozzione.
22 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Al lotto.
2
Dar falsamento a chicchessia, vale: «vincerlo a confronto».
369. Er marito stufo
Un giorn’o ll’antro che pper dio sagrato
me zompeno le verginemmaria,
1
pijjo er cappello e mme ne vado via,
e mme do a la Pilotta
2
pe ssordato.
E ddoppo disce, perché stai ’nciuffato!
3
si ffussi un’antro in de li panni mia,
te vorebbe lavà ssenza lesscia
4
cuer cucuzzone
5
sempre impimpinato.
6
Oh ttiramola via sta carrozzetta:
ridi che inzin che ddura fa vverdura;
7
ma nun curatte
8
de vedé la stretta.
Tu mme voressi vede in zepportura:
ma io, monta cquà ssú, ppijja sta fetta:
9
propio l’hai trovo l’hai chi sse ne cura.
22 gennaio 1832 - Der medemo
1
Mi salgono i fumi, mi montano le creste, ecc.
2
Sulla Piazza della Pilotta è la Congregazione Militare.
3
Ingrugnato.
4
Lisciva, ranno.
5
Testa.
6
Acconciato.
7
Modo proverbiale.
8
Non ti curare.
9
Dicendo le due precedenti frasi, si batte
colla mano destra sul braccio sinistro, il quale deve correre anch’esso contro la mano: gesto un po’ turpe.
370. Ruzza co li fanti, e llassa stà li Santi
Chi tte lo nega? Ha un tantinèr dell’orzo,
1
biastima un goccio,
2
è un pò llesto de mano,
3
penne p’er gioco,
4
ha la passion der zorzo,
5
e jje cricca er mestier der paesano.
6
De rimanente poi è bbon cristiano,
sta scritto a la Madonna der Zoccorzo,
7
donne nun po vvedelle da lontano,
e è ddivoto de San Carl’ar Corzo.
8
Chi ppe cconosce l’ommini, commare,
praffe,
9
s’afferma a la prim’ostaria,
pijja un cazzo pe un fischio,
10
e nnun je pare.
Tant’antri bbaron becchi
11
bbu-e-via
sò iti a tterminà sur un artare!...
Abbasta, nun entramo in Zagrestia!
12
23 gennaio 1832 - Der medemo
1
Alquanto dell’orso.
2
Bestemmia un poco.
3
Ladro.
4
Inclina al giuoco.
5
Sorso: il bere.
6
Spia.
7
Sodalizio in Roma.
8
Lo
stesso che gli altri Sancarli venerati in Roma in più chiese.
9
Suono esprimente l’arrestarsi d’una cosa caduta.
10
Proverbio.
11
Con la e larga.
12
Modo proverbiale, corrispondente al titolo di questo sonetto.
371. Er viscinato
Tutte compagne! D’Aghita e Tterresa
una annisconne er zuo ner zottoscala,
l’antra ar zuo l’appuntamenti in Chiesa:
e a Ttuta je tiè mmano la spezziala.
La serva arza er traghetto
1
de la spesa:
Ghita cià le funtane: Bbetta sciala
le notte ch’er marito va a l’impresa:
2
lei poi se lo tiè in casa er cresceccala.
3
Io pe mmé bbado a ffà li fatti mia;
e in cinqu’anni e ccammina pe li sei
sto viscinato manco so cchi ssia.
Io nun ho llingua: e ssi lla bbroda lei
la bbutta addoss’a mmé disce buscìa.
Co tté mme sfogo perché sso cchi ssei.
24 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Giuochetto di contrabbando.
2
Alla Impresa de’ Lotti debbono gl’impiegati passare in lavoro la notte anteriore al
giorno della estrazione.
3
Il senso proprio di questo motto equivoco è una bacchetta di cristallo di figura spirale, la
quale girata su se stessa par crescere nella sua estensione e calare.
372. Le funtane
Semo in tre appiggionante? ebbè ciaspetta
1
d’avé in mano la chiave de funtana
du’ ggiorni e ggnente ppiú ppe ssittimana:
e cchi vvo ppiú ssciacquà vvadi a Rripetta.
Luneddí e mmarteddí ttocca a Nninetta,
mercordí e ggiuveddí ttocca a Bbibbiana,
e ’r venardí e ’r sabbito a sta sciana,
2
come me chiama Sor Maria Spuzzetta.
3
E llei s’intròita
4
de fà a mmé lla lègge?
5
Ah,
6
c’è bbon esattore vivo e vverde
che nun pijja piggione e mme protegge.
Ma ggià co ste lustrissime de mmerde
che nun zò bbone c’a ttirà scorregge
7
ce se perde a pparlacce, ce se perde.
24 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Ci aspetta.
2
Ciana: adornata con caricatura.
3
Il titolo di suor o suora è dato alle religiose. Qui per ischerno.
Spuzzetta: donnucola.
4
Si arroga con sicurezza.
5
Colla e larga.
6
Pronunziato con vivace impazienza vale: «No
davvero!».
7
Peti.
373. Lo scojjonato
1
Baron bècco
2
futtuto bbuggiarone,
ladro canajja pe nnun ditte peggio:
si nnun te pijjo a ccarci in ner palleggio,
3
damme er tu’ nome che mme sta bbenone.
Da cuann’in cuà ggodemo er privileggio
de pij tutt’er monno pe ccojjone?
Oé, nun ciò ppancotto io ner cestone,
4
sai? duncue abbad’a tté perch’io rameggio.
5
E in cuella pila tua tante ne bbulli?
6
Ciài la patacca
7
a la camiscia, eh fijjo,
che ddai la pecca a ttutti e tte la sgrulli?
8
Ma pprega la Madon der bon conzijjo
de nun toccamme un giorno che mme frulli,
9
ché ’na sodisfazzione io me la pijjo.
24 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Beffardo con malignità.
2
Colla e larga.
3
Ne’ genitali.
4
Capo.
5
Rameggiare: essere bizzarro, a estri.
6
Da bollire.
7
Patente.
8
Vai salvo, impunito.
9
Corrisponde presso a poco al senso della nota 5.
374. La guerra co cquelli bricconi
1
Ner tornammene in giú da ponte mollo
2
guasi a un tiro de sasso da la porta,
m’è ttrapassato avanti a bbrijja ssciorta
oggi un curiero co le gamme in collo.
Duncue ha ssaputo er Conzole der bollo
3
da bbon canale ch’er curiero porta
che l’armata de cuelli è ttutta morta,
e sse parla d’un certo bbrodocollo.
4
Sto bbrodo nun ze sa che bbrodo sia;
ma, subbito ch’è bbrodo, in ogni modo
cuarche bbrodo ha dda èsse a ccasa mia.
5
Tratanto er Papa cià fficcato er chiodo:
er resto lo farà Ggesú e Mmaria:
e cco sto terno
6
cqui ssenti che bbrodo.
7
24 gennaio 1832 - Der medemo
1
Romagnoli e Bolognesi in gennaio 1832.
2
Ponte Molle o Milvio, due miglia fuori della Porta del Popolo.
3
Console
del bollo degli ori ed argenti.
4
Protocollo.
5
Secondo il mio parere.
6
Triumvirato.
7
Che rovina! saran malconci, ecc.
375. L’immasciatori de Roma
Disce quer Meo che llavava li legni
de la Reggina morta de le Trujje
1
che li Re-de-corona de li regni
ortr’ar tra dde loro tante bbujje,
2
ce manneno cquà a nnoi sti bell’ordegni,
pe ppagà l’indurgenze co le pujje,
3
e ppe ccacciasse auffa li disegni
de le cchiese de Roma e de le gujje.
Mó p’er Re d’Appollonia e dde le Russe
c’è Ccacarini tuo de quella sera:
4
pe li du’ frosci
5
Merluzzoffe e Bbusse.
6
E ppe ffà co sti tré naso-e-pprimiera
7
s’è vvienuto a inquartà sto Nuncefusse
8
st’areng’arrosto
9
de monzú Tullera.
10
25 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Maria Luisa di Borbone, già Regina d’Etruria.
2
Liti.
3
Gettoni da giuoco.
4
Gagarin, ministro per Russia e Polonia.
V.i il Sonetto intit.o «L’astrazzione farza».
5
Tedeschi, cioè Austria e Prussia.
6
Lutzow e Bunsen.
7
Noto giuoco
d’invito.
8
Nome di scherzo, a persona che forse non si vorrebbe.
9
Pesce sfumato.
10
Saint-Aulaire. Tullera, nome
romanesco di spregio.
376. La vanosa
1
Che jj’amanca a Mmadama Patanfrana?
2
Caso che jj’amancassi er pettabbotto
3
je lo pozzo abbottà cor un cazzotto,
senza metteje a cconto la dogana.
Nun è affare de mezza sittimana
4
che mme chiese una vesta pe dde sotto,
e io cojjone de marc’e ccappotto
5
je l’ho ffatta trovà pe la bbefana.
Mó un pettine, mó un busto, mó un zinale
6
oggi er vezzo, domani l’orecchini,
gnisempre cianerìe,
7
gnisempre gale!
A mmé cchi mme li dà ttanti cudrini?
Perché llei nun ze trova un Cardinale
in cammio de sti guitti de paini?
8
25 gennaio 1832 - Der medemo
1
Vana.
2
Nome di scherno a donna pingue: patanflana.
3
Antica foggia pel seno.
4
È appena mezza settimana.
5
Superlativo.
6
Grembiale.
7
Ornamenti affettati.
8
Nome generico dato dai Romaneschi a chiunque non vesta di corto
com’essi, ma per lo più ai giovani.
377. Er giudisce der Vicariato
1
Senta, sor avocato, io nun zò mmicca
2
da nun intenne cuer che llei bbarbotta.
Lei me vò ffà sputà ch’io sò mmignotta:
ma sta zeppa che cquà nun me la ficca.
La verità la dico cruda e ccotta,
ma cquesta nu la sgozzo si mm’impicca.
S’io me fesce sfasscià ffu pe una picca,
pe ffà vvedé cche nu l’avevo rotta.
D’allor’impoi sta porta mia nun usa
d’oprisse a ccazzi: e ssi llei vò pprovalla,
sentirà cche mme s’è gguasi
3
arichiusa.
...Bbè, rrestamo accusí: su un’ora calla
lei me vienghi a bbussà co cquarche scusa,
e vvederemo poi d’accommodalla.
26 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Tribunale che veglia sul costume.
2
Non sono stupida.
3
Quasi.
378. Er companatico der Paradiso
Dio, doppo avé ccreato in pochi ggiorni
cuello che cc’è de bbello e cc’è de bbrutto,
in paradiso o in de li su’ contorni
creò un rampino e ciattaccò un presciutto.
E ddisse: «Cuella femmina che in tutto
er tempo che ccampò nun messe corni,
n’abbi una fetta, acciò nun magni asciutto
1
er pandescèlo
2
de li nostri forni».
Morze
3
Eva, morze Lia, morze Ribbecca,
fino inzomma a ttu’ mojje a mman’a mmano,
morzeno tutte, e ppíjjele a l’inzecca.
4
E tutte cuante cor cortello in mano
cuanno furno a ttajjà fesceno scecca:
5
sò sseimil’anni, e cquer presciutto è ssano.
26 gennaio 1832 - Der medemo
1
Assoluto.
2
Panem de coelo.
3
Morì.
4
All’azzardo.
5
Far cecca: frase venatoria: «non colpire, non riuscire».
379. La vedovanza
Jeri Lei
1
me mannò da la sartora,
la scucchiona,
2
la vedova de Muccio
3
che un par de mesi fa jje morze
4
fora
d’un carcio che jje diede un cavalluccio.
Va’ cche ttu nun ciazzecchi?
5
E ssissignora
sta matta e nun z’è mmesso lo scoruccio?
6
Nun ze tiè accanto llì ddove lavora
er grugno
7
de lo sposo in d’uno stuccio?
Lei piagne sempre sto marito santo.
O mmagna, o ddorme, o ffa la bbirba,
8
o ccusce,
o entra, o esce, tiè in zaccoccia er pianto.
Ma ttutt’oro nun è cquer c’arilusce,
perch’io travedde in d’una stanzia accanto
un letto granne co ddu’ bbelle bbusce.
27 gennaio 1832 - Der medemo
1
La padrona.
2
Di lungo mento, detto scucchia.
3
Giacomuccio.
4
Morì.
5
C’indovini.
6
Il bruno.
7
Viso; il ritratto.
8
Sta in
ozio.
380. Er trionfo de la riliggione
1
Cuer giorno che vvoleveno sti Cani
2
levà ar Zommo Pontescife lo scetro,
lui pe mmette coraggio a li Romani
fesce un giretto attorno de Sampietro.
Che vvôi vede sartà li bborghisciani
3
sur cel der carrozzone, e avanti, e ddietro!,
e ppe rreliquia da bboni cristiani
staccajje ggiú ll’ottoni come vvetro!
Er Maggiordomo
4
fesce a Ppidocchietto
5
che ddiede un bascio ar Papa: «Eh galantomo,
cuer culo a lo sportello è un po’ ttroppetto».
E Ppidocchio, co ttutto
6
er pavonazzo,
disse in cuer tuppetuppe ar Maggiordomo:
«Zitto llí vvoi che nun capite un cazzo».
27 gennaio 1832 - Der medemo
1
Storia del giorno… febbraio 1831.
2
I liberali, o rivoltosi come si chiamano.
3
Abitanti di Borgo, presso il Vaticano.
4
Fece, cioè: «disse».
5
Distinto borghigiano.
6
Non ostante l’abito, ecc.
381. Uno mejjo dell’antro
Miodine,
1
Checcaccio, Gurgumella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella.
Palagrossa, Codone, Merluzzetto.
Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Fregnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,
Manfredonio, Chichí, Chiappa, Ficozza,
Grillo, Chiodo, Tribuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza.
Cuesti sò li cristiani, sora crapa,
2
c’a Ssampietro
3
stacconno la carrozza,
e sse portonno in priscissione er Papa.
4
27 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Io.
2
Signora capra, nome di spregio che si ad uomini e a donne.
3
Sulla piazza di S. Pietro.
4
Storia del giorno…
febbraio 1831.
382. Li papalini
Và mmó a ddí a li sordati che ttiè er Papa:
tu ssei ’na crapa, tu ssei ’na carogna,
tu nun zei bbono da tajjà una rapa,
tu nun hai core d’infilà un’assogna!
1
Propio carogna, sí!, ggiust’una crapa!
Antro che ggente da grattà la rogna!
Le panze da sbuscià llei se le capa;
e addimannelo a cquelli de Bbologna.
2
Pe ssapé si cche armata sopraffina
tu ffatte legge dar Cumpar de Checca
lo spappiello
3
c’usscí jjer’a mmatina.
Disce ch’è ttruppa da nun dajje pecca,
gente che sse sa ffà la dissciprina,
e a bbonprascito
4
suo mena a l’inzecca.
5
27 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Sugna.
2
Allude alla specie di guerra tra le Legazioni e Roma in gennaio 1832.
3
Carta. Nome scherzoso, tratto dal
francese papier.
4
Beneplacito.
5
A caso.
383. La predica
Sta domenic’ar giorno, io cqui co llei,
la sorella de lei e lla cratura
me n’agnede ar Gesù, e mme godei
tutta la spiegazzion de la Scrittura.
1
Disse er predicatore a la sicura
2
c’avanti che nnascessino l’Abbrei
e mmannassino Cristo in zepportura,
c’era un paese tutto de’ Cardèi.
3
Io però che ssò arquanto Mozzorecchio
4
che ssaprebbe trovatte er per nell’ovo,
e infilatte una gujja in un vertecchio,
5
dico, e ddar dí accusí nun m’arimovo,
quarmente li Cardei der monnovecchio
se sò sparzi cqua e llà p’er monnonovo.
27 gennaio 1832 - Der medemo
1
Costume de’ gesuiti di spiegare la Sacra Scrittura nelle domeniche, dopo vespro.
2
Senza esitare, con franchezza.
3
La
Caldea. Caldei diconsi a Roma gl’imbecilli.
4
Cavillatore. Dicesi di certi legulei.
5
L’anello con che si aggrava la parte
inferiore del fuso.
384. Per un punto er terno
Sò stato un matto immezzo der ciarvello!
Meriterebbe un carcio ar perzichino.
Pe ffà er terno cor dua der girarello,
1
nun ho scartato er tre dder cappuccino?!
2
Cuanno c’ho vvisto chiude er butteghino
3
e attaccà l’astrazzione a lo sportello,
ho bbuttato pe tterra er barettino
drent’a la fanga co ttutt’er cappello.
Tre ccom’un razzo prim’estratto, eh Checco?!
Mill’ottoscento scudi per un pelo,
ché cce bbuttai tre ggiuli e mmezzo a ssecco.
4
Eppuro er frate, arzanno er grugno ar celo,
disse in ner damme er Tre: cquesto cqui, ecco,
disce la verità ppiú der Vangelo.
28 gennaio 1832 - Der medemo
1
Disco orizzontale, simile ad un quadrante, la cui lancetta in bilico, arrestandosi dopo un impulso, indica uno dei
novanta numeri. Una delle varie specie di sorti alle quali ricorrono i dilettanti del lotto.
2
I cappuccini godono molta
riputazione di prescienza numerica.
3
Prenditoria de’ Lotti, il cui ministro ne chiude la porta appena giunta la notizia
della estrazione, che espone alla pubblica vista fuori di uno sportello, praticato nella parete superiore delle botteghe di
Roma, per dar luce all’interno allorché sono serrate.
4
Quello è il giuoco a secco, in cui il giuocatore, per ottenere un
premio più forte in caso di vincita di terno, promette di rifiutar quella dell’ambo.
385. Er diluvio da lupi-manari
1
Ma cche sperpètua! ma cche llùscia
2
eh?
Tutta la santa notte, scī scī scī,
nun ha fatt’antro che sto verzo cquì!,
e gguarda puro mó cquanta ne viè!
Sto tettino de latta accost’a mmé,
che nnoja! nun m’ha ffatto mai dormí,
se po ddí inzomma ch’è dda venardí
ch’er zole nun ze sa si che ccos’è.
Ma ssenti che sgrullone
3
è cquesto cquà!
Nun pare che ccominci a ppiove mó?
Che ppioviccicarella, eh?, se pò ddà?
Jèso, che ttempi! e cche cce sta llà ssú!
Cosa seria! va bbene un po’ un po’,
ma er troppo è troppo, e nnun ze ne pò ppiú!
28 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
È opinione che nelle notti molto piovose alcuni uomini siano assaliti da un male che, togliendoli di ragione, gli
spinge urlanti a carponi fra l’acqua: ne’ quali momenti è pericoloso il farsi loro da presso. Costoro vengono chiamati
lupi-manari.
2
Pioggia dirotta e continua.
3
Pioggia forte e improvvisa, che poi rallenta.
386. Er zitellesimo
È zzitella
1
la fijja de Chichì?
Indovinela-grillo
2
si sse pò.
Ce sò cquelli che ddicheno de sì,
ce sò cquelli che ddicheno de no.
Io mo in cusscenza nu lo posso dì,
da cristian battezzato nu lo so.
Sò ggabbole,
3
Andrea mia, cueste che cquì
che bbisogna vedelle ar Pagarò.
4
Si tte discessi cuer che ppare a mmé,
io saría d’oppignone che la dà,
co tuttosciò che ll’ha nnegata a tté.
Ma ssi tte preme sta materia cquà,
dimànnelo a ppadron Bebberebbè:
lui solo te pò ddì la verità.
28 gennaio 1832 - Der medemo
1
Zitella, presso il popolo è tanto la non maritata, quanto la vergine, cose fra loro differentissime.
2
Indovinala-grillo,
detto dal popolo l’indovinagrillo, è un libretto di sorti, che non lascia di fomentare in molti la superstiziosa speranza
di conoscere i suoi futuri destini. Nel volgere la lancetta di un certo quadrante annesso al libretto, il consultante ripete
le parole indovinalagrillo o indovinela-grillo, secondo la sua perizia di lingua.
3
Cabale: operazioni numeriche per
vincere al lotto.
4
Pagherò: specie di polizzino inintelligibile, dietro la presentazione del quale è fatto luogo al
pagamento del premio in caso di vincita.
387. La puttana sincera
Io pulenta? Ma llei me maravijjo!
Io sò ppulita com’un armellino.
1
Guardi cquà sta camiscia ch’è de lino
si ppe bbianchezza nun svergogna un gijjo!
Da sí cche cquarc’uscello io me lo pijjo
io nun ho avuto mai sto contentino,
perché accenno ogni sabbito er lumino
avanti a la Madon-der-bon-conzijjo.
Senta, nun fò ppe ddillo, ma un testone
2
lei nu l’impiega male, nu l’impiega,
e ppò rringrazzià Ccristo in ginocchione.
Lei sta cosa che cqui nun me la nega,
che invesce de bbuttalli a ttordinone
3
tre ggiuli è mmejj’assai si
4
sse li frega.
28 gennaio 1832 - Der medemo
1
Ermellino.
2
Moneta da tre paoli.
3
Teatro di Tor-di-Nona, ov’era allora cattiva opera.
4
Se.
388. Lo scallassedie
1
Già,
2
pe ggodé cquarche ffiletto,
3
mone
4
lui puro
5
me viè attorno co la mucchia.
6
Pe ddí lo disce c’ha bbona intenzione,
ma a lo strigne li panni
7
se la strucchia.
8
Come me pò ppijjà cquer bigantone
9
si nun ha antr’arte che sbatte la scucchia,
10
c’a cquer povero zio ch’è un bucalone
11
proprio je succhia l’anima je succhia?
Io je dico: «Ma ttrova cuarche ssanto:
12
chi ddorme, Toto mio, nun pijja pesce»;
13
ma llui d’udienza me ne dà ssai cuanto!
Mamma poi fiacca fiacca
14
me se n’esce:
15
«si è rrosa fiorirà».
13
Bbrava! Ma intanto
magna cavallo mio che ll’erba cresce.
13
30 gennaio 1832 - Der medemo
1
Sposatori, longanimi.
2
certo.
3
Utilità di favori.
4
Adesso (mò).
5
Pure.
6
Co gli altri.
7
Stringere i panni addosso,
vale: «pressare».
8
Volge le spalle, si allontana.
9
Sfaccendato, vagabondo.
10
Sbattere la succhia (il mento): mangiare.
11
Baccellone.
12
Ingégnati, prendi aderenze.
13
Proverbi.
14
Con flemmatica disinvoltura.
15
Esce dicendo.
389. Le porcherie
1
Er tempo manna o ffurmini o ssaette
siconno er genio suo come je cricca.
Cueste sò pe nnoi ggente poverette:
quelli sortanto pe la ggente ricca.
Cuelli sò llavorati a ccolonnette,
però er furmine roppe e nnun ze ficca.
L’antre sò ppietre poi
2
segate a ffette
e arrotate all’usanza d’una picca.
Me l’ha spiegato a mmé lo scarpellino
che ffa l’artare a Ssan Zimon Profeta
3
che ssa ste cose com’er pane e ’r vino.
Tu mmette bbocca
4
cuanno er gallo feta
e la gallina piscia, ché er boccino
5
lo tienghi uperto come una segreta.
30 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto
1
I Romaneschi che hanno sempre per la bocca i fulmini e le saette in via d’imprecazione, sentono poi certa
ripugnanza superstiziosa al far menzione di questi fenomeni, quasi temessero di chiamarsene addosso: e vi
sostituiscono la parola porcheria. Dovendone poi dire il nome, non mancano di mandargli appresso una formola
preservativa, come: Dio salvi ognuno; Salvo dove me tocco, ecc. La distinzione qui data della natura e della forma de’
fulmini e delle saette è di vera credenza popolare.
2
Al contrario.
3
Chiesetta di Roma.
4
Tu di’ il tuo parere,
interloquisci.
5
Testa, per lo più nel risguardo morale.
390. L’anno de cuest’anno
1
Che ccasi! er terramoto! E accusí ppresto
t’accucci
2
pe ddu’ bbòtte de sorfeggio?
Tu ddajje tempo e pproverai de peggio:
nun zai che st’anno è ll’anno der bisesto?
Fratello, vederai che sscenufreggio!
3
sentirai si cche ttibbi de disesto!
Io pòzzo
4
dettà in catreda de cuesto
perc’ho un fío campanaro der Colleggio.
Eppoi, va’ oggi ar Colleggio Romano,
dimanna de Micchele er Campanaro,
chiedeje un calennaro grigoriano,
5
e ttroverai li ddrento ar calennaro,
ch’er bisesto lo messe san Giuliano,
6
e vvò ddí ventinove de frebbaro.
2 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
1832.
2
Ti prostri, ti perdi d’animo.
3
Che flagello!
4
Colla o larga: posso.
5
Calendario gregoriano.
6
Confusione col
calendario giuliano.
391. Li commedianti de cuell’anno
Ciappizzo:
1
Palaccorda
2
è la ppiú bbella
de tutti li teatri che ssò uperti:
tra ttanta frega
3
de sturioni asperti
4
nun fuss’antro la Ggiobba e Ccatinella!
5
Ma un’antra compagnia come che cquella
c’un anno rescitaveno a Llibberti
6
me ce ggiuco er zalario co l’incerti
c’a Rroma tanto nun ze pò ppiú avella.
Grattapopolo,
7
ch’era l’impresario,
pe le parte d’aspettito,
8
era l’asso,
9
e cciaveva der zuo sino er vestiario.
E er zor Nicola Vedovo
10
er tiranno?
cuanno disceva Oh rrabbia, che ffracasso!
Fasceva un strillo che ddurava un anno!
2 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Ci convengo.
2
Il teatro di Pallacorda, degl’infimi di Roma.
3
Quantità.
4
Istrioni esperti.
5
La Job e Gattinelli: due
primi attori.
6
Teatro delle Dame, detto di Alibert: il più vasto di Roma, ma inornato e di cattiva forma.
7
Raftopulo.
8
D’aspetto.
9
Cioè: «senza superiore»; metafora presa del giuoco della briscola.
10
Vedova.
392. La zitella strufinata
1
Brutta serva de Ddio, bbocc’a ssciarpella,
2
sconciatura de Popa e de Falloppa,
3
che ddopp’ess’ita sediscianni zoppa
mo attacchi a la Madonna la stampella;
4
che gguardi drent’ar buzzico,
5
ancinella
6
tutt’imbottita de bbammasce e stoppa,
che cquanno te se smiccia
7
in ne la groppa
pari l’arco pe ddio de la sciammella;
8
tanta smania te viè de fatte sposa?
Ma cchi vvôi che tte pijji? Basciaculo?
9
o er zor Jaià:
10
pe tté nun c’è antra cosa.
Cuanno vojji però ppropio l’assarto,
pijja in affitto er buggero d’un mulo,
ché ssi nnò, bbella mia, mori de parto.
3 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Che si esibisce.
2
Bocca-torta.
3
Maschere ordinarie del teatro romano, oggi andate in disuso.
4
Uso votivo.
5
Losca.
6
Da uncino, uncinello.
7
Ti si guarda.
8
Una specie di emiciclo, avanzo delle terme di Agrippa.
9
Nome di spregio.
10
Simile dato agli stupidi.
393. La zitella strufinata
Sposalla io? Co ttutto cuer morzarzo!
1
Co cquelle cuattro scrofole! Co cquella
galantaria che tt a la gargamella!
2
Co cquella scianca
3
che tte bbutta in farzo!
4
Io sposalla! E nnemmanco de risbarzo
5
la vorrebbe pij sta cantarella,
6
amara piú der zugo
7
de mortella,
e mmattaccina
8
com’er zol de marzo.
Ringrazzio Iddio co la lingua pe tterra
e in ginocchione in zulla grattacascia
9
d’èsse vedovo, e ttu vvôi famme guerra?
Si llei se vò sposà, se spósi Bbascia,
10
perch’io nun me la sento, sora sferra,
11
da la padella de cascà a la bbrascia.
12
3 febbraio 1832 - Der medemo
1
Umor salso.
2
Gola.
3
Gamba.
4
Zoppica.
5
Rimbalzo.
6
Canterella, cantaride.
7
Sugo.
8
Capricciosa.
9
Strumento da
grattare il cacio.
10
Vedi la nota 9 del sonetto precedente.
11
Nome di spregio, comune anche alla miglior lingua,
senonché i Romaneschi lo danno in significato anche più maligno.
12
Proverbio.
394. L’occhi sò ffatti pe gguardà
Nun ve se pò gguardà, ssor Rugantino,
1
sor Covielletto
2
schiccherato a sguazzo?
3
Che sso, mai ve vienissi in der boccino
4
de trattamme all’usanza d’un regazzo!
Se guarda una fascina d’un cudrino,
5
un torzo, una merangola,
6
un pupazzo,
e nnun z’ha da guardà sto figurino
che se pò ddí zzero via zzero un cazzo!
7
Cuanno che nun volete èsse guardato,
perché nun state in de la vostra coccia
8
senza roppe le palle ar viscinato?
Io li par vostri me li ggiuco a bboccia;
e ssò ffigura pe cquer dio sagrato
de pisciavve mai mai
9
puro in zaccoccia.
3 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Maschera assai in voga a Roma, il cui carattere consiste nell’insulto e nella timidità.
2
Coviello, maschera oggimai
disusata.
3
Dipinto, con isbadata precipitazione, a guazzo.
4
Capo.
5
Quattrino: 1/5 di baiocco. Fascina, tre o quattro
canne tutte raccolte in tralci secchi di vite.
6
Melangola.
7
Zero via zero, zero: nulla.
8
Casa.
9
Se occorre.
395. Momoriale ar Papa
Papa Grigorio, nun fà ppiú er cazzaccio:
svejjete da dormí, Ppapa portrone.
San Pavolo t’ha ddato lo spadone,
e ssan Pietro du’ chiave e un catenaccio?
Duncue, a tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
su ttutte ste settacce bbuggiarone:
dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
serreje er paradiso a ccatenaccio.
Mostra li denti, caccia fora l’ogne,
1
sfodera una scommunica papale
da fàlli inverminí com’e ccarogne.
2
Scommunica, per Cristo e la Madonna!
E ttremeranno tutti tal e cquale
ch’er palazzo der prencipe Colonna.
3
4 febbraio 1832
1
Le unghie.
2
Si crede dal volgo che gli scomunicati dal Papa muoiano inverminiti.
3
È costante credenza popolare che
il Papa scomunichi ogni anno, nella vigilia di S. Pietro, il Re di Napoli, per la non prestazione del tributo
dell’investitura, che prima, in detto giorno, si pagava colla cerimonia della Chinèa. Dice la plebe che il Papa
profferisca in questa circostanza la seguente formola: ti maledico e ti benedico; e che, mentre pronuncia la parola di
maledizione, tremi il palazzo del principe Colonna, fu Contestabile del Regno di Napoli.
396. Le notizzie de l’uffisciali
1
Verzo ventitré ora er padroncino
me fesce curre ar Cacas
2
co ttre ffichi
3
a ccrompà callo callo
4
er bullettino
de la bbattajja contro a li nimmichi.
Pe cquesto ar Venezziano
5
llí vviscino
disse er decan de la Contessa Pichi
che l’esercito nostro papalino
ha ffatto ppiú bbrodezze
6
de l’antichi.
Disce che uperto a ffir de cannoneggio
7
er paese de Bbraschi e Cchiaramonti,
8
ce fu ’na spizzicata
9
de saccheggio,
10
e cche ddoppo passati su li ponti,
11
cuanno funno
12
a Ffrollí fesceno peggio.
13
Pe mmorti poi s’ha da tirà li conti.
14
5 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Notizie ufficiali relative alle giornate del 20 e del 21 gennaio 1832.
2
Stamperia Cracas e gabinetto de’ fogli in
Piazza di Sciarra.
3
Tre baiocchi.
4
Appena fatto; traslato preso dal pane che si sforna.
5
Nel contiguo caffè detto del
Veneziano, sogliono convenire i servitori decani delle sale nobili, ed ivi sentenziare per diritto e per rovescio su tutto.
6
Prodezze.
7
Analogia di «a fil di spada».
8
Cesena.
9
Alquanto.
10
Alcuni lo negano, ma…
11
Il ponte sul Savio, oltre
Cesena.
12
Furono.
13
Si allude alla manbassa, fatta senza ordine superiore dai pontifici sul popolo di Forlì, per lo
sbigottimento nato in essi da un colpo di fucile uditosi nelle vicinanze del bivacco. Il far peggio si dice dai
Romaneschi anche in buon senso, per «far di più».
14
Nacque tra i fogli una certa discordanza numerica.
397. Li galoppini
1
Jeri; a la Pulinara,
2
un colleggiale
doppo fatta una predica in todesco,
3
setacciò
4
tutt’er popolo in du’ sale,
e a la ppiú mmejjo
5
vorze dà er rifresco.
In cuella fesce entracce er cardinale
6
co l’amichi der Micco e ppadron Fiesco;
7
e nnell’antra la ggente duzzinale
che vviaggia cor caval de san Francesco.
8
Pe sta sala che cquì de li spedati
comincionno a ppassà li cammorieri
pieni de sottocoppe de ggelati.
Ma cche! a la sala delli cavajjeri
un cazzo ciarrivò: ché st’affamati
se sparinno
9
inzinenta
10
li bicchieri
5 febbraio 1832 - Der medemo
1
Divoratori, parassiti.
2
Collegio in addietro germanico e ungarico di S. Apollinare; oggi Liceo del Seminario
Romano, dacché i Gesuiti ripristinati da Pio VII ripresero le scuole del Collegio Romano. I Secolari, che vogliono
istruzione pubblica, debbono tutti andare alle scuole della Compagnia di Gesù. Al liceo de’ preti intervengono
solamente que’ fanciulli che si destinano a stato sacerdotale; dimodoché molti padri, per isfuggire la disciplina
gesuitica, vestendo i loro figliuoli in abito ecclesiastico, fanno impegno per procacciar loro quella de’ preti, lo che
ancora con difficoltà si ottiene, conosciutosi il giuoco, che terminato il corso di studi, svanisce la vocazione
dell’ordinarsi.
3
Conclusioni in latino.
4
Separò.
5
Alla più degna.
6
Il cardinale protettore del luogo.
7
Cioè quelli che
vanno in carrozza. Il Micco e il Fieschi sono due che dànno vetture a nolo.
8
Vanno a piedi.
9
Sparire, in senso attivo,
vale: «divorare in un lampo».
10
Sino.
398. Er rompicojjoni
1
’Gni vorta, diosallarga,
2
che mme sporgio
3
a ttrovà Mmuccio
4
che sta vverd’e mmezzo,
5
ecchete er pertichino
6
d’er zor Giorgio
che cce se pianta com’e Ccacco immezzo.
7
Ma un giorno che pper tempo me n’accorgio
che cce le viè a scoccià
8
ccome ch’è avvezzo,
me je fo avanti e ddico: «Eh soro sgorgio,
9
ce l’avete scuajjati
10
per un pezzo.
Pare, sor grugno de cascio marcetto,
11
che ssarebb’ora de mutà bbisaccia
e mmette mano a un antro vicoletto».
A ste parole lui vorterà ffaccia:
ma ssi mmai nu la vorta, te prometto
d’impiegacce una bbona parolaccia.
5 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Il petulante, ecc.
2
Interiezione.
3
Mi sporgo, mi affaccio, vado.
4
Giacomuccio, Giacomo.
5
Malaticcio. Mézzo,
pronunciato come vezzo, vale: «vizzo, floscio».
6
Cavallo di giunta al tiro.
7
Modo proverbiale, che si pronunzia
veramente Cacch’immezzo (cioè «in mezzo»), ma qui noi lo scriviamo per intero onde evitare l’h, da cui la parola si
renderebbe equivoca.
8
Scocciar le palle e squagliare i cerotti, vagliono: «annoiare».
9
Nome di scherno che si alle
persone mal fatte, specialmente nelle gambe.
10
Vedi nota 8.
11
Il cacio inverminito per pinguedine, che alcuni
mangiano avidamente.
399. Su li gusti nun ce se sputa
1
Magnetelo sto ladro
2
tordinone!
3
Nu lo spregà: tièlla sú cquella ggioja,
4
che cce se tira sempre de spadone
5
d’addormiccese in piede pe la noia.
Armanco in ner teatro der pavone
c’è ar naturale l’incennio de Troja
pe la gran crudertà der re Nnerone
co Stentarello
6
appatentato bboia.
Ch’edè llaggiú sta gran commedia bbella?
Un ciaffo
7
de turcacci de la Mecca
intitolato: Ossia La leccatella
8
Io stimo sto sciafrujjo
9
chi l’azzecca.
10
A mmé mme piasce de magnà, ssorella:
si a tté tt’abbasta de leccà ttu llecca.
6 febbraio 1832 - Der medemo
1
De gustibus non est disputandum.
2
Intollerabile.
3
Torre di Nona, teatro d’opera regia.
4
Espressione proverbiale.
5
Vòto.
6
Maschera fiorentina.
7
Una cosa confusa, senza ordine né verso.
8
I Crociati in Tolemmaide, Ossia Malek-Adel.
9
Vedi nota 7.
10
L’indovina.
400. Er teatro Valle
Io pe nnun perdeme,
1
Anna de Pumpara,
la Spaccata, Chiafò, Ccuccio
2
e Lluterio,
annassimo a la Valle in piccionara,
3
che cc’è la meladramma e ’r seme-serio.
4
È un certo Pugnatoschi
5
che da Zzara
6
lo mannorno in esijjo in ner Zibberio:
7
e cc’è un’Unghera
8
c’è cche la pianara
9
la porta a ggalla drent’a un cimiterio.
Uscì er Bazzarro
10
de Moscovia poi
che sse cibbò una sarva de fischietti,
11
e li primi a ffischià ffussimo noi.
Ogni tanto però da li parchetti
se sentiva a rripète un tibbidoi
12
d’apprausi ar machinista
13
e a Ddozzinetti.
14
6 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Per non perdermi. Nominando per primi, i Romaneschi sogliono fare questa specie di protesta d’umiltà.
2
Domenicuccio, Domenico.
3
Ultimo ordine.
4
Melodramma semiserio intitolato Gli Esiliati in Siberia, tratto da un
romanzo di M.me Cottin.
5
Il conte Potowskj Pugnatoschi, cioè «Poniatowski», è nome cognitissimo in Roma,
avendovi dimorato lungamente il principe Stanislao, nipote dell’ultimo Re di Polonia.
6
Corruzione di Czar.
7
Vedi la
nota 4.
8
La prima donna, Caterina Ungher.
9
Un alluvione. Per migliore intelligenza converrebbe leggere il dramma.
10
Vedi la nota 6.
11
L’Imperatore de’ Russi fu veramente fischiato sotto la rappresentazione dell’ultima parte della
compagnia.
12
Uno strepito.
13
Veramente la scena dell’orrido e la imitazione dell’uragano erano all’ultimo punto
illusorie.
14
Donizetti, il compositore della musica applauditissima.
401. Omo avvisato è mezzo sarvato
Sarti
1
de pal’in frasca oggi, Carmelo:
me risponni irre orre,
2
e nun ce stai.
3
Tu la legge
4
de ddio puro la sai:
quinto nun ammazzà: cquesto è Vvangelo.
Er lupo muta er pelo e ’r vizzio mai:
5
e pprotenni
6
che llui mutassi er pelo?
Che cce faressi? Vôi dà un pugno in celo?
7
Chi ha pprudenza l’addopri, o cce sò gguai.
Dar tett’in giú
8
s’è fatto l’impossibbile
pe pportallo a le cose der dovere:
dar tett in zú
9
Ddio sa cquer ch’è ffattibbile.
Uno schiaffo, lo so, vò ’na stoccata:
10
ma ppoi che nnova c’è? gguarda er barbiere:
se sfogò, mma cche fesce? Una frittata.
11
6 febbraio 1832 - Der medemo
1
Salti, ecc., cioè: non istai al proposito.
2
Rispondi con incertezze, equivocamente.
3
Cioè: in cervello.
4
Colla e larga,
come appunto legge da leggere.
5
Proverbio.
6
Pretendi.
7
Modo proverbiale.
8
Cioè: «umanamente parlando, secondo
l’uomo».
9
Cioè: «giusta i mezzi superiori».
10
Comune sentenza del popolo.
11
Far la frittata, vale: «rovinare un
negozio».
402. Er barbiere
Sor barbieretto mio da tre ssciuscelle
1
mo adesso v’ho da dí ttre ccose vere:
fà la bbarba e nnun fà scorticarelle
cuest’è ll’arte de guasi ogni bbarbiere.
Se dà cquarche bbarbiere e pperucchiere
che ffa scorticarelle e ppelarelle:
ma nun zete
2
che vvoi c’abbi er mestiere
de lassà er pelo e pportà vvia la pelle.
Sor barbiere der tinche
1
e de la zzugna,
1
duncue perché pe ffamme fà ggonfietto
v’ingegnate cor fico e cco la bbrugna?
3
Ah nnorcino,
4
ah ssciattino
5
mmaledetto,
pe ttrovà chi sse castra e cchi sse sgrugna
va’ a la salita de Crescenzi e in ghetto.
7 febbraio 1832 - De Peppe er tosto
1
Da nulla.
2
Séte: siete.
3
Si narra di un barbiere che per far rilevare la parte di gota che doveva radere, introduceva
nella bocca del paziente alcuna cosa di queste. Un semplice s’ingoiò la sua prugna, e il barbiere esclamò: «Ah! ci
avevo fatto sei barbe, e proprio voi ve la siete mangiata!».
4
Gli abitanti di Norcia sono famosi per uccidere i maiali e
prepararne le carni: e però chiunque esercita questo mestiere è chiamato norcino.
5
Nome degli uccisori legali di bestie
fra gli ebrei romani.
403. La ggiustizia è cceca
Perch’er Papa, a sti bbirbi,
1
in de la gola
nun j’intorcina un bravo collarino,
c’è cchi ddisce c’ha un core de purcino
e cchi pprotenne che llui fa cciriola.
2
Ma llí a ppiazza de Sciarra in cuella scola
dove s’impara a llegge er bullettino,
3
su sto proposito oggi a un abbatino
j’ho inteso compità ’na gran parola:
ciovè ch’er Papa essennose informato
ch’er cardinal Arbani
4
ha ffatto e ha ddetto,
te l’ha mmannato a Ppesero legato.
Trattannose accusí co le Minenze,
c’è da sperà che armanco un cavalletto
ce vienghi a cconzolà st’antre schifenze.
5
7 febbraio 1832 - Der medemo
1
I liberali.
2
Far ciriola è «quel tenere occulto dalla parte del giuocator contrario in fraude del compagno».
3
Gabinetto
de’ giornali.
4
Albani fu inviato Legato a Pesaro (per poi passare nella medesima qualità a Bologna, ecc.) nel… 1831.
5
Feccia d’uomini: i liberali.
404. Chi nnun vede nun crede
Adesso in der teatro a ttordinone
1
c’è ppe bballo la sscimmia conoscente
2
che ddelibbera
3
un fijjo der padrone
e ddà un’archibbusciata ar zor tenente.
Lei da un arbero sarta a un capannone
senza datte a ccapí ccom’e cquarmente,
4
rubba a un villano mezza colazzione
e bballa un patatú
5
cor un zerpente.
Pijja a mmerangolate
6
sett’o otto,
se mette un cappellaccio e un palandrano,
ruzza a ppanza-per-aria e a bbocca-sotto.
Sfido inzomma a ddistingue da lontano
s’è un cristiano che ffacci da scimmiotto
o un scimmiotto che ffacci da cristiano.
8 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Torre-di Nona, o Tordinona.
2
La scimia riconoscente.
3
Libera.
4
In qual modo.
5
Non balla già il pas-de-deux (detto
dai cittadini di Roma padedù), ma fugge da un serpente che la insegue per divorarla.
6
A colpi di melangola.
405. Com’ar mulo
sei parmi lontan dar culo
Buggiarà er mejjo! Su la fin de ggiugno,
anzi propio in ner giorno de san Pietro,
su’ Eminenza me chiama tetro tetro,
e ddisce che jj’infili er cudicugno.
Bbè’, perché nun trovava pe dde dietro
er buscio a un manicone, cor un pugno
che, bbontà ssua, me scari in ner grugno,
me sfregnò er naso come fussi vetro.
Eppoi, de soprappiú, pe vvia c’un osso
j’indo un pò’ er detino, sta marmotta
nun me fesce schiaffà ppuro in profosso?
Ah! sta razza de fijji de mignotta,
sta covata d’arpie de pelo rosso,
è ccome la padella: o ttigne, o scotta.
1
9 febbraio 1832 – Der medemo
1
Proverbio.
406. La faccia d’affogato
1
Ch’edè sta mutria,
1
tisichello marcio
grugno de san Giascinto-a-bbocca-sotto?
2
O mmamma mia che cciurma!
3
Oh cche scacarcio!
Pe ccarità cche mme la faccio sotto.
Co tté, ppe ffàtte in de la panza un scuarcio,
pe vvedemmene bbene crud’e ccotto,
guarda, nemmanco me ce sprego un carcio:
m’abbasta un fischio una scorreggia un rotto.
4
Ner mentre sta frittura de cazzetti
5
se ne viè co ’na patina
6
da orco,
je se piegheno intanto li maschietti.
7
Ma io m’ingegno a mmaneggià li fusi:
8
sò nnato in carnovale, e nnun me storco
la bbocca dietro pe li bbrutti musi.
9
9 febbraio 1832 - Der medemo
1-3
Viso dell’armi.
2
Nome che si a gente di cera brutta e malaticcia. Nell’Ospedale di Santo Spirito, la corsia di San
Giacinto è destinata ai tisici.
4
Coll’o larga, «rutto».
5
Ragazzi od uomini equivalenti.
6
Cera affettata.
7
Le ginocchia.
8
Coltelli.
9
Chi è nato di carnevale, non ha paura di brutti musi. Proverbio usatissimo in consimili circostanze. Storco,
ecc. torcere la bocca per lo spavento.
407. Tali smadre, tali fijja
1
Nun zerv’a ddí: chi de gallina nassce
’gna che rruspi: è pproverbio che nnun falla.
Da una vacca nun esce una cavalla.
Come se nasce, fijja mia, se passce.
Tu’ madre ch’è mignotta dalle fassce
e a tté t’ha ppartorita a Ssanta Galla,
2
ne le tu’ fregnarie mo tte dà spalla,
e accusí ccasa tua s’empie de grassce.
Che tte credevi? de trovà li gnocchi?
Che speravi dich’io co cquer paino?
de falla a mmé su la crosce dell’occhi?
Eh vòi, davero!, a mmé damme er cerino?
Tu ccerchi d’attonnà cqueli bbaiocchi,
3
e dd’abbuscacce er resto der carlino.
4
9 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto
1
Talis mater, talis filia.
2
Chiesa con ospizio annesso, ove i poveri han la notte un ricovero. Qui però Galla sta per
ingiuria equivalente al cocote dei Francesi.
3
Dare, avere il baiocco, vale: «percuotere, esser percosso».
4
Frase
adoperata comunemente in senso di «toccare il resto dei colpi». Carlino, moneta di baiocchi 7 e mezzo.
408. La vita de le donne
La donna appena arriva ar rifriggerio
de godé li bbimestri o er bonifiscio,
incomincia a ccapí che ccos’è ciscio
1
e pprincipia a ppeccà dde disiderio:
po’ appena è bbona de sonà er zarterio
e dde fà ar maschio cuarche bbon uffiscio,
incomincia a rrubbà la carne ar miscio
2
e pprincipia a ppeccà de cazzimperio.
Ma cquanno che ppe vvia der zona-sona
3
diventa un orto che ggnisuno stabbia,
e ffa ttele de ragno a la ficona,
vedenno er ciscio
1
nun tornà ppiú in gabbia,
se dà pe ccorpo morto a la corona,
sin che in grazzia de ddio crepa de rabbia.
Roma, 10 febbraio 1832 - Der medemo
1
Uccello, in due significati.
2
Gatto.
3
Suona-suona o son-sona. La prima s si cambia in z, pronunciata dopo la
consonante che la precede.
409. La vecchiaglia
Bboccetto
1a
mio, ggià cche ttu’ mojje morze
1
e vvôi ’na stacca
2
pe ssiconna
2a
mojje;
si la prima da te ppoco ariccorze
2b
cuesta che ppijji mó ccosa ariccojje?
Tre ccose all’omo vecchio Iddio je vorze
2c
fà ccresce, e ttre ccalà: ttrist’a cchi ccojje!
In primi e antonia
3
crescheno le vojje
de fà er crestoso
3a
e ccaleno le forze.
Pe ssiconna ppartita de la lista,
sor Giammatista
4
mio, c’è lo strapazzo
de cresce er naso e de calà la vista:
e pell’urtima bbuggera der mazzo,
(e cquesta fa ppe vvoi, sor Giammatista)
crescheno li cojjoni e ccala er cazzo.
Roma, 11 febbraio 1832 - Der medemo
1a
Vecchietto.
1
Morì.
2
Grande e forte giovane.
2a
Seconda.
2b
Raccolse.
2c
Volle.
3
In primis et ante omnia.
3a
Bizzarro.
4
Giambattista.
410. Li sette sagramenti, tutt’e ssette
Peccato che li sette sagramenti
nun ziin’antro
1
che ssette, eh sor Felisce?
Ha ddetto Chiodo, che ssa cquer che ddisce,
ch’Iddio doveva fanne armanco venti.
Er battesimo intanto è ’na vernisce
che ccrope er guasto senza che tte penti:
è llui che cciarifà
2
bbianchi e ’nnoscenti
come che la bbucata a le camisce.
Discessim’anzi
3
jjermattina a Cchiodo,
lui che ssa ttutti cuanti sti segreti,
si sse potessi bbattezzà ccor brodo.
«Cor brodo nostro sí, stateve quieti»,
ciarispose
4
l’amico sodo sodo,
«ma nno un cazzo cor brodo de li preti».
Roma, 12 febbraio 1832 - Der medemo
1
Non siano altro.
2
Ci rifà, ci ritorna.
3
Anzi dicemmo, ecc.
4
Ci rispose.
411. Li sordati de ’na vorta
Disce che ssott’a Ppapa Ganganelli,
e ppuro sott’a un po’ dde Papa Bbraschi,
chi a sto paese aveva fijji maschi
sapeva cuer che ffà ppe mmantenelli.
C’ereno li vacabbili,
1
e cco cquelli
tanti tibbicommissi
2
e mmagnoraschi:
3
e lle truppe, ortr’a un monno de ricaschi,
4
montaveno la guardia co l’ombrelli.
Li sordati a cquer tempo pe annà in marcia
ciaveveno
5
tammurro e cciufoletto,
e ppe stà in fila un gran zegno de carcia.
6
E ssi mmai c’era risico de pioggia,
er capo-bbattajjone cor giacchetto
l’annava a ccommannà ssu da la loggia.
Roma, 20 febbraio 1832 - Der medemo
1
2
Fideicommissi.
3
Maggioraschi.
4
Vantaggi, incerti.
5
Ci avevano.
6
Calce.
412. Li sordati d’adesso
Da sí
1
c’a mmi’ fratello in der cuartiere
je scappò vvia la bbotta a l’esercizzie,
2
nun è ppiú omo; caca, tiè er braghiere,
e jje viengheno mó le literizzie.
3
S’è ppresentato inzino ar Brigantiere:
4
bbè’ ccos’ha aúto?
5
un cazzo: eh? cche ggiustizzie!
Ecco si cche vvor dí ffà er zu’ dovere,
e sserví er Papa drento a le milizzie!
T’abbasti a ddí che in vita de Leone
pe arrivà in tempo un giorno a le parate
nun ce fesce nemmanco colazzione!
E accusí ppoi se premieno l’armate!
Disce: vatte a rrolà; ffussi cojjone!
Chi a Rroma vo ggodé s’ha da fà ffrate.
Roma, 20 febbraio 1832 - Der medemo
1
Di quando, dal tempo.
2
Gli esercizi.
3
Itterizia.
4
Brigadiere.
5
Avuto.
413. La bballarina de Tordinone
1
Freghete, Chiara, cuanti sguizzi novi!
E cché!, vvienghi de razza de sciriole?!
E ssarti e ggiravorte e crapiole!...
2
Accidenti che ccianche t’aritrovi!
Frulli, pe ccristo, cuelle du’ stajole
3
e un par d’occhiacci accusí ffurbi movi,
c’a nnoi sce succhi com’e rrossi d’ovi,
e li tu’ atti li pôi dí pparole.
Eh vviè, ppasciocca,
4
ar prato de testaccio;
5
viè, si tte schifi de bballà su cquello,
la sera all’ostaria der Gallinaccio.
Perch’io m’impegneria puro
6
l’uscello
pe bballà inziem’a tté, ddoppo er carraccio,
7
o ’na lavannarina o un zartarello.
8
Roma, 20 febbraio 1832 - Der medemo
1
La valente mimica e danzatrice Clara Piglia. Intorno al Teatro di Torre-di Nona, vedi il poema del Carletti intitolato:
L’incendio di Tordinona, e scritto in male imitato vernacolo romanesco.
2
Salti, giravolte, capriole.
3
Gambe.
4
Paciocca, cioè «bella e gradita donna».
5
Su Testaccio vedi il sonetto…
6
Eziandio.
7
Il carro o carraccio, è certa
specie di commedia in pessime ottave, nenia insoffribile cantata sul colascione e con le più sconce contorsioni, i di cui
interlocutori, tutti uomini, sono sempre un ebreo, un facchino, una donna, specie di Pantalone, con un naso posticcio,
ecc.
8
I due balli più in voga presso il volgo: il primo di essi è aiutato da un certo gesto di mani, anzi laidetto che no.
414. Er Presidente de l’urione
1
Ma llustrissimo mio, cquà nun ce trovo
a llei de nun zentí c’una campana.
2
Lei se vadi a informà pe bborgo-novo
3
si cche ppelletta è sta vecchiaccia cana.
Che sse laggna?, che jj’ho ddetto ruffiana?
Sissiggnora, è rruffiana, è jje l’approvo,
4
ché ppò stà ttistimonia Roma sana
si a ccasa sua c’è ssempre ggente ar covo.
E llei perché cquer giorno a la Ritonna
5
disse mignotta a mmé? Me maravijjo!
Sta fica è ancora sana, e nnun se sfonna.
E ssi vvò er giuramento, io me lo pijjo,
ch’io sò zzitella ppiú de la Madonna,
perché llei, nun fuss’antro, ha ffatto un fijjo.
26 giugno 1832 - De Pepp’er tosto
1
Rione. Roma si divide in quattordici Rioni, ciascuno de’ quali ha il suo Presidente di Polizia.
2
Non udire che una
parte.
3
Via di Roma nel Rione di Borgo, presso il Vaticano.
4
Glielo provo.
5
Sulla piazza del Panteon.
415. A mmi’ mojje ch’è nnata oggi,
e sse chiama come che la Madonna
Ber vive
1
a ffuria de slongà la zampa,
e a la bbotte dell’antri èsse immriaca!
Ma er verbo arigalà,
2
sora sciumaca,
3
mo nun sta ppiú in gnisun libbro de stampa.
Antro che cchi ha ppiselli
4
adesso campa:
chi nun ce ll’ha caca de magro, caca.
Er zor Donato è mmorto;
5
e, si ddio scampa
s’ha da dà, sto da dà
6
ssa de triaca.
7
Oggi è la festa vostra? Ebbè ppe cquesto
m’averìa da impegnà lle mmannoline
8
pe ffà un rigalo a vvoi? Sicuro, è llesto!
Nu lo sapete che sse sta ar confine?
Duncue Iddio ve dia bbene, e ppoi de resto
millant’anni e antrettante cuarantine.
Roma, 15 agosto 1832 – Der medemo
1
Bel vivere.
2
Regalare.
3
Ciumaca, termine carezzativo.
4
Danari.
5
Proverbio.
6
Si ha da dare, questo dare, ecc.
7
Teriaca.
8
Mandoline, per genitali.
416. Li mariti
Sonetti 2
Oh, addio, ché ssi vviè llui, cquer magnafessa,
e nnun trova le cose preparate,
pijja la corda de quann’era frate
e mme ne dà inzinenta che mme sfessa.
Sai che mm’ha ddetto stammatin’istessa?
«Oggi ch’è ffesta de proscetto,
1
annate»:
ma ll’antre feste poi demonetate,
2
sò províbbita
3
inzino d’annà a mmessa.
E ssi dda mé dda mé a la vemmaria
nun discessi
4
quer cencio de rosario,
credería d’èsse nata una ggiudia.
Ché cco llui nun c’è antro c’uno svario:
pipp’in bocca, traghetti,
5
arme, osteria...
Eppuro è ll’occhio-dritto der Vicario.
Terni, 6 novembre 1832 – Der medemo
1
Precetto.
2
Feste abolite.
3
M’è proibito.
4
Dicessi: la c strisciata.
5
Intrighi.
417. Li mariti
Mariti? eh, Dio! si le cose, commare,
se potessi cuaggiù ffalle du’ vorte,
prima de dí cquer padre a l’artare
me vorrebbe da mé ddamme la morte.
Strapazzi de ’gni ggenere, cagnare,
cazzottoni, croscette,
1
fuse-torte,
2
porca cquà, vvacca llà... che tte ne pare?
valla a ddisiderà sta bbella sorte.
Figurete ch’er mio che mm’ha ppijjata
piena zeppa de robba, è ggià la terza
ch’inzino a la camiscia m’ha impegnata.
Senza dí poi che st’animaccia perza
3
cuanno semo... capischi?, ha la corata
4
de particce
5
a la dritta e la roverza.
Terni, 6 novembre 1832 - Der medemo
1
Digiuni.
2
Corna.
3
Perduta.
4
Corata, per «cuore». Corata è presso il volgo «l’insieme de’ visceri del petto». Quindi
comperare una corata; fare una frittura di corata, ecc.
5
Partirci: darcisi.
418. Er Logotenente
Come intese
1
a cciarlà der cavalletto,
2
presto io curze
1
dar zor Logotenente.
3
«Mi’ marito..., Eccellenza, è un poveretto...
pe ccarità... cche nun ha ffatto ggnente».
Disce: «Méttet’a ssede». Io me sce metto.
Lui cor un zenno
4
manna via la ggente:
po’ me s’accosta: «Dimme un po’ ggrugnetto,
5
tu’ marito lo vòi reo o innoscente?»
«Innoscente», dich’io; e llui: «Sciò
6
ggusto»;
e detto-fatto cuer faccia d’abbreo
me schiaffa
7
la man-dritta drent’ar busto.
Io sbarzo in piede, e strillo: «Eh, sor cazzeo. ..».
E llui: «Fìjjola, cuer ch’è ggiusto è ggiusto:
annate via: vostro marito è rreo».
Terni, 6 novembre 1832
1
Intesi, corsi.
2
Supplizio di colpi sull’ano.
3
Luogotenente criminale del Governatore.
4
Cenno.
5
Visetto.
6
Ci ho.
7
Schiaffare: introdurre con vivacità.
419. Li du’ ladri
Hai da sapé ch’er povero Ghitano
è ffijjo de Chiappino er muratore.
e Llucantonio è ffijjo der decano
che sta co mmonzignor governatore.
Bbe’, una notte li zzaffi
1
ar Lavatore
2
li trovonno a ’na porta ar primo piano,
cuello cor un cortello serratore
e cquesto cquà ccor grimardello
3
in mano.
Li legonno un e ll’antro ar temp’istesso,
li portonno in guardiola,
4
e in cap’a un mese
ar governo
5
je fesceno er proscesso.
Com’è ffinita? A Lluca erba fumaria,
6
a Gghitano in galerra, ortr’a le spese:
e li scenci accusí vvanno per aria.
7
Terni, 6 novembre 1832 - Der medemo
1
Birri.
2
Il Lavatore-del-Papa, contrada di Roma lungo le mura del giardino del Quirinale.
3
Grimaldello, ordigno per
aprire le serrature in difetto di chiave.
4
Corpo di guardia de’ birri.
5
Così chiamasi in Roma il palazzo di giustizia.
6
Dar l’erba fumaria, vale «mandar via».
7
Il debole soffre: modo proverbiale.
420. Er Papa
Bisogna dí cch’er Papa cuanno è Ppapa
diventi granne peggio d’un colosso,
c’ogni pelo je creschi come un osso,
e abbi ogn’occhio più ggranne d’una rapa.
Bisoggna dí ch’er sagro culo grosso
ne li carzoni vecchi nun je capa,
e cche l’uscello je s’abbotti addosso
come la pelle gonfia d’una crapa.
1
Perché a Ccaster-gandorfo
2
a mman’a mmano
papa Grigorio indegnamente ha ddetto
a ttutto-cuanto er popolo romano,
che cquanno torna a Rroma, poveretto,
vò annà abbità a Ssampietr’invaticano,
3
perché a Mmonte-cavallo
4
ce sta stretto.
Terni, 6 novembre 1832 - Der medemo
1
Capra.
2
Castel-Gandolfo, terra contigua a Roma, ove è la villeggiatura de’ Papi.
3-4
I due palazzi pontifici,
attualmente abitabili, sono quelli del Vaticano e del Quirinale, detto Monte-Cavallo.
421. Monzignor Tesoriere
C’è stato a Rroma a ttempo der vertecchio
1
un abbate fijjol d’un rigattiere,
2
che ddoppo d’avé ffatto er mozzorecchio
3
se trovò de risbarzo Tesoriere.
E ssiccome era fijjo der mestiere,
vedenno in cassa tant’oraccio vecchio,
coll’ajjuto de costa der cassiere
tutta l’aripulí ccom’uno specchio.
Ma er Papa ch’era un omo duzzinale,
pijjanno cuella cosa in mal umore,
lo creò pe ggastigo Cardinale.
E accusí se pò ddí de Monzignore
cuello che ddimo
4
noi de Fra Ccaviale:
la fesce sporca, e ddiventò ppriore.
5
Terni, 6 novembre 1832 - Der medemo
1
A tempo antico: modo proverbiale. Il vertecchio è a Roma un anello di legno di forma sferoidale, che si aggiunge al
basso del fuso per dargli peso, e valore al girare.
2
Ricattiere: colui che compera cose vecchie, ed anche presta ad usura
con pegno, in pubblico fondaco.
3
Leguleio.
4
Diciamo.
5
Proverbio.
422. La Nunziata
Stavo jjerammatina de piantone
1
su le scale cquaggiú dde Santa Chiara
aspettanno che uscissi la filara
2
de zitelle ammantate in priscissione.
3
Cuanno ecco che un paìno
4
in zur cantone
se mette a rride co ’na faccia amara,
discenno
5
a un antro: «Ir Papa la tiè ccara
la pelle sua si nnun viè a ffà orazzione».
Io fesce
6
allora a cquelli capitali:
7
«Bboja che pperde tempo, e nnu li snerba
sti dottorini de li mi’ stivali.
Caso er Papa nun vienghi a la Minerba,
ce sò iti però li Cardinali,
che ttutti-cuanti sò ppapetti
8
in erba».
Terni, 7 novembre 1832 - Der medemo
1
Fermo al posto.
2
Fila.
3
Il 25 di marzo di ogni anno, una schiera di zitelle dotate dall’Arciconfraternita
dell’Annunziata parte da quella chiesa in un abito bianco di particolar foggia, recandosi processionalmente alla chiesa
contigua di S. Maria sopra Minerva, dove suole recarsi in quel giorno il Papa al pontificale.
4
Zerbinotto.
5
Dicendo.
6
Fesci, per «dissi».
7
Per ironia: gente da nulla.
8
Si deve avvertire i papetti essere in Roma monete di argento del valore
di due paoli. Quindi l’equivoco.
423. L’Anno-santo
Arfine, grazziaddio, semo arrivati
all’anno-santo! Alegramente, Meo:
1
er Papa ha spubbricato er giubbileo
pe ttutti li cristiani bbattezzati.
Bbeato in tutto st’anno chi ha ppeccati,
ché a la cuscenza nun je resta un gneo!
2
bbasta nun èsse ggiacobbino o ebbreo,
o antra razza de cani arinegati.
Se leva ar purgatorio er catenaccio;
e a l’inferno, peccristo, pe cquest’anno
pôi fà, ppôi dí, nun ce se va un cazzaccio.
Tu vvà’ a le sette-cchiese
3
sorfeggianno,
méttete in testa un pò’ de scenneraccio,
e ttienghi er paradiso ar tu’ commanno.
Terni, 7 novembre 1832 - Der medemo
1
Bartolommeo.
2
Neo.
3
Visita di sette chiese privilegiate, rimunerata dai Papi con infinite indulgenze.
424. Er fumà
Ma cche tte fumi, di’, sia mmaledetto:
hai la faccia color de Monte-Mario,
1
tienghi, peccristo, scerte
2
coste in petto
da mettele pe mmostra in zur Carvario:
pesi quattr’oncia meno d’un canario,
e nun hai carne d’abbastà a un guazzetto;
e ttutto er zanto ggiorno cor zicario,
3
da cuanno t’arzi inzino ch’entri a lletto!
Senza contà che a tté co sto porcile
te puzzeno, per dio, sino li peli:
vôi fini li tu’ ggiorni in marzottile?
4
Mazzato!, eh llassa er fume de la pippa
a sti frati futtuti d’aresceli,
5
che ttiengheno un mascello in de la trippa.
Terni, 7 novembre 1832 - Der medemo
1
Il già Clivus Cinnae, detto oggi Monte-Mario, da un Mario Millini che vi possedeva una villa. Esso è composto di
giallastri relitti marini.
2
Certe.
3
Sicario per «sigaro» o «zigaro».
4
Mal sottile.
5
Gli zoccolanti di S. Maria in Aracoeli,
nell’antico luogo di Giove Capitolino sul Campidoglio.
425. Li frati d’un paese
Senti sto fatto. Un giorno de st’istate
lavoravo ar Convento de Ggenzano,
e ssentivo de sopra ch’er guardiano
tirava ggiú bbiastime a ccarrettate;
perché, essenno le ggente aridunate
pe ccantà la novena a ssan Cazziano,
1
cerca cquà, cchiama llà, cquer zagristano
drento a le scelle
2
nun trovava un frate.
Era viscino a notte, e un pispillorio
già sse sentiva in de la cchiesa piena,
cuanno senti che ffa Ppadre Grigorio.
Curze a intoccà la tevola
3
de scena,
4
e appena che fu empito er rifettorio disse:
«Alò, ffrati porchi, a la novena».
Terni, 8 novembre 1832 - Der medemo
1
S. Cassiano martire, 13 agosto.
2
Celle.
3
Tegola.
4
Cena.
426. Un indovinarello
Sori dottori, chi ssa ddimme prima
come se chiama chi ggoverna er monno?
Cuello che mmanna tanta ggente in cima,
cuello che mmanna tanta ggente in fonno?
Er Papa? er Re? - De cazzi, io ve risponno:
sete cojjoni, e vve lo dico in rima.
Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima
pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno.
Er priffe e ’r pelo sò ddu’ cose uguale,
der pelo e ’r priffe sò ttutti l’inchini,
p’er priffe e ’r pelo se fa er bene e ’r male.
E una cosa dell’antra è tanta amica
cuanto la fica tira li cudrini,
e li cudrini tireno la fica.
Terni, 8 novembre 1832 - Der medemo
427. Er decoro
Pussibbile che ttu cche ssei romana
nun abbi da capí sta gran sentenza,
che ppe vvive in ner monno a la cristiana
bisogna lascià ssarva l’apparenza!
Co cche ccore, peddìo!, co cche ccuscenza
vôi portà scritto in fronte: io sò pputtana?
Nun ze pò ffa lle cose co pprudenza?
Abbi un po’ de ggiudizzio, sciarafana.
1
Guarda Fra Ddiego, guarda Don Margutto:
c’è bbarba-d’-omo che nne pò ddí ggnente?
Be’, e la viggijja magneno er presciutto.
Duncue sta verità tiettela a mmente
che cquaggiù, Checca mia, se pò ffà ttutto,
bbasta de nun dà scànnolo a la ggente.
Terni, 8 novembre 1832 - Der medemo
1
Ciarafana (c striscicato), cioè: «stolida, baccellona».
428. Er bon tajjo
1
Ho addimannato a ttanti ch’edè cquello
c’ha de mejjo chi mmarcia in pavonazzo.
Uno m’ha dditto che cquest’è er ciarvello;
ma li Prelati nun ce ll’hanno un cazzo.
Un’antro disce, er core; ma er ciorcello
2
de li Prelati è rrobba de strapazzo.
Titta er compare mio sta pe l’uscello,
e cchi pparla accusí nun è un pupazzo.
Io, co lliscenza der compare mio,
direbbe che lo stommico è er tesoro
che li santi prelati hanno da Ddio.
Nu lo vedete, Cristo!, che llavoro?
Cicco cqua, ccicco llà,
3
sangue de bbio!,
cuer che cc’è da magnà mmagneno loro.
Terni, 8 novembre 1832 - Der medemo
1
Per taglio qui s’intende l’uso de’ Romani di distinguere questa o quella parte di membra delle bestie da macello.
2
Presso a poco è lo stesso che la corata. Vedi la nota del sonetto…
3
Cicco cicco è il verso che si fa a’ maiali per
chiamarli, e cicco il porco medesimo. Quindi il proverbio: «Cicco qua, cicco là, il porco s’ingrassa».
429. Una spiegazzione
Pe ccapí mmejjo, tu gguarda Cremente
cuanno, incartato er lardo, sce pilotta
1
l’abbacchio,
2
er porco, o ll’antra carne gliotta,
3
perché se cosci
4
e nnun resisti ar dente.
Er lardo acceso sbrodola e bbarbotta
5
mannanno in giù ttante goccette ardente,
che, una cquà, una llà, ttutte uguarmente
vanno a investí la carne, inzin ch’è ccotta.
Cuest’è una cosa chiara più dder vetro,
e nnun ce vò er ciarvello d’un oracolo
pe ssciferalla e nnun rimàne
6
addietro.
Bbè, lo Sspiritossanto pe mmiracolo
se ne scenze
7
accusí ssopra a Ssampietro
e all’apostoli sui drento ar Cenacolo.
Terni, 8 novembre 1832 - Der medemo
1
Dal verbo pillottare: ci pillotta.
2
Agnello da latte.
3
Ghiotta (jotta).
4
Si cuoccia, ecc.
5
Borbotta.
6
Rimanere.
7
Scese.
430. A ppadron Giascinto
Io nun pòzzo
1
capí ccom’e cquarmente
certi cazzacci s’abbino da crede
ch’er purgatorio nun è vvero ggnente,
cuanno cuesto è un articolo de fede.
Duncue ch’edè cquer foco che sse vede
dipinto in de le cchiese indegnamente?
Che ccosa sò cquell’anime llí a ssede
tra le fiamme, je pijji un’accidente?
Caso ch’er purgatorio fussi finto
te pare che li preti der governo
propio in chiesa l’avessino dipinto?
Ccusí, ffarzo sarà ppuro l’inferno!
Farzo? Magaraddío, padron Giascinto!
Me parerebbe d’avé vvinto un terno.
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Posso
431. Valli a ccapí
Accidenti che razza de paesi
ce sò ar Monno, e cche ssorte de custumi!
Nun fuss’antro, sti matti de francesi
parleno chiaro che cce vò li lumi.
Uno me disse che jj’avesse presi
cuattr’o ccinque bbajocchi de legumi:
je li spesi a ffascioli io, jje li spesi;
e ar zor Cazzo je preseno li fumi.
1
«Sesi, fúder, nepà cche gge cercé,
crenon bugher de sudditi de Pape:
andé accet legume ar pottaggé».
Inzomma, a ffalla curta, si tte cape
2
azzecca
3
mó er legume si cch’edè:
4
sò, ccorpo der zu’ Dio, bbroccoli e rrape!
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Si adirò.
2
Se ti entra nell’intelletto.
3
Indovina.
4
Cos’è.
432. Un bon’avviso
Che cchi ha ddu’ spalle come un zoccolante
se fregassi magara un monistero,
nun c’è da repricà nemmanco un zero,
e cchi disce er contrario è un ignorante.
Ma cche un stuppino sii tanto arugante,
1
un reduscelli,
2
un sbusciafratte
3
vero,
senza un’oncia de fedigo
4
sincero,
j’affetterebbe
5
er collo cor trinciante.
6
Cueste cquà nun zò mmiffe
7
ch’io t’appoggio:
tu sseguita sta strada, e a la bbon’ora
si er beccamorto nun te dà l’alloggio.
Co cquella scera-vergine
8
c’accora
tu intígnete a ssonà ssin che l’orloggio
batti er tocco pe tté dell’urtim’ora.
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Arrogante.
2
Re-d’uccelli: piccolissimo uccellino.
3
Sbucafratte: lo stesso.
4
Fegato.
5
Gli affetterei.
6
Specie di coltello
romano.
7
Menzogna.
8
Cera-vergine (la c strisciata).
433. E sse magna!
Stavo st’ottobre a Tterni cor padrone,
che ccià pportato a mmutà aria un fijjo,
cuanno una sera all’osteria der gijjo
sento dà ttanti tocchi ar campanone.
Dico: «Ch’edè, sor oste, sto bisbijjo
de tocchi? che! cc’è cquarche priscissione?».
E ppadron Chiappa m’arispose: «None,
1
vò ddí cche ddomatina c’è cconzijjo.
Perché vvonno ingabbià
2
li conzijjeri
a offerí mmille scudi a un patriotto
ch’er Papa ha ffatto Cardinale glieri.
3
E mmille scudi, che nun zò un cazzotto,
lui se li cibbe bben volentieri
pe ddí cc’a Tterni ha vvinto un terno al lotto».
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
No.
2
Ingarbugliare.
3
Ieri.
434. Er codisce novo
1
Poveri gonzi,
2
currete, currete
a llegge
3
sti lenzoli a li cantoni:
che vve penzate, poveri cojjoni?,
de trovacce da bbeve pe cchi ha ssete?
Ve lo dich’io si mmai nu lo sapete
che cce sta scritto in cuelli lenzoloni:
’n’ infirza
4
de gastighi bbuggiaroni
da facce inciampicà
5
cchi nun è pprete.
Varda llí! pe ’gni càccola
5a
’na Legge,
6
’na condanna, un fraggello, un priscipizzio!,
accidentacci a cchi ssa scrive e llegge.
Bono c’a ste cartacce chi ha ggiudizzio
pè mmannajje ’na sarva
7
de scorregge
8
cor pij la patente a Ssantuffizzio.
9
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Il codice penale, pubblicato in Roma il… 1832.
2
Sciocchi.
3
Leggere.
4
Una filza.
5
Inciampare.
5a
Minuzia.
6
Una legge
(con entrambe le e larghe).
7
Salva.
8
Peti.
9
I così detti patentati di Sant’Offizio, investiti di certi privilegi molto
favorevoli alle impunità.
435. Un bon’impegno
Er giorno c’annò er Papa a la Nunziata,
1
io jje bbutta’ in carrozza er momoriale;
e llui cià ffatto sopra la passata,
2
e ddoppo l’ha arimesso ar Cardinale.
Bisognerebbe mó ttrovà un canale
pe avé un’informazzione un po’ aggrazziata;
e ppenzerebbe guasi a Ffurtunata
che llui diede pe mmojje ar zu’ curiale.
Cuesta regazza la ppijjò a pprotegge
cuanno pe Nnapujjone annò in esijjo,
e ll’ha ttirata avanti a scrive e a llegge.
Pôi figurà si llei cià conoscenza
che llui j’ha ffatto da compare a un fijjo,
ch’è ttutto spiccicato
3
Su’ Eminenza.
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Vedi la nota… del Sonetto.
2
Il rescritto.
3
Somiglia perfettamente.
436. Cuer che ssa nnavigà sta ssempre a ggalla
Si ppe ’gni bbirbaria de sto paese
un povèta fascessi
1
un ritornello,
e lo mannassi pe le stampe, cuello
guadagnerebbe un tern’-a-ssecco
2
ar mese.
Cqua mme risponni tu: sto maganzese
3
potría ’mmannisse pe vviaggià in castello,
dov’er guadammio der zu’ ggiucarello
sí e nnò jj’abbasterebbe pe le spese.
Mó tte reprico io cche nu lo sai
tu er praticà de sto paese bbuffo:
cqua cchi ha ccudrini, nun ha ttorto mai.
Bbasta de curre a ttempo co lo sbruffo:
eppoi senza pericolo de guai,
spaccia puro pe ffresco er pane muffo.
Terni, 9 novembre 1832 - Der medemo
1
Facesse.
2
Terno giuocato senza pretesa di vincita in ambo: caso in cui la vincita del terno è di molto maggiore
guadagno.
3
Persona sinistra.
437. L’anima bbona
Jèso,
1
che sproscedato!
2
e cchi tt’inzegna
de tienemme sta sorte de discorzi?
sempre me bbatti llí a lo sticcalegna!
3
Lui me fregò perché nun me n’accorzi.
Ma ssò ffijja ’norata, e nu lo vorzi
mai perdonà de st’azzionaccia indegna:
eppoi, vacce a ssentí la mi’ madregna
si cquanno lo capii guasi me morzi.
Ma nnò vvia, Toto mio; perché una donna
cuanno s’arza la vesta a un ammojjato
fa ppiagne in paradiso la Madonna.
Oh, sú, a le curte, pe ’na vorta o ddua,
senti, io lo fò: ma intenno ch’er peccato
vadi a ccascà su la cuscenza tua.
Terni, 10 novembre 1832 - Der medemo
1
Gesù.
2
Libero nel parlare.
3
Tagliator di legna, che va a Roma cercando affare con la scure in collo.
438. Antri tempi, antre cure, antri penzieri
Allora, allora! Allora ero un bardasso
1
che tte credevo, e tte vienivo appresso.
Passò cquer temp’enèa,
2
Briscida: adesso,
fijja, sò tturco
3
ppiú de san Tomasso.
E ttu tte credi de portamme a spasso
co le chiacchiere tue? De llí a un cipresso!
4
Io nun vojjo ppiú gguai: me chiamo ggesso,
cor una mano scrivo e un’antra scasso.
5
Che sserve mo de sciancicà
6
un abbisso
de paternostri, e dde portatte addosso
’na frega de corone e ’r croscefisso?
Nun ze sapessi
7
mai c’ar gallo-rosso
8
te pijjassi
9
cuer po’ dde stoccafisso,
10
eppoi cacassi
11
du’ stronzi coll’osso!
12
Terni, 10 novembre 1832 - Der medemo
1
Fanciullo.
2
Proverbio.
3
Incredulo.
4
A un dipresso: modo irrisorio.
5
Modo proverbiale.
6
Ciancicare: masticare.
7
Non
si sapesse.
8
Insegna d’osteria.
9
Prendesti.
10
Stokfish: «stoccafisso, pesce affumicato»; qui in senso equivoco.
11
Cacasti.
12
Due bambini.
439. Er galantomo
Nun ce vò mmica tanto pe ssapello
si ssei un galantomo o un birbaccione.
Senti messa? sei scritto a le missione?
1
cuann’è vviggijja, magni er tarantello?
a le Madonne je cacci er cappello?
vôi bbene ar Papa? fai le devozzione?
2
si ttrovi crosce
3
ar muro in d’un portone,
le scompisci, o arinfòderi l’uscello?
dichi er zottumprisidio cuanno t’arzi?
tienghi in zaccoccia er zegno der cristiano?
4
fai mai la scala-santa
5
a ppiedi scarzi?
tienghi l’acquasantiera accapalletto?
6
Duncue sei galantomo, e ha’ tant’in mano
da fà ppuro abbozzà
7
Ddio bbenedetto.
Terni, 11 novembre 1832 - Der medemo
1
È in Roma una fratellanza addetta alla predicazione per le pubbliche vie, e per le chiese.
2
Frequenti i sagramenti.
3
Croci. È uso di molti che per salvare da lordure l’interno de’ loro portoni, vi traccino sui muri delle croci, che
rispettate o no mal convengono al luogo e al fine.
4
La corona del rosario.
5
Scala creduta del pretorio di Pilato, che si
sale in Roma colle ginocchia.
6
A capo al letto.
7
Tacere.
440. Fijji bboni a mmadre tareffe
1a
C’hanno da fà de ppiú, pe ddio sagraschio?
1
La femmina che llei fesce a Ccorneto,
fa la tela d’olanna, e er fijjo maschio
le cannele de sego de Spoleto.
Cià
2
un’antra fijja, sí, mma cquella è un raschio,
si lla vedi, ppiú ffina de sto deto:
duncue me pare che a li fijji, caschio!,
3
si jje dà vvino nun riccojje asceto.
Ma llei tratanto sta vecchiaccia porca
magna a le spalle loro, e spenne e spanne
pe ttrovà chi jje sbuggeri la sorca.
Pe mmé, la mannerebbe a Rripagranne
(già cche cquì pe le donne nun c’è fforca)
a ccompità er crimìni-vinnicanne.
4
Terni, 11 novembre 1832
1a
«Magagnata»: termine tolto dal popolo agli Ebrei del Ghetto romano.
1
Viziatura di parole onde materialmente
evitare la bestemmia.
2
Ci ha.
3
Consimile osservazione che alla nota 1. Qui per evitar laidezza.
4
La casa di correzione
detta di S. Michele, presso il porto di Ripagrande sul Tevere, il cui prospetto mostra la seguente iscrizione:
Cohercendae mulierum licentiae et criminibus vindicandis.
441. Er Curato linguacciuto
Lo so, lo so ch’er zor curato ha sparza
la chiacchiera ch’io bbatto
1
in borgo-novo,
che in ner mentre mantiengo er m’arimovo
2
manno pe Rroma la mi’ mojje scarza,
3
e cche ppe ffajje mmejjo comparza
pelo er gabbiano mio dove lo trovo:
ma sto frate è un busciardo, e tte l’approvo:
4
cuanno una cosa nun è vvera, è ffarza.
5
Abbadi a llui però co sta pastrocchia,
6
perché le lingue sò ttutte sorelle,
e llui puro pò avé cchi jje la scrocchia:
7
lui che annanno a pportà le pagnottelle
de san Nicola,
8
in de la su’ parrocchia
ha ingallato da
9
dodisci zitelle.
Terni, 11 novembre 1832 - Der medemo
1
Pratico.
2
Mi-rimovo: espressione indicante «la commozione eccitata da un soggetto che s’ama», quindi per traslato,
«l’oggetto stesso».
3
Scalza.
4
Te lo provo.
5
Falsa.
6
Menzogna mal composta.
7
Chi lo colpisce dicendo il di lui fatto.
8
Piccolissimi pani benedetti, di virtù non inferiore a qualsiasi elisir.
9
Circa.
442. Le cose perdute
Ebbè?, pperché tte sei perzo
1
l’anello
de tu’ cugnata fai tanto fracasso!
Eh ddi’ er zarmo cqui abbita,
2
fratello,
che sse venne stampato a ssan Tomasso.
Nun ce sò ccazzi,
3
cristo!, è un zarmo cuello
che ttra li sarmi der Zignore è ll’asso:
4
che ssi mmagaraddio perdi er ciarvello,
lo troveressi in culo a Ssatanasso.
In caso poi de furto, Pippo mio,
stenni una gabboletta risponziva,
o ffa’ ffà
5
lla garafa da un giudio:
indove, appena scerto
6
fume sbafa,
7
comparisce la faccia viva viva
der ladro propio immezzo a la garafa.
Terni, 11 novembre 1832 - Der medemo
1
Perduto.
2
«Qui habitat in adiutorio Altissimi…». Psal. XC.
3
Non v’ha dubbio o difficoltà.
4
È il primo; metafora presa
dal giuoco della briscola.
5
Fa’ fare.
6
Certo (la c striscicata).
7
Svapora.
443. Li parafurmini
Che ssò sti parafurmini der cazzo,
ste bbattecche
1
de ferro de stivale,
2
che vvanno a inarberà mmó co le scale
su ’gni cuppola e ttetto de palazzo?
A mmé mm’hanno inzegnato da regazzo,
cuanno er diavolo smove er temporale,
a ddí er disaggio angelico,
3
che vvale
ppiú de ste bbuggiarate da pupazzo.
Duncue mó sti fijjacci de puttane
ne vonno sapé ppiú cco le su’ Sette
de chi ha inventato er zon
4
de le campane!
Nun ce sò le campane bbenedette
pe llibbe le frabbiche cristiane
da lampi, toni, furmini e ssaette?
Terni, 11 novembre 1832 - Der medemo
1
Bacchette.
2
In via di spregio.
3
Trisagio angelico.
4
Suon.
444. La santissima Ternità
1
«’Gni cosa ar monno ha er zu’ perché, ffratello»,
me disse marteddí Ffrà Ppascualone:
«li ggiudii adoraveno un vitello,
noi un boccio,
2
una pecora e un piccione.
Er boccio è ’r Padreterno cor cappello,
che nnascé avanti all’antre du’ perzone;
e Ccristo è la figura de l’agnello,
che sse fesce scannà ccome un cojjone.
E ’r piccione vò ddí che ttanto cuanto
che la gabbia der crede ce se schioda,
addio piccione, addio Spiritossanto.
E allora sti dottori de la bbroda
currino appresso a mmetteje cor guanto
un pizzico de sale in zu la coda».
3
In vettura, da Terni e Narni,
Der medemo - 12 novembre 1832
1
Trinità.
2
Vecchio.
3
Cosa che si diceva a’ fanciulli per ischerzo, allorché vogliono avere uccelli liberi. «Allorc gli
avrai messo un poco di sale sulla coda, quell’uccello non si muoverà più».
445. Lo stizzato
Nun ce fò ppasce,
1
nò, vvive
2
sicuro:
co ddu’ anni de fremma ho in tanta pratica
cuella su’ testacciaccia sbuggenzatica,
3
che, stassi
4
a mmé, jje la darebbe ar muro.
Nun ce fò ppasce, nò; voría,
5
te ggiuro,
più ppresto ’na risípola
6
o ’na ssciatica.
Lei è pp’er mi’ penzà ttroppa lunatica:
nun ce fò ppasce, nò, ffidete puro.
Du’ vorte ar mese, tre, cquattro, accidenti;
7
ma lliticà ogni sera, ogni matina,
a ttutte l’ora, a ttutti li momenti!
Nò, è mmejjo ognun da sé: sinnò,
8
per dina,
j’appoggio un cazzottone in ne li denti
che jje ne fò ingozzà mmezza duzzina.
In vettura, da Otricoli a Civitacastellana,
Der medemo - 12 novembre 1832
1
Pace.
2
Vivi.
3
Capricciosa, stravagante, schifiltosa.
4
Stasse.
5
Vorrei.
6
Resipella.
7
Transeat: alla buon’ora.
8
Altrimenti: se no.
446. Er legno a vvittura
Eh ttrotta p’er tu’ cristo che tte strozza:
ch’edè sto trainanà
1
da cataletto?
Varda che bbestie da vennesse
2
in ghetto!
Nun pareno somari de la mozza?
3
Sai cuant’è mmejjo de marcià in carretto,
che dd’annà a spasso drent’a sta carrozza?
Se discurre che ggià cquela
4
barrozza,
va’,
5
cc’è ppassat’avanti un mijjo netto!
Io che ccucchiere sei me sce
6
strasecolo;
e mme fa spesce a mmé dde padron Fabbio,
pozzi campà ccent’anni men’un zecolo.
Su, sfrusta ste carogne senza peli,
che ppare che ccarreggino lo stabbio
o pportino er bambin de la Resceli.
7
In vettura da Nepi a Monte Rosi,
Der medemo - 13 novembre 1832
1
Quel moto lento e nauseante de’ legni che van piano.
2
Vendersi.
3
Vendemmia.
4
Quella. Onde ben pronunziare la
quantità di questa parola, conviene quasi formare un piede dattilo tra essa e la precedente: giā-cquelă.
5
Guarda, vedi.
6
Mi ci.
7
Gli zoccolanti di S. Maria in Aracoeli sul Campidoglio conducono, chiamati, un miracoloso Cristo in fasce
gemmate ai moribondi per ultima medicina; e vanno a quel mercato in una vettura a lentissimo passo.
447. La vecchiarella ammalata
’Gnisempre peggio, pòra
1
vecchia nostra:
piú vva avanti, ppiú vva, ppiú sse sconocchia.
2
Già er barbozzo
3
je tocca le gginocchia,
Bbe’ cc’abbi
4
men’età de cuer che mmostra.
Cuarc’oretta la passa a la conocchia,
e ’r restante der giorno spaternostra.
Pe spirito, héhé!, ppò ffà la ggiostra,
ma ccala a vvista, e ’gni momento scrocchia.
5
Di’, st’anno-santo cuanno l’hai viduta,
nun poteva fà invidia a le sorelle,
dritta come ’na spada, e cciaccaruta?
E in zett’anni ggià vva co le stampelle;
e ssibbè cche ddio sa ssi è mmantenuta,
se pò speralla ar lume: è ossa e ppelle.
All’osteria del fosso, 13 novembre 1832, Der medemo
1
Povera. Quando si usa, si annette con prestezza alla parola seguente con suono e in caso di compassione e di
tenerezza.
2
Si dissove, si scassina.
3
Mento.
4
Benché abbia.
5
Crocchia.
448. Er ciscerone a spasso
1
Se commatte,
2
monzú, co la miseria.
Cosa sce s’ha dda fà? ttrist’a cchi ttocca.
Da sí
3
cche vve portà a la Ninf’Argeria
nun ciò
4
ppane da metteme a la bbocca.
Abbito drent’a un búscio de bbicocca
5
da fa rride sibbè cch’è ccosa seria.
Llí cce piove, sce grandina e cce fiocca,
come disce sustrissimo in Zibberia.
La cuccia mia nu la vorebbe un frate,
ché ddormo, monzú mmio, s’un matarazzo
tarquàle
6
a ’na saccoccia de patate.
Sò annato scento
7
vorte su a ppalazzo
a cchiede ajjuto ar Papa: e indovinate
cosa m’ha ddato er zanto-padre: un cazzo.
All’osteria del fosso, 13 novembre 1832, Der medemo
1
Senza impiego.
2
Combatte.
3
Da quando.
4
Non ci ho: non ho.
5
Semplicemente «casolare».
6
Tal quale.
7
Cento (con la
c strisciata, come in altri luoghi di questo medesimo sonetto).
449. La poverella
Benefattore mio, che la Madonna
l’accompaggni e lo scampi d’ogni male,
dia quarche ccosa a una povera donna
co ttre ffijji e ’r marito a lo spedale.
Me lo dà? mme lo dà? ddica: eh rrisponna:
ste crature sò iggnude tal’e cquale
ch’er Bambino la notte de Natale:
dormímo
1
sott’un banco a la Ritonna.
2
Anime sante! se movessi
3
un cane
a ppietà! eh armeno
4
sce se movi lei,
5
me facci prenne
6
un bocconcin de pane.
Siggnore mio, ma ppropio me lo merito,
sinnò
7
davero, nu lo seccherei...
Dio lo conzóli e jje ne renni
8
merito.
In vettura, dall’osteria del fosso alla Storta,
Der medemo - 13 novembre 1832
1
Dormiamo.
2
Qui parlasi di que’ banconi sui quali i pollaioli espongono le loro cose presso la Rotonda, cioè il
Panteon.
3
Si movesse.
4
Almeno.
5
Ci si muova.
6
Mi faccia prendere.
7
Se no: altrimenti.
8
Le ne renda.
450. La poverella
Fate la carità, ssiggnora mia,
in onor der grorioso san Cremente:
conzolate sto pover’innoscente
che ppe la fame me sta in angonía.
Eh ajjutateme voi tra ttanta ggente,
eh ffatemela dí ’na vemmaria
1
ar zagro core de Gesúmmaría:
mezzo bbaiocco a vvoi nun ve fa ggnente.
Ah llustrissima, nùn m’abbandonate,
che la Madonna ve pôzzi concede
2
tutte le grazzie che ddisiderate.
Pe l’amor de Maria der bon conzijjo,
soccorrete una madre che vve chiede
quarche ssoccorzo da sarvajje
3
un fijjo.
25 settembre 1835
1
Un’ave-maria.
2
Vi possa concedere.
3
Salvarle.
451. La loggia
Ecco. Lui me chiamò, ddisce:
1
«Miscelle,
2
accetté muà una loggia pe sta sera»;
e io che sso che a cchi cconta bbajocchelle
je ggireno le scigne
3
a la testiera,
credenno che vvolessi er zor Tullera
4
magnà lli fichi ar lume de le stelle,
je prese ar cuinto piano una lendiera
lí da strada-Felisce a le Zucchelle.
5
Che vvôi! Come se trova su la loggia,
hai visto ma’ un demonio scatenato?
Me misura un cazzotto e mme l’appoggia.
Chiese
6
una loggia? io lo portai sur tetto.
Chi vvò annà a la commedia, si’ ammazzato,
ecco com’ha da dí: «Ccrompa un parchetto».
7
Roma, 14 novembre 1832 - Der medemo
1
Dice.
2
Michel, ecc.
3
Cigne, per «cinghie».
4
Nome di scherno.
5
Due contrade, la seconda delle quali mette capo sulla
prima.
6
Dimandò.
7
Compera un palchetto.
452. Er ventricolo
1
Inzinent’a
2
ssan Stefino-in-pescicolo
3
sò vvienuti a attaccà li bbullettoni,
dico de sto cazzaccio de ventricolo
che vorrebbe pijjacce pe ccojjoni.
Lui bbutta avanti
4
de parlà cor vicolo
de li tozzi
5
senz’arte de pormoni,
com’er cquarmente drento in ner bellicolo
6
ciavesse ggente, uscelli, e ccan-barboni.
Io dico che ttiè in culo farfarello;
7
e cquesto cquì ch’è er padre d’ogni vizzio
mó lo fa ffà da cane e mmó da uscello.
Si ffussi Papa io, sto solo innizzio
8
m’abbastería pe mmettelo in castello,
o ffottelo addrittura a Ssantuffizzio.
Roma, 15 novembre 1832 - Der medemo
1
Mr. Faugier de Nimes.
2
Insino.
3
S. Sefano-in-piscinula, chiesa e contrada di Roma.
4
Pretende.
5
Gola.
6
Umbilico.
7
Diavolo.
8
Indizio.
453. Li spiriti
Sonetti 5
L’anno che Ggesucristo o er Padreterno
cacciò cquel’angelacci mmaledetti,
tanti che nun agnédero
1
a l’inferno
rimàseno pell’aria su li tetti.
E cquesti sò li spiriti folletti,
che pper lo ppiú se senteno d’inverno
le notte longhe: e a cchi ffanno dispetti
e a cchi jje cricca
2
fanno vince un terno.
3
Tireno le cuperte e le lenzola,
strisceno le sciavatte pe la stanza,
e ppareno
4
una nottola che vvola.
De le vorte te soffieno a l’orecchie,
de le vorte te gratteno la panza,
e ssò nnimmichi de le donne vecchie.
Roma, 16 novembre 1832 - Der medemo
1
Andarono.
2
Va a capriccio.
3
È volgare opinione che gli spiriti diano i numeri pel lotto.
4
Paiono.
454. Li spiriti
Dio sia con noi! Lo vedi, eh? cquer casino
co le finestre tutte svetrïate?
Llí, a ttempi de la Cenci,
1
un pellegrino
de nottetempo ciammazzò un abbate.
D’allor’impoi, a ssett’ora sonate,
ce se vede ggirà ssempre un lumino,
eppoi se sente un strillo fino fino,
e un rumor de catene strascinate.
S’aricconta che un’anno uno sce vorze
2
passà una notte pe scoprí ccos’era:
che ccredi? in capo a ssette ggiorni morze.
3
Fatt’è cche cquanno ho da passà de sera
da sto loco che cquà, pperdo le forze,
e mme ffaccio ppiú bbianco de la scera.
Roma, 16 novembre 1832 - Der medemo
1
L’epoca di Beatrice Cenci, detta dal popolo e conosciuta col nome della Bella Cenci, è per lui un epoca di terrore, e
si annette a tutte idee funeste e terribili.
2
Ci volle.
3
Morì.
455. Li spiriti
3° (vedi il 4°)
Tu cconoschi la mojje de Fichetto:
bbè, llei ggiura e spergiura ch’er zu’ nonno,
stanno una notte tra la vejj’e ’r sonno,
se sentí ffà un zospiro accapalletto.
1
Arzò la testa, e nne sentí un siconno.
Allora lui cor fiato ch’ebbe in petto
strillò: «Spirito bbono o mmaledetto,
di’ da parte de Ddio, che ccerchi ar Monno?».
Disce: «Io mill’anni addietro era Bbadessa,
e in sto logo che stava er dormitorio
cor un cetrolo
2
me sfonnai la fessa.
Da’ un scudo ar piggionante, a ddon Libborio,
pe ffamme li sorcismi
3
e ddì una messa,
si mme vôi libberà ddar purgatorio...».
Roma, 17 novembre 1832 - Der medemo
1
A capo al letto.
2
«Cetriuolo» o «citriuolo».
3
Gli esorcismi.
456. Li spiriti
4° (relativo al 3°)
Un mese, o ppoco ppiú, ddoppo er guadagno
de la piastra, che ffesce er zanto prete,
venne pasqua, e ’r gabbiano
1
che ssapete
cominciò a llavorà de scacciaragno.
2
«Ch’edè? Un buscio
3
ar zolàro!
4
Oh pprete cagno»,
5
fesce
6
allora er babbeo che cconoscete:
«eccolo indove vanno le monete!
7
cche lo scudo mio scerca er compagno?».
Doppo infatti du’ notte de respiro,
ecchete la Bbadessa de la muffa
8
a ddajje ggiú cor zolito sospiro.
«Sor Don Libborio mio, bbasta una fuffa»,
9
strillò cquello; «e lle messe, pe sto ggiro,
10
si le volete dí, dditele auffa».
11
Roma, 21 novembre 1832 - Der medemo
1
Imbecille, zimbello, ecc.
2
All’avvicinarsi della Pasqua di Resurrezione si suole in Roma (e in quell’epoca sola
dell’anno) spazzare le pareti e i soffitti delle case. Lo scacciaragno, nome che benissimo indica l’uso a cui è destinato,
consiste in un fascio di… attaccato in cima ad una pertica o ad una canna.
3
(con la c striscicata). Buco.
4
Suolaio,
soffitto.
5
«Cane»: tolto da cagnaccio, o dal maschio della cagna.
6
Disse.
7
Formula di scommessa; come per esempio:
Va un luigi che tal cosa accade? ecc.
8
Antica: la Badessa de’ mille anni.
9
Qui sta per «gherminella»; vale ancora:
«bugia con malizioso scopo».
10
Per questa volta.
11
Parola significante gratis, che dicesi derivare dalle sigle A. V. F.
poste già dai Romani sulle moli che i popoli soggetti dovevano dirigere ed avviare senza mercede a Roma: cioè Ad
Urbem Ferant.
457. Li spiriti
Burlàtemesce, sí, ccari coll’ogna:
1
voantri fate tanto li spacconi,
2
e cquanno semo a l’infirzà un’assogna
3
poi se manna in funtana li carzoni.
Nun è mmica un inguento pe la rogna
4
quer vedé un schertro in tutti li cantoni:
cquà tte vojjo: a cciarlà ttutti sò bboni,
ma bbisogna trovaccese bbisogna.
So cche da quella sera de la sbiossa
5
ancora sto ppijjanno corallina,
6
e nnun m’arreggo in piede pe la smossa.
7
E cquanno penzo a rritornà in cantina,
me sento li gricciori ggiú ppell’ossa,
me se fanno le carne de gallina.
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
L’equivoco dell’ogna, che in romanesco vuol dire unghie, cade in ciò, che aggiunto quel vocabolo a caro, forma la
parola carogna.
2
Rodomonti, bravi.
3
Sugna.
4
Modo proverbiale: «Non è già una delizia ecc.».
5
Paura, accidente
terribile.
6
Medicina contro le verminazioni intestinali.
7
Mossa, diarrea.
458. L’indemoniate
Tu ffatte legge
1
er libbro che ccià
2
er frate
che pporta er venardí la misticanza,
3
e ssentirai si cquante sce sò state
che jj’è entrato er demonio in de la panza.
Cueste sò, bbella mia, storie stampate,
vite de Santi; e cc’è ttanto c’avanza
de donne che ccredenno
4
gravidanza
s’aritrovorno
5
in cammio affatturate:
perché ar fine der gioco a mmill’a mille
vommitorno
6
li diavoli a lleggione
7
sotto forma de nottole e dd’inguille.
Bbasta che pozzi
8
datte
9
uno stregone
a ingozzà ddu’ capelli e un par de spille,
te sce schiaffa,
10
si vvò, ppuro Prutone.
Roma, 17 novembre 1832 - Der medemo
1
Fatti leggere.
2
Ci ha.
3
I cercatori degli ordini mendicanti girano, e s’introducono portando insalate per le case, a fine
d’ottenere limosine o checché sia.
4
Credendo.
5
Si trovarono.
6
Vomitarono.
7
Legioni.
8
Possa.
9
Darti.
10
Ficca.
459. Le scôle
Sai cuant’è mmejjo a llavorà llumini
1
e a ffrabbicà le cannéle de segó,
2
o annà a le quarant’ore
3
a ffà cquadrini
co le diasille e ccor devoto prego;
che de mette li fijji a li latini
e a bbiastimà ccor paternostro grego,
tra cquella frega
4
de Scisceroncini
5
indove in cammio d’io c’è scritto Diego?
6
Causa de sti vorponi ggesuiti
che sfotteno e ss’inzogneno la notte
come potecce fà ttutti aruditi.
Pe li mi’ fijji a sti fratacci fessi
è ddègheta,
7
e sse vadino a ffà fotte
loro e cquer Papa che cce l’ha arimessi.
Roma, 18 novembre 1832 - Der medemo
1
Lumini per la notte.
2
Candele di sevo.
3
La periodica esposizione della eucaristia per le chiese di Roma per tutto il
corso dell’anno; chiamata dalle Quarant’ore. I ciechi sogliono assidersi in due ale fuori dalle porte del tempio,
invitando i fedeli a soccorrerli, in contracambio di diesille e di devoti preghi, che offrono loro per suffragio delle
anime del purgatorio.
4
Moltitudine.
5
Ciceroncino è chiamato per le scuole il libro delle selectae di M. Tullio.
6
Un
chierico, interrogato dal sagristano come si svolgesse in latino il pronome io, rispose ius, ii. Sagris: Di’ ego.
Chierico: Ah! è vero: Diego, Diegonis.
7
È nulla, è pensiero fallito, ecc.
460. L’Imbo
1
Appena Cristo in barba der pretorio
risuscitò grorioso e ttrïonfante,
volò all’Imbo a ccaccià ll’anime sante
che jje cantorno tutte un risponzorio.
Cuer giorno ebbe comincio
2
er purgatorio,
c’averà dda durà ttutto er restante
der monno, e ffu ccreato er bussolante
pe le messe d’un scudo a ssan Grigorio.
3
L’Angeli all’Imbo vôto sce metterno
4
l’anime de la piscia e dde la nanna,
5
ma cquesto cquà nun durerà in eterno:
e cquanno ar giorno de la gran condanna
nun resterà che pparadiso e inferno,
chi ssa allora si Ddio dove le manna.
6
Roma, 19 novembre 1832 - Der medemo
1
Il limbo.
2
Principio.
3
È pia credenza che per ispeciale indulgenza concessa da’ Pontefici alla Basilica di S. Gregorio,
ogni messa cantata colla elemosina di uno scudo liberi tostamente un’anima dal purgatorio.
4
Misero, posero.
5
I
bambini a’ quali si canta dalle madri la nanna.
6
Manda.
461. La partita a carte
Arigalata, eccí!
1
cche bber rampino!
2
Vedi un po’ de vennécce
3
er zol d’agosto!
4
Tu mmó a sto ggioco sce fai tanto er tosto,
5
e nu la vôi capí cche ssei schiappino.
6
Inzomma è ppatto-fatto c’a ’gni costo
hai da vince ogni sera er tu’ lustrino.
7
Ma nun zai stacce un cazzo ar tavolino.
Và ar muricciolo,
8
và, quello è ’r tu’ posto.
Guarda io,
9
che cco ttutta la mi’ jjella
10
pago com’un zignore la mi’ pujja
senza d’ariscallamme le bbudella.
E nun fò ccom’e tté ttutta sta bbujja,
11
che appena vedi un pò de svenarella,
12
te bbiastími
13
er pastèco e lla lelujja.
14
Roma, 19 novembre 1832 - Der medemo
1
Suono derisorio dello starnuto.
2
Pretesto, cavillo.
3
Venderci.
4
Proverbio.
5
Il bravo.
6
Principiante, inabile.
7
Mezzo
paolo d’argento, detto anche grossetto.
8
Giuocator da murelli per le pubbliche vie.
9
Guarda come io, ecc.
10
Disgrazia
ostinata.
11
Buglia.
12
Perdita lenta e continua.
13
Bestemmi.
14
Pax tecum; alleluja.
462. La fijja ammalata
Ccos’è, ccos’è! cquer giorno de caliggine
lei vorze
1
annà dde filo
2
ar catechisimo?
Bbè, in chiesa j’ario
3
cquela
4
vertiggine
ch’er dottore la chiama er passorisimo.
5
Mó er piede che cciaveva
6
er rumatisimo
je se fa nnero come la fuliggine,
e nnun ce sente manco er zenapisimo:
li spropositi, fijja:
7
ecco l’origgine.
Smania che in de la testa cià
8
uno spasimo
che mmanco pò appoggialla ar capezzale...
Te pare bbrugna
9
da nun stà in orgasimo?
Ha er fiatone,
10
ha un tantin d’urcere in bocca...
Pe mme, ddico che sgommera;
11
e a Nnatale
Dio lo sa cche ppangiallo
12
che mme tocca.
Roma, 19 novembre 1832 - Der medemo
1
Volle.
2
Per forza.
3
Le ripeté. Traslato tolto dal giuoco di dadi, chiamato dell’Oca, dove ciascuna volta che
arrestandosi sopra un punto nelle case, dispostevi in numero di 61, vi si trova segnata un’oca, si ripete in avanti il
punto. Quindi il riocare.
4
Medesima osservazione, tra arioco e cquela, che si trova in nota al sonetto Er leggno a
vvittura.
5
Parossismo.
6
Ci aveva.
7
Qui è termine di sola benevolenza.
8
Ci ha.
9
Disastro rilevante.
10
Affanno.
11
Sgombra: traslato preso dallo sgombro delle case, che in Roma dicesi lo sgommero. Qui sta per «partire dal mondo».
12
Specie di pane, con mandorle e uve appassite, che mangiasi a Natale. Esso è colorito sovente con dello zafferano.
463. Sesto nun formicà
1a
Te laggni che ttu’ mojje te tormenta
e abbraccichi
1
la notte un zacco-d’ossa!
Tu ffajje sbucalà
2
men’acqua rossa,
3
tiettel’a ccasa, e mmettela a ppulenta:
4
eppoi vedi, peddìo!, si tte diventa
com’una vacca o ’n’antra bbestia grossa,
e ssi in nell’atto de dajje
4a
la sbiossa
5
ce senti entrà l’uscello che cce stenta.
Grasse o ssecche, lo so, ssempre sò ssciape
le mojje appett’a un po’ de puttanella:
ma pe cqueste sce vô ffette de-rape.
6
Tratanto, o ssecca o nnò, ttu’ mojje è bbella;
e ssibbè
6a
cche un po’ ccommido sce cape,
Titta, da’ ggrolia
7
a ddio, freghete cuella.
Roma, 19 novembre 1832 - Der medemo
1a
Sesto precetto del Decalogo: «Non fornicare».
1
Da abbraccicare, cioè «abbracciare».
2
Votar boccali.
3
Vino.
4
Comunissima usanza di chi vuole ingrassare.
4a
Darle.
5
Assalto.
6
Piastre, le quali monete per la figura e colore
somigliano ecc.
6a
Sebbene.
7
Gloria.
464 . Nun mormorà
Che ssò ste bbaggianate,
1
eh, sor cachemme,
2
sti sghigni,
3
sti scì-scì,
4
sti zzirlivarli?
5
Ggià, cquesto è ’r vizzio tuo: tu cciarli sciarli
6
perché ssei stato a sspasso in Bettalemme.
7
Ma io v’avviso, sor cazzo coll’emme,
8
che un antro tantinello che mme tarli
la fremma, t’inzegn’io come che pparli,
e vviemme doppo a ssoffià in culo,
9
viemme.
10
Io bbado ar fatto mio: ciò la commare,
nun ce ll’ho, vvado, viengo..., e ccredo d’èsse
er padrone de fà cquer che mme pare.
De mé nun te pij tant’interresse;
e ffinimo una vorta ste cagnare,
si nun ce vôi bbuscà le callalesse.
11
Roma, 19 novembre 1832 - Der medemo
1
Sciocchezze vanitose.
2
Menantino.
3
Ghigni.
4
Ci-ci, cicalamento a bassa voce in tono di mormorazione (c
striscicato).
5
Girandole di parole e di condotta.
6
Dopo l’accentuazione potenziale della tu, la c del primo ciarli va
forzata come doppia; la seconda c poi va strisciata appresso a sillaba breve.
7
Equivoco di bettola.
8
Cioè: «cazzo m.,
cazzo matto».
9
Consimile al dammi di barba.
10
Ripetizione di verbo usata dai Romaneschi e da molte altre plebi
italiane.
11
Colpi.
465. L’ammantate
1
Ah fu un gran ride e un gran cascerro
2
gusto
quer de vede passà ttante zitelle
co la bbocca cuperta, er manto, er busto,
le spille, er zottogóla, e le pianelle!
Tutte coll’occhi bbassi ereno ggiusto
da pijjalle pe ttante monichelle,
chi nun sapessi cuer che ssa sto fusto
3
si cche ccarne sce sta sotto la pelle.
Nerbi-grazzia, Luscía l’ho ffregat’io:
Nena? ha ffatto tre anni la puttana,
e Ttota è mmantienuta da un giudio.
E la sora Lugrezzia la mammana
4
n’ariconobbe dua de bborgo-pio:
5
inzomma una ogni sei nun era sana.
Roma, 20 novembre 1832 - Der medemo
1
Vedesi la nota 3 del Sonetto intitolato La Nunziata. Qui solo si aggiunga che le dotate non vogliono andar esse stesse
personalmente alla processione, ma vi mandano altre in lor luogo con la mercede di cinque paoli.
2
«Soddisfacente»,
contrario a tareffe, «spiacevole, guasto, ecc.»: voci entrambi entrambe tolte agli Ebrei del Ghetto di Roma.
3
La mia
persona.
4
Ostetrica.
5
Contrada di Roma presso il Vaticano.
466. Una Nova nova
Trapassanno cor bùzzico
1
dell’ojjo
pe annà da la Petacchia a Ttor-de-specchi,
2
te vedo una combriccola de vecchi
lí a le Tre-ppile,
3
appiede ar Campidojjo.
Staveno attenti a ssentí llegge un fojjo
co ccert’occhi ppiú ggrossi de vertecchi,
4
e in faccia a ttutti mascilenti e ssecchi,
je se scropiva
5
er zegno der cordojjo.
Uno trall’antri a l’improviso strilla,
dannose in zu la fronte una manata:
«Ah ppovera Duchessa de Bberilla!
6
A ccosa t’è sservito, sciorcinata,
7
de sapé sscivolà
8
com’un’inguilla?
Sti nimmichi de Ddio t’hanno fregata».
9
Roma, 20 novembre 1832 - Der medemo
1
Vaso di latta con sottilissimo e lungo rostro, da riporvi olio per uso giornaliero.
2
Due contrade di Roma, laterali al
Campidoglio.
3
Piccolo spazio che prende nome da una colonna su cui sorgono le tre pignatte, stemma di un
Pignatelli, papa.
4
Vedi la nota 2 del Sonetto… intit.° Monziggnor Tesoriere, ove si la spiegazione di questo
vocabolo.
5
Scopriva.
6
Di Berry.
7
Disgraziata (ciorcinata con la prima c strisciante).
8
Sdrucciolar via.
9
Te l’han fatta:
t’hanno oppressa, presa ecc.
467. Li du’ Sbillonesi
1
Pare chiaro oramai, fijji mii bbelli,
che ttutto abbi d’annà a la bbuggiarona!
Cquà vvedete che razza de ggirelli
2
ciavémo attorno, e Iddio come sce sona.
Ma in cap’ar monno sce ne sò dde cuelli
co un ciarvello, per dio!, che nun cojjona.
Nun fuss’antro ste furie de fratelli
de cuer paese orbo
3
de Sbillona.
Se chiameno Don Pietro e Ddon Micchele,
ma vvolenno ammazzasse a ttradimento,
per me, li chiamería Caìno e Abbele.
E cquanno che ppoi semo a una scert’ora
de scannà er Monno pe stà ffora o ddrento,
bbuggiarà cquello drento e cquello fora.
Roma, 20 novembre 1832 - Der medemo
1
Lisbonesi.
2
Pazzi.
3
Cioè: «paese rimoto, sconosciuto».
468. La sscerta
1a
Sta accusí. La padrona cor padrone,
volenno marità la padroncina
je portonno davanti una matina,
pe sscejje, du’ bbravissime perzone.
Un de li dua aveva una ventina
d’anni, e ddu’ spalle peggio de Sanzone;
e ll’antro lo disceveno un riccone,
ma aveva un po’ la testa scennerina.
1
Subbito er giuvenotto de cuer paro
2
se fesce avanti a ddí: «Sora Luscía,
chi vvolete de noi? parlate chiaro».
«Pe ddilla,
3
me piascete voi e llui»,
rispose la zitella; «e ppijjeria
er ciscio vostro e li quadrini sui».
Roma, 21 novembre 1832 - Der medemo
1a
Scelta.
1
Cenerina, canuta.
2
Paio.
3
Per dirla.
469. L’incrinnazzione
Sèntime: doppo er Papa e ddoppo Iddio
cquer che mme sta ppiú a ccore, Antonio, è er pelo:
per cquesto cquà nun so nnegatte
1
ch’io
rinegheria la lusce der Vangelo.
E ssi dde donne, corpo d’un giudio!,
n’avessi cuante stelle che ssò in celo,
bbasta fussino bbelle, Antonio mio,
le voría fà rrestà tutte de ggelo.
2
Tratanto, o per amore, o per inganno,
de cuelle c’ho scopato, e ttutte bbelle,
ecco er conto che ffo ssino a cquest’anno:
trentasei maritate, otto zitelle,
diesci vedove: e ll’antre che vvieranno
stanno in mente de Ddio: chi ppò sapelle?
3
Roma, 21 novembre 1832 - Der medemo
1
Negarti.
2
Far restar di gelo, gelare, cioè: «ammaliare, istupidire, rendere inabile a difesa o resistenza».
3
Saperle.
470. La sposa
1
Eppuro, avanti a tté, ccore mio bbello,
sibbè cche ssana nun me ciai trovata,
gnisunantro m’ha ffatto er giucarello
e ècchete la cosa com’è annata.
2
Un giorno in d’un ortaccio a Mmarmorata,
pe ccure
3
appresso a un maledett’uscello,
scivolo:
4
un pass’in farzo, una scossciata,
’na distrazzion de nerbi…,
5
ecco er fraggello!
6
Pe ffatte vede
7
che nun zò bbuscíe,
te dico che ffu ttanta la pavura,
che m’agnédeno
8
via le cose mie.
9
Eppoi me pare ’na caricatura
sto sano o rotto, e ste cojjonerie:
io ciò er buscio? e ttu er cazzo che l’attura.
Roma, 21 novembre 1832 - Der medemo
1
(Colla o chiusa).
2
Andata.
3
Correre.
4
Sdrucciolo.
5
Una distorsione di nervi.
6
Ecco il gran caso!
7
Per farti vedere.
8
Andarono.
9
I mestrui.
471. L’ammalata
Te penzi io
1
forze,
2
in ner chiamatte magra,
che ccojjoni la fiera che ccojjoni?
3
Batteme sodo:
4
nun risponne agra:
cosa te senti? hai male a li rognoni?
5
Tienghi mai, pe ffurtuna,
6
li tinconi?
Hai, che sso..., la renella? hai la polagra?
Questa ggià nnò, perch’è mmalatia sagra.
de sti servi-de-ddio nostri padroni.
Dimme cos’hai, eppoi te fo un rigalo:
ch’io so gguarí co un ritornello solo
come ch’er paternostro abbogni malo.
Senti che ggran virtú! Fior de fasciolo,
7
sposa,
8
lo so pperché mme fai sto calo:
t’ha ffatto male er zugo de scetrolo.
9
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Questa specie di sintassi è molto in uso fra la plebe di Roma, che a regolarla si dovebbe dire: Pensi tu forse che io,
nel chiamarti magra, coglioni ecc.
2
Pron. Con la o chiusa e con la z aspra: forse.
3
Modo proverbiale, e ripetizione
usuale di verbo in una frase.
4
Stammi in tuono.
5
Arnioni.
6
Per caso.
7
Questo è il ritornello, specie di breve canto, o
quasi epigramma, che principiando col nome di un fiore, rinchiuso quasi sempre in un verso quinario, scioglie poscia
il pensiero in due endecasillabi, rimati tutti e tre i versi a bisticcio. Talora il primo verso può essere endecasillabo
anch’esso, e allora richiude sempre la benedizione del fiore; per esempio: Io benedico il fiore di fasciolo / Spósa lo so
ecc. Ecco l’unica poesia che può veramente attribuirsi alla plebe romana. In un accademia letteraria di Roma, un
accademico disse la sera del venerdì santo: «Fiore di noce, / Il povero mio cuor non ha più pace / Oggi ch’è morto il
Redentore in croce/».
8
Pron. Con la o chiusa e la s sibilante. Il nome di sposa si dà a qualunque stato di donne.
9
Sugo
di cetriuolo: equivoco di ecc.
472. Libbertà, eguajjanza
Perché tte scanzi? Nun zò mmica un porco
che tte vienghi a intrujjà l’accimature.
1
Ih cche sspaventi! e ccos’hai visto? l’orco
2
che vviè a mmette in ner zacco le crature?
Cuanno che tte s’accosta Peppe er zorco,
3
a llui nun je le fai ste svojjature!
Ma un giorno o ll’antro co ste tu’ pavure,
mignottaccia mia bbella, io te sce corco.
4
Cuesto, Dio sant’e ggiusto, è cche mme cosce,
ch’io sto a stecchetta e cquello affonna er dente:
c’uno ha dd’avé la vosce, uno la nosce.
5
Da un cazzo all’antro nun ce curre ggnente;
e ’r Zignor Gesucristo è mmorto in crosce
pe ttutti quanti l’ommini uguarmente.
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
A infecciare le gale.
2
Larva che prende origine dall’Orcus de’ latini, col traslato da luogo a soggetto pauroso.
3
Sorco
(la s in z dopo la consonante).
4
Colco.
5
Modo proverbiale: «Uno ha la rinomanza, uno la realtà».
473. Le vojje de gravidanza
E cchi li pò spiegà ttutti st’impicci
che ffa Iddio ne le cose de natura?
E mmó un abborto, e mmó ’na sconciatura,
mó un farzo-parto, e ttant’antri pasticci!
E le vojje sò ppochi antri crapicci?
Nun ciamanca
1
che vvede una cratura
2
de nasce e pportà in fronte la figura
de piastre sane o dde quadrini spicci;
3
perché tutte le sorte de le vojje
che ppòzzino
4
fà ar monno maravijja,
se sò vvedute da che mmojje è mmojje.
E cquesto lo pò ddí la mi’ madregna
si una parente sua fesce una fijja
co ’na vojja de cazzo in zu la fregna.
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Ci manca.
2
Creatura.
3
Moneta sciolta, minuta.
4
Possano.
474. Er diavolo
Un giorno Rugantino
1
der casotto,
2
liticanno un goccetto
3
co la mojje
pe vvia de scerte bbuggere de vojje,
perze
4
la fremma e jje gonfiò
5
un cazzotto.
«Diavolo porta via sto galeotto
che mme sfraggella indove cojje cojje»,
strillò Rrosetta:
6
e, tràcchete,
7
se ssciojje
un lampo, e scappa er diavolo de sotto.
Cquà Rrugantino, appena c’uscì ffora,
je disse: «Avete mojje voi, sor diavolo?».
E er diavolo arispose: «Nonzignora».
8
Ma ddannoje un’occhiata ar capitello,
9
repricò ll’antro: «Nonzignora un cavolo!
Cuesta nun è ccapoccia da zitello».
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Personaggio rappresentante il romanesco. Il suo carattere è però quello della presunzione mista alla viltà, e ciò in
fatto di contese che va sempre accattando.
2
Piccolo teatrino ambulante, i di cui fantocci muovonsi per di sotto da una
mano introdotta in una specie di veste ch’essi hanno in luogo di gambe. L’indice della mano penetra per via d’un fòro
nel capo, e il medio e il pollice nelle due braccia, e così agitati fannosi i fantocci apparire al casotto come affacciati ad
un parapetto.
3
Alquanto.
4
Perdé.
5
Scaricò.
6
Altro personaggio solito ecc.
7
Suono imitante il romore di una porta o
checché altro che si scuota o subitamente apparisca.
8
Nonsignore, ma i Romaneschi ed anche molti Romani dicono
nonsignora e sissignora anche ai maschi.
9
Testa.
475. La madre der cacciatore
E ssempre, Andrea, sta bbenedetta caccia
co sti compagni tui priscipitosi!
Oggi sei stato inzino a Mmonterosi
1
e stanotte aritorni a la Bbottaccia!
2
A mmé nnun me parlà de sti mengosi,
3
de st’archibbusci tui senza focaccia:
3a
sai che sso io? che ffai troppa vitaccia:
sai che mme preme a mmé? che tt’ariposi.
Un giorno a ttordi, un antro a ppavoncelle,
mó a bbeccacce, mó a llepri, mó a ccignali...
4
Ne vôi troppo ne vôi da la tu’ pelle.
Fijjo, io ppiú te conzidero e ppiú ccali:
Andrea, le carne tue nun zò ppiú cquelle:
crèdime, fijjo mio, tu mme t’ammali.
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Paese a venticinque miglia da Roma, sulla via Cassia.
2
Tenuta dell’agro-romano.
3
Termine venatorio, significante un
numero di cento uccelli.
3a
A percussione.
4
Cinghiali.
476. Er vitturino saputo
Hai torto marcio, e tte daría, per Cristo,
la forcina de stalla in de la testa.
Dio sagrataccio! e cquanno mai s’è vvisto
che ssenza argianfettú sse soni a ffesta?
Te sei vorzuto mette cuella vesta
de chiricaccio? impara a ffà dda tristo:
sinnò ttu pporterai sempre la scesta
1
pell’antri,
2
e ssempre te daranno er pisto.
Senza strozzo
3
e cche vvôi sce s’ariscota
da sti pretacci fijji de carogna,
che nnun vonno avé mmai la panza vôta?
Cquà bbisogna sapé vvive, bbisogna.
Vôi trottà ssenza frusta? ogne la rota:
4
la rota strilla? e ttu ddajje l’assogna.
4
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Cesta (c strisciata)
2
Altri.
3
Regali che otturano la gola alle parole della verità.
4
Modi proverbiali che importano
«donare e piaggiare».
477. L’esame der Zignore
Doppo che Ggesucristo fu llegato
pe cquer baron futtuto de Scariotto:
doppo che dda un ruffiano screanzato
de la sor’Anna ciabbuscò
1
un cazzotto:
doppo che ffu dar Papa arinegato
c’arispose a la serva: «Io me ne fotto»;
lo portonno ar Pretorio de Pilato
ch’era lui puro un antro galeotto.
Poi da Pilato fu mmannato a Erode:
poi da Erode a Ppilato,
2
in compagnia
de Caifasso e ddell’angelo-custode.
Disse allora Pilato: «Sor Gesù,
sete voi Cristo er Re de la Ggiudìa?».
E Ccristo j’arispòse: «Dichi tu».
3
Roma, 22 novembre 1832 - Der medemo
1
Ci buscò.
2
Mandare da Erode a Pilato è comunissimo proverbio in Roma, per esprimere quella specie di giuoco in
cui due persone tengono talora una terza, dipendente da esse per alcuno suo affare.
3
Modo attualmente nelle bocche
del popolo intiero, per iscopo e in circostanza di dare una mezza opposizione al dir d’altri. Per esempio: «Io sono
giusto». «Dichi tu». «Voglio bastonarti». «Dichi tu».
478. Er Paradiso
No, Rreggina
1
mia bbella, in paradiso
nun perdi tempo co ggnisun lavoro:
nun ce trovi antro che vviolini, riso,
e ppandescèlo,
2
ciovè ppane d’oro.
Là, a ddà udjenza ar giudio, pòzz’èsse acciso!,
3
nun ce metteno er becco
4
antro che lloro,
5
come si ttutto-cuanto sto tesoro
fussi fatto pe un cazzo scirconciso.
6
Ecco che ddisce
7
sto ggiudío scontento:
8
«Sopra li leggi vecchi, mordivoi,
per vita mia! sta tutto el fonnamento».
9
Ma llui nun zà
10
che Ggesucristo poi
ner morí fesce un’antro testamento,
e ’r paradiso l’ha llassato a nnoi.
Roma 23 novembre 1832 - Der medemo
1
Regina è presso il popolo un comune nome battesimale.
2
Panem de coelo.
3
Modo tolto dal vernacolo napoletano.
4
Mettere il becco, cioè: «penetrare».
5
Essi (con entrambe le o larghe).
6
Circonciso (con la c strisciata).
7
Dice.
8
Sgarbato, spiacevole.
9
Maniera di parlare degli ebrei romani. Mordivói è una parola con la quale esclamano nel
parlare altrui, o se ne servono come di voce pronominale di apostrofe. Per vita mia, uno de’ giuramenti ebraici.
Fondamento con la e larga.
10
Non sa.
479. L’immasciatore
1
Ne le carrozze che mmó avemo trovo
co llacchè avanti e sservitori appresso,
c’è er Ministro der Re ch’è annato ar covo
2
de cuer paese c’hanno fatto adesso.
3
Disce
4
che jj’abbi detto er Re a un dipresso:
«Conte, vattene a Rroma in borgo-novo,
5
e ddí ar Papa, a mmi’ nome, ggenufresso:
Santo Padre, accusí me l’aritrovo».
6
Questi sò ttutti fatti piani piani;
ma nun s’intenne come un Conte solo
s’ha dda chiamà Cquattordisci Villani!
7
Val’a ddí ch’er zor Conte noi Romani,
ogni cuarvorta che cce va a ffasciolo,
8
lo potémo chiamà Du’ Velletrani.
9
Roma, 23 novembre 1832 - Der medemo
1
Il Ministo del Belgio, che presentò le sue credenziali al Papa il 23 novembre 1832.
2
Espressione beffarda, che vale
«che è andato a occupare» ecc.
3
Il nuovo Regno.
4
Dicono, dicesi.
5
Il Vaticano, odierna residenza del Pontefice, è in
fine di quel Borgo.
6
Formula che il Romanesco, al giuoco d’azzardo così detto del marroncino, pronunzia nel gettare
una moneta, quasi protesta contro gli eventi contrari del suo giuoco.
7
Vilain XIV.
8
Ogni qualvolta ci piaccia.
9
Il popolo
di Roma chiama i cittadini di Velletri: Velletrani, sette volte villani.
480. L’appiggionante de sù
Uhm, ce penzerà llui. Io je lo predico:
«Nun pijjà le pedate, Andrea, de tanti
che mmó vviengheno sú: nun fà l’eredico:
bburla li fanti e llassa stà li santi».
1
Ebbè, che ffò? Me sfedico me sfedico,
2
e llui sagrata
3
peggio, e ttira avanti.
E ssemo a un punto ch’er curiale e ’r medico
nun ce vònno avé ppiú pe appiggionanti.
E indove trovo un’antra stanzia sfitta
c’abbi loco, cammino e ssciacquatore
come ciò pe ssei giuli in sta suffitta?
Ecco cosa vò ddí un biastimatore!
Dijje tu cquarche ccosa; e ffallo, Titta,
rifrette a la cuscienza e a l’esattore.
Roma, 24 novembre 1832 - Der medemo
1
Modo proverbiale.
2
Mi sfegato: mi affanno.
3
Bestemmia.
481. Tant’in core e ttant’in bocca
Nun ze disce pe ddí, se fa pe un detto,
dico... se sa si ccome sò le cose:
le regazze... héhé..., cquer fasse spose!...
1
Eppoi, dico, ch’edè? l’ha ttrovi a lletto?
Disce: Ma!... che vvôi ma? Cquant’ar zoggetto...
crederia... Tutti ggià ffanno scimose,
2
dico, ma in fin de fine... Eh? c’arispose?
Arispose... Ma pparla pe ddispetto.
P’er fijjo mio, nun fo pe ddí, lo sai
si ppò ttrovà... Magara la lasciassi!
Ma mme caschi la lingua, si jj’ho mai...
Oh cquesto no: perché... de che sse lagna?
Disce: Sta ssola! e llei nun ce la lassi:
chi er cane nu lo vò ttienghi la cagna.
3
Roma, 24 novembre 1832 - Der medemo
1
Coll’o chiuso.
2
Far cimose (c strisciato), aggiunger lana al drappo, vale: «dir più del vero».
3
Modo proverbiale.
482. Er fornaro furbo
Cuer panzanera
1
der Curato mio
nun me guardava ppiú ssino da ggiugno.
Che ddiàscusci
2
averà, discevo io,
sto frate cane che mme svorta er grugno?
3
Che ffò! Mm’infirzo un giorno er cudicugno,
4
e jje faccio la caccia in borgo-pio:
passa: io me caccio er fongo ar Padre Zugno:
5
lui secco secco m’arisponne: «Addio».
E io: «Padre Curato, in parrocchietta
6
troverete una pizza...» «Oh Mmeo! bbon giorno.
Cosa fai, fijjo mio? come sta Bbetta?
Checchino cresce? te va bbene er forno?».
M’acchiappa er zampo,
7
me sce dà ’na stretta,
poi curre a ccasa; e cche cce trova? Un corno.
Roma, 24 novembre 1832 - Der medemo
1
Nome dato a’ più abbietti della plebe.
2
Diavolo.
3
Viso.
4
Abito.
5
Nome di sprezzo.
6
Stanza di residenza del parroco.
7
Mi afferra la mano.
483. Li preti a ddifenne
1
Parlo latino? Te l’ho ddetto gglieri,
2
e bbisogna che mmó tte l’aripeti?
A mme nun me dí mmale de li preti;
o ddiventamo du’ nimmichi veri.
Saranno paggnottanti,
3
culattieri,
4
ladri, canajja, e cquer che vvôi; ma cquieti:
5
noi nun dovemo entracce in sti segreti,
e ttutti hanno da fà li su’ mestieri.
Senza tante raggione che mme porti,
noi avemo da véde e stacce zitti,
amalli vivi, e rrispettalli morti.
Ciài da cavamme fora antri delitti?
Ebbè ssi vvanno co li colli storti,
6
nun potranno portà li colli dritti.
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
1
I preti a difendere, cioè: «I preti difesi».
2
Ieri.
3
Parassiti.
4
Sodomisti.
5
Imperativo, vale: «zit! silenzio!».
6
Collitorti:
ipocriti.
484. La puttana e ’r pivetto
1
Ma gguardatele llí cche bbelle poste!,
2
che ccapitali da mmettémme gola!
Oh annate a ddà la sarciccetta
3
all’oste:
annate a ffà la cacca a la ssediola.
Animo, lesto, sor fischietto,
1
a scôla;
e nnun ce state ppiù a ggonfià le coste:
4
e ssi cciavéte a pparte la pezzola,
5
currétesce a ccrompà
6
le callaroste.
7
Ma ddavero le purce hanno la tosse?
8
Cosa, peccristo, da pijjalli a schiaffi,
e ffajje diventà lle guance rosse.
Scopamme! lui! ma llui! vedi che ccacca!
9
Cquà cce vonno, per dio, tanti de bbaffi,
nò un zorcio com’e vvôi sopra ’na vacca.
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
1
Ragazzo.
2
Avventori.
3
Salsiccetta.
4
Gonfiar le coste, vale: «molestare, annoiare».
5
Sogliono i fanciulli porre in serbo
le loro monete o in vaso in cui è praticata una sottil feritoia che ne permetta l’accesso e non l’egresso, oppure involte e
legate in una pezzolina.
6
Comprare.
7
Caldarrosto.
8
Proverbio, significante la vanità nell’impotenza, o la pretensione
senza dritto.
9
Arroganza, pretenzioncella.
485. La vecchia pupa
1
Dichi davero, Ggiosuarda, o bburli?
Che tte sei messa in fronte stammatina?!
Si’ bbuggiarata! Oh bbutta via sta trina,
e aristènnete ggiú sti cuattro sciurli.
2
Pe ffatte camminà, vvecchia scquartrina,
3
mommó cce vonno l’argheni e lli curli,
4
e cco sti sciaffi
5
vôi fà ddatte l’urli?
vôi bbuscà le torzate? o annà in berlina?
Oh vvarda cquì sta vecchia matta, varda,
si cche ffreggne de grilli
6
s’aritrova,
e mme pare er cartoccio d’una sciarda!
7
Cojjóni, cazzo!
8
ogni ggiorno una nova?!
Ma ddavero davero, eh Ggiosuarda,
che ttu vvôi famme guadagnà ccent’ova?
9
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
1
La vecchia bambina.
2
«Ciocche», o, come dicesi a Roma, frezze, di capelli rarissimi e sparse qua e per cotenna.
3
Sgualdrina, cioè: «donnuccola vanarella».
4
Legni di figura cilindrica da sopporsi ai gravi esposti al tiro, onde
scorrano.
5
Ciaffi: ornamenti meschini e affastellati (c strisciata).
6
Razza di capricci.
7
Cialda.
8
L’accento enfatico di
questa esclamazione deve cadere sulla seconda sillaba della prima parola, come si dicesse per esempio: Salùte, per
bacco! Bràvo, caspita!
9
Si vuole in Roma che ne’ tempi passati si donassero cento uovi a chi conducesse un pazzo al
reclusorio della Via della Lungara.
486. Lo specchio
Rosa, nun fà la sscimmia
1
a le compagne:
bbada, nun te guardà ttanto a lo specchio:
Rosa, fijja, aricordete der zecchio
2
che rride ne l’annà, nner viení ppiagne.
Disce un libbro stampato in de le Spagne
che in cuer vetraccio ciapparisce un vecchio,
nero, co li capelli de capecchio,
3
e in fronte tanti
4
de spazzacampagne.
5
Segno
6
che lo specchiasse è un gran peccato,
ogni-cuarvorta
7
sce se fa st’acquisto,
ch’è dde vedécce er diavolo incarnato.
Antro
8
ch’er padreterno nun l’ha vvisto:
lui solo in cuesto è ssempre affurtunato,
che, specchiannose in zé, cce trova Cristo.
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
1
Non imitare, ecc.
2
Secchia d’attingere l’acqua.
3
Dicesi in Roma anche caperchio.
4
Nel profferire questa parola, si
deve colla mano destra sul braccio sinistro accennare una misura.
5
Qui per «corna».
6
Cioè: «Questo è un indizio che»
ecc.
7
Ogni qual volta.
8
Cioè: «Non v’è altri che» ecc.
487. Papa Leone
Prima che Ppapa Ggenga annassi sotto
a ddiventà cquattr’ossa de presciutto,
se sentiva aripète da pertutto
ch’era mejjo pe nnoi che un ternallotto.
Cquer che fasceva lui ggnente era bbrutto,
cuer che ddisceva lui tutto era dotto:
1
e ’gni nimmico suo era un frabbutto,
un giacubbino, un ladro, un galeotto.
Ma appena che ccrepò, tutt’in un tratto
addiventò cquer Papa bbenedetto
un zomaro, un vorpone, un cazzomatto.
E accusí jj’è ssuccesso ar poveretto,
come li sorci cuann’è mmorto er gatto
je fanno su la panza un minuetto.
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
1
Dir cose dotte equivale in Roma, in espressione, all’essere dotto.
488. Er Concrave
Ganassa, hai visto mai queli casotti
dove se fanno vede l’animali?
Ccusí in concrave, in tanti cammerotti,
sò obbrigati de stà lli Cardinali.
Da pertutto ferrate, bbussolotti,
rôte, cancelli, sguizzeri, uffizziali,...
e inzino le cassette e ll’orinali
hanno d’avé li su’ sarvi-condotti.
Je se porta er magnà ’n una canestra,
e ppe ppaura de quarche bbijjetto
se visita inzinent’a la minestra.
Quarche vvorta però, tra ttant’impicci,
poterebbe passà p’er vicoletto
un pasticcio ripieno de pasticci.
Roma, 25 novembre 1832 - Der medemo
489. Er Papa novo
Stavo ggiusto ar pilastro der cancello
der cuartiere a cciar co lo scozzone,
in ner mentre smuronno er finestrone,
e sbusciò er Cardinale cor cartello.
1
E io sò stato stammatina cuello
ch’è entrato er primo drento in ner portone
cuanno er Papa saliva in carrozzone,
e l’ho arivisto poi sott’a ccastello.
2
Poi sò ccurzo a Ssampietro; ma le ggente
ereno tante in Chiesa, bbuggiaralle,
che de funzione nun ne so ddí ggnente.
In cuanto sia portallo su le spalle
l’ho vvisto, ma vvolevo puramente
3
vedé ccome je bbrusceno le palle.
4
Roma, 26 novembre 1832 - Der medemo
1
Il primo Cardinale Diacono che si affaccia alla loggia, appena smurata, ad annunciare al popolo la nuova elezione.
2
Il Castello S. Angiolo, già sepolcro di Adriano, posto al di del ponte Elio (oggi pariamente S. Angiolo), sotto il
quale passa il corteggio del nuovo Papa che va ad incoronarsi al Vaticano.
3
Pure, ancora.
4
È opinione romana che la
stoppa che si brucia avanti al nuovo pontefice nella funzione della incoronazione, per simboleggiare la vanità della
gloria, sia figurata in alcuni globuli di quella materia. Qui equivoco.
490. Li du’ coraggi
A tté ffa ttanta spesce
1
de Peppetto,
perché jerammatina a Pponte-Sisto,
come nun fussi fatto suo, l’hai visto
pijja co ttanta grazzia er cavalletto?!
2
Che ss’avería da dí de Ggesucristo,
cuanno cuer popolaccio mmaledetto
lo legò ccom’un Cristo
3
immezzo ar ghetto
4
a la colonna, e jje sonò cquer pisto?
5
La carne, hai da capí, che ppe ’gni bbotta
ne le coste, sur culo, e pe le spalle,
cascava a ppezzi come fussi cotta.
E llui, senza avé ppiú mmanco le palle
sane pe cquelli fijji de miggnotta,
cosa fasceva lui? Stava a ccontalle.
6
Roma, 26 novembre 1832 - Der medemo
1
Specie.
2
Supplizzio di colpi di nerbo sull’ano.
3
Legar come un Cristo, vale in Roma: «legare fortemente».
4
Ricinto
ove sono in Roma chiusi gli Ebrei.
5
Flagellamento ecc.
6
Numero 6666 battiture.
491. Er falegname
Cquà, ragazzino, alò, ppijja er martello,
le tenajje, la sega, du’ codette,
li rampini, li chiodi, le bbollette,
la pianozza, la squadra e lo scarpello.
Mettece l’ascia, le lime, l’accette,
la raspa, er piommo, er trapano, er trivello,
du’ vite, una strettora, er callarello
de la colla, lo stucco, e un par de fette.
1
E annamo a vvisità sto corritore
che mmette tra la cchiesa e ’r rifettorio,
dov’è entrato de notte er confessore.
Ma ppoi? c’è ll’orto, er tetto, er parlatorio,
le cantine, er cammino, er cacatore,
e, cchi cce vò rrugà,
2
ppuro er cibborio.
Roma, 26 novembre 1832 - Der medemo
1
Tavole greggie.
2
Chi più ne volesse, chi facesse opposizione, ecc.
492. Er zegatore
1
Lassa che vvienghi: io nun je curro appresso:
me perzéguiti o nnò, ssò ssempre uguale.
Io? nemmanco a le bbestje io je fo mmale:
amo er prossimo mio com’e mme stesso.
Ma cche sse crede? c’a inzurtamme
2
adesso
su la strada, o in bottega, o ppe le scale,
lui me pijji er desopra? è ttal’e cquale:
arrosto è ssempre arrosto, e allesso allesso.
Chi er fosso vò scavà, ccasca in ner fosso:
chi ccerca de fregà
3
ll’antri, se frega:
e io sò pe li su’ denti un gran dur’osso.
È ssempre er legno che ccede in bottega;
o cche la sega je lavori addosso,
o cche llavori lui sopr’a la sega.
Roma, 26 novembre 1832 - Der medemo
1
Il segatore.
2
Insultarmi.
3
Rovinare.
493. Le spille
Chi ddà una spilla a un antro che vvò bbene,
1
se perde l’amiscizzia in pochi ggiorni.
2
Er zangue je se guasta in de le vene,
3
e vvatte a rripescà cquann’aritorni!
4
Si ssò sgrinfi,
5
principieno le pene:
si ssò sposi, cominceno li corni:
e ggià in un mese de ste bbrutte scene
n’ho vviste cinqu’o ssei da sti contorni.
Ne li casi però ch’in testa o in zeno
d’appuntavve un zocché,
6
ssora Cammilla,
nun potessivo fanne condimeno,
7
a cquela mano che vve vò esibbilla
8
dateje, pe ddistrugge sto veleno,
’na puncicata
9
co l’istessa spilla.
Roma, 27 novembre 1832
1
A cui vuol bene.
2
La sintassi degli antecedenti due versi dia un saggio della reale de’ Romaneschi.
3
Guastarsi il
sangue verso di alcuno, vale: «prenderlo in odio».
4
Vatti a cercare quando ritorni a salute.
5
Amanti.
6
Un non-so-che.
7
Farne a meno.
8
Vuole esibirla.
9
Puntura.
494. La milordarìa
1
Ecco perché mm’ha ffatto un po’ la fessa
2
la prima vorta che llei m’ha vveduto:
ero vestito da bbaron futtuto
3
co la ggiacchetta che nnun zente messa.
4
Lasseme tu pperò cche mme sii messa
la camisciola nova de velluto:
famme dà ’n’allisciata co lo sputo,
e ddoppo sentirai che ccallalessa!
5
Le femmine se sa cche ’gna ppijjalle
6
co cquer po’ de tantin de pulizzia;
e allora de turchine ecchele ggialle.
Damme tempo a sta pasqua bbefania
7
che mme levi sti scenci da le spalle,
e vvederai che la pasciocca
8
è mmia.
Roma, 27 novembre 1832
1
Astratto di milordo, derivante dall’inglese mylord, e significativo di eleganza nel vestire.
2
La sguaiata.
3
In vestito
assai dimesso, anzi indecente.
4
Abito da giorno feriale.
5
Udirai che strepito di avvenimenti, o che colpo.
6
Bisogna
pigliarle.
7
Pasqua Epifania. V. il sonetto…
8
Bella donna e rotondetta.
495. Er portogallo
«Cuanno ho pportato er cuccomo ar caffè,
mamma, llà un omo stava a ddí accusí:
er Re der portogallo vò mmorí
per un cristo c’ha ddato in grabbiolè.
1
Che vvò ddí, Mmamma? dite, eh? cche vvò ddí?
Li portogalli
2
puro ciànno er Re?
Ma allora cuelli che mmagnamo cquì,
indove l’hanno? dite, eh, Mamma? eh?»
«Scema, ppiú ccreschi, e ppiú sei scema ppiú:
er portogallo è un regno che sta llà,
dove sce regna er Re che ddichi tu.
Ebbé, sto regno tiè sto nome cquà,
perché in cuelli terreni de llaggiú
de portogalli sce ne sò a ccrepà».
3
Roma, 27 novembre 1832
1
Veramente don Michele di Braganza si offese molto per una caduta di cocchio.
2
Cedri, aranci.
3
A crepapelle.
496. L’indiani
«Mamma, perché mme dite cuarche vvorta:
Ssciò
1
da li piedi, sor ometto indiano?»
«Perché in cuelli paesi ogn’omo è nnano,
e sse potria portà ddrent’a ’na sporta».
«Davero eh mamma? E ddite, da che pporta
s’esce pe annà llaggiú ttanto lontano?
D’indove sta a sserví Ttata a Bbracciano,
2
mamma, la strada per annacce è ccorta?»
«Fijjo, bbisogna legge l’abbichino
3
pe cconosce ste cose: e nun c’è annato
antro a sti lochi ch’er guerrin Meschino».
4
«Ma dduncue er Papa llà nnun c’è mmai stato?
Ma dduncue, mamma, chi jje manna inzino
laggiù ll’editti de cos’è ppeccato?».
Roma, 27 novembre 1832
1
Voce con cui si discacciano i polli, e in segno di spregio anche le persone moleste.
2
Terra posta alle rive del Lago
Sabatino.
3
Abbaco.
4
Guerriero e viaggiatore famoso presso il volgo, avidissimo di conoscere una leggenda stimata da
esso forse il capo d’opera delle storie del mondo.
497. Er temp’antico
Gran temp’antico! e ll’ommini de cuello,
chi le cose sa bbene misuralle,
ciaveveno sciarvello
1
in de le palle
2
più cche nnoi de talento in der ciarvello.
Nun fuss’antro, per dio, cuell’uso bbello
de sparagnà li muli in de le stalle,
e pportà lloro er Papa su le spalle!
Vôi ppiú bbell’invenzione, eh, Ghitanello?
De cazzi c’a sti tempi a li cristiani
je saprebbe viení sta fantasia,
a sti tempi de bbirbi e cciarafani!
3
E vva’
4
st’usanza si cche usanza sia,
che in quelli siti llà ttanti lontani
l’ha ccopiata er Granturco de Turchia!
Roma, 27 novembre 1832
1
Cervello.
2
Genitali.
3
Imbecilli.
4
E vedi ecc.
498. Li santissimi piedi
Che!, nun è vvero jjeri eh sor’Ularia
che cchi li piedi ar Papa l’ha bbasciati,
ha gguadammiato indurgenza prenaria
co rimission de tutti li peccati?
Lo sentite, che ssiate sgazzerati,
1
che cquanno che pparl’io nun parl’in aria?
Si mme l’aveva detto la vicaria
propio de santi-cuattro-incoronati!
2
E cche rrazzaccia de cristiani sete,
si le cose piú pprime der cristiano,
pe le piaghe de Ddio,
3
nu le sapete?!
Nun capite ch’er Papa, ortr’a ssovrano,
è vvicario de Ddio, vescovo, e pprete?
Je s’ha mmó dduncue da bbascla mano?!
Roma, 27 novembre 1832
1
Specie di mezzana imprecazione.
2
Chiesa de’ SS. Quattro Coronati, posta sul colle Celio, così detto da un Cele
Vibenna etrusco, che vi ebbe dimora, ma chiamato originariamente Querquetulano, essendo ingombro di quercie.
3
Esclamazione o obsecrazione.
499. Er vitturino aruvinato
Che m’aricconti a mmé, ssi’ bbenedetto,
de cuer c’ar monno è bbene e cquer ch’è mmale!
Cuaggiù, sse sa, nun c’è pp’er poveretto
né ggiustizzia, né Ddio, né ttribbunale.
Me mannassino puro a ’no spedale,
nun me vojjo dà mmica un crist’in petto:
1
però all’antri carzoni
2
è cche ll’aspetto:
ma ll’aspetto ar ggiudizziuniverzale.
Pe ttre ppiastre futtute de gabbella,
ch’er Papa ha mmesso pe arricchí er zor Conte,
magnàmmese cavalli e ccarrettella?!
Che sse strozzino er carro de Fetonte!
Ma cce vieranno llà, ddio serenella,
co ttuttecuante ste gabbelle in fronte!
3
Roma, 27 novembre 1832
1
Non voglio disperarmi.
2
All’altro mondo.
3
Espressione consentanea al principio che nella valletta di Giosafat, presso
Gerusalemme, compariranno al giudizio di Cristo tutti gli uomini di tutti i secoli co’ loro peccati scritti sulla fronte:
secondo miracolo di spazio.
500. È ’gnisempre un pangrattato
Pe nnoi, rubbi Simone o rrubbi Ggiuda,
magni Bbartolomeo, magni Taddeo,
sempr’è ttutt’uno, e nnun ce muta un gneo:
1
er ricco gode e ’r poverello suda.
Noi mostreremo sempre er culiseo
e mmoriremo co la panza ignuda.
Io nun capisco duncue a cche cconcruda
d’avé dda seguità sto piaggnisteo.
Lo so, lo so cche ttutti li cuadrini
c’arrubbeno sti ladri, è ssangue nostro
e dde li fijji nostri piccinini.
Che sserveno però ttante cagnare?
Un pezzaccio de carta, un po’ d’inchiostro,
e ttuttOra-pro-mè:
2
ll’acqua va ar mare.
3
Roma, 27 novembre 1832
1
Neo.
2
Tutto mio.
3
Proverbio.
501. Sto Monno e cquell’antro
Me fai ride: e cche ssò ttutti sti guai
appett’ar tibbi
1
de cuer foco eterno?
nu lo sai che le pene de l’inferno
sò ccom’Iddio che nun finisce mai?
E ar monno, pe ddu’ ggiorni che cce stai,
te lagni de l’istate, de l’inverno,
de Ddio, de la furtuna, der governo,
e dell’antri malanni che nun hai?!
Cquà, s’hai sete, te bbevi una fujjetta,
ma a ccasa-calla nun ce sò cconforti
manco de l’acquaticci de Ripetta.
2
Cqua mmagni, dormi, cachi, pisci, raschi,
te scòtoli, te stenni, t’arivorti...
3
Ma llà, ffratello, come caschi caschi.
4
Roma, 27 novembre 1832
1
Tuttociò che sommamente nuoce e colpisce, può essere un tibbi.
2
Al porto minore del Tevere, detto perciò Ripetta,
approdano barche cariche di vini della Sabina, i quali, per esser naturalmente fiacchi e artificialmente adacquati,
prendono presso il volgo il nome di acquaticcio.
3
Ti scuoti, ti stendi, ti rivolti.
4
«Aut ad austrum, aut ad aquilonem, in
quo loco ceciderit, ibi erit».
502. La strada cuperta
Chi vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
sempre ar cuperto ggiú a Ffuntan-de-Trevi,
entri er porton der Papa, c’arimane
incontr’a Ssan Carlino: poi se bbevi
tutto er coritorone de sti grevi
de papalini fijji de puttane:
ggiri er cortile: poi sscegni a li Bbrevi
1
sin dove prima se fasceva er pane.
Com’è arrivato a la Panettaria,
2
trapassi l’arco, eppoi ricali abbasso
e scappi dar porton de Dataria.
3
E accusí er viaggio finirà a l’arbergo
de li somari che stanno a l’ingrasso
magnanno carta zifferata
4
in gergo.
Roma, 28 novembre 1832
1
Palazzo della Segreteria de’ Brevi pontifici.
2
Panetteria, nome di un luogo del palazzo pontificio del Quirinale.
3
Palazzo della Dateria, che poteva altre volte chiamarsi la miniera papale. Tutte le fabbriche sin qui nominate formano
un sol corpo, vastissimo, e unite da interne comunicazioni.
4
Cifrata. Sono gli spedizionieri delle sante Bolle della
Chiesa.
503. Du’ servitori
Nun m’invidià, Mmattia, nun m’invidià:
ma ssai cuanto sce curre
1
da mé e tté?
Tu sservi una madama, che ddio sa
si cquanti incerti sce se possi avé!
E io sto a fregà ll’orbo
2
e a sbavijjà
3
co sto Logotenente de l’A. C.,
4
che nun basta che llui nun me ne dà,
porco futtuto, ma llui magna a mmé.
Perché llui tiè sta bbell’usanza cqui,
che le mance de sala che cce
5
tutte a mmezzo co llui l’ho da spartí.
Anzi, er fiasco che ll’oste me mannò
pe la causa che vvinze venardí,
io lo sturai, e llui se l’asciugò.
Roma, 28 novembre 1832
1
Ci corre.
2
A perder tempo.
3
Sbadigliare per fame.
4
Prelato giudice luogotenente dell A.C. (Auditor Camerae).
5
Ci
sono.
504. Er Zagro Colleggio
Li Cardinali fanno er Papa, e ’r Papa
fa, cquann’è Ppapa lui, li Cardinali:
però sò ccome ravanello e rrapa,
come stivali e ppelle de stivali.
Cuesti tra ttutti cuanti li su’ eguali
metteno in zedia la ppiù ttesta ssciapa;
e cquello pe cconventi e ttribbunali
si rradiche ce sò llui se le capa.
Cos’ha ddunque da facce maravijja,
si ppijjati in un fasscio e cquesto e cquelli,
hanno sempre una scera de famijja?
Da zucche vòte, o ppiene de granelli,
1
da ggente che nun za né sse ne pijja,
cos’hanno da sperà li poverelli?
Roma, 28 novembre 1832
1
Radica e granelli: parti sessuali del maschio.
505. Li Cardinali novi
Li cardinali crepeno: e ppe cquesto,
come vede affilà ppiù d’un mortorio,
er Papa chiama l’antri in conciastorio,
pe stuccà er buscio e ffrabbicanne er resto.
Cusì, ho vvisto ognisempre, da Pio Sesto
sino a cquer che cc’è mmó Papa Grigorio,
sti marignani
1
de Montescitorio
diventà ppeperoni
2
presto presto.
Doppo creato er novo cardinale,
in conciastorio indegnamente s’usa
de ruprijje la bbocca;
3
e cquesto è er male:
perché, mmó cc’una e mmó cco un’antra scusa,
nun cascherebbe tutto in un canale
cuanno avessi, per dio, la bbocca chiusa.
Roma, 28 novembre 1832
1
Melanzane: sono così chiamati i prelati a cagione del colore del loro mantello. Più propriamente però diconsi a Roma
i marignani i prelati del secondo ordine, quelli cioè di mantellone, o mantello talare, i quali, come familiari del Papa,
nascono e muoiono con la di lui dignità.
2
Cardinali dal color rosso.
3
Cerimonia importantissima de aperitione oris,
prima della quale un Cardinale non ha voce in capitolo.
506. Nissuno è ccontento
Che nnova sc’è? nnun te l’avevo detto?
Nun zò ancora le bbujje
1
terminate,
c’ariecchete st’antre chiacchierate
2
contro de sto governo poveretto.
Nun potenno ppiù avé cquadrini in Ghetto,
3
pe ppareggià l’introito co l’entrate
voleveno aristrigne le mesate;
e ttutti s’arivorteno ar proggetto!
E ddisceveno jjeri scerti tali:
«Perché a nnoantri soli sto bber fatto,
e sse pagheno poi li cardinali?».
Ma cchi pparla a sto modo è un cazzo-matto;
e averíano d’intenne st’animali
che cquella llí nun è mmesata: è ppiatto.
4
Roma, 28 novembre 1832
1
Romori liberali dell’anno 1831.
2
Richiami, critiche, ecc.
3
Ricinto degli Ebrei. Vedi su questo fatto i sonetti…
4
Nome
della paga cardinalizia.
507. Le raggione der Cardinale mio
Calacce er piatto a nnoi?!
1
parli pe ggioco:
me dichi bbuggiarate co la pala.
Calacce er piatto a nnoi?! Si cce se cala,
manco mettemo ppiú la pila ar foco.
Pe ssei cavalli e ttre ccarrozze in gala,
già er quattromila-e-ccinquescento
2
è ppoco:
poi metti un po’ ssei servitori in zala,
un caudatario, un coco e un zottococo:
sguattero, cappellano, cammeriere,
mastro de scirimonie, cavarcante,
cucchiere, credenziere e ddispenziere:
metti er vestiario, e un pranzarello annante
de tre pportate come vò er mestiere;
che cce resta pe ddà a la governante?
Roma, 29 novembre 1832 - Der medemo
1
Allude alla voce corsa in novembre 1832, che fra le riforme economiche dello Stato, dovesse entrare una
diminuzione di stipendio. Vedi su ciò il sonetto antecedente.
2
Attuale piatto de’ Cardinali. Sino a tutto il pontificato di
Pio VIII era di scudi 4000 annui. Gregorio XVI lo accrebbe di scudi 500, per patto, come si vuole, stretto fra i Cardinali
in conclave, qual condizione simoniaca della novella elezione.
508. Er pittore de Sant’Agustino
1
Che spesce t’ha da fà che sto scoparo
de pittore che ttiè cquel’arzenale
de ritratti, in un’ora o ar più in un paro
te fa ssenza vedello un cardinale?!
Pe cquesto abbasta de pijjà un zomaro
e ddipignelo doppo ar naturale,
e tte pianti addrittura in un telaro
tutt’er Zagro Colleggio tal’e cquale.
Le Minenze e li ciucci, ecco er motivo,
sò tutti cuanti de l’istessa scòla
e nnissuno sa ddi ssi è mmorto o vvivo.
Sò ll’uni e ll’antri una sarciccia
2
sola:
sò ccome la cannella e ’r lavativo:
una spesce de Cola e mmastro Cola.
Roma, 29 novembre 1832
1
Sulla piazza di Sant’Agostino dimorava un pittore, celebre per grossolani ma somigliantissimi ritratti.
2
Salsiccia.
509. Tutt’una manica
1
Er Tesoriere disce ar Cammerlengo:
«Cuesta è ffaccenna mia; nun tocc’a llui».
Cuello arisponne: «Io sa’ ddove lo tiengo?
Cuesti sò ddritti mii; nun zò lli sui».
Poi viè er Vicario, un antro majorengo,
2
e ddisce: « È ttutto nullo; io nun ce fui».
E accusí, co sto vado e cco sto viengo
tu nun zai come fà l’affari tui.
Cqua inzomma se spartischeno la cappa
de Cristo; e ppoi che sse la sò indivisa,
3
se la tira un coll’antro e sse la strappa.
Ma ttutt’inzieme poi peleno er tordo:
e in cuesto li pòi dì lladri de Pisa
4
che a bbuggiarà cchi vviè vvanno d’accordo.
Roma, 29 novembre 1832
1
Tutti eguali.
2
Persona costituita in grado maggiore.
3
Divisa.
4
Proverbio.
510. Er bottegaro
Chi un bùscio
1
de bbottega cqua vvò uprí
2
prima de tutto je bbisogna annà
da Monziggnor Governatore, e llà
aspettà un anno che jje dichi:
3
Sí.
Finarmente opri; e ecchete
4
de cqua
Monziggnor de la Grasscia pe ssentí
si cciài liscenza,
5
e cquanno, e ccome, e cchi:
e, vvisto tutto, te la fa sserrà.
Rimedi st’antra: e ecchete
4
de sú
er Cardinal Vicario pe vvedé
si cc’è ggente che offenni er bon Gesù.
Quann’è ppoi tutt’in regola, ch’edè?
6
scappa un editto; e ssenza ditte
7
ppiú
te se maggneno
8
er buscio e cquer che cc’è.
Roma, 29 novembre 1832
1
Buco.
2
Vuole aprire.
3
Gli dica.
4
Eccoti.
5
Se ci hai licenza: se hai licenza.
6
Che è?
7
Dirti.
8
Ti si mangiano.
511. L’editti
Ogn’editto e ogni straccio che sse legge
te prometteno tutti Rom’-e-ttoma:
ma cquanno semo a scaricà la soma
s’ariducheno a ssono de scorregge.
Perché appena pe Rroma esce una Legge,
1
ecco er zor A e ’r zor B ccor zu’ diproma:
e la Legge c’uscita era pe Rroma
s’arintajja, se castra e sse corregge.
Poi, cqua ognuno commanna; e o ppe mmalizzia,
o ppe iggnoranza, o ppe rrispetti umani,
nun trovi un cazzo chi tte fa ggiustizzia.
Ecco in che ppiede stanno li Romani.
E cquesta è una Città? cche! sta sporchizzia?!
Nò, cchiamela per dio Terra de cani.
Roma, 29 novembre 1832
1
Pronunciata con entrambe le e aperte.
512. L’ammazzato
Da dietr’a Gghiggi, lí a le du’ salite,
sin ar cantone der Palazzo Mutto,
1
tra er coco e ll’oste ciasseguí
2
la lite
pe ’na visciga misera de strutto!
Er morto poi passò a le Convertite
3
viscin’a Spada:
4
oh ddio cuant’era bbrutto!
pieno da cap’a ppiede de ferite
che ppisciolava sangue dapertutto.
E cché! ssemo a li tempi de Nerone,
che le lite, per dio, tra li cristiani
nun z’abbino da fà mmai co le bbone?!
Che ssemo diventati noi Romani
che ppe mmanco d’un pelo de cojjone
ciavemo da sbramà
5
ccome li cani!
Roma, 29 novembre 1832
1
Il palazzo Mutto, dove fu ucciso da una mano incognita Ugone Basse-Ville.
2
Ci seguì.
3
Luogo del Corso ove prima
era una casa religiosa di rifugio per le donne di mal affare ridotte a penitenza.
4
Abilissimo orologiaio.
5
Sbranare
invece di sbramare.
513. Li gusti
Nun c’è ggusto ppiù mmejjo che, cquann’ardi
de sete, d’annà a bbeve un fujjettino.
1
Io bevo poi dar fà ddell’arba
2
inzino
la sera a mmezzanotte e un po’ ppiú ttardi.
E mmetterebbe er culo in zu li cardi
prima c’arinegà
3
cquer goccettino.
Senz’acquasanta sí, ma ssenza vino...
ma ssenza vino io?! Dio me ne guardi!
Nun avessi Iddio fatto antro che cquesto,
saría da ringrazziallo in ginocchione,
e dda mannà a ffà fotte tutto er resto.
Bbasta de nun uscí ttanto de sesto.
Si è ppeccato er pijjasse un pelliccione
è ppeccato ar piuppiú llescito e onesto.
Roma, 29 novembre 1832 - Der medemo
1
Diminutivo di foglietta: misura di vino.
2
Dal primo albore.
3
Rifiutare, far torto a, ecc.
514. L’uomo bbono bbono bbono *
Ah! er bene che mme porta Monziggnore
è ccosa da nun crédese, Bbastiano.
T’abbasti a ddí cche, ppovero siggnore,
m’ha vvolzuto ammojjà co le su’ mano!
E bisogna vedé si ccon che amore
cúnnola
1
el pupo mio che jj’è ffijjano!
2
Via, propio è un gran padrone de bbon core,
un gran bravo prelato, un bon cristiano!
E la notte che Nnanna ebbe le dojje,
nun pareva che a llui fussino presi
cueli dolori in cammio de mi’ mojje?
Tutta la pena sua, la su’ pavura,
era, perché la fesce de sei mesi,
che jje morissi in corpo la cratura.
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
* A Roma è quest’adagio: Tre volte buono vuol dir coglione.
1
Da cunnolare (cullare).
2
Figlioccio.
515. La viggija de Natale
Ustacchio,
1
la viggija de Natale
tu mmettete de guardia sur portone
de quarche mmonziggnore o ccardinale,
e vvederai entrà sta priscissione.
2
Mo entra una cassetta de torrone,
mo entra un barilozzo de caviale,
mo er porco, mo er pollastro, mo er cappone,
e mmo er fiasco de vino padronale.
Poi entra er gallinaccio, poi l’abbacchio,
l’oliva dorce, er pesce de Fojjano,
3
l’ojjo, er tonno, e l’inguilla de Comacchio.
Inzomma, inzino a nnotte, a mmano a mmano,
tu llí tt’accorgerai, padron Ustacchio,
cuant’è ddivoto er popolo romano.
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
1
Eustachio.
2
Processione.
3
Lago nelle paludi pontine, assai in credito per la pescagione del pesce, che vi rimonta dal
vicino mare per via di un canale.
516. Er giorno de Natale
Sti poveri canonichi stanotte
nun hanno fatto antro c’una vita:
canta che tt’aricanta!
1
eh a ffasse fotte
sta galerra per dio cuann’è ffinita!
Povere ggente! tanto bbrave e ddotte,
si ddureno un po’ ppiú, pe lloro è ita!
Bbono che ppoi c’è er zugo de la bbotte
pe rrimétteje er zangue a la ferita.
Anzi, stanotte, sciaripenzo mone,
2
sempre è stato a bbullí ccerto callaro
3
pieno d’acquaccia e petti de cappone.
E ppe cquesto hai veduto, Orzola mia,
che, de sti preti sciorcinati,
4
un paro
ne curreva ogni tanto in zagristia.
30 novembre 1832 - Der medemo
1
Canta e ricanta, sempre cantare.
2
Ci ripenso ora.
3
Caldaia.
4
Meschini, tapini.
517. La bbonifiscenza
Sussidj dar Curato?! eh, Nanna!, penza
che cquanno sciannò
1
jjeri mi’ marito
a ppiagne, cuer cristiano imbastardito,
cuer corpaccio satollo ebbe cuscenza
d’arisponneje: «Hai letto l’indurgenza
fijjo, ch’er Zanto padre scià
2
arricchito
chi ppentito contrito e cconvertito
diggiunerà pe ssanta penitenza?».
Ma nun zò ccose da svejjatte er vommito?
Da pijjà un’arma, e a st’anime de cane
fajje, pe ccristo, mozzicasse er gommito?
3
Duncue, cuanno la sera a nnoi sce
4
tocca
sentí li fijji a ddomannacce
5
er pane,
che
6
jje mettemo, un’indurgenza, in bocca?
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
1
Ci andò.
2
Ci ha.
3
Fare altrui mordersi il gomito, vale: «prendere vendetta, farlo per dolore, prorompere in crudeli e
difficili atti contro se stesso».
4
Ci.
5
Dimandarci.
6
Cosa. Pronunziata con vigore.
518. La povera madre
Eccolo llí cquer fijjo poverello
che ll’antro mese te pareva un fiore!
Guardelo all’occhi, a le carne, ar colore
si ttu nun giuri che nnun è ppiú cquello!
Sin da la notte de cuer gran rumore,
da che er padre je messeno in Castello,
nun m’ha pparlato ppiú, ffijjo mio bbello:
me sta ssempre accusí: mmore e nnun more.
Sei nottate sò
1
ggià cch’io nun me metto
piú ggiú, e sto ssempre all’erta pe ssentijje
si mme respira e ssi jje bbatte er petto.
Dio!, opri er core a cqueste ggente, e ddijje
che vvienghino a vvedé ddrento a sto letto
tutto er male che ffanno a le famijje.
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
1
Sono.
519. La povera madre
Che mm’è la vita, da che sta in esijjo
cuell’innoscente der marito mio!
perché sto ar monno e nnun m’ammazza Iddio
mo cche ssò ssola e cche mm’è mmorto er fijjo?
Ah Vvergine Mmaria der bon conzijjo,
mamma, nun m’abbadà: ché nun zò io,
è er dolore che pparla: ah! nnun zò io
si cco la Providenza io me la pijjo.
Llà Ggiggio mio ggiocava: in cuesto loco
me se bbuttava ar collo: e cqui l’ho vvisto
a sparimme davanti a ppoco a ppoco!
Cosa saranno le smanie de morte!
Chi ppò ddí la passion de Ggesucristo,
si er dolor d’una madre è accusí fforte!
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
520. La povera madre
Via, via da mé ste fasce e ste lenzola
che cc’invortavo la speranza mia:
fuggite tutticuanti, annate via,
e llassateme piagne da me ssola.
Nun posso ppiú: me se serra la gola:
nun zo
1
ssi er core... più in petto... sce sia...
Ah Ddio mio caro!... ah Vvergine Mmaria!...
lassateme dí ancora... una parola.
Come tu da la crosce... o Ggesú bbono...,
volessi perdonà... ttanti nimmichi…,
io... nun odio li mii... e li perdono.
E... ssi in compenzo..., o bbon Gesù... tte piasce...
de sarvà Ccarlo mio..., fa’ cche mme dichi...
una requiameterna... e vvivi in pasce.
Roma, 30 novembre 1832 - Der medemo
1
Non so.
521. Er primo descemmre
1
Chiuso appena l’apparto teatrale
stanotte la Madonna entra in ner mese:
e ffra cquinisci ggiorni pe le cchiese
principia la novena de Natale.
E ddoppo, ammalappéna se sò intese
le pifere a ffiní la pastorale,
2
riecco
3
le commedie e ’r Carnovale:
e accusí sse va avanti a sto paese.
Poi Quaresima: poi Pasqua dell’Ova:
4
e, ccom’è tterminato l’ottavario,
aricomincia la commedia nova.
Pijja inzomma er libbretto der lunario,
e vvedi l’anno scompartito a pprova
tra Ppurcinella e Iddio senza divario.
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Nell’anno 1832, il primo giorno dell’avvento cadde nella domenica 2 dicembre, e nella sera del precedente sabato fu
l’ultima recita teatrale.
2
Si allude ai notissimi Piferari, che vengono dagli Abruzzi ogni anno a suonare le cennamelle
e cantarvi parole inintelliggibili.
3
Ecco di nuovo.
4
Così chiama il popolo la Pasqua di Resurrezione, dall’uso
antichissimo e simbolico di mangiare in detto giorno gli uovi lessati, e, di più, del salame, segni di rigenerazione.
522. Er sede
1
Una vorta le cchiese, Angelo mio,
tuttecuante ciaveveno li bbanchi:
ma mmó bbisogna c’arincreschi
2
a Ddio,
perché ttrovi cqua e llà li muri bbianchi.
3
E ssan Marco
4
hai da stà ssu li tu’ fianchi
si nun te vòi sdrajà ccom’un giudio:
e ssi la Messa dura assai, per bio,
5
co sto tanto stà ssú, fijjo, te sscianchi.
6
Però a ttutte le cose s’arimedia:
e cquanno te viè a ttufo
7
de stà in piede,
c’è er chirichetto che tte dà la ssedia.
E accusí in de le cchiese oggi se vede
cuer che pprima vedevi a la commedia:
senza er cumquibbo
8
nun te metti a ssede.
Roma, 1° dicembre 1832
1
Il sedersi.
2
Convien dire che rincresca ecc.
3
Vacui.
4
Per forza.
5
Modo di giuramento elusorio della bestemmia.
6
Sciancarsi: ficcarsi le gambe, che il popolo chiama cianche.
7
Venire a noia.
8
Il cum-quibus, il denaro.
523. Le du’ porte
Er Piovano, dimenica, ha spiegato
drento a la spiegazzione der Vangelo,
che ddu’ porte pell’Omo disgrazziato
sò ssempre uperte: una in Chiesa, una in Cielo.
Pe st’urtima lo dichi chi cc’è entrato:
in quanto all’antra je lo fa ddí er zelo.
Ma cchi nnell’ovo sa ttrovacce er pelo
1
pò aribbatte
2
le prediche ar Curato.
Nun pijjamo le cose a la parola:
tutte le cose ar Monno hanno du’ facce;
ma ste du’ porte hanno una faccia sola.
Tu vva’ a le cchiese de Palazzo: vacce:
e, ssi nun entri pe la gattarola,
vatte a ttrova la porta per entracce.
3
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
«Trovare il pelo nell’uovo»: proverbio, indicante sottigliezza, o scrupolosità di osservazione.
2
Confutare.
3
È
necessario avere un biglietto d’ingresso alle cappelle papali.
524. Er Canonico novo
Io la lingua latina nu la so,
ma mme disce er barbiere che la sa,
ch’er Canonico c’hanno fatto mo
quiggiú a la Bbocca-de-la-Verità,
1
cuann’in coro coll’antri ha da cantà,
come l’uffizio fussi un pagarò,
2
inciafrujja ciascià cciscí cciosciò,
ma un cazzo
3
legge lui cuer che cce sta.
A sta maggnèra
4
puro
5
io e ttu
faressimo er canonico accusí,
si abbasta a ssapé ddí ccescè cciusc.
E a sta ggente, per dio, che nnun za ddí
manco in latino er nome de Ggesù,
er pane nostro s’ha da fà iggnottí?!
6
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Su questa chiesa vedi il son…
2
Il pagherò è una certa polizzettaccia indecifrabile, che si da a’ giuocatori del lotto per
riscontro delle loro giuocate, e qual biglietto all’ordine in caso di vincita.
3
Per nulla. Si batte la voce sulla prima
vocale, con energia.
4
Maniera.
5
Pure.
6
Inghiottire.
525. Un Papa antico
C’è stato un certo Papa san Grigorio
che ssapeva parlà rrosso e tturchino,
che cconosceva ogni sorte de vino,
e cquant’anime stanno in purgatorio.
Distingueva chi aveva er zostenzorio,
1
l’ova cor pelo e ll’ova cor purcino
capiva er tempo,
2
e tte spiegava inzino
l’indovinelli de Monte-scitorio:
3
Profetizzava er don de le petecchie:
sapeva indovinà le confessione,
e scoprí ll’anni de le donne vecchie.
E sti bbelli segreti in concrusione
je l’annava a ssoffià ttutti a l’orecchie,
azzeccàtesce
4
chi?... bbravi! un piccione.
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Sospensorio. Notisi per coincidenza che vari tra la plebe danno questo nome anche all’ostensorio della Eucarestia
esposta, chiamandolo er zantissimo sostenzorio de G.C. indisposto sull’artare.
2
Conosceva le variazioni del tempo.
3
Palazzo della Giustizia civile.
4
Azzeccateci: indovinateci.
526. Li mozzorecchi
1
Viè, si vvòi ride, viè cco mmé ddomani
drent’a Mmontescitorio
2
ar tribbunale,
e vvederai da té ccos’è un curiale,
spesciarmente de cuelli innoscenziani.
3
Un coll’antro se dà de lo stivale,
se mózzicheno peggio de li cani:
ma ttutto resta llí; ché sti bbaccani
nun zò ppiú un cazzo poi ggiú pe le scale.
Li vedi allora annà ttutti a bbraccetto,
fascènnose strisciate e ccomprimenti;
e ggnisuno piú abbada a cquer c’ha ddetto.
E l’ingiurie ingozzate, e ll’accidenti,
sò ppartitelle ariservate in petto
pe ppoi mettele in conto a li crïenti.
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Mozzorecchi e mozzini diconsi in Roma i «legulei».
2
Palazzo di Giustizia civile.
3
Gli ascritti alla Curia Innocenziana
sono i curiali dell’ordine infimo: più su sono i Rotali: in capo que’ di Collegio in numero di ventiquattro.
527. Er giudisce
Li mozzini
1
de Roma, sor Dodato,
2
propio nun hanno un fir
3
d’aducazzione.
E cquanno sò a l’udienza in cuer zalone
strilleno come stassino ar mercato.
Chi vvò l’intìmo, chi la scitazzione,
chi cchiede er giuramento e cchi er mannato,
chi ingiuria er Cancejjere e cchi er Prelato;
e ttutti inzieme vonno avé rraggione.
Jeri, a la fine, er Monziggnore mio,
fattose inzino in faccia pavonazzo,
sartò in piede e strillò: «Zzitti, per dio!
Ch’edè, ssignori miei, sto schiaramazzo?
Se tratta cqua ch’è ggià un par d’ora ch’io
do le sentenze senza intenne un cazzo».
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Mozzorecchi e mozzini diconsi in Roma i «legulei».
2
Deodato.
3
Un filo.
528. Er decretone
1
Stamme a ssentí. Da cuarche ssettimana
vado a ppulí le scarpe la matina
a un avocato de strada Bbaccina
2
incirconciso
3
a ora de campana.
4
Oh indovinesce un po’, Mmuccio,
5
indovina
che ggenio ha sto fijjol d’una puttana:
de vestimmese in coppola e ssottana
6
e bbiastimamme in lingua lattarina.
7
M’aricconta le cause c’ha indifese:
8
me parla d’Accimetti
9
e dde somario,
10
de le lite smorzate e dde l’accese:
der Tribbunal de Rota e dder Ficario:
11
e ’ggni matina me tierrebbe un mese
cor quietovive
12
de sto bber zalario.
Roma, 1° dicembre 1832 - Der medemo
1
Décrotteur.
2
Contrada di Roma.
3
Circumcirca (modo ironico).
4
La campana delle udienze del foro.
5
Giacomuccio.
6
Berretta e sottana: abito di costume de’ legali in ufficio.
7
Latina (modo ironico).
8
Difese.
9
Monsignor A. C. Met.,
Auditor Camerae Met. (medesimo): nome turchesco (Acmet) che si a uno de’ prelati giudici della Camera.
10
Sommario.
11
Vicario (ironia).
12
Quieto vivere: nome dato a tuttociò che, gustando altrui, lo fa aderire ad alcunché di
amaro.
529. Er mese de Descemmre
Solo a llettre, a bbijjetti e a mmomoriali
c’ho da portà (e tte dono l’immasciate),
bbisogna ch’io me magni le mesate
tutt’a fforza de scarpe e dde stivali:
ché er mi’ padrone è uno de sti tali
c’assisteno er villano, er conte, er frate,
er vescovo, la monica, e l’abbate:
bbasta che ssiino gonzi provinciali.
Lui cià ttordi a ppelà dd’ogni paese;
e ttiè un libbraccio che jj’ha messo nome:
Libbro de conti de funzione e spese.
Pe ttutto l’anno nun te dico come
frutta la bbarca; ma ccom’è sto mese
li rigali cquaggiú vviengheno a ssome.
Roma, 2 dicembre 1832
530. La spezziaria
L’antr’anno er mi’ padrone lo spezziale
ebbe dar Brodomedico l’avviso
ch’er primo luneddí de carnovale
vierebbe a vvisitallo a l’improviso.
Allora lui, ch’è un omo puntuale,
empí ddu’ bbocce o ttre dd’acqua de riso:
e a mmé ttoccò ’na bbucataccia ar viso
a ttutti li bbarattoli e ar mortale.
1
Ecco er dottore er luneddí a mmatina.
«Tutto in regola ggià...». «Ttutto», arispose
lo spezziale, «ecco cqua la su’ bbropina».
2
«Bbravo! accusí mme piàsceno le cose».
E intanto s’acchiappò la su’ cartina,
la pesò ttra le mano, e l’aripose.
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
1
Mortaio.
2
Propina.
531. La Bbocca-de-la-Verità
1
In d’una cchiesa sopra a ’na piazzetta
un po’ ppiú ssù dde Piazza Montanara
pe la strada che pporta a la Salara,
c’è in nell’entrà una cosa bbenedetta.
Pe ttutta Roma cuant’è llarga e stretta
nun poterai trovà ccosa ppiú rrara.
È una faccia de pietra che tt’impara
chi ha ddetta la bbuscía,
2
chi nnu l’ha ddetta.
S’io mo a sta faccia, c’ha la bbocca uperta,
je sce metto una mano, e nu la strigne,
la verità dda mé ttiella pe ccerta.
Ma ssi fficca la mano uno in buscía,
èssi
3
sicuro che a tti nné a spigne
cuella mano che llí nnun viè ppiú vvia.
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
1
Chiesa sopra alcune rovine di un antico tempio voluto da alcuni di Matuta, da altri della Pudicizia Patrizia, e dai più
moderni di Cerere e Proserpina, che Tiberio ricostrusse presso le Carceri del Circo Massimo. Il nome di questa chiesa
è Santa Maria in Cosmedin, voce greca dinotante ornamento, essendo stata ornata da Adriano I nel 772. Il nome di
Bocca-della-Verità, sotto il quale è comunemente e quasi esclusivamente in Roma conosciuta, deriva da un gran
mascherone esistente nel portico alla sinistra di chi entra. Esso probabilmente fu in antico la bocca di qualche cloaca;
ma la opinione sviluppata nel sonetto non circola in Roma fra’ soli bambini.
2
Bugia.
3
Sii.
532. Er regazzo
1
ggeloso
E nnun t’abbasta, di’, bbrutta pe ttutto,
co cquelli ggiochi d’acqua in de la gola,
2
de vedemme scquajjà ccome lo strutto
che sse mette d’intorno a una bbrasciola;
c’adesso me sce fai la bbannarola
che ss’arivorta all’ummido e a l’asciutto?!
Sí cche t’ho intesa io dajje parola
piano piano a l’orecchia a cquer frabbutto.
3
Neghelo si lo pòi, neghelo, strega,
che jj’hai fatt’occhio de vienitte accanto...
Sentila, cristo mio!, nun me lo nega?!
Busciarda infame! ah nnun credevo tanto!
Va’, cche possi morí cchi ppiú tte prega.
Senti, sce creperò: puro
4
te pianto.
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
1
Amante.
2
Scrofole.
3
Scellerato.
4
Purtuttavia.
533. Le donne de cquì
Nun ce sò ddonne de ggnisun paese
che ppòzzino stà appetto a le romane
ner confessasse tante vorte ar mese
e in ner potesse dí bbone cristiane.
Averanno er zu’ schizzo de puttane,
spianteranno er marito co le spese;
ma a ddivozzione poi, corpo d’un cane,
le vederai ’ggnisempre pe le cchiese.
Ar monno che jje dànno? la carnaccia
ch’è un zaccaccio de vermini; ma er core
tutto alla Cchiesa, e jje lo dico in faccia.
E ppe la santa Casa der Zignore
è ttanta la passione e la smaniaccia,
che cce vanno pe ffà ssino a l’amore.
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
534. Li fratelli de le compaggnie
Du’ cose a mmé mme piasceno, Carluccio,
che mme j’accennería li lampanari.
Una, e cquesta la sai, li piferari:
e ll’antra, li fratelli cor cappuccio.
Questi cqui ppoi me sanno tanti cari
che vvorrebbe serralli in d’uno stuccio,
e ariponeli poi dove m’accuccio
a ffà er giallo da dà a li colorari.
Doverebbe la ggente tuttacuanta
mettese cuer cappuccio a ccampanella
co cquer paro de bbusci che tt’incanta:
ché ddove pòi trovà mmoda ppiú bbella
pe vvede sino in zettimana santa
de spasseggià pe Rroma er Purcinella?
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
535. Una lingua nova
Cuer Giammaria che tt’inzurtò a Ttestaccio,
1
e mmo assercita l’arte de la spia,
passava mercordí dda Pescaria
2
co ttanto de tortore sott’ar braccio.
Ner travedello, io che nun zo che ssia,
3
ma nu lo pòzzo sscerne cuer mustaccio,
arzo un zercio
4
da terra, e ppoi jje faccio:
«A la grazzietta padron Giammaria».
«Chi è?» ddisce svortannose er gabbiano:
e, ppunf, in ne li denti io je rispose
co cquer confetto che ttienevo in mano.
«Nun ve pijjate pena de ste cose»,
dico «perché cquest’è, ssor paesano,
5
la lingua de parlà co le minose».
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
1
Luogo dove la plebe corre nella primavera, e più in ottobre, gozzovigliare, stanteché nel monte formatosi ne’ bassi
tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi
vini. Il prato inoltre, che trovasi innanzi al detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio, è molto
opportuno ai sollazzi romorosi. Anzi ne’ secoli andati la città di Roma suoleva darvi i pubblici e talora crudi e cruenti
spettacoli. In un canto di esso prato trovasi il cemetero de’ riformati.
2
Mercato principale del pesce, fra gli avanzi del
magnifico porico di Ottavia.
3
Non comprendo il perché.
4
Selce.
5
Spia.
536. Er peccato fiacco
Jjeri da bbon cristiano pascualino,
1
pe ppaura de San Bartolomeo,
2
m’annai a cconfessà da cuer cazzeo
de padre Bbonifazzio a Ssan Carlino.
Prima je disse che mme piasce er vino,
poi che ttiro un’ombretta ar culiseo;
e cquarche vvorta, pe mmutà un tantino,
sò de la riliggion der Manicheo.
M’accusai de superbia ar fin de tutto.
Er confessore cqua: «Ffijjo, sei ricco?».
E cqua io: «Padre no, ssò ssempre assciutto».
«Fijjo, cuann’è accusí, llassa fà, llassa»,
repricò er confessore: «io me sc’impicco
si sto peccato tuo nun te se passa».
Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo
1
Aggiunto che si a coloro che confessansi una sola volta all’anno, nella ricorrenza della Resurrezione.
2
Fra i ponti
Cestio e Fabricio, sull’isola Tiberina originata dalla sommersione dei manipoli di grano di Tarquinio il Superbo, è il
tempio di S. Bartolommeo, nel di cui portico il giorno 25 agosto di ogni anno appendesi un cartello portante una
cinquantina di nomi degl’infimi della città, che si suppone essere stati in Roma i soli non accostatisi alla Eucaristia
nella Pasqua antecedente.
537. La penale
Li preti, ggià sse sa, ffanno la caccia
a ’ggni sorte de spesce de cuadrini.
Mo er mi’ curato ha mmesso du’ carlini
1
de murta a cchi vvò ddí ’na parolaccia.
Toccò a mmé ll’antra sera a la Pilaccia:
2
che ggiucanno co ccerti vitturini,
come me vedde vince un Lammertini,
3
disse pe ffoja
4
«Eh bbuggiarà Ssantaccia!».
Er giorn’appresso er prete ggià informato
mannò a ffamme chiamà ddar Chiricone,
e mm’intimò la pena der peccato.
Sur primo io vorze
5
dí le mi’ raggione;
ma ppoi me la sbrigai: «Padre Curato,
bbuggiaravve a vvoi puro: ecco un testone».
6
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il carlino è oggi moneta di convenzione. Equivale a baiocchi sette e mezzo.
2
Insegna e nome di bettola.
3
Moneta di
argento di paoli due, che si può dire essere la lira romana. Coniata da Papa Prospero Lambertini (Benedetto XIV)
chiamasi dal volgo un lambertini, un prospero, un prospero lambertini, ed avendo l’effige del Papa, è detta
comunemente papetto.
4
Ira.
5
Volli.
6
Moneta d’argento del valore di paoli tre, che corrispondono appunto a due volte
la detta multa de’ due carlini.
538. La momoriosa
1
Hai ’nteso er bullettone d’Argentina?
Ma nun zo cchi voranno èsse l’alocchi
d’annà a spenne sti quinisci bbaiocchi
pe ssentí a rrescità ’na canzoncina.
Sfido si sta pivetta
2
sc’indovina
chi ha inventato li sfrizzoli
3
e li ggnocchi;
chi è nnato prima, o ll’ovo, o la gallina;
e ssi Ccristo ha ccreato li pidocchi.
E ddisce er fijjo mio, c’ha lletto er Tasso
e ll’antre stampe che sse sò stampate,
che nnun c’è ppoi da fà tutto sto chiasso.
Perché ste storie e st’antre bbuggiarate
che mmette fora lei pe pparé ll’asso,
4
gran bella forza! l’averà imparate.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Una fanciulla, che nel mese di dicembre 1832 diè saggi di mnemonica nel Teatro di Torre Argentina presso l’antica
Curia di Pompeo, dove fu ucciso Giulio Cesare.
2
Fanciulla.
3
Avanzi mezzo abbrustoliti della sugna da cui si estrasse
il distrutto. La plebe suole mangiarli avidamente, e ne condisce alcune focacce.
4
La prima carta del giuoco della
briscola: translato.
539. Li sparagni
1
Vivenno papa Pio messe uguarmente
a Rroma un Presidente
2
per Urione.
3
Come fu mmorto lui, papa Leone
ristrinze ogni du’ Urioni un Presidente.
Ma a li sette scartati puramente
4
je seguitò a ffà ddà la su’ penzione.
Poi venne un antro Pio d’antra oppiggnone
5
c’arimesse cuer ch’era anticamente.
Però li sette Presidenti novi,
lui nu li ripij da li levati,
e pperò st’antri musi oggi sce trovi,
Nun c’è mmejjo che cquanno se sparagna!
E accusí da cuattordisci pagati
mó ssò vventuno, e oggnun de cuesti magna.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Risparmi.
2
Presidenti di Polizia, che equivalgono anche in certo modo a’ giudici di pace ne’ minimi affari civili.
3
Rione. Sono in Roma XIV.
4
Altresì.
5
Opinione.
540. L’editto de l’ostarie
1
Accidenti a l’editti, a cchi l’inventa,
chi li fa, chi li stampa, chi l’attacca,
e cchi li legge. E a vvoi
2
st’antra patacca
schiccherata cor brodo de pulenta!
E addosso all’ostarie! ggente scontenta,
fijji de porche fijje d’una vacca!
Si all’ostaria ’na purcia
3
sce s’acciacca,
cqua ddiventa un miracolo diventa!
Papa Grigorio, di’ ar Governatore
che sto popolo tuo trasteverino
si pperde l’ostarie fa cquarc’orrore.
Noi mànnesce
4
a scannatte er giacubbino,
spènnesce
5
ar prezzo che tte va ppiú a ccore,
ma gguai pe ccristo a cchi cce tocca er vino.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Editto restrittivo, pubblicato il 28 nov. 1832 da Monsignor Governatore pro tempore.
2
E dagli: e prendete su, ecc.
3
Pulce.
4
Mandaci.
5
Spendici.
541. Er custituto
«Chi ssiete?» «Un omo». «Come vi chiamate?»
«Biascio Chiafò». «Di qual paese siete
«Romano com’e llei». «Quanti anni avete?»
«Sò entrato in ventidua». «Dove abitate?»
«Dietr’a Ccampo-Carleo».
1
«Che arte fate?»
«Gnisuna, che ssapp’io». «Come vivete?»
«De cuer che Ddio me manna». «Lo sapete
perché siete voi qui?» «Pe ttre pposate».
«Rubate?» «Ggià». «Vi accusa?» «Er Presidente».
2
«Ma le rubaste voi?» «Nun zò stat’io».
«Dunque chi le rubò?». «Nu ne so ggnente».
«E voi da chi le aveste?». «Da un giudio».
«Tutto vi mostra reo». «Ma ssò innoscente».
«E se andaste in galera?» «È er gusto mio».
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Chiesetta e contrada al Foro Traiano.
2
Presidente regionario di polizia.
542. Certe condanne...
Tu cconoschi che ppecora è Ggiorgino,
e ssi è ffigura d’acciaccà un pidocchio:
ebbè, perch’era amico der facocchio
l’hanno fatto legà pe ggiacubbino.
Tutto pe cquella faccia d’assassino
pe cquella spia che lo tieneva d’occhio.
Sì cche lo vojjo dí: Bbiascio Scazzocchio,
lui me l’ha ccaluggnato; e cc’indovino.
Sò annata inzino a bbuttamme pe tterra
davanti a Mmonziggnor Logotenente,
1
pe rraccontajje chi mme fa sta guerra.
Sai c’arispose lui? «Via, nun è ggnente:
tratanto er fijjo tuo vadi in galerra,
ch’è ssempre in tempo a uscí cquanno è innoscente».
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Luogotenente del Governatore-Direttor Generale di polizia di Roma.
543. Le mance
Nò ccento vorte, e mmille vorte nò:
er Papa cuesta cqui nu la pò ffà.
C’è bbona lègge pe ffàllo abbozzà:
1
e mmagara viè Iddio, manco lo pò.
Levà er Papa le mance che cce sò
da sí cc’antichità è antichità?!
Si ppuro
2
la vedessi cuesta cqua,
tanto c’incoccería,
3
guardeme un po’!
4
Lègge più ssagrosanta e indove c’è
de cuelle mance pe cchi sta a sserví
in Rota, in Zegnatura e in nel’A. C.?
5
Levà le mance in tassa?
6
eh nu lo dí,
nu lo dí, ddecan Giachemo; perché,
si ddura Roma, ha dda durà ccusí.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Farlo stare a segno, farlo tacere, ecc.
2
Seppure.
3
Mi ostinerei.
4
Vedi un po’ tu!
5
Le tre principali Curie di Roma.
6
Queste mance ai servitori di giudici sono legalmente stabilite ne’ codici di procedura.
544. Er zussidio
Com’è ito a ffiní cquer momoriale
c’appresentai a la Bbonifiscenza?
È ffinito accusí, ch’er Cardinale
prima vorze
1
sentí la Presidenza:
2
eppoi, doppo tornato a Ssu’ Eminenza,
lo mannò a Mmonziggnore tal’e cquale,
scrivennosce accusí: «Pe sto Natale
venti pavoli all’urtima dispenza».
Monziggnore lo diede ar Deputato
co sto riscritto: «Signor Emme e Zzeta,
sto sussidio che cqui vvienghi pagato».
Ma cquanno agnedi
3
a pprenne la moneta,
quer zor Emme me diede un colonnato,
e ll’antro je se perze tra le deta.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Volle.
2
Presidenza di polizia del rione.
3
Andai.
545. L’uffisci
Nun c’è ppiú ccarità, ffijja, oggiggiorno:
sò ttutti orzi
1
coll’anime de cani.
Come nun porti da dajje li spani
2
tu ppòi morí che nun je preme un corno.
Sercio
3
sta strada scento
4
vorte ar giorno
inzinenta
5
dall’arco de pantani:
6
e lloro? ogg’e ddomani, ogg’e ddomani:
e io santa pascenza, e cciaritorno.
7
Credi, si cce sò ssanti in Paradiso
j’ho rrotto li cojjoni uno per uno:
8
ebbè? nun trovo mai ggnente indisciso!
9
Mó nun c’è udienza, mó nun c’è ggnisuno:
o è ppresto, o è ttardi: un po’ è ffarro, un po’ è riso,
10
e io logro le scarpe e sto a ddiggiuno.
Roma, 3 dicembre 1832 - Der medemo
1
Orsi.
2
Spano, cioè: «il mangiare che si agl’impiegati, o per corromperli, o per farli rispettare il loro dovere».
3
Selcio, cioè: «batto, consumo».
4
Cento.
5
Sino.
6
Avanzo del Foro di Nerva.
7
Ci ritorno.
8
Li ho annoiati pregando ad
uno ad uno.
9
Deciso.
10
Ora è una cosa, ora è l’altra.
546. Er carrettiere de la legnara
Pe la sòccita
1
mia de la vittura
de li carretti da carcà
2
la leggna
m’è ttoccato a ggirà ’na svojjatura
3
de scinque tribbunali de la freggna!
Sortanto pe la carta de conzeggna
l’A. C.
4
ddu’ vorte, e ddua l’Inzegnatura!
5
Po’ in Campidojjo, e in Rota, e in zepportura
che ss’iggnottischi sta razzaccia indeggna.
Poi, come sto llí llí pe la sentenza,
viè er Fiscal de le Ripe,
6
e in du’ segnetti
scassa tutto e jje dà dd’incompitenza.
7
E io ’ntanto co ttutti sti ggiretti,
co sto ssciupo de tempo e dde pascenza,
vinze la lite e nnun ciò ppiú ccarretti.
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Società.
2
Caricare.
3
Una leggerezza, una cosa da nulla (svogliatura).
4
Il Tribunale dell A.C. (Auditor Camerae).
5
Il
Tribunale di Segnatura. Equivale alla Cassazione, ed ha infatti l’aggiunto di Supremo, benché ordinariamente
composto dallo scarto della prelatura.
6
Il Tribunale delle Ripe del Tevere ha giurisdizione sulla legnara, ossia
deposito delle legne che prese nel fiume, che le trasporta nelle alluvioni, ivi si ripongono ad uso di fuoco.
7
Incompetenza.
547. La quarella
1
d’una regazza
Siggnora sí: la zitella miggnotta
ha ffatto avé ar Vicario er zu’ spappiello
2
quarmente io l’ho infirzata in ner furello
e jj’ho uperto er cancello de la grotta.
Io j’arispose che cquesta è una fotta,
3
perch’io nun ciò
4
ppiú ppenne in de l’uscello.
E llui mannò er cirusico a vvedello,
e a vvisità ssi llei l’aveva rotta.
«Pe mmé» disse:
5
«neppuro co li guanti
se tocca er mio»; ma cquella porca indeggna
se fesce smaneggià ddietro e ddavanti.
Vanno bbene ste cose? E cchi jj’inzeggna
pe ccristo, a lloro che ssò ppreti e ssanti,
de discíde sur cazzo e ssu la freggna?
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Querela.
2
Memoriale (da papier).
3
Ridicola impostura.
4
Ci ho.
5
In quanto a me, io dissi, ecc.
548. La galerra
Tutti addosso a sta povera galerra,
come si cchi cce va ccascassi er Monno!
Tutte ideacce storte, io te risponno;
perché ppuro
1
llaggiù c’è ccelo e tterra.
Nun è ppiú mmejjo llà, cche stà in d’un fonno
de letto, o vvive matto, o mmorí in guerra?
Vedo che cchi n’uscí cce s’ariserra,
e nun è er primo caso né er ziconno.
Eppoi, cuanno che mmai fussino vere
tutte ste tu’ storielle de malanni,
mentre invesce pò stacce un cavajjere;
caso er Governatore te condanni
puro
1
in vita, viè ffora er Tesoriere,
e ppe ffà ccolomia
2
te scurta l’anni.
3
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Pure.
2
Economia.
3
Ti abbrevia il tempo della pena.
549. Er fienarolo
Sí, ssí, per dio! sí, ssí, per cristo santo!
tu l’hai rubbato er fieno a le bbarrozze.
Ma prega Iddio te sciaritrovi accanto
che tt’arimanno co l’orecchie mozze.
Cos’è? cche ddichi? Oh Vvergine der Pianto!
Tu le ficozze
1
a mmé?! ttu le ficozze?
Fa’ mmosca,
2
fa’; ché ssi tte dài sto vanto,
tu, ggranelletto mio, m’inviti a nnozze.
Senti chi vvò rrugà! ssenti chi pparla!
La pietra de lo scannolo de Bborgo,
che ttutto cuer che ppesa è in de la sciarla!
Oh, ssai cuer che tte dico? Abbi ggiudizzio,
o a la prima che ffai, che mme n’accorgo,
gatto mio bbello, io te sce levo er vizzio.
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Contusioni nel capo.
2
Taci.
550. Li viscinati
Me sò attaccato ar primo campanello
io, perché ar Monno nun ce sò ccojjoni.
«Chi è?» «Amisci». «Chi ssete?» «Amisci bboni».
«Chi vvolete?» «Er zor Giorgio Stennarello».
«Sto nome, uhm, qui nun ciàbbita,
1
fratello».
«Ma mm’hanno detto a Strada Bborgognoni. .
«Starà in cuarc’antro de st’antri portoni...».
«Chi ssa? Mi’ mojje poterà ssapello».
«Nina!». «Ch’edè?» «Cqua un omo scerca un certo
Gior...». «Sta ar nummero diesci, a mmano dritta
su la svortata in cuer portone uperto.
Fatti otto capi, in faccia a ’na suffitta
bbussi ar batocco: e ssi nun c’è, de scerto
pranza dall’oste che sse chiama Titta».
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Ci abita.
551. Li fijji impertinenti
Checco, la vòi finí? Fferma, Sceleste;
1
Toto, mo vviengo llà: zzitta, Nunziata.
E cche ddiavolo mai! forcine, creste!
Nenaccia,
2
dico a tté, ffuria incarnata!
Jeso! e cch’edè, Mmadonna addolorata!
Se discorre che ggià ttiengo du’ teste!
Ma ddate tempo c’aritorni tata,
e vv’accommido er corpo pe le feste.
Io dico ch’è una cosa, ch’è una cosa,
che cce voría la fremma de li Santi:
nun z’ariposa mai, nun z’ariposa!
Li sentite bbussà l’appiggionanti?
3
Volete svejjà la sora Rosa,
che Ccristo v’ariccojji a ttutti cuanti?!
Roma, 4 dicembre 1832 - Der medemo
1
Celeste.
2
Nena, accorciativo di Maddalena.
3
Ne’ casi di soverchio romore sogliono gli abitanti inferiori percuotere il
soffitto con un bastone.
552. La mojje der giucatore
Commare mia, sò ppropio disperata:
nun pòzzo ppiú ddormì, nnun trovo loco.
Da che ha ppijjato la passion der gioco
st’infame de Matteo m’ha aruvinata.
Cuer po’ dde dota mia ggià se n’è annata
piú cche ll’avessi incennerita er foco:
e ssi vvedi la casa! appoco appoco
già mme l’ha ttutta cuanta svalisciata!
E jjerzera, Madonna bbenedetta!
che spasimo fu er mio come a cquattr’ora
me lo vedde tornà ssenza ggiacchetta!
1
Ma la cosa piú ppeggio che mm’accora,
sò ggravida, commare! Io poveretta
con che infascio sto fjo cuanno viè ffora?!
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
1
Camiciuola a maniche, vestimento ordinario del volgo.
553. Er carzolaro dottore
1
Ma ccome s’ha da dí: ggira la terra,
cuanno che Ggiosuè cco ddu’ parole
disse: «In nome de Ddio, fermete, o ssole,
fermete, cazzo!, e ffa’ ffiní la guerra»?
Pe rraggionà ccusí cce vò una sferra
che ppijji le tomare pe le sòle.
2
Chi nnun za che a Ppariggi in Inghirterra
sanno st’istoria cqui ttutte le scole?
Cuanno che mme dirai che ppe st’arresto
de sole se metterno
3
in cuarche ppena
l’antri che ll’aspettaveno ppiú ppresto,
cqua la raggione è ttua: perché er divario
mutò ll’ore der pranzo e dde la scéna,
4
e bbuggiarò li conti der lunario.
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
1
A Roma i calzolai e i barbieri sono i dottori del volgo.
2
Prende il tomaio per la suola.
3
Si misero.
4
Cena, con la c
strisciata, del secondo grado.
554. Le vorpe
Ma cquante vorpe a cquelli tempi antichi!
Nun zenti che Ssanzone in un momento
agnede
1
a ccaccia e nn’acchiappò ttrescento
pe sparagnà er granaro a li nimmichi?
E mmó, si ttu nun cerchi e ffora e ddrento,
si nun giri, nun zudi, e nnun fatichi,
cosa te vòi pijjà? ppijji li fichi.
2
Si ne trovi una te pòi dí ccontento.
Ma ss’a li tempi nostri nun ze trova
tante vorpe da fanne
3
un battajjone,
sia ringrazziat’Iddio: crescheno l’ova.
Cosa è mmejjo? o una vorpa de Sanzone,
o una gallina che tte fa la cova?
Pijja la bbiocca
4
si nnun zei cojjone.
Roma, 5 dicembre 1832
1
Andò.
2
I fichi stanno spesso per «nulla» nel linguaggio plebeo.
3
Farne.
4
Chioccia.
555. Er rifuggio
A le curte, te vòi sbrigà d’Aggnesa
senza er risico tuo? Bbe’, ttu pprocura
d’ammazzalla viscino a cquarche cchiesa:
poi scappa drento, e nnun avé ppavura.
In zarvo che tu ssei doppo l’impresa,
freghete der mannato de cattura;
ché a cchi tte facci l’ombra de l’offesa
una bbona scommunica è ssicura.
Lassa fà: staccheranno la liscenza:
ma ppe la grolia der timor de Ddio
c’è ssempre cuarche pprete che cce penza.
Tu nun ze’ un borzarolo né un giudio,
ma un cristiano c’ha pperzo la pascenza:
duncue, tu mmena, curri in chiesa, e addio.
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
556. Un privileggio
Da cristiano! Si mmoro e ppo’ arinasco,
pregh’Iddio d’arinasce a Rroma mia.
Vamm’a ccerca un paese foravia
dove se vòti com’a Rroma er fiasco!
Vamm’a ccerca p’er monno st’aricasco
de poté ffà un delitto chessesia,
eppoi trovà una cchiesa che tte dia
un ber càmiscio
1
bbianco de damasco.
L’hai visto a Ssan Giuvanni Decollato
cuello che ffesce a ppezzi er friggitore,
come la Compaggnia l’ha llibberato.
L’hai visto con che ppompa e ccon che onore
annava in priscissione incoronato,
come potrebbe annà ll’imperatore?
2
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
1
Càmice: specie di sacco o zimarra.
2
Fra gli altri privilegi di simil fatta goduti da varie fraternità di Roma, è notabile
la prerogativa di cui è investita la compagnia di S. Giovanni Decollato, che è quella che va a tumulare i cadaveri dei
giustiziati morti penitenti, dappoiché gl’impenitenti gettansi in una specie di fogna scavata appié del così detto Muro-
torto, avanzo delle antiche costruzioni della Villa Domiziana sul Pincio, e formante oggi parte del pomerio romano di
Onorio, tra le porte Flaminia e Pinciana. La Compagnia dunque poteva, e potrebbe anche adesso, liberare un
malfattore da morte, e menarlo processionalmente con torchio acceso nelle mani, vestito di damasco bianco, e
coronato di alloro, in segno di trionfo della misericordia sulla giustizia.
557. L’impieghi novi
Cià mmille strade uperte un bon zovrano
che vvò pprovede un zuddito fedele.
Pò ffallo Cammerlengo de Fregnano,
o appartatore de l’asceto e ffele:
pò mmannallo p’er monno a mman’a mmano
a scurtà li stuppini a le cannele;
e llui ammascherasse da Labbano
e ffà er tonto
1
a l’immasto de Racchele.
Guarda er marito de la bbella Nina:
hanno inventato un posto pe impiegallo
co ttrenta ggnocchi
2
ar mese de duzzina.
3
E, ortr’a cquesto, un calessie cor cavallo
perché vvadi a Ppalazzo oggni matina
a avvisà ssi ffa ffreddo o ssi ffa ccallo.
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
1
Fare il tonto, fingere di non accorgersi.
2
Scudi.
3
Dozzina per «onorario».
558. Un’antra usanza
Povero sor Canonico! è schiattato:
se n’agnede
1
a l’entrà dde primavera.
Come ch’ebbe er bijjetto de prelato
je pijjò un accidente, e bbona sera.
Li creditori, appena fu ccrepato,
j’abbifforno la casa e cquanto sc’era;
perché llui pe spuntà cquer prelatato
ce se spese, a ddí ppoco, una miggnera.
2
Bbono c’a le nipote ebbe cuscenza
d’ottenejje dar Papa sto conforto
de li scinqu’anni de sopravvivenza.
3
Sibbè in cuesto er Capitolo scià storto,
4
discenno ch’è una granne impertinenza
d’eguajjà un prete vivo a un prete morto.
Roma, 5 dicembre 1832 - Der medemo
1
Se ne andò.
2
Miniera.
3
È uso non infrequente a Roma, nel civile, come, anche di più, nell’ecclesiastico, di
accordare agli stipendiati alcuni anni di onorari dopo la lor morte, che per lo più servono a pagare i vizi della vita.
4
Ci
ha storto: dal verbo «starcere», storce, cioè: «torcere la bocca» in segno di disapprovazione o disgusto.
559. Le ggiurisdizzione
È un gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?!
1
S’aveva da vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino,
2
in zempiterno
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Roma, 5 dicembre 1832
1
Il palazzo de’ ministri di Spagna godeva immunità per un circondario che comprendeva molte contrade, popolate
perciò di meretrici.
2
Le suddette meretrici usavano di tendere un guanciale su’ balconi ove si affacciavano a far
caccia.
560. La madre de le Sante
Chi vvò cchiede la monna a Ccaterina,
pe ffasse intenne da la ggente dotta
je toccherebbe a ddí vvurva, vaccina,
1
e ddà ggiú
2
co la cunna
3
e cco la potta.
Ma nnoantri fijjacci de miggnotta
dìmo
4
scella,
5
patacca, passerina,
fessa, spacco, fissura, bbuscia, grotta,
fregna, fica, sciavatta, chitarrina,
sorca, vaschetta, fodero, frittella,
ciscia, sporta, perucca, varpelosa,
chiavica, gattarola, finestrella,
fischiarola, quer-fatto, quela-cosa,
urinale, fracoscio, ciumachella,
la-gabbia-der-pipino, e la-bbrodosa.
E ssi vvòi la scimosa,
6
chi la chiama vergogna, e cchi nnatura,
chi cciufèca, tajjola,
7
e ssepportura.
Roma, 6 dicembre 1832
1
Vagina.
2
Dar giù, cioè: «seguitare».
3
Cunno.
4
Diciamo.
5
Cella.
6
Cimosa: lembo rozzo di drappi: sta per «giunta, un-
di-più».
7
Tagliuola.
561. Er padre de li Santi
Er cazzo se pò ddí rradica, uscello,
ciscio, nerbo, tortore, pennarolo,
pezzo-de-carne, manico, scetrolo,
asperge, cucuzzola e stennarello.
Cavicchio, canaletto e cchiavistello,
er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
attaccapanni, moccolo, bbruggnolo,
inguilla, torciorecchio, e mmanganello.
Zeppa e bbatocco, cavola e tturaccio,
e mmaritozzo, e ccannella, e ppipino,
e ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.
Poi scafa, canocchiale, arma, bbambino:
poi torzo, crescimmano, catenaccio,
mànnola, e mmi’-fratello-piccinino.
E tte lascio perzino
ch’er mi’ dottore lo chiama cotale,
fallo, asta, verga, e mmembro naturale.
Cuer vecchio de spezziale
disce Priàpo; e la su’ mojje pene,
seggno per dio che nun je torna bbene.
1
Roma, 6 dicembre 1832 - Der medemo
1
Vedi il Sonetto intitolato L’omo e la donna.
562. De tutto un po’
Nun ho vvergogna a ddillo: oggi me moro
da la nescessità, ssora Felisce.
Sentite un po’ si cquarcuno ve disce
c’avessi mai bbisogno de lavoro.
Lo sapete ch’io sò ppropio un tesoro:
tesso le francie,
1
cuscio le camìsce,
sò ssartora, scuffiara e stiratrisce,
fo le lettre,
2
e rinnaccio all’aco d’oro.
3
M’ingegno de corzè, llavo merletti,
filo, aggriccio, ricamo er filundente,
e ttrapunto cuperte pe li letti.
E ttrattannose poi de cuarche amico...,
co ’na scerta
4
pelletta trasparente...
fò... vvienite a l’orecchia e vve lo dico.
Roma, 6 dicembre 1832 - Der medemo
1
Frange.
2
Cioè le lettere a punto sulle biancherie.
3
Rinacciare all’ago d’oro, si dice del «metter pezze in modo
ricucite, che non si scorga la commessura».
4
Certa.
563. Er pane e ’r companatico
Cuanto mai se pò scrive co la penna,
ortr’a la storia der Guerrin Meschino
e ll’antre cuattro de Paris e Vvienna,
Cacasenno, Bbertollo, e Bbertollino:
tutto cuer che sse disce e cche ss’azzenna,
tutto cuer che indovina un indovino,
sò ccome un’allegria senza marenna
1
e ccome un pranzo che cciamanchi
2
er vino,
appetto ar gran miracolo de Cristo,
che ccor un po’ de pane e un po’ dde pessce
seppe fà cquello che ggnisuno ha vvisto.
Fàmolo adesso noi si cciarïesce!
3
Mò pe ste cose er pessce è un farzo acquisto,
perché l’uscello è mmó cquello che ccresce.
Roma, 6 dicembre 1832 - Der medemo
1
Merenda.
2
Ci manchi.
3
Ci riesce.
564. Er bracco rinciunciolito
1
Raccontateme un po’, ssor faccia-tosta:
da che vve vedo de marcià in zaraca,
2
avete armato
3
puro
4
la lumaca?
5
Dite la verità, cquanto ve costa?
E cch’edè? un scallaletto de tommaca?
6
o spidiera?
5
o ccipolla? o ccallarosta?
5
Ma abbadate, perché cquanno se caca
sti cosi pe annà ggiú ssò ffatti apposta.
E a cche vve serve llí cquell’aggnusdeo
7
co ’na catena c’aricorda armanco
er zettimo o l’ottavo ggiubbileo?
8
St’orloggio in panza e sta saraca ar fianco
ve dà ll’aria d’un scribb’e ffariseo
che vvadi a mmette er bollo ar pane bbianco.
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il birro rincenciolito: che ha migliorato l’assetto esteriore.
2
Salacca: pesce salato, dicesi anche in derisione delle
spade o meglio squarcine.
3
Armare, per «metter su».
4
Pure, enziandio.
5
Tutti nomi derisori che si dànno a un oriuolo
di goffa figura.
6
Tombacco.
7
Agnus-dei: piccolo oggetto pensile formato di cera benedetta, e di una mistura in cui si
crede entrare per principale parte integrale una terra già bagnata del sangue de’ martiri. Qui sta per «oriuolo», in senso
di cosa antica.
8
Ogni pio cristiano non ignora i giubilei, o anni santi, ricorrere in oggi a periodi di 25 in 25 anni.
565. La cojjonella
1
Nun passa vorta ch’io nun ciariscoti
2
sparpaggnàccole
3
e rraschi a bbocche piene.
Bbisogna che sse penzino sti sscioti
4
ch’io sce tienghi la mmerda in de le vene.
E nun vonno capí, ccestoni
5
vòti,
c’un giorno o ll’antro c’a ste bbelle sscene
me se scuajjeno, cristo, li sceroti,
6
bbutto capezza,
7
e mme ne vedo bbene.
Fremma ne vojjo avé, ma er troppo è ttroppo:
e già ho ffatto capasce
8
er mi’ curato
che sta fregna
9
finisce co lo schioppo.
Lasseli divertí, per dio sagrato!
Cent’a lloro un’a mmé: ma o pprima o ddoppo
s’hanno d’accorge ar brodo si è stufato.
10
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il dileggio.
2
Ci riscuota.
3
Un tal suono prodotto al fiato che, spinto dalla lingua verso i labbri, li fa violentemente
aprire tremolando l’uno sull’altro. È tenuto per segno di spregio o di beffe.
4
Stolidi.
5
Teste.
6
Squagliarsi i cerotti,
vale: «perder pazienza».
7
Mi sfreno, lascio i riguardi.
8
Ho persuaso.
9
Abitudine molesta; insulto; avvenimento
spiacevole, ecc. ecc.
10
Vedranno agli effetti qual è la causa, ecc.
566. Le Case
Sin da cuanno me venne la sdiddetta
1
vado in giro pe ccase ogni matina:
e nn’averebbe trove una ventina,
ma a tutte cuante sc’è la su’ pescetta.
2
Cuella che sse sfittò jjeri a Rripetta
3
è un paradiso, ma nun c’è ccuscina,
l’antra c’ho vvisto mó a la Coroncina
4
ha una scala a llumaca stretta stretta.
Una a Ppiazza Ggiudia
5
serve ar padrone:
le dua in Banchi
6
nun c’è ttanto male,
ma jje vonno aricresce la piggione.
La tua è ppoca: cuella ar Fico
7
è ttroppa...
Bbasta, nun trovo un búscio pe la quale,
8
e sto ccome er purcino in de la stoppa;
9
perché er tempo galoppa,
e ssi ccase sò a Rroma, o bbelle, o bbrutte,
cuante n’ha ffatte Iddio l’ho vviste tutte.
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Disdetta: quell’atto legale di diffidare i pigionali al termine del fitto, affinché per patto tacito non si riconduca.
2
Pecetta: è quel tassello che ricopre un vizio nella superficie di checchesia; qui in senso traslato, «pecca, eccezione»,
ecc.
3
Il minor porto del Tevere.
4
Contada tra i Fori Traiano e Romano.
5
Piazza Giudea, su cui è patente la principale
porta del Ghetto degli Ebrei.
6
Contrada presso la Mole Adriana, così detta dall’adiacente Banco-monetario
dell’Ospedale di S. Spirito, in Sassia.
7
Piazzetta non lungi dal Foro Agonale.
8
Per la quale nel gergo romanesco vale
«non adatto, non conveniente».
9
Proverbio indicante imbarazzo.
567. L’appiggionante nova
Guardela, Tota, a cquel’ochiaccio ardito,
guardela a cquer ceffaccio de bbiscotto,
guardela a cquer cacciasse in ogni sito,
e ddamme torto poi quanno bbarbotto.
1
Nun zò ddu’ mesi c’abbita cqui ssotto,
e ’r viscinato ggià la mostr’a ddito:
nun zò, Ttota, du’ mesi, e ggià mm’ha rotto
tre o cquattro vorte er manico ar marito.
2
Me dirai c’un marito costa poco;
ma ffa’ ddurà sta vergna
3
un’invernata,
si cce va un occhio pe scallasse ar foco!
Lei lo pò ffà pperché ccampa d’entrata,
e sfarza su le bbraccia de cuer coco;
ma cqua nun c’entra che rrobba pagata.
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Da borbottare.
2
Marito è per le donne del volgo anche il «caldano» da uso per le mani e per sotto le vesti.
3
Affilamento di avventura spiacevole.
568. Manco una pe le mille
La vò rregazza, la vò bbella, ricca,
bbona, donna de casa, de decoro...
Se sa:
1
cchi vva ccercanno sto tesoro,
nun trova mai la forca che l’impicca.
2
Si nne vede una c’ha le mane d’oro,
3
subbito la facciata nun je cricca:
4
la vede bbella, e ssubito se ficca
ner cervellaccio che lo facci toro.
Una che n’incontrò jjeri in un loco,
perch’era un po’ accimata,
5
ebbe pavura
che jje manni la casa a ffiamm’e ffoco.
6
Sai come ha da finí sta seccatura?
Che, o resta scapolo, o a la fin der gioco
pijja in grazzia de ddio la scopatura.
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Si sa.
2
Modo proverbiale, esprimente lo schifo che taluno ha di tutto ciò che potrebbe scegliere al suo scopo.
3
Quella
donna ha le mani d’oro, che sa far tutto.
4
Non gli va a garbo l’esteriore.
5
Azzimata.
6
Mandare in rovina per le
prodigalità, ecc.
569. Er rosario in famijja
Avemmaria... lavora... grazia prena...
Nena, vòi lavorà?... ddominu steco...
uf!... benedetta tu mujjeri... Nena!...
e bbenedetto er frú... vvà cche tte sceco?...
1
fruttu sventr’e ttu Jeso. San... che ppena!...
ta Maria madre Ddei... me sce fai l’eco?...
Ora pre nobbi... ma tt’aspetto a ccena...
peccatori... Oh Ssignore! e sto sciufeco
2
de sciappotto
3
laggiú ccome sce venne?
Andiamo: indove stavo?... Ah, ll’ho ttrovato:
Nunche tinora morti nostri ammenne.
Grolia padre... E mmó? ddiavola! bbraghiera!
Ho ccapito: er rosario è tterminato:
finiremo de dillo un’antra sera.
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Formola di sfida, cioè: Quanto va che io ecc.
2
Checchessia di sgarbato e di goffo. Dicesi però più delle persone che
delle cose.
3
Lavoro imbrogliato.
570. Una bbella divozzione
Si vvò un terno sicuro, Aghita mia,
attacca a mmezza-notte er Crielleisonne,
di’ in ginocchione poi ’na vemmaria
una per omo
1
a ttredisci madonne.
Finito c’abbi er Noscumproleppia,
di’: «Bbardassarre, Gaspero e Mmarchionne»:
2
poi va’ ffora de casa e ttira via,
e ssi ssenti chiamà nun arisponne.
Va’ ddritto a Ssan Giuvanni Decollato,
3
rescita un Deprofunnisi in disparte
all’anima dell’urtimo impiccato;
4
e cquer che sentirai drento o a l’isterno
cerchelo doppo in ner Libbro dell’Arte;
5
e bbuggiaratte si nnun vinchi er terno.
Roma, 7 dicembre 1832
1
Uno per omo vale: «uno per cadauno», qualunque sia il genere di cui si parli.
2
Grande è il concetto in che dal volgo
sono tenuti i Re Magi della Epifania per la loro influenza sui misteriosi eventi.
3
In questa chiesa sono associati i
cadaveri de’ giustiziati da una fraternità specialmente a ciò addetta. Ivi concorrono in particolar modo le donne, onde
ottener numeri di sicura sortita al lotto. Un’altra divozione al medesimo scopo è da esse praticata salendo co’ ginocchi
(pure di notte) la lunghissima scalinata di S. Maria in Aracoeli, sul Campidoglio, e recitando ad ogni scaglione o una
Requiem aeternam o un De profundis, secondo l’agio o il fervore della postulante.
4
I giustiziati hanno una grande
cognizione delle future sorti del lotto.
5
Questo è il famoso libro de’ rapporti tra le cose e idee anche astratte ed i
numeri del lotto, libro adornato da orride figuracce di arte o mestieri, corrispondenti ad altrettante cifre della serie
giuocabile: libro finalmente che san leggere per miracolo anche gl’illetterati.
571. La Sibbilla
1
Ecchen’un’antra nova che mme porti!
Mo ar monno nun c’è stata la Sibbilla!
Ma nun zentissi
2
er giorno de li Morti
come lo disce chiaro la diasilla?
Tu abbada ar coro de sti colli-storti,
cuanno, piú è grosso er moccolo, ppiú strilla;
e ddoppo du’ verzetti corti corti,
sentirai che vviè ffora una favilla.
Appresso alla favilla esce una testa,
ch’è la testa de Davide; e in ner fine
viè una Sibbilla, e cquella antica è cquesta.
Va bbe’ che cqueste sò storie latine;
puro la concrusione è llesta lesta:
la Sibbilla c’è stata, e abbasta cquine.
3
Roma, 7 dicembre 1832 - Der medemo
1
Per la Sibilla vedi il Son…
2
Sentisti.
3
Qui.
572. Un pessce raro
Tra le trijje, linguattole
1
e sturioni
com’e cquelli ch’er Papa magna a ccena,
tra li merluzzi e ll’antri pessci bboni
de che ll’acqua der mare è ttutta piena,
ce sta un pessce c’ha ttanti de zinnoni,
faccia de donna e ccoda de bbalena,
e addorme l’omo co li canti e ssòni;
e sto pessce se chiama la serena.
2
Disce er barbiere
3
e ll’antre ggente dotte
che sta serena tutte le sonate
e le cantate sue le fa de notte.
Ecco dunque perché le schitarrate
che ffanno li paini
4
a le mignotte,
le sentimo chiamà le serenate.
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo
1
Sògliole.
2
Sirena, sulla quale il popolo spaccia le più strane notizie.
3
Ne’ barbieri e ne’ calzolari risiede tutto lo
scibile del volgo: e sono essi tenuti per oracoli!
4
Eleganti, damerini, ecc. Chiunque ha un abito con falde è un paino.
573. Er parto de Mamma
«Nonna, adesso che mmamma ha ppartorito
ve vojjo addimannà ’na cosa, nonna.
Dite: com’esce gravida una donna?»
«Nipote mia, cor fiato der marito».
«E a mmamma er pupo suo dove j’è uscito
«Da un ginocchio». «E cch’edèra
1
sta siconna
c’accennessivo
2
er lume a la Madonna?»
«Un antro pupo che nun è ffinito».
«E ll’omo partorisce?» «Eh, cquarche vvorta».
«Ma è vvero c’una donna fesce un lupo,
e un’antra appena partorito è mmorta?»
«Sicuro». «E pperché mmorze?»
3
«Pe lo sciupo
4
ch’ebbe in ner partorì, pperch’era storta».
«Nonna, me sa mmill’anni de fà un pupo».
Roma, 8 dicembre 1832
1
Cos’era.
2
Accendeste.
3
Morì.
4
Stento, strapazzo.
574. Er zoffraggio
«Mamma, pijjo er baiocco a la canestra
perché ggià er mannataro
1
de la Morte
l’ho ssentito strillà ttre o cquattro vorte
giù in ner portone e ssotto a la finestra.
La lemosina, ha ddetto la maestra
c’ar purgatorio je va a uprí le porte,
e ffa ll’anime sante íllere
2
e fforte
com’a nnoiantri er vino e la minestra.
Caso che nnoi ste porte oggi l’uprimo,
mamma, cor un baiocco de soffraggio,
chi scappa fora?» «Chi sse trova er primo».
«Perché nun l’ha l’inferno st’avantaggio?»
«Segno, fijja, che nnoi cuanno morimo
3
famo
4
pe annà a l’inferno un antro viaggio».
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo
1
I mandatari, sono una specie di servi eccesiastici della fraternità di Roma. Vestiti d’una goffa livrea, o dicasi pure
divisa, coi colori della compagnia alla quale appartengono, precedono i convogli funebri; intimano le associazioni dei
cadaveri, alle quali i confratelli concorrono in numero proporzionato al peso della candela che vi debbono lucrare;
hanno cura della proprietà interna de’ loro instituti; e una volta per settimana vanno in abito di costume e con una
bussoletta fra le mani a cantare sotto a’ balconi de’ devoti certa nenia monotona che chiede sempre danaro e termina
con un Deo-gratias. Ve ne ha in giro della Compagnia della Morte, del Suffragio, di Gesù Nazzareno, di Maria SS.ma
del Soccorso, di S. Gregorio Taumaturgo protettore dei casi disperati, ecc.; e il Deo-gratias di quest’ultimo è il più
solenne e stirato che si possa desiderare. Il tempo musicale di esso ha il valore di due buone massime.
2
Ilari.
3
Moriamo.
4
Facciamo.
575. Er Nibbio
1
Viette
2
cqui a ppettinà, pporca, maligna,
perfida, cocciutaccia,
3
profidiosa.
4
Lo sai cuant’è cche nun ze fa sta cosa?
da st’ottobbre c’annassimo a la vigna.
Che sserve? io strillo, e llei la pidocchiosa
m’arivorta le spalle e sse la ghigna!
Te vòi da vero fà vviení la tigna,
come si ffussi ggià ppoco tignosa?
5
Vale ppiú cquer tantin de pulizzía
che nun zo cche mme dí:
6
ma a tté ssull’occhi
se tratta che tte viè la porcheria.
T’abbasti de l’affare de li ggnocchi
c’hai fatti jjeri. In de la parte mia
sortanto sce contai sette pidocchi.
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo
1
Nome che si alle teste incolte e scompigliate.
2
Vieni, ecc.
3
Ostinata.
4
Pertinace con malignità.
5
Tignoso dicesi
tanto a chi soffre di tigna, quanto a colui che pecca di ostinazione.
6
Vale più ciò, che qualunque altra cosa ch’io mi
sappia dire.
576. Un bon partito
Hai sentito a cquer faccia de bbruscotto
1
c’antra furtuna mo jj’è ccapitata?
Sposa Lalla
2
la fijja ch’è arrestata
de cuer Cencio
3
che mmorze
4
galeotto.
Se la sò lliticata in zett’o otto,
perc’ortre de la dota a la Nunziata,
5
cuattr’antre Compagnie l’hanno addotata,
e mmó ttiè cquella che jj’è uscita al lotto.
6
Certi cazzacci che ssanno li studi
vorebbeno sta cosa criticalla,
perché cce vonno a ttutti cuanti iggnudi.
Va bbe’ cche ffijja a un galeotto è Llalla,
ma la su’ dota de trescento scudi
sò ttrescento raggione pe sposalla.
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo
1
Faccia pronta.
2
Accorciativo di Adelaide.
3
Simile di Vincenzo.
4
Morì.
5
La Confraternita dell’Annunziata, e varie
altre sogliono annualmente dotare varie fanciulle con alcune decine o unità di scudi.
6
Cadauno de’ cinque numeri
estratti al lotto porta seco il nome di una zitella che si dota con cinquanta scudi.
577. Le frebbe
Succede istessamente a mmi’ marito.
Si nun è una, è ll’antra sittimana,
turutuf
1
j’arïoca
2
la terzana,
che ssi lo vedi è ppropio arifinito.
Li ggiorni che nun viè sta frebbe cana,
sta mmosscio e arresta llì ttutto anniscito;
3
e mme ggira pe ccasa cor marito,
4
freddo ppiú dde la pietra de funtana.
Cuann’esce er zole, verz’er mezzoggiorno
tanto s’azzarda mezz’oretta a spasso;
ma cquanno piove me sta ssempre attorno.
La notte poi lo lasso stà lo lasso.
Mo ffra de noi che cce pò èsse? un corno.
5
Sia pe l’amor de Ddio: fascemo passo.
Roma, 8 dicembre 1832 - Der medemo
1
Segno di ripetizione o sopravvegnenza.
2
Traslato preso dal giuoco dell’oca, e vale: «ripetere il punto».
3
Tristanzuolo, assiderato, accidioso: di tutte queste cose un poco.
4
Caldano.
5
Nulla.
578. Er confronto
Che! un zervitore appetto d’un cucchiere
1
che ttiè in mano la vita der padrone?!
Un zervitore, c’o sta a ffà er portrone
sur cassabbanco,
2
o arregge er cannejjere!
3
Lo conosscete poco er mi’ mestiere,
sor Decàne,
4
pe mmette er paragone:
e vve date a scro
5
per un cojjone
fascenno co sta scòrza
6
er cavajjere.
Io guido li ppiù nnobbili animali
ch’Iddio mettessi in ne la terra vòta,
e ttu ttiri ar padrone li stivali.
Tra li cucchieri nun c’è ggente ssciota:
7
ma ttu e li pari tui sai cuanto vali?
cuanto un zomaro e un uditor-de-rota.
8
Roma, 9 dicembre 1832 - Der medemo
1
Sempre accesa è una generosa gara intorno alla dignità di un cocchiere posta in confonto con quella di un servitore.
2
Panca esistente nelle sale de’ servi.
3
Reggere il candelliere, tenere il moccolo, ecc., vale: «fare il testimonio degli
altrui amori».
4
Decano dei servi di una famiglia, ma per omaggio si suole concedere questo titolo a qualunque altro
servitore, al modo che si del reverendissimo ad ogni fratazzuolo.
5
Scoprire.
6
Livrea.
7
Sciocca.
8
Uditor di Rota è
propriamente uno de’ XII prelati giudici di quel tribunale: ma in senso ironico dicesi anche de’ servi, per lo udir che
fanno il romor delle ruote dietro a’ cocchi dei loro signori.
579. La concubbinazzione
1
«Ma, Eminenza, si vvò, llei pò aggiustalla:
m’ajjuti pe l’amor de la Madonna!
Sta supprica che cqui ggià è la siconna,
e intanto ho ffame e ddormo a Ssanta Galla».
2
A ste parole, da una stanzia ggialla
entra e ttrapassa una gran bella donna,
eppo’ un decane
3
co ’na conca tonna
e un ber cuccomo pieno d’acqua calla.
Er Cardinale me se fesce rosso
com’un gammero cotto,
4
a sto passaggio;
e nnun zeppe
5
ppiú ddì: «Fijjo, nun posso».
Ma ccome je sscennessi allora un raggio
dar celo, pe llevammese da dosso
stese er riscritto, e sse n’annò ar bon viaggio.
Roma, 9 dicembre 1832 - Der medemo
1
Storpiamento ironico del vocabolo combinazione.
2
Ospizio che dà ricovero la notte a chi è privo d’alloggio.
3
Vedi la
nota 4 del son…
4
Esiste in Roma il Collegio Germanico-Ungarico, i cui alunni pel loro vestimento rosso vengono
detti gamberi-cotti.
5
Seppe.
580. L’editto bbello
Avete visto l’editto, eh zio mio,
c’hanno attaccato mó a la Palommella?
1
Che bbella cosa! se discure ch’io
me sce sò storto er collo pe vvedella!
Annatel’a vvedé vvoi puro,
2
zio,
che vvederete una gran cosa bbella.
C’è un P, un I, e un O, che vvò ddí Ppio,
po’ ott’antre lettre, e vonno di Gabbella!
Eppoi sce sò le lettre zifferate
3
e ccento ggiucarelli tanti cari,
che vvoi de scerto
4
ve n’innamorate.
Eppuro
5
llí, tre osti e ddu’ fornari
ne disceveno cose da sassate...
Nun capischeno er bòno sti somari.
Roma, 9 dicembre 1832 - Der medemo
1
Contrada presso il Panteon.
2
Pure.
3
Cifrate.
4
Certo.
5
Eppure.
581. La curiosità
Lo sapevo! A l’uscí dde cose nove
ecchete in moto le ggente curiose
a sfeghetasse pe vvedé ste cose
e cconossce er Chi, er cuanno, er come, e ’r dove.
Ce n’accorgemo a cciccio
1
oggi a le prove
pe ste du’ tarantelle velenose.
2
Tutti vonno sapé cchi le compose:
ma er zor Chi ss’annisconne perché ppiove.
Si nun ce fussi cqui Ppiazza-Madama,
3
’gni pettorosso
4
che ppatissce er vizzio
conosscerebbe er manico e la lama.
Puro,
5
si de sto Chi vvonno un innizzio,
si vvonno indovinà ccome se chiama,
lo vadino a ccercà nner frontispizzio.
Roma, 9 dicembre 1832 - Der medemo
1
A capello, ad unguem.
2
Tarantella velenosa / Pizzica e mozzica e fa ogni cosa. Questo è il costante principio di que’
lunghi e rozzi canti popolari, per lo più goffamente satirici e mordaci, che si dicono perciò tarantelle. A siffatte
tarantelle e a’ ritornelli, consistenti in una specie d’epigrammi plebei di tre versi, il primo dei quali contiene sempre il
nome d’un fiore, si riduce tutta la poesia propria del volgo romano.
3
Piazza che prende il titolo dell’antico palazzo di
Caterina de’ Medici, fabbricato sulle rovine delle terme di Nerone e poi di Alessandro Severo, e divenuto dopo
Benedetto XIV residenza del Governatore di Roma, che vi tiene oggidí la generale polizia dello Stato.
4
Il pettirosso è
qui un simbolo di curiosità.
5
Purtuttavia.
582. Er cimiterio de la Morte
1
Sonetti 2
Come tornai da la Madon-dell’-Orto
2
co cquer pizzicarolo de la scesta,
3
agnede
4
poi cor mannataro
5
storto
ar Cimiterio suo che cc’è la festa.
6
Ner guardà cqueli schertri
7
io me sò accorto
d’una gran cosa, e sta gran cosa è cquesta:
che ll’omo vivo come ll’omo morto
ha una testa de morto
8
in de la testa.
E ho scuperto accusí cche o bbelli, o bbrutti,
o ppréncipi, o vvassalli, o mmonziggnori,
sta testa che ddich’io sce ll’hanno tutti.
Duncue, ar monno, e li bboni e li cattivi,
li matti, li somari e li dottori
sò stati morti prima d’èsse vivi.
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Cemetero della Confraternita della Morte, di cui vedi il sonetto seguente.
2
Chiesa di giurisdizione de’ pizzicagnoli in
Roma. In essa è un monumento sepolcrale, in cui vedesi un genio spegne una face, col motto: Bona notte, mastro
Jacomo.
3
Cesta.
4
Andai.
5
Intorno ai mandatari vedi il sonetto…
6
La celebrazione dell’ottavario de’ defunti.
7
Scheletri.
8
I teschi non sono chiamati dal volgo che colla perifrasi di teste-di-morto.
583. Er cimiterio in fiocchi
1
Chi nun vede nun crede, sor Valerio.
Io nun zo in cuar paese sce se possi
fà ppiú bbelli lavori, e ffini e ggrossi,
de cuelli de la Morte ar Cimiterio!
Ve dico propio ch’è un affare serio
de sscejje li ppiú bbianchi e li ppiú rossi,
e ffà ppuro li fiori a fforza d’ossi!
Anime sante, che bber rifriggerio!
Come vòi ch’er Zignore, si ppe ssorte
tutti sti ggiucarelli l’ha ssaputi
che ssò in zuffraggio de le ggente morte,
come vòi, dico, che ssi ll’ha vveduti,
lui nun spalanchi subbito le porte
a cquell’anime sante, e nnun l’ajjuti?
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
In pompa. Tutto ciò che si vede in quel Cemetero, e di suppellettili e di ornamenti, è fabbricato di resti umani, tolti
per questo uficio dal loro sacro riposo.
584. Er mostro de natura
Che vvòi che sseguitassi! Antre campane
sce vonno, sor Mattia, pe cquer batocco!
L’ho ssentit’io ch’edèra
1
in nel’imbocco!
Ma ffréghelo, per dio, che uscello cane!
Va ccosa ha d’accadé mmó a le puttane!,
de sentimme bbruscià cquanno me tocco!
Si è ttanto er companatico ch’er pane,
cqua ssemo a la viggija
2
de San Rocco.
3
N’ho ssentiti d’uscelli in vita mia:
ma cquanno m’entrò in corpo quer tortore
4
me sce fesce strillà Ggesummaria!
Madonna mia der Carmine, che orrore!
Cosa da facce
5
un zarto
6
e scappà vvia.
Ma nun me frega
7
ppiú sto Monzignore.
Roma, 9 dicembre 1832 - Der medemo
1
Cos’era.
2
Vigilia.
3
Nell’ospizio annesso alla chiesa di S. Rocco si raccolgono le donne prossime ai parti di
contrabbando.
4
Tortore è in Roma «un ramo d’albero troncato in misura giusta per ardere nei camini».
5
Farci.
6
Salto.
7
Non mi corbella, non mi ci prende più.
585. Li fiori de Nina
Fiori, eh Nina? Ma ffiori tal’e cquale?
Fior de pulenta,
1
sí, propio de cuello
da tajjasse a ffettine cor cortello,
e ppoi méttelo in forno co le pale.
Me n’accorgo, per cristo, a l’urinale
si cche ffiori m’hai messo in de l’uscello!
Sai si cche ffiori sò, ccore mio bbello?
Cuelli der giardinetto a lo spedale.
Eppoi se vede chiaro a li colori,
ggiallo, rosso, turchino e bbarberesco,
che ste grazziette tue sò ttutti fiori.
E infatti, guard’iddio t’arzi la vesta,
da cuelli fiori che cce tienghi in fresco
viè ffora una freganza che ti appesta.
2
Roma, 10 dicembre 1832
1
Gonorrea.
2
Comunemente dicesi in Roma di un forte odore: è un odore che appesta.
586. Le confidenze de le regazze
Sonetti 8
Aghita, senti: da un par d’anni bboni
l’ommini io ppiú li guardo e mmeno pòzzo
1
arrivajje a ccapì cche ssii quer bozzo
2
che ttiengheno tramezzo a li carzoni.
Pare, che sso... ’na provatura...
3
er gozzo
che cciànno drent’ar petto li capponi...
o cquer coso
4
che ppènne a li craponi...
5
oppuro er piommo de la molla ar pozzo...
Ma appena viè er cugnato de la sposa
a accompaggnà la sora Bbeatrisce,
propio je vojjo domannà sta cosa.
Ccusí bbon giuvenotto è cquer Felisce,
che, vvedennome a mmé ttanta curiosa,
si cquarche ccosa sc’è, llui me la disce.
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Posso.
2
Bozza.
3
Specie di formaggio fresco, per lo più di latte bufalino, del volume e della forma presso appoco
simili a ciò a cui qui si allude.
4
Il coso e la cosa sono nel parlar volgare i rappresentanti generali di ogni idea di cui
manchi il vocabolo.
5
Caproni.
587. [Le confidenze de le regazze]
Àghita, sai? je l’ho ggià detto a cquello:
e llui s’è sbottonato li carzoni,
e mm’ha ffatto vedé ccome un budello
attaccato a ddu’ ova de piccioni.
Quer coso disce che sse chiama uscello,
oppuro cazzo, e ll’antri dua cojjoni.
Io je fesce:
1
«E cch’edè
2
sto ggiucarello?
E sti du’ pennolini a cche ssò bboni?».
Mo ssenti, Àghita mia, quello che rresta.
Disce: «Fa ddu’ carezze a sto pupazzo».
Io je le fesce, e cquello arzò la testa.
Perantro è un gran ber
3
porco sto sor cazzo,
perché ppoi, strufinannome la vesta,
ce sputò ssopra, e mme sce fesce un sguazzo.
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
«Feci», per dissi.
2
Cos’è.
3
Bel.
588. [Le confidenze de le regazze]
Tuta,
1
io da un pezzo lo sapevo quello
c’all’omminì je sta nne li carzoni,
pe vvia che ttra li vetri e lo sportello
li guardavo piscià pe li cantoni.
Oh, cche ppoi se chiamassi o ccazzo, o uscello;
che cciavessi attaccati sti cojjoni;
e cche sti cazzi sò ttanti porconi,
io nun potevo, Tuta mia, sapello.
Come torna Felisce, dijje, Tuta,
pe cche raggione quanno se strufina
sto cazzo o uscello su le veste, sputa.
Perch’io stanno
2
a gguardalli la matina
piscià ar cantone, nun j’ho mmai viduta
sta sputarella, ma ’ggnisempre urina.
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Accorciativo di Gertrude.
2
Stando.
589. [Le confidenze de le regazze]
Àghita, senti: jjeri ch’era festa
tornò Ffelisce, er cavajjer zerpente,
1
pe ddimme s’io sciavevo puramente
2
er gallo com’er zuo c’arza la cresta.
Io je disse de no, ma ffinarmente,
pe llevajje sti dubbi da la testa,
ridennome de lui m’arzai la vesta
pe ffà vvedé cche nun ciavevo ggnente.
«E cch’edè Ttuta? cqui cce tienghi un buscio»,
me disse lui: «viè un po’ in nell’antra stanza
ch’io co un aco che cciò tte l’aricuscio».
Poi me porta de llà ddove se pranza,
cava er zu’ bbúschero, e a ffuria de struscio
3
me lo ficca pe fforza in de la panza.
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Cavalier serpente, per ischerzo invece di cavalier servente.
2
Altresì, pure.
3
Stropicciamento violento.
590. [Le confidenze de le regazze]
«E cche ssentissi,
1
Tuta, in ner momento
che Ffelisce te fesce quer lavore?»
«Cominciai a ssentí ttanto dolore,
che vvolevo scappà ppe lo spavento».
«Eppoi?» «M’intese
2
come un svenimento
e inzieme a bbatte presto-presto er core».
«Bbè, ttira avanti». «Eppoi un gran brusciore».
«E allora?» «E allora er coso m’annò ddrento».
«E llui tratanto?» «Se pijjava gusto
de metteme la lingua in de la bbocca,
e ccacciamme le zinne for der busto».
«E ttu?» «E io, si mmaippiú llui me tocca,
nun vojjo ppiú ste bbrutte cose». «Eh ggiusto!».
«No, nu le vojjo ppiú». «Quanto sei ssciocca!»
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Sentissi.
2
«Intesi», per sentii.
591. [Le confidenze de le regazze]
«Tuta, si vviè Ffelisce stammatina,
dijje che all’ora ch’io torno da scòla
1
guardi quanno che Mmamma sta in cantina,
e entri, c’ho da dijje una parola».
«E cche ccosa vòi dijje, scivettola?»
«Ciò da parlà dde scerta
2
tela fina...».
«Ma ppropio propio tela, eh Aghitina?
no de quer coso longo che jje scola?»
«E ssi ffussi accusí, cche cc’è dde male
de vedé si er giuchetto de Felisce
fascènnolo
3
co un’antra è ttal’e cquale,
o ssi ttu mme sciai fatto la cornisce?
4
Eppoi tu ttanto
5
ggià cciai messo er zale,
6
e nnu lo vòi ppiú ffà». «Chi tte lo disce?».
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Le ragazze sartrici o cuffiaie dicono scuola, il luogo dove vanno al mestiere.
2
Certa. Parlare di certa tela, è una frase
evasiva ed ironica.
3
Facendolo.
4
Far la cornice, cioè adornare, accrescere checchessia.
5
In tutti i casi.
6
Mettere il sale
sopra una cosa: abbandonarla per non pensarci più.
592. [Le confidenze de le regazze]
Aghita mia, e cche vorà ddí adesso
ch’è ggià er ziconno e mmommò er terzo mese
che nun vedo ppiú ssegno de marchese?
Aghita, di’, che mme sarà ssuccesso?
Oggnuna de l’amiche che cciò intese
disce: «Vierà sta sittimana appresso»:
ma er pannuccio io però nun l’ho ppiú mmesso;
e lloro stanno a ride a le mi’ spese.
Ch’edè?! ttu ppuro nun t’è ppiú vvienuto?!
Da cuanno, Aghita?, di’... Ppropio è un veleno
duncue er zugnà
1
dde quer baron futtuto!
Oh cche llusce de Ddio! Mo l’ho ccapito
quer lavore ch’edè: ggnente de meno
che cquello che ppò ffa mmojje e mmarito!
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Zugnare. Questo verbo plebeo significa un’azione continua, viva e non bene intesa, di una persona sopra una cosa, od
anche sopra un’altra persona.
593. [Le confidenze de le regazze]
Tuta mia cara, come Mamma ha vvisto
ch’io nun davo ppiú ppanni cor rossetto,
m’è vvienuta a gguardà ddrento in ner letto,
m’ha ddetto vacca, e ppoi m’ha ddato un pisto.
1
Sia tutto pe l’amor de Ggesucristo:
ha vvorzuto accusí Ddio bbenedetto.
Tutti guadagni de quer ber giuchetto
che cc’è vvienuto a ffà vvedé cquer tristo.
Tratanto io sto accusí: vvommito e ttosso;
sino er pane, ch’è ppane, nu lo tocco,
e ppe la vita nun ciò ssano un osso.
Mamma spaccia ch’è stato lo scirocco
che ha ffatto diventamme er corpo grosso;
ma ppoi me manna a vvilleggià a Ssan Rocco.
2
Roma, 10 dicembre 1832 - Der medemo
1
Mi ha pestata di percosse.
2
Ospizio dove si ricoverano le donne che vogliono sgravarsi segretamente.
594. Er bon padre spirituale
«Accúsati figliuola». «Me vergogno».
«Niente: ti aiuto io con tutto il cuore.
Hai dette parolacce?» «A un ber zignore».
«E cosa, figlia mia?» «Bbrutto carogno».
«Hai mai rubato?» «Padre sí, un cotogno».
«A chi?» «Ar zor Titta». «Figlia, fai l’amore?»
«Padre sí». «E come fai?» «Da un cacatore
ciarlamo». «E dite?» «Cuer che cc’è bbisogno».
«La notte dormi sola?» «Padre sí».
«Ciài pensieri cattivi?» «Padre, oibò».
«Dove tieni le mani?» «O cqui o llí...».
«Non ti stuzzichi?» «E cc’ho da stuzzicà?»
«Lì fra le cosce...». «Sin’adesso no,
(ma sta notte sce vojjo un po’ pprovà)».
Roma, 11 dicembre 1832 - Der medemo
595. Er confessore
«Padre...». «Dite il confiteor». «L’ho ddetto».
«L’atto di contrizione?» «Ggià l’ho ffatto».
«Avanti dunque». «Ho ddetto cazzo-matto
a mmi’ marito, e jj’ho arzato
1
un grossetto».
2
«Poi?» «Pe una pila che mme róppe
3
er gatto
je disse for de mé: “Ssi’ mmaledetto”;
e è ccratura de Ddio!». «C’è altro?» «Tratto
un giuvenotto e cce sò ita a lletto.
«E llí ccosa è ssucesso?» «Un po’ de tutto.
«Cioè? Sempre, m’immagino, pel dritto».
«Puro a rriverzo...». «Oh che peccato brutto!
Dunque, in causa di questo giovanotto,
tornate, figlia, cor cuore trafitto,
domani, a casa mia, verso le otto».
Roma, 17 dicembre 1832 - Der medemo
1
Alzare, per «rubare».
2
Mezzo paolo d’argento.
3
Ruppe.
596. La sborgna
1
Sta piccola cacona,
1
eh Ggiuacchino?
e ste cotte
1
che cqui pporti ar Curato?
Oggi propio pòi dí ccotto sporpato
2
da li capelli all’uggne
3
der detino.
Nun ce sò gguai:
4
come se trova vino
da èsse fascirmente incanalato,
5
tu tte sce vòi inummidí er palato
sin che cce n’è una goccia in magazzino.
Bbravo! perché sei omo da particce
6
co ddu’ cotte pe ggiorno: e cquesto è er modo
de falle mantiené ’ggnisempre gricce.
Cusí una tira l’antra, e tte sce lodo:
che ssempr’è bbene for de le pellicce
1
de lassà un filo pe ppoi facce er nodo.
Roma, 11 dicembre 1832 - Der medemo
1
Questi vocaboli, e altri, sono in Roma sinonimi di ubbriacature. Nelle pellicce e cotte è poi un equivoco, su cui i
Romaneschi si estendono in fizzanti allusioni.
2
Spolpato.
3
Unghie.
4
Non v’è rimedio: non v’è da dire.
5
Quel vino
dicesi che incanala, il quale è tonnarello, cioè «dolcigno».
6
Da avventurarsi, da procedere, ecc.
597. Li negozzi sicuri
Vòi ’mparà a ffà cuadrini a la romana?
Ecchete in du’ parole la maggnera.
Da’ ttera rossa tu pe ppuzzolana:
1
metti la sòla vecchia tinta nera:
spaccia acquavita nova de funtana:
scuajja un terzo de sego
2
in de la scera:
3
fa’ vviení rrobba, e ffrega la dogana:
nisconni un piommo sotto a la stadera:
bbulli er caffè dde cesci e dde fascioli:
venni
4
er barattoletto pe mmanteca:
appoggia
5
la semata de pignoli:
sfujjetta er vino bbianco de sciufeca:
6
si ttu ccrompi,
7
opri l’occhi; e all’antri soli
fa’ ppij le tu’ cose a gattasceca.
8
Roma, 12 dicembre 1832 - Der medemo
1
Terra vulcanica, eccellente per fare cemento con calce.
2
Sevo.
3
Cera.
4
Vendi.
5
Appoggiare si usa per «dare», ne’
casi poco piacevoli per chi riceve.
6
Vulva.
7
Comperi.
8
Giuoco, nel quale la gatta-sceca è una persona bendata, che
deve trovare chi fa molti la colpì. Gattasceca, vatt’a ccerca chi tt’ha ddato è la frase di uso per indicarle il principio
del suo giro.
598. Sicu t’era tin principio nunche e ppeggio
1
Ar monno novo è ccome ar monno vecchio:
cqua dde curiali sce ne sò sseimila;
e li pòi mette tutticuanti in fila,
ché ssempre è acqua cuer che bbutta er zecchio.
Ce sò ppassato, sai?, pe sta trafila:
a ssentí a lloro, ognun de loro è un specchio;
ma o ccuriale, o mmozzino, o mmozzorecchio,
2
tutti vonno maggnà ne la tu’ pila.
Pe ccarità, nnun mentovà Ssant’Ivo!
3
Ché o Ssant’Ivo o Ssant’Ovo,
4
a sto paese
dillo un prodiggio si ne scappi vivo.
Ma a Ssant’Ivo sò angioli o ccuriali?
Curiali? ebbè, cquer che sparagni a spese
ar fin der gioco se ne va a rrigali.
Roma, 12 dicembre 1832 - Der medemo
1
Così dicesi dal popolo a indicare durata e accrescimento del male.
2
I due ultimi vocaboli sono sinonimi di «leguleio
cavilloso»
3
Congregazione con ispeciale instituto di difender gratis le cause de’ poveri; ma!…
4
Di simili bisticci
usansi in Roma per dire che, comunque sia, la va a un modo.
599. Santaccia de Piazza Montanara
1
Sonetti 2
Santaccia era una dama de Corneto
da toccà ppe rrispetto co li guanti;
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva dà rresto a ttutti cuanti.
Pijjava li bburini
2
ppiú screpanti
3
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto:
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
fasceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei, pe ccontentà er villano,
a ccorno pístola e a ccorno vangelo
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano.
E ppe ffà a ttutti poi commido er prezzo,
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo
uno pell’antro a un bajocchetto er pezzo.
Roma, 12 dicembre 1832 - Der medemo
1
Notissima e sozzissima meretrice di chiara memoria, la quale teneva commercio nella detta piazza, solito luogo di
convegno dei lavoratori romagnoli e marchegiani per trovarvi a far opera.
2
Sinonimo de’ nominati villani.
3
Vistosi.
600. Santaccia de Piazza Montanara
1
A pproposito duncue de Santaccia
che ddiventava fica da ogni parte,
e ccoll’arma e ccor zanto
2
e cco le bbraccia
t’ingabbiava l’uscelli a cquarte a cquarte;
è dda sapé cc’un giorno de gran caccia,
mentre lei stava assercitanno l’arte,
un burrinello co l’invidia in faccia
s’era messo a ggodessela in disparte.
Fra ttanti uscelli in ner vedé un alocco,
«Oh», disse lei, «e ttu nun pianti maggio?»
3
«Bella mia», disse lui, «nun ciò er bajocco».
E cqui Ssantaccia: «Aló, vvièccelo a mmette:
sscéjjete er búscio, e tte lo do in zoffraggio
de cuell’anime sante e bbenedette».
Roma, 12 dicembre 1832 - Der medemo
1
Veggasi la chiamata 1
a
del sonetto n. 1 del medesimo titolo.
2
Arma e santo, è il dritto e rovescio della moneta con
che giuocano i plebei al così detto marroncino. Vedi il sonetto…
3
Frase di egual senso alla simile toscana.
601. L’otto de descemmre
Per oggi, Cuccio
1
mio, nun sfutticchiamo:
2
nun sfutticchiamo, no, ffàmo orazzione.
Nun zai oggi che ffesta scelebbramo?
La santa e immacolata Concezzione.
Doveressi capí che cquanno Adamo
nun zeppe superà la tentazzione,
e sse maggnò cquer frutto de cuer ramo,
su in paradiso se serrò pportone.
Sin da cuer giorno la madre natura
nun poté llavorà ffor de condanna
manco, se viè ppe ddí, mmezza cratura.
E ttra l’uscelli e ssorche ch’Iddio manna,
nun fu assente
3
arcun’antra futtitura
che dde san Giuvacchino e dde sant’Anna.
Roma, 13 dicembre 1832 - Der medemo
1
Accorciativo di Domenicuccio.
2
Il senso dello sfotticchiare qui s’intende qual è. I volgari lo adoperano però ancora
per esprimere un’azione non bene determinata e di dubbio successo. Per esempio: Che tte sfutticchi?
3
Esente.
602. Un gastigo de la Madonna
A le storielle tue io nun ce storcio:
1
duncue credi a le mie. Ggiggia e Ggrilletto
s’ereno chiusi a ttanto de scatorcio
2
pe cquer tal’affaruccio che tt’ho ddetto.
E ggià staveno a mmette a lo spilorcio
der marito una penna ar cappelletto,
cuanno a cquer tipp’e ttappe
3
ecchete un zorcio
che scappa da un cuscino accapalletto.
Visto er nimmico suo, subbito er gatto
pijja l’abbriva, s’aggrufa, se corca,
eppoi zompa sur letto ippisifatto.
4
Senti che ccaso! cuella bbestia porca
nell’impito aggranfiò ttutt’in un tratto
un uscello incastrato in d’una sorca.
Roma, 13 dicembre 1832 - Der medemo
1
Storcere (d’onde storcio in luogo di storco), significa «quel storcere di bocca che si fa in udir cose che non
aggarbano»
2
Catorcio.
3
Tremolio proprio del caso.
4
Ipso-facto. Non è infrequente in Roma l’uso di modi latini, dove
tutta la vita si conduce all’uopo di adagi, accomodati ad ogni specie d’avvenimenti.
603. Una disgrazzia
Come sò le disgrazzie! Ggiuveddí
in d’un orto viscino a Bbervedé
1
ciannassimo un tantino a ddivertí
Pepp’er chiavaro, Bennardino e mmé.
Cuanto stassimo alegri! Abbast’a ddí
che cce bbevessim’un barile in tre:
e vverzo notte, in de l’uscí de llí
pijjassimo er risorio
2
in d’un caffè.
Ma ar tornà a ccasa poi, ner zalí ssú,
cosa diavolo fussi io nu lo so,
sbajjai scalino e mme n’agnedi ggiú.
Ste scale nu le vònno illuminà:
e ecchete spiegato, Picchiabbò,
come sò le disgrazzie a sta scittà.
Roma, 13 dicembre 1832 - Der medemo
1
Belvedere: uno dei lati del Vaticano, rivolto ad oriente, a cui corrisponde il Museo Pio-Clementino-Chiaramonti.
2
Rosolio.
604. Er zanatoto
1
ossii er giubbileo
Sonetti 3
Mancosiamale che nnun zemo cani!
Già sta attaccato pe le sagristie
un bell’editto pe abbassà li grani
e ppe ffà tterminà le caristie.
Chi dduncue, incomincianno da domani
inzin’ar giorno delle Befanie,
2
pregherà ppe li prencipi cristiani,
poi pe l’esartazzion de l’aresie
e ppe l’estirpazzion de Santa Cchiesa:
dànnose,
2a
co lliscenza,
2b
ar culiseo
3
’na bbona snerbatura a la distesa;
abbasta che nnun zii turco né abbreo
né de st’antra canajja che jje pesa;
4
er Papa j’arigala er giubbileo.
Roma, 13 dicembre 1832 - Der medemo
1
Santa-totum.
2
Da Epifania si è fatto Befania, ovvero la festa delle befane, larve che vengono un paese lontano, e
discendono giù pe’ camini a spaventare o regalare i fanciulli, secondo il merito. Que’ meschinelli digiunano la sera
della vigilia di tanta festa, onde offerire colla loro cenetta un ristoro alla povera befana, che spende tante migliaia
onde togliere i genitori la riconoscenza del beneficio.
2a
Dandosi.
2b
Modo di chiedere perdono allorché si nomini
alcuna sconceria.
3
Ano.
4
Gente che jje pesa: frase significante «anime gravi di colpe».
605. [Er giubbileo]
Er giubbileo
1
me piasce: e nnun confonno
come li frati er coro e ’r rifettorio.
Lui è bbono a cchi ttribbola in ner monno
e a cchi sta ttribbolanno in purgatorio.
Io però ddico che ppapa Grigorio
doveva dà la tasta un po’ ppiú a ffonno;
perché, ccazzo, sto Deusinaddiutorio
nun è a Rroma né er primo né er ziconno.
Chi ccampa co le mmaschere, fratello,
sto ggiubbileo nun ha da dillo un furto,
un’invenzion der diavolo, un fraggello?
Si st’anno er carnovale fussi longo,
bbuggiarà er giubbileo:
2
ma è ttanto curto!
Bbasta, speramo che cce naschi un fongo.
3
Roma, 13 dicembre 1832 - Der medemo
1
Questo tesoro spirituale colpì il finire dell’anno 1832 e il cominciare del 1833.
2
A la buon’ora il giubileo.
3
Cioè:
«che ci nasca di mezzo un accidente impensato, come i funghi sorgono dove non si aspettano».
606. Er giubbileo
Cqui nun c’è da dà gguazza,
1
sor baggeo:
2
er Papa, grazziaddio, nun è un cojjone;
e ssubbito
3
c’ha mmesso er giubbileo
ciaverà avuto le su’ gran raggione.
Prima de tutto cuer zu’ amico abbreo
che jje venne
4
un mijjaro pe un mijjone,
ggira ancora cqua e llà strillanno aeo
5
senza viení a la santa riliggione.
6
Ma cche stamo a gguardà ll’abbreo Roncilli!
Ve pare che cce siino sott’ar zole
poc’antri ladri cqui da convertilli?
Ecco duncue che ssenza èsse bbizzoco
se pò strigne er discorzo a ddu’ parole:
che un giubbileo pe ttanti ladri è ppoco.
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Beffe.
2
Persona che affetta lo spiritoso, il grazioso, ecc.
3
Posto che.
4
Vende.
5
Grido degli ebrei che van girando per
roba di ricatto.
6
Vedi su ciò il son…
607. Un vitturino de Montescitorio
1
Cqua nun viengheno Ingresi c’addrittura
nun pijjino carrozze e ccarrettelle
pe annà a vvéde er Museo
2
de Raffaelle
e ttutti l’antri cuadri de pittura.
Cuelle facce me pare de vedelle:
nun zò smontati ancora de vittura,
che incominceno ggià, bbotta sicura,
a invetrí ll’occhi e a ddí: Cche cosc’e ppelle!
3
Ar riviení ppoi ggiù co cquer zomaro
de l’anticuario, a tté li paroloni
de Raffaelle, de cuer gran cuadraro!
Che bbella forza de li mi’ cojjoni!
La bbravura l’ha avuta er coloraro
che jj’ha vvennuto li colori bboni.
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Piazza di stazione de’ legni di vettura. Il nome di Monte lo trae dal formare dessa una piccola prominenza sopra le
rovine dell’antico anfiteatro di Statilio Tauro; l’altro di Citorio le viene dal palazzo della Curia Romana, che ne forma
la faccia principale. Nel mezzo di questa piazza sorge l’obelisco solare di Augusto, ivi eretto per cura di Pio VI.
2
Le
personcelle che affettano un pocolino di cognizionuccia del corretto parlare, che le son molte, e in ispezie le donnette
anche della non ultima classe, dicono moseo: o perché stimano di quello essere stato istitutore Mosè, o perché non
aggarbi alla civiltà loro quel vocabolo muso, donde il nome può prendere origine. Ma il genuino popolaccio dice a
man franca museo; ed ecco un’altra voce restituita dall’ignoranza al suo dovere, come per lo spirito d’irrisione
vedemmo accadere in frustagno.
3
Scherzo romanesco per dire che cose belle!, inserito qui tanto per vilipendio del
soggetto principale, quanto per modo di beffe della pronunzia de’ forestieri.
608. Un antro vitturino
M’aricconta mi’ padre che l’Ingresi
c’ar zu’ tempo a li stati papalini
ce vienivano a ffà li milordini,
1
spenneveno da prencipi Bborghesi.
2
Ma bbisogna che mmó cquelli paesi
abbino dato fonno a li cuadrini,
perché mmó sse la passeno a llustrini,
3
e bbiastímeno
4
poi d’avélli spesi.
Io m’aricordo sempre, m’aricordo,
d’uno che mme maggnò la bbonamano,
5
e ppiú strillavo ppiú fasceva er zordo.
Io je disse però dda bbon romano:
«Accidentacci in faccia ar zor Milordo
ch’è sbarcato a la chiavica de Fiano».
6
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Dalla parola mylord è derivato in Roma il vocabolo di milordo o milordino, in significazione di «uomo azzimato».
2
Per dinotare ricchezze e splendidezza, il volgo introduce sempre il paragone della famiglia principesca dei Borghese.
3
Mezzi paoli d’argento.
4
Bestemmiano.
5
Soprappiù del prezzo di nolo, che i vetturini non mancano mai di pretendere,
mai di riputar sufficiente.
6
Cloaca che sembra un portone, patente nel bel cuore del Corso romano, intorno al
palazzo degli Ottoboni Duchi di Fiano, prossima però adesso a scomparire, mercé la nuova livellazione già
incominciata di quella via.
609. Er musicarolo
1
Bbravo, per dio! Ma bbravo Ggiuvannino!
E cchi tte lo sapeva st’avantaggio
de fà cco ttanta grazzia er canterino?!
Mo mme n’accorgo che cc’è ppoco a mmaggio.
Ma abbada de nun róppete er cantino,
ché allora, sora musica, bbon viaggio!
Saría un peccato, perché ccanti inzino
mejjo assai d’una nota de cariaggio.
Io sentivo jjerzera st’orghenetto!...
e ffesce co mmi’ mojje: «Eh cquesto è ll’asso!
2
senti si cche vvolate! uh bbenedetto!».
Tratanto me spojjavo passo passo,
e ffinarmente me n’aggnede
3
a lletto
a ffatte
4
pe dde dietro er contrabbasso.
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Nome beffardo dato a chi si diletta di canto.
2
Asse: carta principale al giuoco della biscola.
3
Me ne andai.
4
A farti.
610. L’Omo de Monno
Pe cquante case ch’io me sii ggirate,
fascenno er zervitore, inzino a mmone,
1
ho vviduto pe ttutto le padrone
’gnisempre o bbuggiarone, o bbuggiarate.
Le zitelle, o da poco maritate,
l’ho vvidute oggnisempre bbuggiarone:
ma ppoi, passato er tempo der cojjone,
l’ho vvidute oggnisempre cojjonate.
Tu gguarda cqui ar cammino sta spidiera,
2
che ggira e ggira e ffa ssempre un lavoro:
cusí vva pe le donne a una maggnera.
Sin che cc’è ggioventú, l’argento e ll’oro
se lo pijjeno a ppeso de stadera:
cuanno sò vvecchie poi pagheno lòro.
3
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Mo: ora.
2
Schidione, spiedo a ruote e peso.
3
Con l’o aperta.
611. Sant’Orzola
Undiscimila vergine, sagrato!
undiscimila, cazzo!, e ttutt’inzieme?!
Jèsummaria! ma vvedi cuanto seme
che ppoteva impiegasse,
1
annà spregato!
E a ttempi nostri tanti che jje preme
de pescà un búscio arcuanto
2
conzervato,
d’undiscimila c’abbino pescato
nun ne troveno dua! Tutte medeme!
3
Undiscimila vergine! che ppasto
da conzolà un mijjaro de conventi!
Tutte zitelle! Ma cchi è annato ar tasto?
Ce volemo accordà? Pavolo, senti:
o ffra ttante zitelle sc’era er guasto,
o ereno per dio tutt’accidenti.
4
Roma, 14 dicembre 1832 - Der medemo
1
Impiegarsi.
2
Alquanto.
3
Tutte uguali (medesime).
4
Orridamente brutte.
612. San Pavolo prim’arimita
1
Sonetti 2
San Pavolo era un zanto c’abbitava,
pe nnun pagà ppiggione, in d’una grotta;
e un corvaccio ogni ggiorno je portava,
pe ffàllo
2
sdiggiunà, mmezza paggnotta.
Disce,
3
sto corvo era una bbestia bbrava,
timorata de Ddio, e ggnente jjotta:
ma de li tozzi sciaveva
4
la cava
pe ttrovà ssempre una paggnotta rotta?
Io dico che sto pranzo de san Pavolo
fussi tutta pavura der fornaro,
che ssott’ar corvo sce credessi er diavolo:
e accusí, cquanno crebbe sant’Antonio,
de ste porzione je ne dassi un paro
pe spartille fra er diavolo e ’r demonio.
Roma, 15 dicembre 1832
1
Eremita.
2
Farlo.
3
Dicono, dicesi e simili.
4
Ci aveva.
613. San Pavolo primo arimita
1
Dite un po’, ggente mia, me pare scerto
d’avevve
2
ariccontato er fattarello
de cuer Zanto arimita, che un uscello
lo mantieneva a ppane in ner deserto.
Bbe’, in cuant’ar corvo ho inteso dí cche cquello
spianava a cconto suo con forn’uperto,
e incirc’ar pane, a cquello c’ho scuperto,
je lo fasceva apposta de tritello.
Co sto par de notizzie s’arimane
3
a ssapé che cquer povero arimita
sin che vvisse maggnò ppeggio d’un cane.
’Na cosa sola nun z’è mmai schiarita
si la vita finí pprima der pane,
o ffiní er pane prima de la vita.
Roma, 28 gennaio 1833
1
Eremita.
2
Avervi.
3
Si rimane.
614. Pijjate e ccapate
Pe nnun dí cculo, ppòi dí cchiappe, ano,
preterito, furello, chitarrino,
patume, conveggnenze, signorino,
1
mela, soffietto, e Rrocca-Canterano.
2
Di’ ttafanario, culeggio-romano,
3
Piazza-culonna,
4
Culiseo,
5
cuscino,
la porta der cortile, er perzichino,
bbommè,
6
ffrullo, frullone e dderetano.
Faccia de dietro, porton de trapasso,
er cularcio,
7
li cuarti, er fiocco, er tonno,
e ll’orgheno, e ’r trommone,
8
e ’r contrabbasso.
E cc’è cchi lluna-piena l’ha cchiamato,
nacch’e ppacche, sedere, mappamonno,
cocommero, sescesso, e vviscinato.
9
Roma, 15 dicembre 1832
1
Nome prediletto dalle monache.
2
Paese dello Stato romano; equivoco di monticello, da càntero.
3
Collegio romano.
4
Piazza Colonna.
5
Colosseo, detto veramente da’ plebei di Roma er Culliseo.
6
Bombé.
7
Specie di taglio di bestia
grossa presso l’ano.
8
Trombone.
9
Allorché un ano sia enorme, dicesi: «Pare un vicinato».
615. Le lingue der Monno
Sempre ho ssentito a ddí cche li paesi
hanno oggnuno una lingua indifferente,
1
che dda sciuchi
2
l’impareno a l’ammente,
3
e la parleno poi per èsse intesi.
Sta lingua che ddich’io l’hanno uguarmente
Turchi, Spaggnoli, Moscoviti, Ingresi,
Burrini,
4
Ricciaroli, Marinesi,
e Ffrascatani,
5
e ttutte l’antre ggente.
Ma nnun c’è llingua come la romana
pe ddí una cosa co ttanto divario,
che ppare un magazzino de dogana.
Per essempio noi dimo ar cacatore,
commido, stanziolino, nescessario,
logo, ggesso,
6
ladrina
7
e mmonziggnore.
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Differente.
2
Ciuchi: piccoli ragazzi.
3
A mente.
4
Villani di Romagna.
5
Naturali della Riccia, già Aricia, da Aricia
druda di Ippolito; abitanti di Marino e di Frascati, terre vicino a Roma.
6
Cesso.
7
Latrina.
616. Er commercio libbero
Bbe’! Ssò pputtana, venno
1
la mi’ pelle:
fo la miggnotta, sí, sto ar cancelletto:
2
lo pijjo in cuello largo e in cuello stretto:
c’è ggnent’antro da dí? Che ccose bbelle!
Ma cce sò stat’io puro, sor cazzetto,
zitella com’e ttutte le zitelle:
e mmó nun c’è cchi avanzi bajocchelle
su la lana e la pajja der mi’ letto.
Sai de che mme laggn’io? nò dder mestiere,
che ssaría bbell’e bbono, e cquanno bbutta
3
nun pò ttrovasse ar monno antro piascere.
Ma de ste dame che stanno anniscoste
me laggno, che, vvedenno cuanto frutta
lo scortico,
4
sciarrubbeno le poste.
5
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Vendo.
2
Meretrice da cancelletto, che abita a pianterreno, avendo un basso portello onde l’ingresso serva ancora di
finestra alla stanza.
3
Rende lucro.
4
Il puttaneggiare.
5
Avventori.
617. La puttaniscizzia
1
A mmé nun me dí bbene de ste lappe
2
che vvanno co la scuffia e ccor cappotto
3
e mmarceno
4
in pelliccia e mmanicotto,
piene d’orloggi, catenelle e cciappe:
lassamo stà che ppoi nun cianno sotto
mezza camiscia da coprí le chiappe:
tutta sta robba sai da che ccondotto
je viè, Stèfino
5
mio? dar tipp’e ttappe.
Pe la strada gnisuna
6
t’arisponne:
come poi j’arïesce d’anniscosto,
se faríano inzeppà da le colonne.
Ma a nnoi nun ce se venne er zol d’agosto,
7
perché la castería
8
de ste madonne
9
sta ttutta sana in ner gruggnaccio tosto.
10
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Storpiamento malizioso di pudicizia.
2
Furbe.
3
Copertura muliebre da testa.
4
Incedono.
5
Stefano.
6
Nessuna.
7
Proverbi.
8
Castità.
9
Nel senso di Maria Vergine; donne modeste.
10
Viso duro, gravità apparente.
618. Li Ggiudii de l’Egitto
Faraone era un re de sti frabbutti
1
che impicceno da sé ttutte le carte,
2
e vvolenno l’Abbrei schiavi o ddistrutti,
o l’affogava o li metteva all’arte.
Ma Mmosè, che ppareva Bbonaparte,
a la bbarbaccia sua li sarvò ttutti,
e ffra ddu’ muri d’acqua, uno pe pparte,
se li portò pe mmare a ppied’assciutti.
Nell’acqua annò bbenone, sor Giuvanni,
perch’er Marrosso stiede sempre uperto;
ma in terra cominciorno li malanni.
Ar meno è una gran buggera de scerto
cuella de spasseggià pe cquarant’anni
e stasse a ffregà ll’orbo
3
in un deserto.
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Cattivi soggetti.
2
Impicciar le carte da sé, vale: «fare e disfare a suo senno».
3
Affaticarsi senza pro.
619. Le indiggnità
1
A la su’ porcareccia era curato:
poi venne a Rroma prete a ’no spedale:
poi passò a ddí l’uffizzio a un burborato,
2
e a spórgeje
3
la notte l’urinale.
Pe cquesto ottenne un ber canonicato
in d’una prima cchiesa patriarcale:
poi salí per impeggni a un vescovato;
e mmó er Papa lo sputa cardinale.
4
E a ’ggn’impiego de tutta sta sfilata,
5
chi jj’ha ttienuto l’occhi addosso ha ddetto
che ha mmutato ognisempre camminata.
Prima annava ar galoppo, po’ ar passetto,
po’ a ccianche
6
larghe e a vvita sderenata;
7
e mmó ppare che bballi er minuetto.
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Le dignità.
2
Porporato: si sa che cosa è la burbera.
3
Sporgergli.
4
Dal pubblicare che fa il pontefice i cardinali già
riservati in petto, è nata in Roma la fase di fare un cardinale, allorché si sputa sangue.
5
Serie.
6
Gambe.
7
Sderenato
dicesi di chi camminando si tien male sulle reni, sulla vita.
620. Terzo, santificà le feste
La fede, decan
1
Pavolo, oggiggiorno
dimolo puro
2
ch’è aridotta a zzero;
e ttutto cuello che pprima era vero
mó sse stiracchia e nnun z’osserva un corno.
Pe ’n essempio, le feste ch’inventorno
li Papi antichi in tutto er monno intiero,
se rispetteno ppiú? Mmó er bianco è nnero,
mó er giorno è nnotte, e mmó la notte è ggiorno.
Disce la fede: «Cuanno viè la festa,
stenéteve
3
dall’opere servile»:
lo vedi tu cche bbuggiarata è cquesta?
Ma dduncue sti futtuti monziggnori
perché la festa tiengheno antro stile,
e ffanno faticà li servitori?
Roma, 16 dicembre 1832 - Der medemo
1
Decano, il più anziano de’ servitori di una casa.
2
Diciamolo pure.
3
Astenetevi.
621. La patta
1
Ch’edè? tte sei ’mpegnato a ccallaroste
2
l’avanzo er piú mmillesimo de testa?
E nnun t’abbasta che ssii mezza festa,
3
c’arrubbi puro la sarviett’a ll’oste?
4
A ffalla mejjo io m’arzerebbe cuesta
pe mmostrà le mi’
5
bbuggere anniscoste:
la zazzera, er zalame, l’ova toste,
la sbarratura,
6
e un tantinel de pesta.
7
Fa le su’ cose sto cazzaccio matto,
eppoi lassa scuperto l’artarino!
Sai c’hai raggione? Che nun c’era er gatto.
St’incerti ’ggna lassalli
8
a ddon Grespino
e ll’antri preti ch’er Zignore ha ffatto,
ché ttocca a lloro de mostrà er bambino.
Roma, 17 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il portellino delle brache.
2
Dare in pegno a sconto di caldarroste.
3
Allorché vedesi alcuno con la patta sbottonata, gli
si chiede se sia mezza festa, che in frasario romano vale festa di divozione e non di precetto.
4
Aver rubato la salvietta
all’oste, importa: «tenere la camicia per inavvertenza fuor delle brache».
5
In questo luogo il mie equivale al tue.
6
Il
cinto.
7
Peste.
8
Bisogna lasciarli.
622. La mmaschera
Sibbè cche in vita sua cuann’ebbe er pranzo
mai nun potessi arimedià dda scena,
è stato sempre una gran testa amena,
e nn’ha avute de bbuggere
1
d’avanzo.
Oggi ch’è bbiocco
2
e nnun pò ffa ppiú er ganzo,
3
dà in cojjonella
4
e nnun ze mette in pena;
e ’ggnicuarvorta che sse sente in vena
pe ffanne delle sue trova lo scanzo.
Ggiuveddí ggrasso
5
sto gallaccio vecchio
co ccerti scenci che jje diede un prete
se vestí dd’abbataccio mozzorecchio.
6
Eppoi se messe un specchio ar culiscete
co ste parole cqui ssott’a lo specchio:
Ve tiengo a ttutti indove ve vedete.
Roma, 17 dicembre 1832 - Der medemo
1
Originalità, stravaganze.
2
Vecchio.
3
L’amoroso.
4
in baie.
5
Il giovedì fa gli ultimi otto giorni del carnevale, solo
periodo in cui sono a Roma permesse le maschere.
6
Suole il popolaccio amare appassionatamente una certa foggia di
maschera imitante alcuanto il procuratore forense: e con un gran libro nelle mani vanno spargendo spropositi e frizzi.
Così contraffanno il medico e il conte, l’uno asino, l’altro orgoglioso.
623. Er motivo de li guai
Lo volete sapé? vve lo dich’io
perché Rroma se trova in tant’affanni:
ve lo dich’io perché Ddomminiddio
ce fa ppiove sta frega de malanni.
È pperché er Papa s’è ffatto ggiudio
e nun ha ppiú de Papa che li panni:
è pperché li ggiudii da papa Pio
1
nun porteno piú in testa li ssciamanni.
2
Adesso se sperava arfinamente
3
de védelo sto scànnolo levato,
ma, gguai pe nnoi, nun ze ne fa ppiú gnente:
perché ppapa Grigorio c’ha ppijjato
tanti cuadrini da un giudio fetente,
4
j’ha vvennuto, per dio, Roma e lo Stato!
Roma, 17 dicembre 1832 - Der medemo
1
Pio VIII.
2
Lo sciammano era un cenciolino che gli Ebrei dovevano portare sul cappello in segno del loro ludibrio.
3
Finalmente.
4
Vedi i sonetti…
624. Una casata
Cristoggesummaria, cc’antro accidente!
1
Sete una gran famijja de bbruttoni.
E nnun méttete in pena ch’io cojjoni,
2
perché pparleno tutti istessamente.
Dar grugno de tu’ padre a li meloni,
cuelli mosini,
3
nun ce curre ggnente:
e ar vedé mmamma tua, strilla la ggente:
«Monaccallà, ssò ffatti li bbottoni?».
4
Tu, senza naso, pari er Babbuino:
5
tu’ fratello è er ritratto de Marforio,
6
e cquell’antro è un po’ ppeggio de Pasquino.
7
Tu e Mmadama Lugrezzia,
7a
a sti prodiggi,
v’amanca de fà cchirico Grigorio,
pe mmette ar mucchio
8
l’Abbate Luiggi.
Roma, 17 dicembre 1832
1
Che altra brutta figura!
2
Burli.
3
Melone mosino è detto in Roma il popone di sua razza bernoccoluto e di color verde
e giallo.
4
Parole con le quali si burlano le ebree rattoppatrici di robe vecchie.
5
Statua di satiro giacente, la quale, dal
nome che oggi gli si a cagione della deformità contratta dal tempo, fa egualmente chiamare via del Babuino la
vecchia Strada Paolina, aperta già da Paolo III nella quale si trova sopra una fontana.
6
Statua colossale dell’Oceano,
esistente in oggi nel cortile del Museo Capitolino, e situata anticamente presso il Foro di Marte (o di Augusto), e però
detta volgarmente Marforio, come via di Marforio si chiama la brutta contrada che corre tra le falde del Monte
Capitolino e il sito del detto Foro di Marte. Il popolo tiene Marforio per un soggetto ridicolo, e lo si fa interlocutore
nelle così dette «pasquinate» o satire pubbliche, per le quali un tempo i Romani avevano spirito e rinomanza.
7
Frammento di statua o di gruppo rappresentante Menelao che sostiene il cadavere di Patroclo. Fu trovata lì presso
(piazza Pasquino) al principiare del secolo XVI, vicino alla bottega di un sarto, morto poco innanzi, il quale era di
spirito molto satirico e aveva nome Pasquino. Esposta appena la dissotterrata statua alla vista del popolo, fu tosto da
lui chiamata Pasquino e divenne il luogo d’affissione delle satire pubbliche, dette perciò fin d’allora «pasquinate».
7a
Frammento di colosso dalla cinta in su, ma privo di braccia e di naso. Dal costume egiziano del pallio aggruppato in
un sol nodo sul petto, argomenta il Winckelmann poter questo simulacro avere rappresentato una Iside.
8
Per unire alla
massa, agli altri.
625. L’ingeggno dell’Omo
Er venardí de llà,
1
a la vemmaria,
io incontranno ar Corzo Margherita,
je curze
2
incontro a bbracciuperte:
3
«Oh Ghita,
propio me n’annerebbe fantasia!».
4
Disce: «Ma indove?». Allora a l’abborrita
5
je messe er fongo e la vardrappa mia,
6
e ddoppo tutt’e ddua in compagnia
c’imbusciassimo
7
drento ar Caravita.
8
Ggià llí ppare de stà ssempr’in cantina:
9
e cquer lume che cc’è, ddoppo er rosario
se smorzò pe la santa dissciprina.
Allora noi in d’un confessionario
ce dassimo una bbona ingrufatina
da piede a la stazzione der Zudario.
10
Roma, 18 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il penultimo venerdì.
2
Le corsi.
3
A braccia aperte.
4
Ne avrei fantasia.
5
Senza esitare, con niun complimento.
6
Il
fungo e la gualdrappa: il cappello e il ferraiuolo.
7
C’imbucammo.
8
Oratorio annesso alla casa gesuitica di
Sant’Ignazio, e dai padri Gesuiti ufficiato. Fu fondato da un padre Caravita o Garavita di Terni, e serve ad uso di
esercizii di pietà. Ivi si danno i così detti esercizii alle Dame; ivi è un’opera di missioni; ivi è eretto un sodalizio di
compagni e collaboratori de’ missionari, detti volgarmente i Mantelloni, dal lungo mantello nero che indossano; ivi
finalmente, oltre le funzioni diurne dei giorni feriali e festivi, in ciascuna sera dell’anno, dall’avemaria alla prima ora
della notte si adunano molti uomini a recitare preci, a udire dei sermoni, a confessarsi, e in tutti i venerdì come in altre
sere della settimana a disciplinarsi: ciocché si eseguisce al buio non senza gravi inconvenienti talora accadutivi.
Terminato quindi il trattenimento, alcuni dei più zelanti escono dall’oratorio, e seguiti da altri divoti (quasi tutta gente
volgare) si diramano per la città recitando il rosario interpolato da canzoncine divote: e tanto bene prendono misura
fra il tempo e la via, che giunti, chi a tale e chi a tal altra Madonna delle quali non è penuria per le strade di Roma, ivi
come a meta del loro viaggio termina appuntino il rosario e s’intuonano le litanie. Al fine di queste e di altre
prozioncelle, parte in prosa e declamate, parte in versi e cantate, ciascuno al saluto di Sia laudato Gesucristo risponde
sempre con un Sempre sia laudato, e va al suo qualunque piacere.
9
Molta oscurità regna sempre in quell’oratorio.
10
Attorno alle pareti dell’oratorio sono disposti i noti 14 quadrucci della Via Crucis. Vedi sul Caravita il son…
626. Li fratelli Mantelloni
1
Ma cchi? cquelli che vvanno ar Caravita
la sera, e cce se sfrusteno er furello?
2
Sò ttutti galantommini, fratello;
ggente, te lo dich’io, de bbona vita.
Cuarcuno, si ttu vvòi, porta er cortello:
a cquarcuno je piasce l’acquavita:
cuarchidunantro è un po’ llongo de dita;
3
ma un vizzio, ggià sse sa, bbisogna avello.
4
Ma ppoi tiengheno ttutti er mantellone,
e ccor Cristo e le torce cuann’è ffesta
accompaggneno er frate a le missione.
E ’ggni sera e per acqua, e ppe ttempesta,
vanno pe Rroma cantanno orazzione
coll’occhi bbassi e ssenza ggnente in testa.
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
Su costoro e quel che segue vedi la nota… del son
2
Ano.
3
Ladro.
4
Averlo.
627. La mediscina sicura
Er medico, per èsse,
1
l’ha spedito,
perché ddisce c’ha ffràscico er pormone;
e ppò ttirà inzinent’a l’Asscenzione,
si a Ppascuarosa
2
nun ze n’è ggià ito.
Io però ho ddetto a Nnanna: «A ttu’ marito
tu ffajje ’na bbona confessione,
e, in barba de sto medico cojjone
in cuattro ggiorni te lo do gguarito.
Lasselo chiacchie sto vecchio tanchero,
e intanto fatte véde sur lunario
propio er giorno ch’er zole entra in ner canchero.
Se va allora tre ssere a ppiedi scarzi,
su e ggiú pe Rroma discenno er rosario,
e ddoppo s’arza lui cuanno tu tt’arzi».
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
Per essere, per dire il vero.
2
Pentecoste.
628. Er Re de li Serpenti
Si un gallo, fijja mia, senza ammazzallo
campa scent’anni, eppoi se mette ar covo,
in cap’a un mese partorisce un ovo,
e sta ddu’ antri mesi pe ccovallo.
Eppoi viè ffora un mostro nero e ggiallo,
’na bbestia bbrutta, un animale novo,
un animale che nun z’è mmai trovo,
fatto a mmezzo serpente e mmezzo gallo.
Cuesto si gguarda l’omo e sbatte l’ale,
come l’avessi condannato er fisco
1
lo fa rrestà de ggelo tal’e cquale.
Una cosa sortanto io nun capisco,
ciovè ppe cche raggione st’animale
abbino da chiamallo er basilisco.
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il fisco ti condanna a morte è la solita formula, con la quale si annunzia la sentenza capitale.
629. Er zegretario de Piazza Montanara
1
Siggnori, chi vvò scrive a la regazza
2
venghino ch’io ciò cqua llettre stupenne.
Cqua ssi tiè ccarta bbona e bbone penne,
e l’inchiostro il piú mmejjo de la piazza.
Cqua ggnisuno, siggnori, si strapazza.
Le lettre ggià ssò ffatte coll’N.N.
3
Basta mettérci il nome, e in un ammenne
4
chi ha ppresscia d’aspettà cqua ssi sbarazza.
Io ciò llettre dipinte e ttutte bbelle.
C’è il core co la frezza
5
e cco la fiamma:
c’è il zole co la luna e cco le stelle.
Cuant’al prezzo, tra nnoi ci accomodamo:
cuant’a scrive, io so scrive a ssottogamma:
6
duncue avanti, siggnori: andiamo, andiamo.
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
Vedi intorno a questo personaggio il Son…
2
Amante.
3
Monogrammi che pongonsi a far le veci di qualunque nome.
4
Nello spazio di tempo che si pronunzia un amen.
5
Freccia.
6
A sottogamba, millanteria.
630. La fiandra
1
No, ppascioccona,
2
io nun zò ttanto sscioto:
3
lo capisco ch’edè ttutta sta fiacca:
4
tu vvoressi appoggiamme
5
la patacca,
ma è ’na moneta ch’io nun ariscoto.
Tu vvorressi attaccamme er tu’ sceroto,
6
ma ssu le carne mie nun ce s’attacca.
Io nun vojjo maggnà ccarne de vacca,
e nun me metto a ccasa er terramoto.
Sta’ cco la pasce tua, fijja mia bbella,
perché ttu ggià lo so c’ortr’ar portone
drento ar vicolo ciai la portiscella.
Eppoi, dichi pe mmé ttroppe orazzione:
io sò berlicche,
7
e ttu ’na santarella:
ce vò un omo pe tté mmeno bbirbone.
8
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
La furba.
2
Pacioccone, pacioccona, sono «uomo o donna per lo più alquanto pingui e di carattere pacifico».
Paciòcco poi dicesi anche come aggiunta carezzevole.
3
Sciocco.
4
Una certa melensa semplicità, affettata con qualche
scopo.
5
Appettarmi.
6
Cerotto.
7
Diavolo.
8
Questo vocabolo significa in Roma tanto «cattivo soggetto» quanto
«persona scaltra».
631. Er ventidua descemmre
Propio cuesta che cqui nnun ve la passo,
de dí cche sto governo è un priscipizzio.
Sor coso
1
mio, levàtevelo er vizzio
de laggnavve accusí dder brodo grasso.
2
Er Zantopadre, pe ddiograzzia, è ll’asso,
3
è un testone,
4
è un papetto
5
de ggiudizzio:
e ssi ariviè ssan Pietro a ffà st’uffizio,
lui se ne frega e sse lo porta a spasso.
6
Oggi (e cqua vvedi cuant’è ssanto e ddotto)
voleva ggiustizzià er Governatore
scerti arretrati, che ssò ssette o otto.
7
Sai c’arispose er Papa a Mmonzignore?
«Giustizzia?! che ggiustizzia; io me ne fotto:
ner giubbileo
8
se nassce e nnun ze more».
Roma, 19 dicembre 1832 - Der medemo
1
Qui sta come nome di disprezzo: ma generalmente tutti gli enti onde ignorasi il nome sono coso o cosa, donde poi il
verbo cosare.
2
Cioè: «del buono e del comodo».
3
È impareggiabile, come l’asse di certi giuochi di carte.
4
Equivoco
fra gran testa e una moneta da tre paoli.
5
Altro equivoco fra moneta da due paoli, di cui vedi il son…, e il diminutivo
di Papa. Questi diminutivi come è un ometto, è un figurino, e simili, si adoperano anzi per dare importanza al
soggetto.
6
Gl’impone.
7
Il 22 dicembre 1832 doveva infatti accadere l’esecuzione di queste sentenze capitali, e l’andò
come qui dicesi.
8
Su tal giubileo vedi sonetti…
632. La mamma che la sa
E ccento! Dorotea mommó tte còccolo.
1
Cuanno parl’io pare che pparli Bbrega!
2
Me vòi fà sfeghetà?
3
Vvedi sta strega
si sse le va a ccercà ppropio cor moccolo!
4
Che cc’entra mó si pporteno o nnò er boccolo!
5
Oggnuno cuesto cqua nun te se nega
6
c’a li capelli sui je dà la piega
che ppiú jje cricca: e lo capisce un zoccolo.
7
Cqua nun ze tratta de capelli, o ccome;
8
né ssi li cardinali siin’abbati:
ma ttutt’er punto nostro era sur nome.
Duncue io la dico a tté ccome l’ho intesa:
li cardinali sò accusí cchiamati
perché ssò ccardi de la Santa Cchiesa.
Roma, 20 dicembre 1832 - Der medemo
1
Ti batto.
2
Nome ideale di persona spregevole e da nulla.
3
Perdere il fiato parlando.
4
Cercare le busse col moccolo:
volerle ad ogni patto.
5
Quel cannone di capelli che gli abati sogliono portare in semicerchio intorno al capo.
6
Sintassi
dal gusto preciso della romanesca.
7
Un imbecille.
8
O altro.
633. Una mano lava l’antra
1
L’omo, cuanno lo pijji a ppunto-preso,
2
lui te diventa subbito un cojjone.
E cciài da mette che nun è dda mone
3
che jje stava Luscía coll’arco teso.
Ccusí è ssuccesso cuer ch’io m’ero creso:
4
tanto j’è annat’attorno er farfallone,
che un po’ un po’ che jj’ha ddato de gammone
5
lei te l’ha ffatto cascà ggiù dde peso.
6
Sí, sí, ccapisco ch’è per lei ’na pacchia
7
d’avé sposato un omo accusí rricco
lei che nun cià dder zuo manco una tacchia.
8
Ma una mojjetta che jje fa sto spicco,
sta cicciona de ddio,
9
sta bbella racchia
10
la poteva sperà cquer brutto micco?
Roma, 20 dicembre 1832
1
Compenso vicendevole: proverbio.
2
Tòrre a sorpresa.
3
Mo: ora.
4
Creduto.
5
Dar vantaggio, sopravvento: fomentare,
e simili.
6
Cader di peso, con tutto il precipizio dell’inerzia.
7
Cosa comoda.
8
Scheggia.
9
Donna carnuta.
10
Giovanetta
leggiadra, e per lo più polputella.
634. La dispenza der madrimonio
Cuella stradaccia
1
me la sò llograta:
ma cquanti passi me sce fussi fatto
nun c’era da ottené pe ggnisun patto
de potemme sposà cco mmi’ cuggnata.
Io sc’ero diventato mezzo matto,
perché, ddico, ch’edè sta bbaggianata
2
c’una sorella l’ho d’avé assaggiata
e ll’antra nò! nnun è ll’istesso piatto?
Finarmente una sera l’abbataccio
me disse: «Fijjo, si cc’è stata coppola,
3
provelo, e la liscenza te la faccio».
«Benissimo Eccellenza», io j’arisposi:
poi curzi a ccasa, e, ppe nun dí una stroppola,
4
m’incoppolai Presseda, e ssemo sposi.
Roma, 20 dicembre 1832 - Der medemo
1
La via detta degli Uffici del Vicario, dove sono notai e altri incaricati in cose matrimoniali e di costume pubblico.
2
Ridicolezza a cui si dia importanza.
3
Copula.
4
Menzogna ufficiosa.
635. Mi’ fijja maritata
Povera fijja mia! Cuer Zarvatore
1
bbisogna dì o cche ttiè ttroppa sostanza,
o mme l’ha ppresa pe ’n’imbottatore
2
pe scolàjjene drento in st’abbonnanza.
Da che llei lo sposò, ssempre un lavore!
panz’e zzinna e dda capo zinn’e ppanza.
3
E li fijji a ’ggni madre je ne more,
ma pe Ggiartruda mia nun c’è speranza.
In cinqu’anni otto fijji, e ttutti vivi!
E cche ccianno in ner corpo? Io me la rido
che sse dii ’n’antra coppia che l’arrivi.
Tre vvorte a ffila gravidanza doppia!
Cueste nun zò bbuscíe: sto cacanido
4
e Ppippo soli nun zò nnati a ccoppia.
Roma, 20 dicembre 1832 - Der medemo
1
Salvatore.
2
Imbuto.
3
Gravidanza e allievo, allievo e gravidanza.
4
Il cacanido è «l’ultimo figliuolo».
636. La fijja sposa
Ma ccome! è ttanto tempo che tte laggni
che rrestavi pe sseme de patata,
1
e mmó che stai per èsse maritata
co cquello che vvòi tu, ppuro sce piaggni?
Mo cche cquer catapezzo
2
te guadaggni,
me sce fai la Madonna addolorata!
Tu gguarda a mmé: m’ha ffatto male tata?
Sti casi ar monno sò ttutti compaggni.
Che ppaur’hai der zanto madrimonio?
Nun crede, fijja, a ste lingue maliggne:
tu llassete serví, llassa fà Antonio.
E cquanno sentirai che spiggne spiggne,
statte ferma, Luscía, perché er demonio
nun è ppoi bbrutto cuanto se dipiggne.
3
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Cioè: «rimanere inutilmente zitella».
2
Catapezzo: giovanotto robusto.
3
Proverbio.
637. La donna liticata
Davero pònno dí ste mmaledette
«Bbuggiaravve, ecco fiori!».
1
Ma ddavéro
l’omo drento ar boccino
2
nun cià un zero,
e li scechi per dio fanno a ttresette!
Una carogna che pp’er monno intiero
va imminestranno la pulenta
3
a ffette,
ch’è stata cuattro vorte in monistero
4
piena d’orloggi de Sacchesorette:
5
sta donna porca ha ttrovo du’ Fedeli,
6
che, ppe sposalla lui, uno sc’impeggna
un prete, e ll’antro un frate d’Arescèli.
7
E accusì in dua se litica una freggna
che pper èsse arimasta senza peli
nun dà mmanco la dota de Carpeggna.
8
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Espressione d’uso.
2
Capo.
3
Gonorrea.
4
Casa di correzione.
5
Gli antichi oriuoli d’Isaach Soret, della figura appunto
di un piccolo tumore, sono ancora assai in pregio, particolarmente presso il volgo, il quale pronunzia il nome del loro
autore nel modo da noi riferito.
6
Famigli della Camera Capitolina de’ Conservatori di Roma, vestiti di una curiosa
livrea gialla e rossa. Sono essi tutti di Vitorchiano, uno de’ quattro feudi del Popolo Romano, e traggono il loro nome
e la loro esistenza da una origine storica, come si vuole, dell’antica Roma.
7
Frati zoccolanti di Ara-Coeli, convento
succeduto sul Campidoglio al tempio di Giove Capitolino.
8
Dicesi in Roma, non so il perché: Peli e fregna son la
dote di Carpegna. Carpegna è nome tanto di una terra, quanto di una nobile famiglia che vi ebbe giurisdizione
feudale.
638. Er Zerrajjo novo
Si vvò imparà, ttu ddamme retta, damme;
e io te spiegherò ttutt’er zerrajjo.
Du’ serpenti sce sò ppieni de squamme
che ccianno un collarino cor zonajjo.
1
Poi sc’è la salamandra, si nun sbajjo,
che ppò vvive tramezzo de le fiamme.
Doppo er leofante, ch’è ttutto d’un tajjo
senza le congiunture in de le gamme.
2
Poi sc’è l’uscello che ttiè un rifettorio
immezz’ar petto suo pell’antri uscelli,
com’è cquello che sta ssopr’ar cibborio.
3
Doppo, e cquesto sta ppuro in de l’avviso,
ce sò ddu’ pappagalli tanti bbelli,
che ttiengheno la razza in paradiso.
4
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il serpente a sonaglio.
2
È volgare opinione che l’elefante non abbia articolazione nelle gambe.
3
Il pellicano.
4
L’uccello del paradiso.
639. Un indovinarello
Disse uno un giorno a ccerte ggente dotte:
«Spiegate cuesta cqui. Noi semo in zette,
e a ttavola oggni ggiorno sce se mette
venti fujjette
1
e ttrentasei paggnotte.
Ma cquanno che svinassimo le bbotte
2
s’apparecchiò cco ssedisci sarviette:
e in tutti se finí tra ggiorno e nnotte
diesci paggnotte e ddodisci fujjette».
Pare una cosa che ggnisuno intenna,
una cosa da mettese er braghiere,
3
che ppiú ssete
4
a mmaggnà, mmeno se spenna.
5
Eppuro oggi è vvienuto un cavajjere
che l’ha pprovata a ccalamaro e ppenna,
e ccià mmesso er ziggillo un tesoriere.
6
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Foglietta: misura di vino, 1/108 di un barile.
2
Svinammo le botti. Nel giorno della svinatura, cioè del travasamento
dei vini dopo il fermento, si suole far convito al luogo della operazione.
3
Ridere fino a contrarne ernia.
4
Siete.
5
Spenda.
6
In una percezione a dieciottienno del dazio sul macinato dei grani, si è fra le altre fraudi assegnato dal
percettore un provento minore nell’anno 1825, nel quale, come anno santo, la popolazione di Roma fu almeno
triplicata. Tutte le sottrazioni di quell’appalto si fanno ascendere dai due ai tre milioni di scudi in una dimostrazione a
stampa presentata ai tribunali il 9 novembre 1832. Vedila.
640. Le cose create
Ner monno ha ffatto Iddio ’ggni cosa deggna:
ha ffatto tutto bbono e ttutto bbello.
Bono l’inverno, ppiú bbona la leggna:
bono assai l’abbozzà,
1
mmejjo er cortello.
Bona la santa fede e cchi l’inzeggna,
più bbono chi cce crede in der ciarvello:
bona la castità, mmejjo la freggna:
bono er culo, e bbonissimo l’uscello.
Sortanto in questo cqui ttrovo lo smanco,
2
che ppoteva, penzànnosce un tantino,
creacce l’acqua rossa e ’r vino bbianco:
perché ar meno ggnisun’oste assassino
mo nun viería
3
co ttanta faccia ar banco
a vénnesce mezz’acqua e mmezzo vino.
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Tollerare.
2
Difetto.
3
Verrebbe.
641. Le cose pretine
Tu ssempre arrivi tardi e ttardi alloggi,
e nnun zai lègge manco er frondispizzio!
1
Cuer che ttiè addosso un prete ar giorno d’oggi
tutto scià er zu’ perché, ttutto er zu’ innizzio.
2
Me dirai: «Ma l’anelli nun zò sfoggi?»
No, ssò sseggni der zanto sposalizzio
de la cchiesa e dder prete. «E cquel’orloggi?»
Pe ssapé ll’ora de cantà ll’uffizzio.
«E le saccocce piene de piselli
3
nun vònno dí rricchezza?» Nun è vvero:
vònno dí ppane pe li poverelli.
«E cche vvò ddí ssott’ar zucchetto nero
cuer tonno vòto immezz’a li capelli?»
Vò ddí: cqua cc’è zzero via zzero zzero.
Roma, 21 dicembre 1832 - Der medemo
1
Sei tardo ad intendere.
2
Indizio.
3
Danari.
642. La vista
Li preti sò bbonissimi Siggnori,
ma nnun pe cquesto l’hai da crede ssciocchi.
Se la danno la pátina de ggnocchi,
ma cquella è ggnocchería tutta de fori.
Perché da cuanno naschi inzin che mmori
er prete te sta ssú cco tanti d’occhi
pe vvedé cquer c’assaggi e cquer che ttocchi,
e ssi ffreghi, e ssi arrubbi, e ssi llavori.
Lui te vede si vvienghi e ssi vvai via:
vede quer che sse vòta e cquer che ss’empie;
e tte fa da Spacoccio e Ccasamia.
1
Cuest’è un male però che cchi ha cquadrini
je lo cura appricannoje a le tempie
un ceroto de pasta de zecchini.
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
1
Due famigerati Astrologi almanacchisti.
643. Uprite la finestra
1
Nun pijjammete collera, Maria:
abbi pascenza, io nun ce credo un’acca.
Sarà cquello che vvòi, commare mia,
ma ppe ffàmmela bbeve è ttroppo fiacca.
Cojjoni! e cquesto nun è mmal da bbiacca,
2
ma ssarebbe una nova mmalatia.
Che un prete possi fà una pirchieria!
3
Si l’appiccichi ar muro nun z’attacca.
4
Li preti che smaneggeno er Ziggnore,
loro che lo commanneno a bbattecca,
hanno d’avé ste futticchiezze
5
in core!
Ma cc’hai pijjato Roma pe la Mecca?
6
Li preti danno a ttutti e a ttutte l’ore.
Chiudeno l’occhi, e indove azzecca azzecca.
Roma, 22 dicembre 1832
1
Espressione usata allorché se ne ascoltano di troppo marchiane, quasi per dare loro un esito e farle evaporare.
2
Non è
mal da poco.
3
Pirchieria, pirchio: sordidezza, sordido.
4
Non prende credenza.
5
Piccolezze.
6
Vengo io dalla Mecca?
Sono io uno strano, stolto, ecc.?
644. Le mura de Roma
Mó cc’è un editto c’a sta Roma caggna
je vonno ariggiustà ttutte le mura;
1
ma ssi nun è che cquarcuno sce maggna,
nun te pare, per dio, caricatura?
Se pò ssapé dde cosa hanno pavura?
Che li Romani scappino in campaggna?
De li preti ggnisuno se ne cura,
perché ddrento in città sta la cuccaggna.
Si ppoi semo noantri secolari,
sc’è bbisoggno de muri e de cancelli
pe ffacce restà ddrento a li rippari?
Pe ppoche pecoracce e ppochi agnelli
dati in guardia a li can de pecorari
bbasta una rete e cquattro bbastoncelli.
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
1
Questa risoluzione fu realmente presa sotto il pontificato di Leone XII.
645. Lo sprego
M’ha ddetto er Moro che mme venne er riso
che le Bbolle ch’er Papa de Turchia
rigala a cchi le crompa
1
in Dataria,
dispenzeno a ttenute er paradiso.
Pe ddí la verità, mme ne sò rriso;
ché mme pare una gran cojjoneria
d’annasse a pperde tra ccinquanta mia
2
dove t’abbasta de ficcacce er viso.
Pe vvisità la grolia
3
tua, fratello,
te sce vorebbe la carrozza a mmolle
come annassi da Roma a Vviggnanello.
4
Pe mmé mme ne tierría sei canne o ssette;
e dder resto, vennènnose ste Bbolle,
me ne farebbe fà ttante bbollette.
5
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
1
Compera.
2
Miglia.
3
Gloria.
4
L’antico Ignerellum, quindi Julianellum, ed oggi Vignanello, terra nella provincia del
Patrimonio.
5
Polizzine e chiodetti.
646. L’Apostolo dritto
1
L’Apostoli fasceveno fracasso
ché Ccristo er’ito via da sepportura;
quann’ecchete de fianco san Tomasso:
«Io nun ce credo un cazzo: è un’impostura».
Tratanto Ggesucristo de bbon passo
se n’aggnede ar cenacolo addrittura,
indove un buscettin de serratura
je serví dde portone de trapasso.
«Ficca er tu’ dito in cuesta costa vòta,
ggiacubbino futtuto, e cqua ppòi vede
s’io sò arivivo, oppuro è una carota».
2
Allora San Tomasso in piede in piede
prima annò ar tasto da perzona ssciòta,
3
e ddoppo rescitò ll’atto de fede.
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
1
Accorto.
2
Favola, menzogna.
3
Semplice.
647. L’imprecazzione
Tiette la lingua, Mèo:
1
nun è la prima
che mmanni mappalà
2
ssu le perzone.
Nu lo sai che ccos’è un’imprecazzione?
è ppiú ppeggio assai ppiú dd’una bbiastima.
3
Perché cquesta er Zignore nu la stima
nemmanco pe ’na coccia de melone:
eppoi, bbeato lui, sta ttant’in cima
che nnun j’ariva a un pelo de cojjone.
Annà a ddí a un Omo: fréghete in eterno!
Ma nnun capíschi er danno che jje porti
si ccasomai cuest’omo va a l’inferno?
Tra cquer fresco a li poveri addannati
nun j’amancherebb’antro doppo morti
che dd’èssesce un tantino bbuggiarati.
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
1
Bartolomeo.
2
Imprecazioni.
3
Bestemmia.
648. Er ringrazziamento cor botto
Bbravo sor Papa e ssor Governatore!
Bbravo sor Cammerlengo e ssor Vicario!
Bbravo sor Tesoriere e ssor Datario!
Bbrave sore ggentacce de bbon core!
Mettetesce gabbelle a ttutte l’ore:
fate de ppiú, llevatesce er zalario:
biffatesce er cammino e ’r nescessario,
e vvennetesce inzino er giustacore.
E cquanno semo tutticuanti iggnudi,
e cco le bbraghe nostre e le camisce
se sò accozzati scentomila scudi,
siccome a Rroma sc’è ssempre chi scrocca,
se chiama un appartista, e jje se disce:
«Cqua, ssor ladro futtuto, uprite bbocca».
Roma, 22 dicembre 1832 - Der medemo
649. Er governà
Pe ggovernà
1
sti ggiacubbini, proprio
nun ze pò nné coll’ojjo ccor brodo;
e ssippuro ciaccenni
2
er cornacopio
pe ccercà er dritto-filo, ah,
3
nnun c’è mmodo.
Er Papa c’ha dda fà? mmó jje dà ll’opio,
e mmó jje bbatte e jj’aribbatte er chiodo:
ma ppe cquanto s’ingeggni a Mmodo Propio,
4
ancora suda e nnun pò ssciojje er nodo.
’Na vorta la fa ssciapa, una la sala:
un giorno abbassa, un antro arza li pesi;
e sse spassa accusí ccor cresceccala.
5
Finarmente oggi, doppo avecce intesi
li pettirossi co le penne in gala,
fa ccapo-logo tutti li paesi.
6
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Vocabolo significante tanto il reggere, quanto il cibare.
2
Seppure ci accendi, ecc.
3
Pronunziato con un certo accento
vivo e quasi d’impazienza, è negativa.
4
Motu proprio: nome degli Hattiscerif pontifici.
5
I cresceccala sono bacchette
di cristallo rintorte in figura di spirale, che i fanciulli assai si dilettano di far girare fra i loro diti, onde godere
dell’effetto indicato dal loro nome.
6
Si allude alla instituzione di nuove Delegazioni, erette in premio della fedeltà di
alcune terre all’epoca del 1831.
650. Un indovinarello
1
C’è un uscello de razza de cuccú,
che ccanta sempre e pporta in testa un O,
che ttiè le spalle de color ponzò,
e ttutto bbianco poi dar mezz’in giú.
’Gnitanto crepa e ppoi ritorna su,
e ccampa de zecchini e ppagarò:
2
che ppò ffà ttutto cuer che nnun ze pò;
e ccomparze a la morte de Ggesú.
St’uscello bbianco e rrosso sempre scià
3
tanti corvacci neri intorn’a ssé
che de colore lui li pò ccambià.
’Ggnitanto muta nome, e mmó ttiè un G:
nun ha fijji e lo chiameno Papà:
Ell’e lè, indovinate che ccos’è.
4
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Un indovinello.
2
Polizzine di pagamento.
3
Ci ha.
4
Tutti gl’indovinelli popolari terminano con questa formula.
651. Le Messe
Pe ttutto cuer che ssii spirituale
a nnoi nun tocca de parlà nnun tocca:
e un giacubbino solo, o uno stivale
pò èsse cuello che cce mette bbocca.
Puro,
1
volenno senza dinne male
mette l’occhi su cquella filastrocca
de messe che sse dicheno a Nnatale,
pare a la prima una gran cosa ssciocca.
Perché in cual antro logo se sò vvisti
come drento a lo stommico d’un prete,
tre ffijjoli de Ddio, tre Ggesucristi?
Lassateli sciarlà st’ommini dotti,
e mmettétesce
2
cquello c’avete
che ttrovannose in tre ffanno a ccazzotti.
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Purtuttavia.
2
Metter su: scommettere.
652. La serratura arruzzonita
1
Cuella festa, Maria, che tte fottei,
aggnéde
2
a sserví mmessa a Ssan Trifone,
3
e ccelebbrò cquer Don Libborio Mei
4
che sse maggnò la piastra ar cucuzzone.
5
Senti mó: tterminato l’Aggnusdei,
tramezzo a un centinaro de perzone
s’accostorno all’artare scinqu’o ssei
che vvoleveno fà la commuggnone.
Ma er prete, doppo conzumato er vino,
pe cquanto se fregassi
6
co le mano
nun poté rruprí mmai lo sportellino.
Però, ar fin de la messa, Don Libborio
se fesce bbe’ ssentí ddar zagrestano:
«E cche ddiavolo sc’è ddrent’ar cibborio?».
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
«Arrugginita» daipocché la ruggine dicesi in Roma la ruzza.
2
Andai.
3
Chiesetta di Roma.
4
Vedi i sonetti…
5
Baccellone.
6
Si adoperasse.
653. L’onore muta le more
1
Perché adesso ha ttrovato cuarchiduno
che jje dà mmezza-piastra oggni futtuta,
come sò ccazzi d’un papetto
2
l’uno
se mette su li tràmpeni
3
e cce sputa.
4
Se crede duncue sta siggnora Tuta
ch’io mancannome lei resti a ddiggiuno?
Ggnente, a la fin der gioco Iddio m’ajjuta
senza fà ll’averabbile
5
a ggnisuno.
Lo so, lo so: er zu’ tiro prencipale
è cch’er prelato suo muti colore;
ma antro culo sce vò ppe un cardinale.
E abbadi a llei che ppuro
6
er monziggnore
cuanno semo a le feste de Natale
nu la lassi pe mmancia ar zervitore.
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Honores mutant mores.
2
Vedi la nota 1 del sonetto…
3
Trampoli.
4
Sputare su qualche cosa, vale: «disprezzarla».
5
L’averabbi: senza umiliarmi, piaggiare, ecc.
6
Anche.
654. Er portone d’un Ziggnore
Nu lo sai si cch’edè sta puzzolana,
1
c’ha ccuperto de fanga mezzo mijjo?
È pperché ll’antro jjeri sta puttana
de principessa ha ppartorito un fijjo!
Si ttu ppoi bbutti doppo la campana
sur monnezzaro un granello de mijjo,
2
te spojjeno la casa sana sana,
e ssi rrughi
3
te fotteno in esijjo.
Nun zerve cqua de mozzicasse er dito:
la legge
4
è pp’er cencioso: e cche tte credi?
annerà ssempre come sempre è ito.
Vedi mó ssi cche bbuggera! ma vvedi!
Perché ssú la siggnora ha ppartorito,
noi ggiú cciavemo da infangà li piedi.
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Pozzolana.
2
È in Roma una legge recente, per la quale non si possono gettare immondezze che di notte.
3
Rugare,
cioè: «rispondere arditamente, difendersi», ecc.
4
Pronunziato con entrambe le e aperte.
655. Er romano de Roma
Ma un galantomo senza un’arte in mano
a li tempi che ssò ccome la sfanga?
Pretenneressi ch’io pijji la vanga
e vvadi a llavorà ccome un villano?
Tu ddamme un po’ de tempo ch’er Zovrano
me provedi e mme levi da la fanga;
e allora vederai s’io sò una stanga,
1
o ppago chi ha d’avé dda bbon cristiano.
Io fui bbono a ttirajje la carrozza
2
ar zor Grigorio, e llui fa l’ingiustizzia
de nun damme un quadrino che lo strozza.
E mme lassa li fijji pe mmalizzia
a ppiaggne nott’e ggiorno a-vvita-mozza,
3
che jje se vede in faccia l’armestizzia.
4
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Stanga, stangone, stangheggiare: tutti vocaboli indicanti dolorosa difficoltà nel pagare.
2
Vedi i sonetti…
3
Dirottamente.
4
Questa è una di quelle parole che escono dalla bocca di coloro che vogliono sfoggiare di parlare in
punta.
656. L’innustria
Un giorno che arrestai
1
propio a la fetta,
2
senz’avé mmanco l’arma d’un quadrino,
senti che ccosa fo: curro ar cammino
e roppo in cuattro pezzi la paletta.
Poi me l’invorto sott’a la ggiacchetta
3
e vvado a spasso pe Ccampovaccino
4
a aspettà cquarche ingrese milordino
5
da dajje una corcata co l’accetta.
6
De fatti, ecco che vviè cquer c’aspettavo.
«Signore, guardi un po’ cquest’anticajja
c’avemo trovo jjeri in de lo scavo».
Lui se ficca l’occhiali, la scannajja,
7
me mette in mano un scudo, e ddisce: «Bbravo!».
E accusí a Rroma se pela la cuajja.
Roma, 23 dicembre 1832 - Der medemo
1
Restai.
2
Al verde.
3
Vestito corto de’ volgari.
4
Campo-vaccino, o Foro-boario: nomi moderni del Foro Romano.
5
Vedi il sonetto…
6
Colcare alcuno, vale: «farlo giù, ingannarlo».
7
La scandaglia, la osserva.
657. La maggnona
Dichi
1
è rregazza, tiè le carne toste,
ha da empisse le zinne pe la pupa!
Ma llei se maggnería puro le groste
de san Lazzero:
2
ha er male de la lupa.
3
Doppo pranzo sortanto a callaroste
lei se ne spiccia
4
una padella
5
cupa!
T’assicuro, Cristofeno, che ll’oste
co la posta de noi propio sce ssciupa.
6
Perch’è ppassato er tempo der panbianco:
7
nun zemo ppiune a cquel’età ffutura
8
che nnun mettevi mai la mano ar fianco,
9
cuanno l’osti, tenenno la scrittura
scritta cor gesso, ar ripulí dder banco
mannàveno li conti in raschiatura.
Roma, 24 dicembre 1832 - Der medemo
1
Dici.
2
Dicesi di chi mangia molto.
3
Avere il male della lupa, vale: «divorare, anziché mangiare». È opinione volgare
che il lupo non abbia che un solo intestino retto dallo stomaco all’ano.
4
Se ne mangia.
5
Attrezzo in cui cuocionsi le
castagne arrosto.
6
Ci sguazza, ci fa gran guadagno.
7
Espressione che significa così «tempo di agio», come «tempo
degli uomini semplici».
8
Una delle frasi di pretensione di bel dire.
9
In tasca.
658. Le carcere
Uscii cuer giorno che ppapa Leone
fu incoronato:
1
ma tte do un avviso,
che mmejjo cosa che de stà in priggione
sí e nnò ppò ttrovasse in paradiso.
Llí mmaggni pane, vino, carne e rriso,
e ll’oste nun te mette suggizzione:
trovi in cammera tua tutto prisciso,
senza pagà nné sserva né ppiggione.
Llí ddrento nun ce piove e nnun ce fiocca,
2
e nnun c’è nné ggoverno né ccurato
che tte levino er pane da la bbocca.
Llí nun lavori mai, sei rispettato,
fai er commido tuo, e nnun te tocca
er risico d’annà mmai carcerato.
Roma, 24 dicembre 1832 - Der medemo
1
Era inveterato uso della Corte Romana che alla incoronazione del nuovo Pontefice si aprissero le carceri. Oggi però
non si osserva la costumanza che a beneficio de’ soli rei di delitti minori.
2
Quel ch’è vero è vero. Queste parole, oltre
all’applicazione propria, si adoperano ne’ casi di qualche vantaggio certo, solito e già assicurato; per esempio: Intanto
su sti dieci pavoli er mese nun ce piove e nun ce fiocca: p’er restante poi, ecc.
659. La gabbella der vino
L’entrata
1
c’hanno messo a le cupelle
2
ve lo dich’io ch’edè: ttutto un ripicco
3
der Tesoriere, perché nun c’è er micco
4
che jje dà aggratis da rempí la pelle.
Ma ssi sto grillo in testa io me lo ficco,
lui da mé nun ce pijja bbaiocchelle:
5
ché a la fine er Governo è ttanto ricco
da fregasse de tutte le gabbelle.
Se sa, vvanno a pportà ste grazzianate
6
a li piedi der Papa, e ’r Papa appizza,
7
perché li strozzi nun zò mmai sassate.
Er Papa è un cane avanti de ’na pizza:
si sse la maggna, con chi la pijjate?
O ccor cane, o cco cquello che l’attizza.
Roma, 24 dicembre 1832 - Der medemo
1
Dazio d’ingresso.
2
La cuppella è vaso di legno, frazione di un barile.
3
Rappresaglia, picca.
4
Lo stolido.
5
Danari in
genere.
6
Suggestioni onde rendersi accetto.
7
Appizzare: farsi avanti, accedere.
660. Er bon capo d’anno
Bbon capo-d’ajjo
1
a llei, sora Maria.
Nun c’è arisposta? e cche vvor dí? vve fanno?
2
Eh oggi s’ha da vive in alegria
e nnun pijjasse de ggnisun malanno.
Anzi, io volevo, per nun dí bbuscía,
che ffascessimo inzieme un contrabbanno;
ché cquer che se fa oggi, sposa
3
mia,
poi se seguita a ffà ppe ttutto l’anno.
4
Tutti li gusti hanno da èsse a ccoppia
in sto ggiorno; e inzinenta in paradiso
se dà a li santi la pietanza doppia.
E pperché er Papa ha mmesso er giubbileo?
5
Perché er bambin Gesú ss’è ccirconciso,
e ’r fijjolo de Ddio s’è ffatto ebbreo.
Roma, 24 dicembre 1832 - Der medemo
1
Capo d’anno, in modo scherzevole.
2
Far le creste, le paturne, cioè avere il «mal umore».
3
Sposa (pron. colla o
stretta) è il titolo d’onore che si a tutte le donne.
4
Questa è l’opinione generale, che al principio dell’anno si debba
fare di ogni cosa piacevole un po’, dappoicché ciò nel primo giorno dell’anno si fa, e quello in tutti gli altri si
prosegue.
5
Su ciò vedi i sonetti
661. Er tiro d’orecchia
1
Sor Natale, se maggna sto torrone?
2
Sor Natale, se maggna sto pangiallo?
3
Per arregges’in piede co sto callo
sc’è ggran nescessità de cose bbone.
Io da jjerammatina a ccolazzione
nun ho mmaggnato ppiú cc’un portogallo
4
e sto dd’allor’impoi sempr’a ccavallo
pe ppoté ffà ’na bbona indiggistione.
5
Duncue vedete voi si ccon che ccore,
trovannome, diograzzia, a ppanza vòta,
io potería dà ssotto e ffamme onore.
E cquanno ho ddato l’abbriva a la rota,
le fijje vostre ponno stà a l’odore,
ch’io nun je fo rrestà mmanco la dota.
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Nel giorno onomastico di alcuno, si fa a lui, o si dice di farlo, il tiro delle orecchie, che significa o allungargli le
orecchie, la grandezza delle quali significa vita lunga; ovvero forzarlo a pagare la festa, dappoiché farsi tirar
l’orecchia dicesi di coloro che a difficoltà concedono.
2
Un mandorlato che si mangia a Natale.
3
Un pane con
mandorle, uve-passe, cibo della medesima circostanza.
4
Cedro arancio.
5
Digestione.
662. È ’na Bbabbilonia
1
Sin da tre mmesi avevo avuto er posto
de bbidè
2
a l’Accademia de li soni;
3
e li sori accademichi bbirboni
me l’hanno arilevato a mmezz’agosto.
Che vvòi commatte
4
llà! ttutti padroni:
sempr’uno la vò allesso e un antro arrosto.
Ma ne trovino un antro pe cquer costo
che li servivo io de sei testoni.
Crederò che cquer po’ dde pratichezza
c’ho de portà bbijjetti, a sto paese
nun z’avessi da prenne pe mmonnezza.
5
Trovà un bidè pe ssei testoni ar mese?!
Sora Accademia mia, nun z’arippezza.
6
Sce pò annà Bbrega de Piazza Fernese.
7
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Confusione.
2
Bidello.
3
Accademia filarmonica.
4
Combattere.
5
Per immondezza, per nulla.
6
Non si ripara.
7
Brega di
Piazza Farnese: forse in altro tempo fu un personaggio ridicoloso e nullo, di cui è restato il solo nome, che equivale a
«nessuno». Per esempio: «Chi c’è? Chi è venuto? Brega.»
663. La bbazza
1
O de riffe, o de raffe,
2
inzino a mmone
sempre cuarche ffiletto
3
s’ariduna.
Jer’assera arivonno pe ffurtuna
du’ ggiuncate in froscella
4
p’er padrone.
E io, pe sparggiuste le porzione,
una ne fesce vede a lloro, e una
oggi che ggrazziaddio nun ze diggiuna
me la sò mmaggnat’io pe ccolazzione.
Me sò arinato!
5
Eh ssi nun fussi lei
5a
che mme lo mette sú, ccor ziggnor Pavolo
Dio sa l’incerti che cciabbuscherei.
Ma llei? saette! nott’e ggiorno un gnavolo.
6
Va stitica
7
ppiù ppeggio de l’Abbrei,
8
e ssa indove che ttiè la coda er diavolo.
9
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Bazza, bazzetta, arrivar la bazza, ecc.: incontro fortunato di guadagno.
2
O per fas o per nefas.
3
Incerto.
4
Fiscella.
5
Sono rinato.
5a
La padrona.
6
Querela petulante (miagolio).
7
Andare stitico: essere duro, avaro.
8
Gli ebrei hanno fama
d’avarizia.
9
È furba: proverbio.
664. Mamma scrupolosa
Bascia subbito llí cquela paggnotta
ch’è ccascata davanti ar cacatore.
Nu lo sai, bbrutta fia
1
de ’na miggnotta,
2
eh? cch’er pane è la faccia der Zignore?
Che bbelle scuse de la freggna! Scotta!
Ciavería
3
gusto t’abbrusciassi
4
er core.
Va’ ggiú a ccasa der diavolo, marmotta,
e averai da godette antro scottore.
E mmó ccome la metti? sottosopra?,
che tte se pozzino
5
stroppià le mane:
uh! bbenedetto er nerbo e cchi l’addopra.
Vortela,
6
strega, da la parte tonna,
perché, ccor cul in zú, ssappi ch’er pane
fa ppiaggne Ggesucristo e la Madonna.
7
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Figlia.
2
Bagascia.
3
Ci avrei.
4
Ti bruciasse.
5
Possano.
6
Voltala.
7
Veri pregiudizi del popolo.
665. Er poverello muto
Che mme dava er zor Conte oggni matina?
La carità cche nnun ze nega ar cane.
Cquarche ppezzo avanzato de gallina,
un piattin de minestra e un po’ de pane.
E ppe ttutto sto sono de campane
1
sce s’aveva d’annà ppuro in cuscina,
che mmanco è a ppiana-terra, ma arimane
sei scalini ppiú ggiú de la cantina.
Io nun parlavo mai perch’ero muto,
ma jjeri che scottava la cucuzza
nun me potei tiené de strillà ajjuto!
Che bbella carità de la Merluzza!
2
Perché Ddomminiddio m’ha pproveduto
de parlà, cc’è da fa ttutta sta puzza!
3
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Per tutto questo sfoggio.
2
Luogo a quindici miglia da Roma, sulla via Cassia, infestato già da masnadieri.
3
Tutto
questo chiasso.
666. L’abbichino
1
de le donne
La donna, inzino ar venti, si è ccontenta
mamma, l’anni che ttiè ssempre li canta:
ne cressce uno oggni scinque inzino ar trenta,
eppoi se ferma llí ssino a cquaranta.
Dar quarantuno impoi stenta e nnun stenta,
e ne disce antri dua sino ar cinquanta;
ma allora che aruvina pe la sscenta,
2
te la senti sartà ssubbito a ottanta.
Perché, ar cressce li fijji de li fijji,
nun potemmo èsse ppiú ddonna d’amore,
vò ffigurà da donna de conzijji.
E allora er cardinale o er monzignome,
che jj’allissciava er pelo a li cunijji,
comincia a rrescità da confessore.
Roma, 26 dicembre 1832 - Der medemo
1
L’abbaco.
2
Per la discesa.
667. Tutt’ha er zu’ tempo
La donna tiè un’usanza bbenedetta,
che inzinenta che ttrova a ffà l’amore,
s’ingeggna cor pennello e ccor colore,
e cco pperucche, e stoppa e vvita stretta.
Ma appena li sciafrujji
1
de toletta
nun smòveno
2
ppiú er cazzo a ggnisun core,
incomincia a ddà ll’anima ar Ziggnore,
e a ttrincià
3
ll’antre donne co l’accetta.
Nun dico ggià che ssi le carne mossce
svejjassino a cquarcuno l’appitito,
lei se schifassi d’allargà le cossce;
nò, vviengo a ddí che Ccristo è appreferito,
perché a Rroma oggni donna lo conossce
che ppe le vecchie è ll’urtimo partito.
Roma, 26 dicembre 1832 - Der medemo
1
Garbugli.
2
Muovono.
3
Trinciare: mordere altrui con satira.
668. Cazzo pieno e ssaccoccia vota
Hai le paturne,
1
eh Pimpa?
2
Me dispiasce,
perché ho da fatte una dimanna bbuffa:
si mmai sciavessi con tu’ bbona pasce
’no scampoletto de patacca
3
auffa.
4
Già lo sapevo: tu nun zei capasce
de fà ggnisun servizzio a cchi nun sbruffa.
5
E io dirò ccome che disse Arbasce:
duncue, reggina, addio: tiecce
6
la muffa.
Nun è vvero ch’io sii duro de reni:
7
propio nun ciò un bajocco, da cristiano,
8
pe ppoté ffatte
9
l’accession
10
de bbeni.
Ma ssenza la tu’ chiavica de Fiano,
11
cuanno me sento li connotti pieni
cqua cciò ddu’ freggne auffa, una pe mmano.
Roma, 26 dicembre 1832 - Der medemo
1
Hai il mal umore?
2
Accorciativo di Olimpia.
3
Trova questo vocabolo per entro al Son…
4
A ufo, vedi il sonetto…
5
Cioè moneta.
6
Tienci.
7
Avaro.
8
Formula di giuramento.
9
Farti.
10
Cessione.
11
Non pel senso qui peculiare, ma pel
suggetto, vedi la nota… del sonetto…
669. Er pupazzaro e ’r giudisce
Sonetti 2
Io nun zò, mmojje mia, tanto merlotto,
ma mme sò ttrovo co le spalle ar muro.
1
Propio er giudisce, lui, venne ar casotto!
2
Che jj’avevo da dí? «Sse servi puro».
3
E cce vorze fà er conto, er galeotto!
Me diede du’ zecchini e un pezzoduro;
e llassò er zervitore de sicuro
pe ffàsseli aridà ssotto cappotto.
4
Puntuale er decane
5
torcimano,
6
come le ggente se ne furno ite,
me fesce un ghiggno e ppoi stese la mano.
Che cce vòi fà? sò stoccate
7
pulite,
trucchi d’abbilità,
8
stile romano.
Ma, ar meno, ce darà vvinta la lite.
Roma, 25 dicembre 1832 - Der medemo
1
Senza modo di scampo: compromesso.
2
All’ingresso dell’Avvento si ergono sulla Piazza di S. Eustachio alcune
botteghe di legno, chiamate casotti, nelle quali, fino alla Natività di Cristo, vendonsi figurine di terra cotta per uso di
presepio; e quindi, sino alla Pasqua Epifania, balocchi e cianfrusaglie per befane: di che vedi il sonetto…
3
Si serva
pure liberamente.
4
Per farseli rendere di soppiatto.
5
Vedi la nota 1 del sonetto.
6
Turcimanno, che, nel nostro caso,
dicesi anche a Roma manutengolo.
7
Dare una scoccata vale: «chieder danaro senza esserne creditore».
8
Espilazioni
astute.
670. Er pupazzaro e ’r giudio
Te disse
1
de quer giudisce de ddio
2
che ppe ffà un ber presepio ar zu’ regazzo
s’aggranfiò
3
un giorno in ner casotto mio
’na caccoletta
4
de trentun pupazzo?
Tu ggià de scerto te sei creso
5
ch’io
doppo quer fatto, senz’antro strapazzo,
guadaggnasse la lite cor giudio:
e ppe l’appunto ho gguadaggnato un cazzo.
Quer fariseo co la su’ faccia pronta
m’appoggiò
6
’na sentenza da mascello,
e cciò avuto accusí cciccia pe ggionta.
7
Ma ssenti mó cche ggalantomo è cquello,
e la ggiustizzia sua si
8
cquanto conta:
me sò appellato, e l’ho vvinta in appello.
Roma, 26 dicembre 1832 - Der medemo
1
Ti dissi.
2
Ironia.
3
Aggranfiare: verbo derivato dal nome granfie, cioè: «artigli».
4
Una bagattella.
5
Creduto.
6
Mi
diede.
7
Giunta alla derrata.
8
Particella di ripieno.
671. Le laggnanze
Già le sapemo tutte le cuarelle
1
che smòveno
2
cqua e llà li ggiacubbini;
ch’er Governo è una torre de Bbabbelle:
che tutto l’ojjo va ne li lumini:
3
ch’er Zantopadre è un capo d’assassini:
che dder popolo suo ne vò la pelle:
che cquanno l’omo nun ha ppiú cquadrini
l’arricchisce cor cressce le gabbelle:
che cqua ssemo in ner Ghetto de la Rua:
4
che li sudditi porteno l’imbasti,
5
e ’r vino se lo bbevono uno o ddua...
Che?! Aspetta
6
ar Papa de toccà sti tasti,
perché ne sa ppiú er matto a ccasa sua
ch’er zavio a ccasa d’antri:
7
e cquesto abbasti.
Roma, 26 dicembre 1832 - Der medemo
1
Querele.
2
Agitano.
3
I cappelli triangolari de’ preti, consimili di forma a certe lampadette di terra-cotta, ad uso di
luminarie, dette lumini.
4
Parte e porta del Ghetto, ossia ricinto degli Ebrei, riputati gente avara e frodolenta.
5
I basti.
6
Spetta.
7
Proverbio.
672. Li punti d’oro
1
Ccusí vviengheno a ddí li ggiacubbini
ar Gran Zommo Pontescife Grigorio:
«Che tte fai de li Stati papalini
dove la vita tua pare un mortorio?
Va’, e tt’upriremo palazzi e ggiardini,
t’arzeremo una statua d’avorio,
te daremo un mijjone de zecchini,
te faremo stà ssempre in rifettorio».
Ma er Papa a sta bbellissima protesta
de palazzi, de statua e mmijjone
je dà st’arispostina lesta lesta:
«Vojantri me pijjate pe ccojjone.
Io sempr’ho inteso ch’è mmejjo èsse testa
d’aliscetta che ccoda de sturione».
2
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
Ponti d’oro a chi fugge: proverbio. In Roma però dicono punti, non g perché in questa maniera si pronunci il
vocabolo ponti, ma perché così dicono.
2
Proverbio.
673. Panza piena nun crede ar diggiuno
Lo capisco ch’er monno è ppien de guai
e cch’è un logo de pianto e ppinitenza;
ma ppenà ssempre e nnun finilla mai
roppería puro er culo a un’Eminenza.
Se fa ppresto a pparlà; mma, cculiscenza
1
tu cche me fai ste chiacchiere me fai,
tu cche pprèdichi all’antri la pascenza,
di’, cquanno viè la vorta tua, tu ll’hai?
Va’ ssempre co li stracci che mme vedi:
cammina pe la fanga co sta bbua
2
de scarpe che mme rideno a li piedi:
3
campa ’ggni ggiorno co un bajocco o ddua;
e ppoi penza de mé cquer che tte credi,
e ggòdete la fremma a ccasa tua.
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
Con licenza.
2
Vale anzi «ruina» che «danno».
3
Scarpe che ridono: fesse.
674. L’avaro ingroppato
1
Nu lo posso soffrillo, nu lo posso:
me fa vviení li frauti
2
da l’abbíla.
3
È ricco-maggna,
4
e ttiè un landàvo
5
addosso
che dde li bbusci n’averà ssei mila!
Lui, pe ffà er brodo, drento in de la pila
sai che cce bbulle oggni matina? un osso.
Mette er vino in dell’acqua pe ttrafila,
6
e ppe ingannà la vista addopra er rosso.
E ccià ddu’ viggne poi, du’ svojjature,
7
che ggireno tre mmijja in tonno in tonno:
tiè una bbella ostaria for de le mure:
e mmó ha ccrompato da padron Rimonno
cuer gran negozzio suo de le vitture
pe Ttivoli, Subbiaco,
8
e ttutto er monno.
9
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
Dovizioso.
2
Flati.
3
Bile.
4
Ricco magno.
5
Abito: termine preso scherzevolmente da landau, landò, specie di vettura.
6
Sottilmente.
7
Due svogliature, due miseriole: ironia.
8
Terra presso Tivoli, ov’è il celebre eremo di S. Benedetto.
9
Specie d’iscrizione non infrequente in Roma.
675. A Chiara
Chiara, pijja er mi’ rosso, e ffamo un ovo,
che ddoppo, ar tempo suo sc’eschi er purcino.
Guarda, er chicchirichí
1
sgrulla
2
er cudino:
su, ppollanchella
3
mia, mettete ar covo.
Nu lo vedi, Chiaruccia, er m’arimovo
4
c’ha ggià arzata la penna ar mannolino?
5
Alò, damo du’ bbòtte a mmarruncino:
6
arm’e ssanto, e accusí mme l’aritrovo!
7
Che ddichi de l’inferno?! Ahú ggabbiane
8
che vve dànno a d’intenne che Pprutone
facci li matarazzi co ste lane!
Senti che nnova sc’è: «Ffior de limone,
si Ccristo nun perdona a le puttane,
er paradiso lo pò ddà a ppiggione».
9
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il galletto, dal verso del suo canto.
2
Scuote.
3
Gallina che non fece ancora uovo.
4
Membro sensitivo.
5
Mandolino.
6-7
Vedi i sonetti…
8
Semplici.
9
Ritornello in Roma comunissimo. Sul ritornello in genere vedi il sonetto…
676. Er presepio de li frati
Semo stati a vvedé ssu a la Rescèli
1
er presepio, ch’è ccosa accusí rrara,
che ppe ttiené la ggente che ffa a ggara
ce sò ssei capotori
2
e ddu’ fedeli.
3
L’angeli, li somari, li cammeli,
si li vedete, llí stanno a mmijjara:
c’è una Grolia
4
che ppare la Longara;
5
e cce se pò ccontà lli sette sceli.
6
Indietro sc’è un paese inarberato
7
dove sarta sull’occhi un palazzino,
che ddev’èsse la casa der curato;
e avanti, in zu la pajja, sc’è un bambino,
che mmanco era accusí bbene infassciato
er fío de Napujjone
8
piccinino.
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
La chiesa di S. Maria in Aracoeli sul Campidoglio, di cui vedi i son… Essa è di giurisdizione del popolo romano
rappresentato dai Conservatori.
2
Milizia capitolina, come suona il nome. Essa è formata dai capi d’arte della città e
incede in uniforme rosso. Non sono però in numero di spiriti da dare gelosia a chi tutto il potere del
Campidoglio usurpò.
3
Vedi di questo la nota… del son…
4
Gloria. Così chiamasi nei presepi un direi quasi imbuto di
nuvole, in fondo alle quali scorgesi il Padre Eterno col suo triangolo dietro al capo, chiamato dal popolo il cappello a
tre pizzi del Padre Eterno.
5
Via di Roma che corre tra il Tevere e il Gianicolo, dalla Porta di Settimio Severo
(Settimiana) a quella di Leone IV (di S. Spirito), restate senza alcun ufficio dopo l’addizione della Città Leonina al
Trastevere e a Roma, fatta da Urbano VIII.
6
Numero preciso de’ cieli del Cristianesimo.
7
Inalberato: posto nell’alto.
8
Napoleone.
677. Er bambino de li frati
1
S’ha da lodà li frati perché ffanno
cuer presepio che ppare un artarino.
2
Tu lo sai che ssò ffrati, e vvai scercanno
si sta notte arimetteno er bambino!
Io voría che pparlassi cuer lettino,
cuele stanzie terrene indove vanno;
e vvederessi, ventotto de vino,
3
che lo vonno arimette tutto l’anno.
Ggià, cche spesce
4
ha da fà cche cco la pacchia
5
che ggodeno sti poveri torzoni,
je se gonfi la groppa a la verdacchia?
Ortre c’ar rivedé li bbardelloni,
6
e a l’ingrufà ssi ccapita una racchia,
7
è un gran commido annà ssenza carzoni!
Roma, 27 dicembre 1832 - Der medemo
1
Gli zoccolanti, già nominati nel sonetto precedente.
2
Avanti il Mistero sono accesi torchi, come non una campagna,
ma un altar maggiore ivi a’ riguardanti si appresentasse.
3
Espressione passata in proverbio, che significa: «sempre una
cosa», dacché si narra di un tale, i di cui conti quotidiani dell’oste cominciavano sempre dalla partita Ventotto di vino.
4
Specie.
5
Vita comoda.
6
Far sodomia.
7
Vaga e fiorente giovane.
678. Er penitente
Oggni cuarvorta ch’io metto er barbozzo
1
ar finestrino der confessionario
sotto a cquer ber cuadruccio der Carvario,
m’acchiappa un ride
2
da strozzamme er gozzo:
perch’è una sscena de sentí un pretozzo,
3
che ppare che sti’ a ssede ar nescessario,
damme
4
una terza parte de rosario,
e ddí tt’assorvo poi per quant’un bozzo.
5
Er rosario lo dà ppe ppinitenza:
ma cche cc’entra cuer bozzo in confessione?
Propio nun c’entra un cazzo, abbi pascenza.
Guasi guasi io diría
6
c’ha un po’ rraggione
chi sse l’intenne co la su’ cusscenza
invesce de pijjà st’assuluzzione.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Mento.
2
Mi prende un ridere.
3
Prete piccolo e grasso.
4
Darmi.
5
«Per quantum possum».
6
Direi.
679. Date Scèsere a Ccèsere e Ddio a Ddio
Citazzione o riscetta, in concrusione
me la fesce
1
spiegà dda lo spezziale.
Disce:
2
«Hai d’annà da un cert’Abbate Tale,
3
ch’è ’r curiale contrario, ar Confalone».
4
Io me faccio inzeggnà strada e pportone,
vado, me scibbo
5
otto capi de scale,
bbusso, viengheno a uprí, cchiedo er curiale,
e jje dico: «Ch’edè sta Citazzione?».
Lui la guarda, e ppoi disce: «Ah nun zò io
che cqua vviè pper legabbile,
6
ma cquello
che sta in cuest’antro studio accost’ar mio».
Inteso tanto, io me caccio er cappello
a st’omo pieno de timor de Ddio;
perch’è ggiusto: oggni aggnello ar zu’ mascello.
7
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Me la feci, ecc.
2
Il dice è il segnale del mutamento d’interlocutore.
3
Nome generico.
4
Luogo che prende il nome da
una chiesetta e confraternita.
5
Mi cibo, cioè: «duro la fatica di fare», ecc.
6
Legale.
7
Proverbio.
680. Tutte a ttempi nostri
Pe ccarnovale, hai ’nteso, Madalena,
c’antra cazzata
1
fanno a Ttordinona?
2
Una commedia ggnente bbuggiarona,
che jj’hanno messo nome Anna Bbalena!
3
Eh? sse pò ddà una cosa ppiú ccojjona?
Eppoi fa spesce
4
si la ggente mena!
Ma ccome s’ha da mette su la sscena
una Bbalena-in-musica in perzona?!
Disce
5
che ssta bbestiola piccinina
un re sse l’era presa pe pputtana,
e ppoi la fesce incoronà reggina.
Nun ciamanc’antro
6
mó, ppe ddilla sana,
7
che annassi er Papa, e ccoll’acqua marina
je la fascessi diventà ccristiana.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Stoltezza.
2
Il teatro di Torre-di-Nona, per l’opera.
3
Anna Bolena, melodramma del Ch.° Gaetano Donizetti.
4
Fa
specie.
5
Corrisponde perfettamente all’impersonale francese on dit.
6
Non ci manca altro.
7
Per dirla intiera.
681. Pare una favola!
Appena er Papa disse chiaramente
che, ssenza arimedià ssubbito ar male,
la Santa-Sede annava a lo spedale,
cuanno nun je pijjassi un accidente;
de posta oggni prelato e ccardinale,
oggni patrasso e oggnantra bbona ggente,
1
cùrzeno
2
tutti cuanti istessamente
co la lingua de fora ar Qui-orinale.
3
E ttutti, incomincianno dar Vicario,
disseno
4
ar Papa: «Io do la mi’ abbazzia
pe rriempicce
5
er vòto de l’orario».
6
Cuest’è una storia che nnun è bbuscía.
Sor Indovinagrillo
7
der Diario,
8
dite la vostra, c’ho ddetto la mia.
9
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Nell’Ordine Circolare, dato il 20 dicembre 1832 sotto il N. 30571 dalla Segreteria di Stato a tutti i Capi-di-ufficio,
onde avvertissero i loro impiegati subalterni della diminuzione degli stipendi, era espresso che l’alto Clero era
spontaneamente andato ad offerire i suoi emolumenti ed averi pei pubblici bisogni.
2
Corsero.
3
Il Monte Quirinale, su
cui è uno de’ palazzi pontifici.
4
Dissero.
5
Riempirne.
6
Erario.
7
Così è chiamato dal popolo l’Indovinala-grillo,
libercolo di sorti, che se ne cavano mercé un facile calcolo guidato da una bussola aritmetica che rimanda a tanti versi
divinatòri.
8
Foglio ufficiale di Roma.
9
Formula con la quale terminansi le favole da fanciulli.
682. Li richiami
Strilleno le province tutte cuante
ch’er zor Papa, a l’impieghi, arza la feccia;
e ’r zor Papa fa orecchia da mercante,
1
e llassa pivolà
2
lla crapareccia.
3
Va bbe’ cc’oggni Prelato oggi è ggargante,
4
ma è ppuro gran faccenna penzareccia
5
de trovà un prete che nnun zii bbirbante.
Tempo de caristia, pane de veccia.
6
Ecchete
7
poi perché nnoi poverelli
ciavemo da iggnottí
8
ttutti sti cardi,
ch’er zor Papa poteva prevedelli.
Mó li vorebbe fà ppassi gajjardi:
ma ssó ccastell’in aria sti castelli.
Farà un buscio nell’acqua:
9
è ttroppo tardi.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Non bada: proverbio.
2
Pivolare: per «querelarsi, gidare».
3
Caprareccia: gregge di capre, il nome della quali si dà qui
a genti spregevoli.
4
Ribaldo.
5
Faccenda da dar pensiero.
6
Proverbio.
7
Eccoti.
8
Ci abbiamo da inghiottire.
9
Proverbio.
683. Lo stato de lo Stato
È vvero che nnoi semo sderelitti,
1
ma ccosa ha dda fà er Papa co sta freggna
2
de debbiti, de smosse
3
e dde delitti
tutto pe vvia de sta settaccia indeggna?
Dico, cos’ha da fà? Pprova, s’ingeggna,
va ttra una goccia e ll’antra,
4
attacca editti,
opre e sserra bbottega, impeggna e speggna,
s’ajjuta co l’apparti e cco l’affitti.
5
Però, ppe quanto dichi e cquanto facci,
pe cquanto s’arranchelli
6
a ddà la leva,
la pietra nun ze move, e ssò affaracci.
Ah! ddisse bbene un omo che ddisceva
c’oggi l’editti cqua ssò ttutti stracci
che un Papa mette e un stracciarolo leva.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Rifiniti, prostrati.
2
Flagello.
3
Commozioni.
4
Va tra un male e l’altro, per evitarli entrambi. Questa frase indirizzasi in
Roma scherzevolmente a chi si espone alla pioggia senza ripari.
5
Gli appalti e gli affitti possono attualmente
chiamarsi, se non il primo, il secondo flagello pubblico.
6
Si arrampicichi, si sforzi.
684. La verità è una
Sò inutile,
1
fijjolo, sti lamenti:
s’ha da sentille a ddoppio le campane.
2
Er Papa sce vorría tutti contenti,
ma sbajja tra la pecora e ttra er cane.
Li proverbi e ’r Vangelopparenti:
si ttu li vòi scassà cche cciarimane?
Ggià sse sa cche cchi ha ppane nun ha ddenti,
e cchi ha ddenti a sto Monno nun ha ppane.
3
Che cqua li somaroni empieno er gozzo
lo disse puro ar Papa un Cardinale,
e cche, invesce, a cchi ssa jj’amanca er tozzo.
E er Papa sto discorzo pien de sale
lo sentí co la mano sur barbozzo:
4
se stiede zitto, e nnun ze l’ebbe a mmale.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Inutili.
2
Proverbio.
3
Proverbio.
4
Mento.
685. Lo specchio der Governo
Cuanno se vede ch’er Governo nostro
cammina senza gamme,
1
e ttira via:
cuanno se vede che mmanco Cajjostro
2
saprebbe indovinà cche ccosa sia:
cuanno er Zommo Pontescife cià mmostro
3
che cqualunque malanno che sse dia
s’abbi d’arimedià co un po’ d’inchiostro,
co un po’ d’incenzo e cquattro avemmaria:
cuanno se vede che lo Stato sbuzzica,
4
e cch’er ladro se succhia tutto er grasso,
e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica;
tu allora che lo vedi de sto passo,
di’ cch’er Governo è ssimil’a una ruzzica,
5
che ccurre cure sin che ttrova er zasso.
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo
1
Gambe.
2
Giuseppe Balsamo, siciliano, cognominato Cagliostro, famoso impostore del sec. XVIII, e tenuto dal volgo
per stregone, il quale implicato nella celebre causa della Collana in Parigi, sotto Luigi XVI, morì poi a Roma nel Castel
S. Angiolo.
3
Mostrato.
4
Il buzzico è qui un piccolo vaso d’olio per uso giornaliero di familia. Quindi il verbo
sbuzzicare, cioè: «versare e sparger (nel nostro caso) danaro».
5
Ruzzola, disco.
686. Le tre ccorone der Papa
Vedenno er Papa come se sta ffreschi
pe ccausa de la smossa
1
framasona,
ha cchiamato una frotta
2
de todeschi
pe gguardajje a Bbologgna una corona.
E ddoppo, lui che ssa ccosa se peschi
3
pe nnun perde lo Stato a la carlona,
ha ingozzato una frotta de Franceschi,
4
che jje ne guarda un’antra in faccia a Ancona.
E ddoppo, er russio, er brussio e ll’ingresino
manneranno tre ffrotte pe ppescetta
5
a gguardajje la terza a Ffiumiscino.
6
E intanto, in mezzo a Rroma bbenedetta
je guardeno er triregno e uno e ttrino
li Carbonari
7
ar porto de Ripetta.
8
Roma, 29 dicembre 1832 - Der medemo
1
Commozione.
2
Flotta.
3
Cosa egli si faccia.
4
Francesi, in modo scherzevole.
5
Per giunta.
6
Foce del Tevere.
7
Nome
amfibologico e precisamente di circostanza.
8
Il minor porto del Tevere a Roma, dove approdono le barche di carbone,
vino, ecc.
687. Le carte in regola
Disceva er Papa a cchi jje stava intorno:
«Ah ffijji, fijji mii, fijji mii cari,
me pare ar fine ch’è arrivato er giorno
che smorzamo li moccoli
1
a l’artari.
Ggià stanno pe arivà li Carbonari
pe ccòscese
2
da loro er pane ar forno.
Dunque addio, fijji mii, fijji mii rari:
io scappo; e appena che vvò Iddio, ritorno.
Cqua le mi’ carte. Questo è ’r passaporto:
cuesto è ’r carteggio co Ddio bbenedetto:
cuesta è la fede der Papato corto.
3
Cuella der bon costume? È in carta bbianca.
Cuella der mi’ bbattesimo? Sta in Ghetto.
4
Cuella de stato libbero?
5
Ciamanca».
6
Roma, 29 dicembre 1832 - Der medemo
1
Presa anche questa espressione nel senso più semplice, lo smorzare, spegnere i moccoli, significa in Roma «esser
finta».
2
Cuocersi.
3
Nel giorno consecutivo a quello della elezione del nuovo Pontefice, ebbe questi il primo annunzio
della rivolta di Bologna, al momento stesso che s’incamminava col suo corteggio pontificale al Vaticano, onde
prendervi la corona di uno Stato già forse a quell’ora non più suo.
4
Ricinto degli Ebrei. Dicesi in Roma in via di
scherzo o di scherno «Va’ in Ghetto a prendere la fede del battesimo».
5
Anfibologia.
6
Ci manca.
688. Li scortichini
Vojantri sete ggente c’a sto Monno
ce sta in celi scelòrimi
1
e ppiú ppeggio.
Nò, ar primo
2
sò ccurriali de Colleggio:
3
cuelli de Rota
4
viengheno ar ziconno:
l’Innoscenziani
5
ar terzo; e cquesti ponno
piú dell’antristragge e sscenufreggio;
6
sibbè
7
cc’abbino tutti er privileggio
de sporverà
8
la bborza de chi vvonno.
Cqua, vvieniteme appresso ar tribbunale,
crape
9
che nun capite un accidente,
e gguardate che cc’è ssu ppe le scale.
10
Li vedete cuer boia e cquer paziente?
Lo sapete chi ssò? Cquello è un curiale
che scortica la pelle d’un criente.
Roma, 29 dicembre 1832 - Der medemo
1
Stare in coeli coelorum dicesi degli astratti, trasecolati, ecc.
2
Al primo elenco, ordine, grado.
3
Ordine di curiali,
instituito da… Sono in numero di…
4
Simile, instituito da… Sono in numero indeterminato.
5
Simile, instituito da
Innocenzo XII. Sono in numero indeterminato.
6
Sterminio.
7
Benché.
8
Spolverare, vuotare.
9
Capra dicesi ad un uomo
di niun valore.
10
Per le scale della Curia Innocenziana di Monte-Citorio, vedesi un gruppo rappresentante Apollo in
atto di scuoiare Marsia, posto ivi da…
689. Er quinto commannamento de Ddio
Quinto nun ammazzà: ccusí ttiè scritto
su la guainella
1
oggni uffisciar
2
der Papa,
che, ssi li manni
3
in dodisci ar confritto,
in dodisci nun tajjeno una rapa.
Pe vvia
4
che ammazzà er prossimo è ddelitto,
e in cammio
5
è ggrolia
6
de sarvà la capa,
7
er Vicario de Ddio, ch’è un omo dritto,
8
mette in guardia a le pecore una crapa.
9
Oggnun de st’uffisciali, duro duro,
co cquelli bbaffi de gatto-mammone,
pare dí: er monno nun è ppiú ssicuro.
Ma ss’hanno sto tantin de protenzione,
10
come er protenne e ddà la testa ar muro
nun ze nega a ggnisuno,
11
hanno raggione.
Roma, 29 dicembre 1832 - Der medemo
1
Spada, per la sua similarità alle carrubbe, chiamate in Roma guainelle, sembrando infatti guaine.
2
Ufficial.
3
Mandi.
4
Conciossiaché.
5
Cambio.
6
Gloria.
7
Capo, imitazione dal napolitano.
8
Accorto.
9
Capra, nome dato a uomini dappoco.
10
Pretensione.
11
Modo proverbiale.
690. La cresscita
1
der zale e ddelle lettre
2
Cuarchiduno
3
l’inzorfa.
4
Ar primo editto
5
er Zanto Padre fesce troppo er vappo
6
pe sbiancasse
7
accusí. Cquest’antro aggrappo
8
in un Papa saría troppo delitto.
Nun bastava ch’er zale era in affitto,
9
che mmó a lo sgarro
10
sce s’accressce er tappo?!
Per dà a cquattro assassini un antro impappo
11
s’arifrigge la carne a cchi ggià è ffritto?!
Che sserve che ttre ggiorni l’appartista
l’abbi ancora da dà ppe cquer che ccosta,
si ll’orzarolo
12
nun lo tiè ppiú in lista?
Armanco,
13
pe le lettre de la posta,
li ricchi o pponno
fanne
14
una provista,
o scrive sempre e nnun pijjà risposta.
Roma, 29 dicembre 1832 - Der medemo
1
Crescimento, aumento.
2
Di ciò vedi la nota… del son…
3
Qualcuno.
4
Inzolfare: istigare.
5
L’editto bandito da
Gregorio XVI appena sceso al soglio fra le turbolenze politiche delle province settentrionali.
6
Fare il vappo: iattare.
7
Sbiancarsi: smentirsi.
8
Da aggrappare.
9
L’affitto de’ sali e tabacchi è stato dato ad una compagnia per un terzo meno
del giusto.
10
Oltre al senso qui più ovvio, sgarro significa ancora: «errore di condotta».
11
Mangiata.
12
I così detti
orzaiuoli, venditori di minuti, e spacciatori di sale, ne’ tre giorni di spazio fra la pubblicazione dell’editto e quello
della sua sanzione, celarono tutto il sale che avevano, per poi venderlo al nuovo prezzo accresciuto.
13
Almanco,
almeno.
14
Farne.
691. Er zale e ll’antre cose
Hai ’nteso in de l’editto
1
si cche ggnocchi
2
fa ingozzà er Papa ar popolo fedele?
Che snerbature co ttutti li fiocchi
3
che mmanco se daríano a Ssammicchele?
4
Mó vvò mmaggnà st’antri pochi bbajocchi.
Ma ggià, cchi ne la panza sce tiè er fele,
nun ce vonn’antro che bbabbussi e alocchi
per aspettasse che jje cachi er mele.
Te laggni! ma ssicuro che mme laggno,
e la bbocca che cciò
5
nnun me la cuscio:
ogn’editto che vviè, ssempre compaggno!
Eppoi, cosa te credi? co sto sfruscio
6
de chiacchierate e dde gabbelle, un raggno,
ch’è un raggno, nun lo cacceno dar buscio.
7
Roma, 31 dicembre 1832 - Der medemo
1
Il famoso editto dell’aumento delle gabelle, state poco tempo prima disminuite dagli ultimi due antecessori del
regnante Pontefice, e da Lui medesimo nelle peggiori circostanze dell’erario. Andò in vigore il primo giorno dell’anno
1833.
2
Colpi, aggravi, ecc.
3
Solenni.
4
Casa di correzione per fanciulli.
5
Che ci ho, che ho.
6
Sciupinio.
7
Non giungono
al minore de’ successi: proverbio.
692. La porteria der Convento
Dico:
1
«Se pò pparlà ccor Padr’Ilario?».
Disce: «Per oggi no, pperché cconfessa».
«E ddoppo confessato?» «Ha da dí mmessa».
«E ddoppo detto messa?» «Cià er breviario».
Dico: «Fate er servizzio, Fra Mmaccario,
d’avvisallo ch’è ccosa ch’interessa».
Disce: «Ah, cqualunque cosa oggi è ll’istessa,
perché nnun pò llas er confessionario».
«Pascenza»,
2
dico: «j’avevo portata,
pe cquell’affare che vv’avevo detto,
ste poche libbre cqui de scioccolata...».
Disce: «Aspettate, fijjo bbenedetto,
pe vvia che, cquanno è ppropio una chiamata
de premura, lui viè: mmó cciarifretto».
3
Roma, 30 dicembre 1832 – Der medemo
1
Le voci dico e dire rappresentano nel discorso volgare le transizioni da uno ad altro interlocutore.
2
Pazienza.
3
Ora ci
rifletto.
693. Li sbasciucchi
1
Vedi: cuer Chiricozzo sciorcinato
2
mó bbasciava la man’ar Zagrestano:
cuesto la bbascia mo ar Zotto-curato;
e cquesto mó la va a bbascià ar Piovano.
Cuesto la bbascia ar zu’ Padre Guardiano,
e cquesto ar Provinciale, c’ha bbasciato
la mano ar Generale, che la mano
bbascia lui puro ar Vescovo e ar Prelato.
E ’r Vescovo e ’r Prelato è ttal e cquale,
ché, ppe bbascià la mano, cure addietro,
com’un can da mascello, ar Cardinale.
E a cchi la bbascia sto fijjol d’un mulo?
La bbascia ar Zanto-Padre su a Ssan Pietro.
E ’r Papa a cchi la bbascia? A Bbasciaculo.
3
Roma, 30 dicembre 1832 - Der medemo
1
Sbaciucchi, sbaciucchiamenti, sbaciuccare, son tutti vocaboli indicanti «il molto e assiduo baciare».
2
Chierichetto
tapino.
3
Con questo nome si suole rispondere alle dimande troppo curiose e importune, ovvero a colui che ad arte si è
fatto procedere a una dimanda, onde schernirlo con simile risposta: lo che si chiama «farlo cadere». «Te sciò ffatto
cascà; cce sei cascato», ecc.
694. Le funzione eccresiastiche
Le funzione eccresiastiche, Compare,
è vvero che ssò ttutte a bommercato;
ma ssu ccertune nun ciò mmai fiatato,
1
e ccert’antre me pareno caggnare.
Te pare poca bbuggera, te pare,
ch’er Papa prima d’èsse incoronato
s’abbi da mette a ssede ariposato
co le chiappe der culo in zu l’artare?
2
E ’r par de bbasci c’oggni cardinale
j’àpprica llí ttramezzo a le colonne,
me saperessi dí cquello che vvale?
Te lo dich’io, si ttu nun zai risponne.
Sò una zuppa coll’acqua
3
tal e cquale
che cquanno se sbasciucchieno tra ddonne.
Roma, dicembre 1832 - Der medemo
1
Trovato a ridire.
2
L’altare della confessione di S. Pietro.
3
Frase usata nella circostanza espressa dal verso seguente,
ad indicare il niuno effetto dell’amore tra individui del medesimo sesso.
695. Caccia er cappello a ttutti
Me pèrdeno er rispetto perché io
porto la riverèa
1
da servitore?
Ma ddiino tempo, ch’er padrone mio
sta llí llí pp’èsse fatto monziggnore.
E ggià mm’ha ddetto che, ssi ppapa Pio
pe un par d’anni de ppiú ccampa e nnun more,
lui spera ggià cco l’agliuto de Ddio
d’avé er cappello e arimutà ccolore.
Poi, chi ssa? un callo e un freddo... un freddo e un callo,
2
co ste leggne che cqui sse fa la soma:
tutto dipenne da Monte-Cavallo.
3
E allora disce
4
che mme dà er diproma
de cavajjer de Roma e Pportogallo,
5
pe ffamme arispettà dda tutta Roma.
Roma, 31 dicembre 1832 - Der medemo
1
Livrea.
2
Un cangiamento imprevisto.
3
Il Quirinale, dov’è quello de’ palazzi pontifici nel quale oggi si tiene il
conclave.
4
E dice che allora, ecc.
5
Ordine di Cristo.
696. Le ggiubbilazzione
1
Cosa só li prelati eh, cavarcante?
Cosa sò li padroni eh? ll’hai sentito
che ttestament’ha ffatto cuer gargante,
2
cuer zomaraccio carzat’e vvestito?
Paga in vita ar marito de Violante,
e a mmé cche ssò ppiú anziano der marito,
e jj’ho ffatto da bboja e dd’ajjutante,
3
nun me lassa nemmanco er bonzervito!
4
A Rromaccia bbisoggna èsse cornuto,
bbisoggna avé ppe mmojje le miggnotte,
pe vvédese provisto e bbenvorzuto.
5
Bbasta, lui ’ntanto s’è ito a ffà fotte,
6
e io sò vvivo. Cor divin agliuto,
7
cuarche ccosa farò: ffeliscia notte.
8
Roma, 31 dicembre 1832 - Der medemo
1
Pensioni vitalizie.
2
Traditore, ribaldo.
3
L’ho servito in ogni ufficio.
4
Il benservito è un attestato de’ buoni servizi di
un servo, o una gratificazione concessa pe’ medesimi risguardi.
5
Benvoluto.
6
È morto.
7
Aiuto.
8
Felice notte: alla
buon’ora.
697. Le caluggne
Chi ddisce mal de tutti, e nnun arriva
a ddistingue ricotta da caviale:
chi mmette tutt’assieme in un pitale
la ggente bbona e la ggente cattiva;
pe llevajje er veleno a la saliva
bbisoggnería portallo a ’no spedale
dov’hanno scritto mó ss’un Cardinale
’na lapida de marmo in pietra viva.
Si ffussi piena de bbuscíe de pianta,
1
la ggente ggià sse ne sarebbe accorta,
perché dde sscema nun ce n’è ppoi tanta.
Li cardinali sò ttutti una torta;
e sse ne pò ttrovà ssino a ssettanta
deggni de lapidalli uno a la vorta.
Roma, 3 gennaio 1833 - Der medemo
1
Bugie assolute.
698. L’appiggionanti amorosi
1
S’io fussi ricco, e avessi case cuante
finestre aveva er Duca Mondragone,
2
e vvolessi caccun appiggionante
che sse schifassi de pagà ppiggione;
mica lavorería de scitazzione
pe appiccicamme addosso er visscigante
d’un mozzorecchio e un giudisce cojjone,
che ssò ccome ch’er boja e ll’ajjutante:
invesce der curzore co la frasca
3
mannería ’n archidetto a l’abborita
4
a ddí: «Scappate, ché la casa casca».
E ar momento avería casa pulita:
perché ll’omo nun stima antra bburrasca
che cquella che lo cojje in de la vita.
Roma, 4 gennaio 1833 - Der medemo
1
Morosi.
2
Palazzo di delizia nella città di Frascati, del quale, come di altri, va per la plebe la meraviglia dell’avere,
come si dice, ugual numero di finestre che i giorni dell’anno.
3
Citazione: modo ironico allusivo alla frasca dell’ulivo
di pace.
4
D’improvviso, senza complimenti.
699. La viaggiatora tramontana
1
M’aricconta Raponzolo,
2
er lacchè
de l’Incarcato d’Astra,
3
che mmó cqui
è vvienuta una Russia
4
dar Qui-e-llí,
5
che vva ggiranno er Monno in zabbijjè.
6
Oggni ggiorno lei pijja otto caffè
mogano
7
vero, e ddiesci er luneddì:
e cquelle notte che nnun pò ddormì,
tiè ttutti svejji pe ssentì cc’or’è.
Sta matta immezzo ar cèlebbre
8
nun vò
mmarito, pe nnun fasse indomminà,
9
e nnun pò vvede
10
l’ommini, nun pò.
E ppe ggode
11
la vita in libbertà,
co li su’ gran quadrini inzino a mmó
va ffascennose
12
un Feto
13
pe ccittà.
14
Roma, 5 gennaio 1833 - Der medemo
1
Oltramontana.
2
Raperonzolo.
3
Incaricato d’Austria.
4
Russa.
5
Chillì.
6
Déshalbillé.
7
Moca.
8
Cerebro.
9
Dominare.
10
Vedere.
11
Godere.
12
Facendosi.
13
Feudo.
14
In senso lato di «paese, contrada».
Tutti gli spropositi introdotti in questo sonetto, e vari altri tralasciati, furono da me uditi in breve ora dalla bocca di un
buon parlatore romanesco.
700. Lo sfasscio
1
Jer notte, a mmezzanotte, su a Ccimarra,
2
aggnédero
3
pulito
4
in zei perzone,
e ffésceno un ber buscio in ner portone
de cuer bravo maestro de chitarra.
Sfilato che ppoi n’ebbeno la sbarra,
j’entronno in casa senza suggizzione;
e jje portonno via tutto er mammone,
5
ammazzanno lui prima pe ccaparra.
Cuesto lo so ppe bbocca de Noscenza,
6
serva der morto, c’arimase viva
agguattànnose sotto a una credenza.
Ma ssò ccose da fasse in commitiva?
Nun fuss’antro, dich’io, l’impertinenza
d’ammazzà un galantomo che ddormiva!
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Rottura di uscio.
2
Contrada di Roma, così nominata dalle case dei conti Cimarra.
3
Andarono.
4
Bravamente.
5
Il
danaro: parola di provenienza scritturale.
6
Innocenza.
701. Una sciarabbottana
1
Sarebbe bbuffa che stanno
2
ar finale
der giubbileo
3
de Pascua Bbefania,
4
mó jje vienissi st’antra fernesia
5
de progorallo
6
a ttutto er carnovale.
Direbbe allora pe la parte mia
ch’er Zanto-Padre nostro è ssenza sale,
e cch’er Romano lo conossce male
levannoje sti ggiorni d’allegria.
Adesso c’oggni cosa va a ccartoccio,
7
sciamancherebbe
8
puro
9
un Papa sscemo
che inibbissi quarc’ora de bbisboccio!
10
Pe cquesto er Campidojjo
11
lui medemo
currerebbe a Ssampietro a ppregà er Boccio
12
de dacce la liscenza che rridemo.
13
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Cerbottana. Udire una cosa per cerbottana, vale: «udirla sussurrare fra il popolo».
2
Stando.
3
Di questo giubileo vedi
i Sonetti…
4
Epifania. Vedi il Sonetto…
5
Frenesia.
6
Prorogarlo.
7
A sghembo.
8
Ci mancherebbe.
9
Pure.
10
Bagordo.
Andare in bisboccio, ecc.
11
Si può francamente asserire non essere ai rappresentanti del popolo romano restata quasi
altra giurisdizione, che quella di dirigere e premiare i cavalli delle corse carnascialesche.
12
Vecchio. Qui il Papa.
13
Ridiamo.
702. Le mmaschere eccresiastiche
Nun ce se crede ppiú! ssemo arrivati
a un tempo accusí iniquo e accusí ttristo,
che la mannàra
1
cqui dde Papa Sisto
nun potería purgà ttanti peccati.
Cuali popoli antichi hanno mai visto
ammascherasse
2
li preti e li frati?!
E ar vedé sti vassalli ammascherati
nun z’ha dda dí vviscino l’Anticristo?
Che sserve che la Cchiesa inviperita
li chiami indietro a ssòno de campane,
si la su’ vosce nun è ppiú ssentita?
Che sserve sii la mmaschera inibbita
a ffrati, preti, chirichi e pputtane,
e all’antre ggente de cattiva vita?
3
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Mannaia.
2
Ammascherarsi.
3
Gli ultimi due versi contengono le medesime parole con le quali si bandivano, sino agli
ultimi tempi ogni anno, gli editti in occasione di carnevale.
703. Er zoprano
Vedi cuer Cazzabbúbbolo,
1
commare,
che nnun c’è pporta uperta che cce capa,
e, ccor cappello in zur boccino,
2
pare
un gigante co un fongo s’una rapa?
Cuello è un cappone senza cuajjottare:
3
cuello è un crastato
4
con vosce de crapa;
5
cuello nun è ccommare né ccompare;
ma un mezzo maschio, un musico der Papa.
Eppuro è pprete; e cco cquer zu’ voscino
pò ddí mmessa, si ttiè ne li carzoni
du’ granelli incartati ar borzellino.
Perché dícheno tutti li Canóni
6
che Ccristo nun pò annà ssur pane e ’r vino
che a la vosce che vviè dda li cojjoni.
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Nome di spregio.
2
Capo.
3
Le coglia.
4
Castrato.
5
Capra.
6
Cànoni.
704. Cose da sant’uffizzio
Ssí, mme l’ha ddetto er confessore mio;
e un omo che nun crede ar confessore
nun speri, per cristaccio, cuanno more,
d’avé la grazzia der perdon de Ddio.
Si nun ce credi tu, cce credo io
da bbon cristiano e indeggno peccatore:
e aringrazzio Ggesú dde tutto core
de nun avé la fede d’un giudio.
Ssí, mme l’ha ddetto er mi’ Padre Curato
com’e cquarmente sce sò ttante e ttanti
che ffotteno cor diavolo incarnato.
E lleggenno le vite de li Santi,
se trova chiaro ch’è dda sto peccato
che ssò nnati in ner Monno li Ggiganti.
1
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
De’ demoni incubi e succubi, e degli efialti, vedi il cap. 32 della Dissertazione I del Calmet sul vampirismo, ecc.
705. Er Cardinale bbona momoria
Su’ Eminenza, pe cquanto l’investivo,
nun vorze damme
1
mai ggnisun conforto.
Quello però cche nnun ha ffatto vivo,
dímo
2
la verità, ll’ha ffatto morto.
E cchi spacciassi mó cch’era cattivo,
direbbe male e jje farebbe torto;
perché, è vvero, er zussidio è un po’ stantivo,
ma ttratanto sti stracci oggi li porto.
E ppoi c’è stato er moccolo
3
e ’r papetto
4
pe ddijje
5
un tesprofunni
6
attorn’attorno
ar catafarco che ppareva un letto.
Tutti sti lugri
7
nun zò mmica un corno:
8
e cce vorebbe che Ddio bbenedetto
se raccojjessi
9
un Cardinale ar giorno.
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Volle darmi.
2
Diciamo.
3
Non si manca mai questa distribuzione di cera agli aderenti del defunto, ed anche per la
pompa a chi ne richiede. Stimasi suffragio all’anima del trapassato. Di queste candelette fatto poi un cumulo, si vende,
e se ne spende il ritratto in quel che Dio vuole.
4
Lira romana, di cui vedi le note… del Sonetto…
5
Dirgli.
6
De
profundis.
7
Lucri.
8
Un nonnulla.
9
Si raccogliesse.
706. La messa der Papa
Tra le spalle d’un sguizzero
1
e un curiale,
sibbè
2
cc’avessi tutto er corpo pisto,
jeri, a Ssampietro, er gran Ponte-ficale,
pezzo sí, ppezzo nò, ttanto
3
l’ho vvisto.
E vvedde
4
quanno ar Papa un Cardinale,
cor una faccia da bbecco futtristo,
5
salito sopr’ar trono cor piviale,
je diede un bascio come Ggiuda a Ccristo.
Questo se chiama dà la pasce,
6
Meco;
7
ma ssi cche
8
ppasce a li Papi viventi
diino sti rossi pò ccapillo un ceco.
Ché mmentre er Papa che li vò ccontenti
se spènzola pe ddijje er zu’ Pasteco
9
loro, in core, risponneno: «Accidenti».
Roma, 6 gennaio 1833 - Der medemo
1
Uno svizzero della guardia.
2
Sebbene.
3
Purtuttavia: ad ogni modo.
4
Vidi.
5
Allenimento di aggiunto ingiurioso.
6
Dar
pace.
7
Accorciativo di Domenico.
8
Se che: quale.
9
Pax-tecum.
707. L’entrate cressciute
C’è a Rroma un Omo, ch’io, si nnu lo sai,
nun te potrebbe confidà cchi ssia:
sortanto te dirò cch’è ddotto assai,
e vviè ggiú dda la costa der Messia.
Cuest’omo granne, trovannose in guai
pe vvia de cuella porca guittaria,
1
ha inventato un rimedio, che ttu mmai
nun l’hai sentito in cusscenzina mia.
2
Lui scià
3
un palazzo, che dda scirca a vventi
secoli frabbicò
4
ccert’archidetto
che cce vorze
5
alloggià lli disscennenti.
Lui duncue a sto palazzo che tt’ho ddetto,
je fa adesso levà lli fonnamenti
pe ffacce
6
un antro piano sopr’ar tetto.
Roma, 7 gennaio 1833 - Der medemo
1
Miseria.
2
Modo di assicurare con giuramento.
3
Ci ha: ha.
4
Fabbricò.
5
Volle.
6
Farci, cioè: «farne».
708. La scopa nova
1
Sta scopa nova, ch’entranno ar governo
sce
2
voleva arricchí ttutt’in un botto,
3
per urtimo cudino der cazzotto
4
mó cce bbuggera a ttutti in zempiterno.
Sarà una prova de core paterno
de chiamà un ladro e dd’affittajje er lotto:
sarà cquer che vvò llui; ma mme ne fotto
ch’io co st’apparto
5
cqui ggiuco ppiú un terno.
Fascenno l’appartista er zu’ mestiere,
chi rriccapezza ppiú ccucca né nnosce
6
tra ll’astrazzione
7
farze e cquelle vere?
De fufiggne
8
tra er nummero e la vosce
già nne fasceva tante er tesoriere!
Penza cosa pò ffà cchi ppiú jje cosce!
9
Roma, 7 gennaio 1833 - Der medemo
1
Modo proverbiale, esprimente che gli uomini nuovi sempre bene sui principi si diportano.
2
Ci.
3
Tutto in un colpo.
4
Per ultima giunta alla derrata.
5
Appalto.
6
Non raccapezzare cucca nosce: frase proverbiale di facile senso.
7
Estrazioni.
8
Fraudi.
9
Cuoce. Cuocere, vale: «essere a cuore, toccare nel vivo», ecc.
709. Er callarone
1
Propio è una smania de trincià la pelle
de sti servi de ddio cuer dinne
2
tante!
Se chiama propio un volé ffà l’entrante
sopra le cose senza mai sapelle!
Guarda su cquella porta cuanti e cquante
poverelli affamati e ppoverelle
preparà li cucchiari e le scudelle
pe la bbobba
3
avanzata ar zoccolante.
Senza li frati, che ttu cchiami avari,
come farebbe inzomma a ttirà vvia
sta frega
4
de scudelle e dde cucchiari?
Sèntime: infin che cc’è una porteria
che ss’opri a ssatollà li secolari,
nun pò vvédese ar monno caristia.
Roma, 8 gennaio 1833 - Der medemo
1
Calderone.
2
Quel dirne.
3
Minestra di pane, sovente abborrata di altre grosse sostanze.
4
Moltitudine.
710. La mediscina sbajjata
1
Preso cuer bottoncin de sol-limato
2
che mme diede sta bbestia de spezziale,
m’incominciai de posta
3
a ssentí mmale,
e ffesce
4
tra de mé: ssò ccuscinato.
5
Subbito curze
6
er Medico, er Curato,
e ddu’ abbatacci o ttre dder tribbunale:
e ppoi me straportonno
7
a lo spedale,
dove addrittura fui sagramentato.
Lí, Ddolovico, principiorno a spiggne
8
co li vommitativi,
9
e ddoppo a ddajje
10
co li purganti, e ppoi co le sanguiggne.
Venti libbre de sangue! eh? cche ccanajje!
L’esercito der Papa nun ce tiggne
la terra manco in trentasei bbattajje.
Roma, 8 gennaio 1833 - Der medemo
1
Errata.
2
Sublimato (corrosivo).
3
Subito.
4
Feci, per «dissi».
5
Cucinato: rovinato.
6
Corse.
7
Trasportarono.
8
Spignere.
9
Vomitivi.
10
Dargli.
711. Er tisico
Cuesto oggnuno lo sa: ppila intronata
va ccent’anni pe ccasa:
1
e tte l’ho ddetto.
Mó mm’accorgio
2
però cch’er poveretto
sta vviscino a ssonà lla ritirata.
3
Già ffin dar tempo che sposò Nnunziata
le scianche je fasceveno fichetto;
4
e ffinarmente s’è allettato a lletto
perch’era ppiú ll’usscita che ll’entrata.
Nun tiè ppiú ffiato da move le bbraccia:
e cchi lo va a gguardà ssu cquer cusscino,
je vede tutta Terrascina
5
in faccia.
Io metterebbe er collo s’un quadrino
che nnu la cava: e ggià la Commaraccia
secca de Strada-Ggiulia
6
arza er rampino.
7
Roma, 8 gennaio 1833 - Der medemo
1
Proverbio.
2
Mi accorgo.
3
Proverbio.
4
Far le gambe fichetto, vale: «piegarsi per fiacchezza».
5
Terracina. S’intende
che qui è in senso translato di terra.
6
La comare secca, cioè «la morte», di Strada Giulia, dalla via di questo nome,
nella quale è la Chiesa della Morte.
7
Falce.
712. La santa Messa
Come! nun zentì mmessa?! Ah ggaleotti!
Nun zapéte che Iddio, chi nnun ha intese
ner monno o ttrenta o ttrentun messe ar mese,
l’imbrïaca de llà dde scappellotti?
Che ddiscurrete de ggeloni rotti,
cuanno che ppe ddiograzzia a sto paese
sò assai meno le case che le cchiese:
cuanno le Messe cqui ffanno a ccazzotti?
1
Ve pare questa mó vvita cristiana,
sori bbrutti fijjacci de mi’ mojje,
pe nnun divve
2
fijjacci de puttana?
La Santa Messa è uguale che la bbiada;
perché ddisce er cucchiere, che cce cojje,
3
che Mmessa e bbiada nun allonga strada.
4
Roma, 8 gennaio 1833 - Der medemo
1
Fare a cazzotti, nel senso attuale, vale: «essere in numero tale, da urtarsi a scompiglio».
2
Dirvi.
3
C’indovina.
4
L’una
liberando dai pericoli, l’altra dalla fiacchezza, due cause d’indugio.
713. Er discissette ggennaro
Nostròdine
1
cor zanto Madrimonio
2
sem’iti a vvisità Ssanta Pressede,
3
e ddoppo a Ssammartino,
4
e ddoppo a vvede
5
a bbenedí le gubbie a Ssant’Antonio.
6
Er prete era cuer pezzo de demonio
7
de don Pangrazzio, e stava in cotta in piede
a aspettà cco l’asperge
8
che la fede
je portassi le bbestie ar mercimonio.
Porchi, somari, pecore, cavalli,
s’aïnaveno
9
tutti in una turma,
pieni de fiocchi bbianchi, e rrossi e ggialli.
E ddon Pangrazzio, fascenno
10
una toppa
11
de quadrini, strillava a cquella sciurma:
12
«Fijji, la carità nnun è mmai troppa».
Roma, 8 gennaio 1833 - Der medemo
1
Noi. Miòdine, vuol dire «io»; vostròdine, «voi»; er zor òdine, «egli».
2
Con la moglie.
3
Chiesa sull’Esquilino, sopra le
Terme di Novato, nell’antico Vico Laterizio.
4
S. Martino, altra chiesa elegantissima, contigua alla predetta.
5
Vedere.
6
Notissima benedizione di bestie, con retribuzione di candela ed elemosine in numerario.
7
Pezzo-di-demonio: uomo
grande e grosso.
8
Aspersorio.
9
Ainarsi: affrettarsi ansiosamente.
10
Facendo.
11
Cumulo.
12
Ciurma.
714. La cannonizzazione
Domani se santifica a Ssan Pietro
un zanto stato frate a Ssan Calisto,
che ssu li santi pò pportà lo scetro,
e ha ffatto ppiú mmiracoli de Cristo.
Tra ll’antri, a un ceco, duscent’anni addietro,
che accattava oggni ggiorno a Pponte Sisto,
lui je messe
1
un ber par d’occhi de vetro,
e dda cuer giorn’impoi scià ssempre visto.
‘Na donna senza gamma de man manca
2
se maggnò la su’ effiggia in ner pancotto,
e in men d’un ette je spuntò la scianca.
3
A un’antra donna j’apparze in cantina,
e jje diede tre nummeri p’er Lotto:
lei ggiucò er terno, e vvinze una scinquina.
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
Mise.
2
Tutto quello ch’è alla sinistra parte dell’uomo s’indica dal volgo per cosa di man manca.
3
Gamba.
715. Li Morti arisusscitati
Fra tutti li miracoli ppiú bbelli
er mejjo è dder Beato Galantino,
che ddiede er volo a uno spido d’uscelli
bbell’e arrostiti ar foco der cammino.
Come vedde volà li su’ franguelli,
figurateve l’oste fiorentino!
Dicheno c’arrivò ppe rritenelli
sino a offrí ar Zanto un mezzo bbicchierino!
«Nun zerve che mme preghi e cche mme guardi»,
rispose er Zanto: «io parlo verbus-verbo.
1
P’er vino, co li debbiti ariguardi,
lo bbeverò ppe nnun paré ssuperbo:
ma ppe l’uscelli, fijjo caro, è ttardi.
Vanno a Ssan Pietro,
2
e ggià stanno a Vviterbo».
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
Apertis verbis.
2
È stile, nel rito delle beatificazioni e canonizzazioni, di esporre sulla porta maggiore della Basilica
Vaticana la pittura di un miracolo di mezzo scarto nel processo che precedette il solenne decreto. Il miracolo degli
uccelletti chiamati alla resurrezione della carne fu anch’esso ammirato al suo posto.
716. Er duello de Dàvide
Cos’è er braccio de Ddio! mannà un fischietto
1
contr’a cquer buggiarone de Golia,
che ssi n’avessi avuto fantasia,
lo poteva ammazzà ccor un fichetto!
2
Eppuro, accusí è. Ddio bbenedetto
vorze mostrà ppe ttutta la Ggiudia
3
che cchi è ddivoto de Ggesú e Mmaria
pò stà ccor un gigante appett’appetto.
Ar véde
4
un pastorello co la fionna,
strillò Ggolia sartanno in piede: «Oh ccazzo!
sta vorta, fijjo mio, l’hai fatta tonna».
Ma er fatto annò cch’er povero regazzo,
grazzie all’anime sante e a la Madonna,
lo fesce cascà ggiú ccome un pupazzo.
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
Fanciullo.
2
Atto di scherno o di scherzo che si fa altrui stringendogli il mento col pollice e col medio, mentre l’indice
gli preme il naso.
3
La Giudea.
4
Al vedere.
717. Er marito contento
1
Te fischieno l’orecchie?
2
Oh vva’ le teste!
3
E a mmé, ssi ccasomai, me rode er naso.
4
Tu in testa sciài li scrupoli: io le creste.
5
Potemo sbarattà ccaso pe ccaso.
Le cose noi le famo leste leste,
nò, Titta? Tu ssei bbirbo e fficcanaso:
io me metto li panni de le feste:
6
du’ còccole,
7
e tte faccio perzuaso.
Chi mmena er primo lui mena du’ vorte:
duncue, all’erta, ch’io sò llesto de mano,
e li cazzotti li provedo a sporte.
Nun ha da preme
8
a vvoi, sor ciarafano,
9
si mmi’ mojje me fa lle fusa-torte.
Eppoi, che cc’è da dí? Nnassce un cristiano.
Roma 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
È in Roma un meno volgar nome di consimile senso: Cornelio-Tacito.
2
Fischian le orecchie. Dicesi accadere questo
fenomeno, allorché altri mormori di te.
3
Or vedi i cervelli!
4
Rodere il naso: aver prurito di piatire.
5
La collera.
6
Mettersi i panni delle feste, cioè: «porsi in acconcio di farsi rispettare».
7
Busse.
8
Premere, interessare.
9
Imbecille.
718. Er poveta ariscallato
1
Accidenti, per dio! cuesta è la prima
che mm’è ssuccessa in ventott’anni e mmezzo.
Cosa ve dole ? v’ho llevato un pezzo
de nobbirtà? vv’ho dditto una bbiastima?
2
Pe ddu’ parole che ssò entrate in rima
fate sta puzza,
3
e jje roppete er prezzo,
4
dànnome
5
der gruggnaccio verd’e mmezzo,
6
cuanno oggnuno Iddio sa ccosa me stima!
A mmé ttisico marcio! a mmé cceroto!
a mmé stinchetto co cquarc’antra cosa,
che vve conzòli un fir
7
de terramoto!
Io c’ho una guancia tanta appititosa,
che ssi viè Rraffaelle Bbonaroto
la pijja a ccalo
8
pe ccolor de rosa!
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
Riscaldato, irato.
2
Bestemmia.
3
Chiasso, bravata.
4
Date in escandescenza, prorompete, ecc.
5
Dandomi.
6
Mezzo, colla
e stretta e con le zz aspre: vizzo.
7
Un fil.
8
Il pretendere a calo è frase appartenente a quel contratto, che si fa
comperando la cera in candele pel solo prezzo della parte da consumarsi, rendendo poi il resto.
719. Santa Marta che ffa llume a Ssan Pietro
1
Sentite, fijja mia: voi sete bbona,
sete bbella, e accusí vvia discurrenno;
2
ma cche abbiate da dà ssempre in canzona,
sta bbuggera, per cristo, io nu l’intenno.
3
A mmé mm’abbasta un’intoccata, un zenno,
pe indovinà cche ccampanella sona.
Io capisco per aria, e nnun me venno
4
pe cquello che nun zò,
5
ssora cojjona.
S’io pe ccianche
6
ho ddu’ ossi de presciutti,
nun c’è bbisoggno de fà ttante sciarle:
oggnuno abbadi a ssé: Ddio penza a ttutti.
E vvoi che a zzirlivarli e zzirlivarle
7
v’infagottate du’ costati assciutti
che nun c’è dda sazzià mmanco le tarle?
Roma, 24 gennaio 1833
1
Santa Marta è una chiesettuola quasi a contatto con la immensa Basilica Vaticana. Questo proverbio adunque si
ripete in Roma, per indicare lo sciocco orgoglio di chi, avendo o essendo meno, schernisce chi ha od è più.
2
Discorrendo.
3
Intendo.
4
Vendo.
5
Sono.
6
Gambe.
7
Imbrogli, impicci di cenci od altro.
720. Li bballi novi
Duncue sto sor Maestro Sgazzerallo
1
er Romano lo pijja per un gonzo
2
cuanno sce
3
vò appettà ppe pprimo bballo
er gioco der cerino e ddon Alonzo.
4
Sarà ppropio un ber véde un pappagallo
5
de marcià a ppiede e a cavallo ar bigonzo!
Anzi, s’io fussi in lui, pe annà a cavallo
je metterebbe la bbardella a un stronzo.
E ppoi, pe cconciabbocca, Dio sagrasco,
6
sc’è la bbalena
7
in musica; e cc’è ppoi
la ggionta de tre ggobbi de ricasco.
8
Ma ccazzo! un gobbo è un gobbo, e cquer che vvòi;
ma indove trovi un gobbo de damasco,
9
si ssò ttutti de carne com’e nnoi?!
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
Il coreografo Galzerani. Sgazzerallo, cioè sgazzerarlo, che è poco meno che buggerarlo.
2
Sempliciotto.
3
Ci: a noi.
4
Fra i molti saporiti giuochi praticati in Roma anche nelle non infime società, è questo pel quale molti uomini e donne,
pongonsi in circolo, e fanno girare dall’uno all’altro un pezzetto di cerino acceso, dicendo ad ogni consegna: Ben
venga e ben vada il signor don Alonzo, che viaggia a piedi e a cavallo al bigonzo. Con molta fretta si cerca di
proferire quei bei due versi, onde presto passare il consumato cerino al compagno, il quale non lo riceve che all’ultima
parola. Colui che poi bruciandosi i diti lascia spegnere o cadere il cerino, un pegno per riavere il quale deve poi
fare una penitenza, imposta per lo più dalla più gentile signora della società. Questo e molti altri chiamansi a Roma
giuochi di pegno, o meglio giochi de pegni.
5
Sciocco.
6
Affievolimento della esclamazione per Diosagato!
7
Vedi il
sonetto…
8
Ricasco: un di più di guadagno non isperato.
9
I tre Gobbi di Damasco: titolo d’un balletto comico, molto
insulso, dato dal lodato coreografo, nel carnevale 1833.
721. Er cassiere
Er riscritto disceva: Antonio Ulivo
sino da ggiugno scorzo è ggiubilato.
Dunque io curze a pijjà er cuantitativo,
che ffasceva er currente e ll’arretrato.
Disce: «Indov’è la fede der curato
che ffacci vede che vvoi sete vivo?»
«Oh bbella! e io chi ssò, ssiat’ammazzato,
io che parlo, cammino e ssottoscrivo?».
Guasi m’era vienuta bbizzarria
de ddajje er calamaro
1
in mezz’ar gruggno,
com’attestato de la vita mia.
Nun je stavo davanti a cquer burzuggno?
2
Pascenza avessi avuto fantasia
d’avé una prova ch’ero vivo a ggiugno.
Roma, 9 gennaio 1833
1
Nella pronuncia dell’infimo volgo la voce calamaio si avvicina meglio alla sua correttezza, che in quella de’ meno
volgari, ed anzi di molti cittadini, i quali dicono callamaro: manca chi, per vezzo di analogia, la corregga in
caldamaro, dacché non callo ma caldo la buona ortoepia richiede ai retti parlatori.
2
Goffo, rustico.
722. Er fuso
1
Passò er tempo che nnoi tresteverini
co la ggiacchetta in collo e ’r fuso in mano,
arrivàmio
2
inzinenta a li confini
de le chiappe der Monno, e ppiú llontano.
Ar giorno d’oggi er popolo romano
pare una nuvolata de moschini,
che, ssi vvai a vvedé lli bburattini,
n’acciacchi mille sbattenno le mano.
Povera Roma, a cche tte serve er fuso?
Pe ffilà le carzette a un cardinale!
anzi nemmanco t’è ppiú bbono a st’uso.
Pe vvia che ttutta la corte papale
vò robba foristiera; e intanto ha er muso
3
de facce
4
pagà a nnoi cuello che vvale.
Roma, 9 gennaio 1833 - Der medemo
1
S’intenderà nel corso del sonetto essere il fuso preso in due sensi.
2
Arrivavamo.
3
Sfrontatezza.
4
Farci.
723. Le curze d’una vorta
Antro che rrobbi-vecchi!, antro c’aéo!
1
Don Diego c’ha studiato l’animali
der Muratore,
2
e ha lletto co l’occhiali
cuanti libbri stracciati
3
abbi ar museo,
disce ch’er Ghetto adesso dà li palj
4
pe vvia c’anticamente era l’ebbreo
er barbero de cuelli carnovali
a Testaccio
5
e ar piazzon der culiseo.
6
Pe ffalli curre, er popolo romano
je sporverava
7
intanto er giustacore
tutti co un nerbo o una bbattecca
8
in mano.
E sta curza, abbellita da sto pisto,
l’inventò un Papa in memoria e in onore
della fraggellazzion de Ggesucristo.
Roma, 10 gennaio 1833
1
Robbi-vecchi (colla o stretta) ed aéo (vedi…) sono le voci con le quali gridano per le vie di Roma gli ebrei ricattieri
di straccerie.
2
Gli Annali del Muratori.
3
Libri vecchi, e più accreditati presso il volgo illuminato.
4
Il popolo crede,
anzi quasi tutti i Romani sono di questo persuasi, che tutti gli otto palj, ai quali si corre dai cavalli in carnovale, siano
tributati dagli Ebrei, per riscatto stipulato anticamente col magistrato civico di Roma dal correre essi stessi a trastullo
dei Romani. Ecco la vera provenienza della prestazione dei palj.
5
Di Testaccio vedi la nota… del Sonetto…
6
Colosseo: Anfiteatro Flavio.
7
Gli spolverava: spolverava loro: batteva.
8
Bacchetta.
724. Er ciurlo
1
Sbozza
2
pissciona, che cco cquer scuffiotto
me pari un mostacciolo de Subbiaco,
3
cosa te vai sciarlanno co Cciriàco
ch’io stammatina sò ccotto e stracotto?
1
Pe un po’ de bbrillo
1
e ttrillo
1
e dd’allegrotto
te la potría passà, mma nnò ubbriaco.
Senti l’erre:
4
io de té mme ne stracaco,
e strafrego, e strabbuggero, e strafotto.
Vòi ’n’antra prova tu cche nnun è vvero
ch’io sii sporpato?
1
io sciò la provatura
5
d’un bon cavicchio da slargatte er zero.
6
Nò, nnò, ciumàca,
7
nun avé ppavura:
pe tté ppuro un’armata è un monistero.
La tu’ schifenzaría te fa ssicura.
Roma, 11 gennaio 1833
1
Tutti sinonimi di ubbriaco, ne’ vari gradi dell’ebrietà. Veggasi da questa abbondanza quanto debba essere in onore il
vocabolo principale.
2
Donna piccola e sconcia.
3
Terra del distretto di Roma, all’est di Tivoli, sul confine di quel di
Napoli, nota pel famoso speco di S. Benedetto. I mostaccioli che vi si fanno, assai graditi in Roma, sono di forma
romboidale e intonacati di uno smalto bianco di zucchero, tagliato a zone parallele di foglia d’oro.
4
Una della prove
dell’ebrietà è il non poter pronunciar netta la lettera r.
5
Formaggio tenero di latte vaccino o bufalino. In Roma dicesi
talvolta per via di scherzo invece di prova.
6
Son gagliardo fino a poterti, ecc.
7
Bella mia, mia cara, ecc.
725. Er Zanto re Ddàvide
Chi vvò ssapé er re Ddàvide chi ffu,
fu er Casamia
1
der tempo de Novè,
2
che pparlava co Ddio a ttu pper tu,
e bbeveva ppiú vvino che ccaffè.
Chi ppoi cuarc’antra cosa vò ssapé,
vadi a ssentí la predica ar Gesú,
3
e imparerà che pprima d’èsse re
era un carciofolà
4
dder re Esaú.
5
E a cchi nun basta de sapé ssin qui,
e cquarc’antra cosetta vò imparà,
legghi la Bbibbia, si la pò ccapí;
e imparerà ch’er re ccarciofolà
dar zàbbito inzinent’ar venardí
je piasceva un tantino de fregà.
Roma, 11 gennaio 1833
1
Il Casamia, nome di un astrologo, e insieme di un di lui almanacco, regolatore de’ romani pronostici.
2
Noè.
3
Nella
chiesa del Gesù i fratelli del Loiola spiegano ogni domenica dopo vespro la Sacra Bibbia.
4
I carciofolà sono cantori e
suonatori d’arpa, specie di bardi girovaghi, nativi per lo più degli Abruzzi, così chiamati dalla stessa parola che un
tempo terminava, quasi intercalare, le loro stroffe d’amore. Oggi sonosi alquanto più raffinati. Suonano anche il
violino, che sostengono avanti il ventre, col manico in su, e la parte sonora in giú.
5
Saul.
726. Li preti maschi
Tante bardòrie
1
e ttanti priscipizzi
pe vvia c’oggni du’ preti un paro fotte!
Tutti li mappalà
2
ttutte le bbòtte
a sti poveri còfeni
3
a ttre ppizzi!
Cuann’è un vizzio er fregà, bbrutte marmotte,
dateme un omo che nnun abbi vizzi:
diteme cuale cazzo nun z’addrizzi
fra ttanto pipinaro
4
de miggnotte.
Doppo che Iddio lo sa cquanto fatica,
ha dda invidiasse
5
ar prete poverello
cuer boccon de conforto d’un’amica?!
No: ssi vvoleva Iddio dajje
6
er cappello
a lluminetto, e llevajje la fica,
l’averebbe creato senz’uscello.
Roma, 11 gennaio 1833
1
Strepiti.
2
Imprecazioni.
3
Cappelli.
4
Moltitudine densa; semenzaio; quasi il pépinière dei Fancesi.
5
Invidiarsi.
6
Dargli: dar loro.
727. Er riccone
Figurete a sto morto si cche mmorto
1
j’hanno trovato in cassa li nipoti!
Da cuann’era prelato io m’ero accorto
che llui tirava a incummolà mmengoti.
2
Tutti ladri sti santi sascerdoti
sin c’ar monno je va ll’acqua pe ll’orto:
3
cuanno crepeno poi, tutti divoti
pe strappà da San Pietro er passaporto.
Co cquattro Messe spalancajje er celo?!
sarebbe com’a ddí: Ccristo è imbriaco,
o nnun za legge er libbro der Vangelo.
Un ricco in paradiso? io me ne caco.
Piú ppresto crederebbe
4
c’un camelo
fussi passato pe ’na cruna d’aco.
Roma, 11 gennaio 1833
1
Ricchezza sepolta.
2
Accumular danari.
3
Frase esprimente «andar le cose a seconda».
4
Più tosto crederei.
728. La riliggione vera
Cuante mai riliggione sce
1
state
da sí cche mmonno è mmonno, e cce ponn’èsse,
cristiani mii, sò ttutte bbuggiarate
da nun dajje un cuadrin de callalesse.
2
Tutte ste freggne,
3
com’ha ddetto er frate,
s’annaveno a ffà fotte
4
da se stesse,
cuann’anche Iddio nu l’avessi fregate
5
co ’na radisce che sse chiama Ajjesse.
6
Noi soli semo li credenti veri,
perché ccredemo ar Papa, e ’r Papa poi
sce
7
spiega tutto chiaro in du’ misteri.
L’avvanti
8
er turco, l’avvanti er giudio
un’antra riliggione com’e nnoi,
da potesse
9
maggnà ddomminiddio!
Roma, 12 gennaio 1833
1
Ci sono, ecc.
2
Castagne lesse.
3
Sciocchezze.
4
Perivano.
5
Rovinate.
6
Jesse.
7
Ci.
8
La vanti.
9
Potersi.
729. Meditazzione
Morte scerta, ora incerta, anima mia.
La Morte sa ttirà ccerte sassate
capasce de sfasscià ll’invetrïate
1
inzino ar Barbanera e ar Casamia.
2
Contro er Ziggnore nun ze trova spia;
epperò, ggente, state preparate,
pe vvia che Ccristo cuanno nun sputate
3
viè ccome un ladro
4
e vve se porta via.
Li Santi, che ssò ssanti, a ste raggione
je s’aggriccia la carne pe spavento,
e jje se fa la pelle de cappone.
Un terremoto, un lampo, un svenimento,
un crapiccio
5
der Papa, un cazzottone,
pò mmannavve a ffà fotte in un momento.
Roma, 12 gennaio 1833
1
Occhiali.
2
Due astrologhi.
3
«Qua hora non putatis».
4
«Veniam tamquam fur».
5
Capriccio.
730. La vittura
1
auffa
2
Panza ha scannato Meo, ma ssur lommetto
3
ccià
4
ttre bbusci lui puro, e jje va mmale;
e ttrattanto ha ordinato er tribbunale
stii pe ssicure carcere in der letto.
Io lo vedde
5
passà pp’er Cavalletto
6
cuanno lo straportonno
7
a lo spedale.
Era in ne la bbarella tal’e cquale
c’un morto steso drento ar cataletto.
Titta crese
8
c’annassi
9
troppo forte,
e cquer tritticamento
10
de bbudella
te je potessi accaggionà la morte.
Nun me vienghi a pparlà llui de bbarella
a mmé cche cce sò ito tante vorte:
sce
11
se va mmejjo assai ch’in carrettella.
Roma, 12 gennaio 1833
1
Vettura.
2
Gratis.
3
Lombetto: lombo.
4
Ci ha: ha.
5
Vidi.
6
Un luogo della Via del Babuino: vedi la nota… del
Sonetto…
7
Trasportarono.
8
Credette.
9
Andasse.
10
Tentennamento, o tremolio.
11
Ci.
731. La testa de ferro
1
Doppo che ppuro st’anno ggentirmente
er Zanto Padre e ’r Cardinal Vicario
ciaveveno
2
accordato un po’ de svario
3
pe ttienecce
4
du’ ggiorni alegramente
c’è una commedia
5
che nun za de ggnente,
che ssaría mejjo a rrescità er rosario.
Tutto pe cquella piggna
6
d’impressario,
7
che nnun vò spenne
8
pe ppagà la ggente.
È una testa-de-ferro! e cche mme preme?
Io, cuanno er fin de’ conti è uno strapazzo,
metto le cause tutte cuante inzieme.
Scropí er culo pell’antri
9
è dda regazzo:
se guarda er frutto e nnun ze guarda er zeme.
Testa de ferro! di’ ttesta de cazzo!
Roma, 12 gennaio 1833
1
Persona comparente per altro soggetto occulto.
2
Ci avevano.
3
Divertimento.
4
Tenerci.
5
Per commedia intendi tutto
ciò che si rappresenti in iscena.
6
Avaro.
7
Impresario.
8
Spendere.
9
Scoprire, ecc., vale: «esporsi».
732. Lei ar teatro
Me s’aricorda, sí, mme s’aricorda:
fu una sera der mese de frebbaro,
propio er giorno che ddiédeno la corda
ar padre de Sciamorro er tinozzaro.
Noi entrassimo
1
inzieme a Ppallaccorda,
2
che ss’accenneva allora er lampanaro,
e llassassimo
3
llí cquela bbalorda
de fora a sbattajjà
4
ccor chiavettaro.
5
Che ggusto d’annà a spenne
6
li cuadrini
pe stà ddrent’a un parchetto sola sola
co ttutti li su’ fijji piccinini!
Nun pareva la Mastra co la scola?
Nun pareva la bbiocca e lli purcini?
Nun pareva er baril de San Nicola?
Roma, 13 gennaio 1833
1
Entrammo.
2
Teatro degl’infimi di Roma.
3
Lasciammo.
4
Altercare.
5
Venditor di chiavi de’ palchi.
6
Spendere.
733. Er Carnovale smascherato
Nonna, a li tempi ch’èrimo frittura
1
e jje sfilamio
2
la conocchia e ’r fuso,
se schiaffava
3
una mmaschera, e cco st’uso
sce
4
fasceva stà bboni e avé ppavura.
Me capischi? È ll’età cquella che scuso:
cos’ha da fà una povera cratura
cuanno sta sgangherata
5
prelatura
nun pò vvéde
6
le mmaschere sur muso?
Leva cuer po’ de mmaschere, che rresta
der Carnovale? un torzo lisscesbrisscio,
7
un urinale che nnun abbi vesta.
Ma sti cazzacci cqui ppieni de pisscio
ar Papa j’arivòrteno
8
la testa
come fussi una bboccia ar gioco-lisscio.
9
Roma, 13 gennaio 1833
1
Eravamo fanciullaglia: come pescetti da friggere.
2
Sfilavamo.
3
Schiaffare: mettere vivamente (brusquement).
4
Ci.
5
Sgangherata.
6
Vedere.
7
Liscio, nudo.
8
Rivoltano.
9
Terreno battuto e chiuso da sponde in parallelogrammo, per
giuocarvi alle bocce.
734. La pelle de li cojjoni
1
Avevo sempre inteso ch’è ppeccato
no cquello ch’entra in bocca, ma cquer ch’essce.
Vedenno
2
che sto pessce indemoniato
ne li ggiorni de magro sempre cresce:
3
essennome a l’incontro
4
immagginato
ch’er maggnà ttartaruche è un maggnà ppessce,
io le maggnavo in pasce; ma er Curato
m’arispose sta pascua: «M’arincressce».
«Ma cquesta, padre mio, me sa un po’ d’agro:
5
li Pavolotti
6
nun faríano
7
peggio,
c’hanno da cuscinà ssempre de magro?»
«Fijjo caro, voi dite un zagrileggio:
nun è llescito a vvoi d’entrà in ner zagro:
si
8
lle maggneno loro, è un privileggio».
Roma, 13 gennaio 1833
1
Che si tira e si stende.
2
Vedendo.
3
Rincara.
4
Essendomi al contrario, ecc.
5
Mi è un poco dura, agra, ecc.
6
Frati
Paolotti.
7
Farebbero.
8
Se.
735. Er ventre de vacca
1
’Na setta de garganti
2
che rrameggia
3
e vvò ttutto pe fforza e cco li stilli:
un Papa maganzese
4
che stangheggia,
5
promettènnosce
6
tordi e cce dà ggrilli.
’N’armata de todeschi che ttraccheggia
e cce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli:
7
un diluvio de frati che scorreggia
e intontissce
8
er Ziggnore co li strilli.
Preti cocciuti ppiú dde tartaruche:
edittoni da facce
9
un focaraccio:
spropositi ppiù ggrossi che ffiluche:
li cuadrini serrati a ccatenaccio:
furti, castell’in aria e ffanfaluche:
eccheve
10
a Rroma una commedia a bbraccio.
11
Roma, 13 gennaio 1833
1
Essere in un ventre di vacca: trovarsi in lieta e comoda vita.
2
Bravi.
3
Delira.
4
Di mala fede: dai noti di Maganza.
5
Stangheggiare: andar sottile nel mantener grosse promesse.
6
Promettendoci.
7
Calzarli e vestirli.
8
Instupidisce.
9
Farci.
10
Eccovi.
11
Improvvisata.
736. Le gabbelle nove
Bbasta, o ccorpa der forno, o dde la mola,
er fatto sta cche la paggnotta ar forno
sce la danno ppiú ppiccola oggiggiorno
de cuelle de San Biascio e Ssan Nicola.
1
Tratanto er Papa se ne va in cariola,
e dde tutti sti guai nun ne sa un corno:
ché ppe la lega der zu’ bber contorno
nun je se pò appuntà mmezza parola.
Le bbettole, li forni, li mascelli,
strilleno ar lupo,
2
e sconteno li torti
cor zangue de noantri
3
poverelli.
E nnoi c’avemo li cuadrini scorti,
4
tenémose
5
da conto li cortelli,
che de sti tempi sò zzecchini storti.
6
Roma, 13 gennaio 1833
1
Certi piccolissimi pani benedetti, efficacissimi contro tante specie di mali, ecc. ecc.
2
Gridare al lupo: inveire contro i
già oppressi.
3
Noialtri.
4
Finiti, consumati.
5
Teniamoci.
6
Zecchini storti: cose, cioè, da tenersi riposte per l’occasione.
737. Er carzolaro ar caffè
Sonetti 4
Cos’è, ccorpo de ddio, sor caffettiere,
c’ancóra nun me date sti grostini?
Volete véde
1
c’agguanto
2
un bicchiere
e vve lo fo vvolà ssu li dentini?
Ma vvarda
3
sti fijjacci d’assassini
si cche bber modo d’abbadà ar mestiere!
Io viengo cqui a ppagà li mi’ quadrini,
e vvojj’sse servito de dovere.
Sicuro, sor cazzeo, che ddico bbene:
sicuro, sor mustaccio
4
de falloppa,
che mme se scalla er zangue in de le vene.
Cuann’uno spenne,
5
una parola è ttroppa;
duncue mosca,
6
per cristo, e ppoche sscene,
o vve faccio iggnottí
7
sta sottocoppa.
Roma, 13 gennaio 1833
1
Vedere.
2
Do di piglio a, ecc.
3
Guarda.
4
Mostaccio.
5
Spende.
6
Silenzio.
7
Inghiottire.
738. Er carzolaro ar caffè
Li grostini cor tè! Vvoi sete franco:
ebbè? cce vojjo li grostini, cazzo:
e li vojjo pe mmé e ppe sto regazzo;
e li vojjo de ppiú dde pane bbianco.
Io so cche ll’arte mia nu la strapazzo:
sto ar banchetto pe ttutti, e nnun j’amanco;
e nnun fo ccom’e vvoi, che ddrent’ar banco
stat’a mmette li conzoli in palazzo.
Scrive! Guardate llí cc’arifreddori!
1
Scrive! E ttratanto nun ze tiè dde vista
a cquer c’hanno bbisoggno l’aventori!
Che mme ne fotte
2
de la vostra lista?!
Cuanno avevio pe scrive sti furori,
ve dovevio impiegà ppe ccomputista.
Roma, 14 gennaio 1833
1
Che pretensioni; che vanità.
2
Che m’interessa, ecc.
739. Er carzolaro ar caffè
Oh, adesso che vvienite co le bbone,
è un antro par de maniche,
1
fratello.
Mo vve sò schiavo, ve caccio er cappello,
se toccamo er cinquanta,
2
e vva bbenone.
Cqua nnun ze fa ppe ddí, ccore mio bbello...
Ecco llí: la capischi la raggione?
Oggnuno ha le su’ propie incrinazzione:
a cchi ppiasce la trippa, e a cchi er budello.
Tu ffai er caffettiere, e tte strufini
le deta su l’inchiostro: io ’r carzolaro,
e mme va a ggenio er tè cco li grostini.
Io nun ho ggnisun odio ar calamaro:
lo dichi lui
3
che vva ssu li puntini,
4
perch’io nun vojjo er zangue mio
5
somaro.
Roma, 14 gennaio 1833
1
È un’altra cosa.
2
Ci tocchiamo la mano.
3
Cioè il figlio, ivi presente.
4
Scrive sui puntini, tracce di lettere.
5
I figli miei.
740. Er carzolaro ar caffè
Io nun tiengo de fijji antro che cquesto:
duncue vojjo ch’impari a llegge e a scrive;
e accusí mmai j’amancherà dda vive,
e averà in culo er monno e ttutt’er resto.
Bbast’a ffà le su’ cose sbrigative:
bbast’arzasse a bbon’ora, e èsse lesto,
timorato de Ddio, lescit’e onesto,
e attento a nnun pijjà ppieghe cattive.
Tratanto io piaggno sempre; e ttra cquarc’anno
io servo grazziaddio tant’avocati,
che in cuarche llogo me l’imbusceranno.
1
Provisto er fijjo, coll’occhi serrati,
e ssenza sturbo de ggnisun malanno,
dormirò li mi’ sonni ariposati.
Roma, 14 gennaio 1833
1
Imbucheranno: allogheranno.
741. Lui!
Io e ll’asino mio!
1
In oggni cosa
ve sce ficcate voi pe Ccacco immezzo.
2
In ogni freggna
3
sce mettete un pezzo
der vostro, e jj’appricate la scimosa.
4
Ma, ffratèr caro! e ssete stato avvezzo
co sto po’ dd’arbaggía
5
prosuntüosa?
Tutto sapete voi! ggnente ha la dosa,
6
si pprima voi nun je mettete er prezzo!
«Io vado, Io viengo, Io dico, Io credo, Io vojjo:
l’ho ffatt’Io, l’ho vvist’Io, sce sò annat’Io...».
pe ttutto sc’entra l’Io der zor Imbrojjo.
Chi ssete Voi? la tromma der Balío,
er Papa, Marc’Urelio in Campidojjo,
7
la Santa Tirnità, Ddomminiddio?!
Roma, 14 gennaio 1833
1
Così dicesi a chi pone sempre l’io in tutti i discorsi.
2
Cacco in mezzo: chi si fa sempre innanzi, od occupa luoghi con
altrui fastidio.
3
In ogni discorsi.
4
Applicar la cimosa: far la giunta.
5
Albagia.
6
Il suo dovere: il suo giusto.
7
La statua
equestre di Marc’Aurelio, che sorge in mezzo all’area del Campidoglio.
742. Li padroni de Cencio
1
Cencio aggnede
2
a sserví la Prencipessa
Vespa d’Olanna
2a
poi sartò de bbotto
pe ddecane
3
cor Duca Sasso-cotto,
3a
che ss’incattolicò pe ssentí mmessa.
Doppo un anno passò cco la Duchessa
Scefallova
3b
a ttienejje
4
uno sscimmiotto:
poi lo pijjò cquer gran Prencipe dotto
de Piggnatosta
4a
pe la su’ Contessa.
Ma ggià, dda cuanno perze
5
Napujjone,
5a
e scappò vvia Quitollis,
5b
era stato
lacchè dder General Lavacojjone.
5c
E ffinarmente adesso è accommidato
co cquella prencipessa de Bbarbone,
5d
che sse sposò cco un nostro intitolato.
5e
Er padre è ggiubbilato
de la reggina morta de le Trujje,
5f
che ss’è ttrova
6
in ner monno a ttante bbujje.
7
E, ssi vvòi l’allelujje
de sto bber zarmo e dde sti nomi matti,
in Piammonte
7a
tiè un zio co Sciacquapiatti:
7b
senza che tte commatti
8
a ssapé cche cquest’antro è un’anticajja
9
der Cardinal Dejjorgheni
9a
e Ssonajja.
9b
Roma, 14 gennaio 1833
1
Vincenzo.
2
Andò.
2a
Westmoreland.
3
Decano.
3a
Principe Federico di Saxe-Gotha.
3b
Contessa Schouwaloff.
4
Tenerle.
4a
Principe Stanislao Poniatowski.
5
Perdé.
5a
Napoleone.
5b
Il general Miollis.
5c
Il generale Lavauguyon.
5d
Di Borbone.
5e
Titolato (Ruspoli).
5f
Maria Luisa d’Etruria.
6
Trovata.
7
Buglie.
7a
Piemonte.
7b
Cardinale Caccia-Piatti.
8
Ti combatta,
ti affatichi.
9
Servo antico.
9a
De York.
9b
Cardinal della Somaglia.
743. La madre der borzaroletto
Ih che ha rrubbato poi?! tre o cquattr’ombrelli,
cuarc’orloggio, e cquer po’ de fazzoletti.
Pe cquesto s’ha dda fà ttutti sti ghetti
1
com’avessi
2
ammazzato er Reduscelli?!
3
Bbe’, è lladro; ma li ladri, poveretti,
nun z’hanno da tiené ppiú ppe ffratelli?!
Si Cchecco è un lupo, indove sò l’aggnelli?
Nun c’è ch’er zolo Iddio senza difetti.
Tant’e ttanti, Eccellenza, a sto paese
arrubbeno pe ccento de mi’ fijjo,
e ssò strissciati,
4
e jje se fa le spese!...
Io sempre je l’ho ddato sto conzijjo:
«Checco, arrubba un mijjone; e ppe le cchiese
sarai San Checco, e tt’arzeranno un gijjo».
Roma, 14 gennaio 1833
1
Strepiti.
2
Avesse.
3
Re-d’uccelli.
4
Inchinàti con istrisciamento di piedi.
744. Nun mormorà
Ar Monno s’ha da dí bbene de tutti,
lodalli,
1
e rricoprinne
2
li difetti:
e nnò a mmezze parole e a ddenti stretti,
ma a bbocc’uperta e pparoloni assciutti.
3
Cuanno se parla d’ommini frabbutti,
4
bbisoggna sostené cche ssò angeletti:
si un giorno, in paradiso, fra ll’eletti,
volemo aritrovà bboni costrutti.
5
E nnun fà ccome Cchecca
6
la Ghironna
7
che ttajja e ccusce,
8
e ttirerebbe ggiune
9
de la virginità dde la Madonna:
mentre che ppoi laggiú a le Scinque-lune
10
(nun zii pe mmormorà) la bbona donna
se fa ffotte
11
dar popolo e ’r commune.
Roma, 14 gennaio 1833
1
Lodarli.
2
Ricoprirne.
3
Semplici, positivi.
4
Ribaldi.
5
Buoni effetti delle opere.
6
Francesca.
7
La Ghironda:
soprannome.
8
Mormora e maledice.
9
Tirar giù: diffamare spietatamente.
10
Cinque-lume: contrada di Roma.
11
Fottere.
745. L’ammalorcicato
1
Ma ccome ha da stà bbene, sciorcinato,
2
cuanno, per cristo, è bbestemmio
3
dar vino?
Ognicuarvorta che nun va appoggiato
casca si ll’urta un’ala d’un moschino.
Ha le grandole
4
gonfie, è accatarrato,
nun tiè mmanco ppiú un pelo in ner cudino,
campa de melacotte e ppangrattato,
e sta ppiú ssecco che nnun è un cerino.
Avess’io la patacca
5
de dottore,
lo metterebbe
6
ar zugo de la bbótte,
pe ffallo
7
aringrassà ccome un ziggnore.
Vorrebbe imbriacallo ggiorno e nnotte,
ché dd’incaconature
8
nun ze more:
e jje direbbe
9
poi: «Vatte a fà fotte».
10
Roma, 14 gennaio 1833
1
Il malaticcio.
2
Poverino.
3
Astemio.
4
Glandole.
5
Patente.
6
Metterei.
7
Farlo.
8
Ubbriacatura.
9
Direi.
10
Va’ là.
746. Er lupo-manaro
1
’Na notte diluviosa de ggennaro
a Ggrillo er zediaretto a Ssan Vitale
tutt’in un botto j’ariprese er male
dell’omo-bbestia, der lupo-manaro.
Ar primo sturbo, er povero ssediaro
lassò la mojje e ccurze
2
pe le scale,
e ssur portone diventò animale,
e sse n’aggnede
3
a urlà ssur monnezzaro.
4
Tra un’ora tornò a ccasa e jje bbussò;
e cquela sscema, senzacchi è,
je tirò er zalissceggne,
5
e ’r lupo entrò.
Che vvòi! appena fu arrivato sú,
je s’affia
6
a la vita, e ffor de sé
la sbramò
7
ssenza fajje Ggesú.
8
Lui je lo disse:
9
«Tu
bbada de nun uprí, ssi nun te chiamo
tre vvorte, ché ssi nnò; Rrosa, te sbramo».
Cuanno aveva sto ramo
10
d’uprì, ppoteva armanco
11
a la sicura
dajje una chiave femmina addrittura.
12
Roma, 15 gennaio 1833
1
Male di convulsioni, vero o finto che sia.
2
Corse.
3
Andò.
4
Immondezzaio.
5
Saliscendo.
6
S’avventò.
7
Sbranò.
8
Senza
che ella potesse far parola.
9
L’avvisò.
10
Capriccio.
11
Almeno.
12
Questo è il rimedio prescritto dalle donne: dare in
mano al lupo una chiave femmina. Tutto il sonetto è una fedele esposizione di quanto vuolsi accadere su questo
oggetto.
747. Lo sposo protennente
1
Vedessi
2
er zor Cajella
3
spirlongone,
4
er zor Palamidone
5
stennardino,
6
come stava a smiccià
7
cco ll’occhialino
er babbio
8
e ’r fiocco de le mi’ padrone?
Vedessi cuanno fesce er bell’inchino,
e cco le granfie
9
de gatto mammone
se cacciò er fongo
10
for der coccialone,
11
che jje sce venne appresso er perucchino?
Che zzeppi tiragrosi
12
eh? ma cche zzanne!
che zzoccoli!
13
che stinchi! che llenterne!
14
Nun pare una tartana a Rripa-granne?
15
La padroncina mia nu lo pò sscerne
16
e ssi
17
lo sposa, pover’omo a ccanne!
Rivedemo la storia de Lioferne.
18
Roma, 15 gennaio 1833
1
Lo sposo (o chiuso) pretendente.
2
Vedesti.
3
Di aspetto goffo e di modi e vestimenti antiquati.
4
Lungone, altaccio.
5
Uomaccione maltagliato.
6
Lungo e sottile, come stendardino che precede le compagnie di confratelli che convogliano
un morto.
7
Osservare.
8
Viso.
9
Artigli.
10
Cappello.
11
Testa.
12
Mani secche, chiragrose.
13
Piedi.
14
Occhi.
15
Porto
maggiore del Tevere.
16
Soffrire.
17
Se.
18
Oloferne.
748. La mojje martrattata
Porco bbú e vvia,
1
tu cce sei stato a ccena,
e a mmé ’na pulentina rada rada
m’ha da serví de semmola e de bbiada,
2
e mme fai puro
3
la cantasilena!
4
E cche! mm’hai trova
5
in mezzo d’una strada,
io che tte fo da Marta e Mmadalena?!
6
Ma abbada
7
veh, pporcaccio a ppanza piena,
c’una le paga tutte, Angiolo: abbada.
Io sto a ccroscetta,
8
e llui torna acciuffato
9
co ’ggni sorte, pe ddio, de mastramucci!
10
Ah! nnun fà
11
ccorna a tté ppropio è ppeccato!
Sta’ attenta, fijjo,
12
perch’io sarto er fosso.
13
Hanno ggià uperto l’occhi li gattucci:
14
io fo tiratte
15
er cazzo ar pettorosso.
16
Roma, 15 gennaio 1833
1
Bu e via, cioè bu e quel che segue della parola: insomma, senza complimenti, buggerone.
2
D’ogni e solo cibo.
3
Pure.
4
Cantilena: qui, per «brontolio».
5
Trovata.
6
Ti servo in ogni aspetto; da moglie e da fantesca.
7
Bada.
8
A digiuno: dal
far la croce sulle labbra col pollice.
9
Accipigliato.
10
Stravaganze.
11
Fare.
12
Le donne si servono del participio
feminino, parlando anche ad uomini.
13
Rompo il freno.
14
Mi sono illuminata.
15
Ti fo tirare.
16
Tirare il cazzo al
pettirosso, o a pettirossi: vale «morire».
749. Le Lègge
1
Né de mé né de té ssanno
2
ste carte,
st’editti de gabbelle e ggiubbilei,
ste ladrerie, sti ggiubbilate-dei
3
dove er Papa vò ssempre la su’ parte.
Aveva ppiú ggiudizzio Bbonaparte,
che ssenza tanti ggiri e ppiaggnistei
disceva ar monno: «Questo tocca a llei»;
e bbuggiarava tutti a uso d’arte.
Er Papa è ccerto una perzona dotta,
ma ’ggnicuarvorta prubbica una legge,
fa ccome la padella: o ttiggne, o scotta.
4
Ccusí:
5
Vviva er Pastor, viva la gregge,
viva er cucchiere e ll’animal che ttrotta,
viva chi scrive e bbuggiarà cchi llegge.
Roma, 15 gennaio 1833
1
Le leggi: la e va pronunciata aperta.
2
Non sanno di nulla.
3
«Jubilate Deo omnis terra».
4
Proverbio.
5
Le parole che
seguono in questo verso e tutto il verso ultimo del sonetto leggonsi scritte a carbone su moltissimi muri delle case di
Roma.
750. Li mortorj
Voi sete furistiere, e nnun zapete
come a Rroma se cosceno le torte.
1
Un omo cor cappuccio
2
è ccome un prete
che jje piasce d’avé ppiene le sporte.
3
Cuanno a pportà li morti voi vedete
o er Zoffraggio, o le Stimite, o la Morte,
4
avete d’abbadà, ssor coso, avete
si er fratellume canta piano o fforte.
Nun v’ha da intene la pinitenza
der zacco, de la corda e dde li zoccoli:
cuelle sò ttutte smorfie d’apparenza.
Li fratelloni nun zò ttanto bbroccoli
5
da seppellí li morti pe ccusscenza:
ma cce vanno p’er peso de li moccoli.
Roma, 15 gennaio 1833
1
Cuocer la torta: agire occultamente e con ipocrisia.
2
Confratelli che portano il capo e il volto coperto con un
cappuccio, nel quale sono praticati due piccoli fori avanti agli occhi.
3
Viver lautamente: lucrar molto.
4
Il Suffragio, le
Stimmate di S. Francesco, e la Morte: tre delle principali Confraternite di Roma.
5
Sciocchi.
751. Er prete
Jeri venne da mé ddon Benedetto
pe ffamme
1
arinnaccià cquattro pianete;
e vedenno un riarzo drent’ar letto,
me disse: «Sposa,
2
cqua cche cce tienete?
Io j’arispose che cciavevo er prete
3
pe nnun stamme
4
a addoprà llo scallaletto;
e llui sce partí
5
allora: «Eh, ssi
6
vvolete,
sò pprete io puro»: e cqua fesce l’occhietto.
Capite, er zor pretino d’ottant’anni
che stommicuccio aveva e cche ccusscenza
cor zu’ bbraghiere e cco li su’ malanni?
Ma ssai che jje diss’io? «Sora schifenza,
che ccercate? La freggna che vve scanni?
Io non faccio peccato e ppinitenza».
Rona, 15 gennaio 1833
1
Farmi.
2
Pronunciata con la o chiusa.
3
Utensile di legno, mercé il quale si sospende un caldanino fra le coltri del letto.
4
Starmi.
5
Partirci vale quasi: «prendersi una libertà di dire o di fare»; e simile verbo si pronuncia con un tal suono di
ironia.
6
Se.
752. La serva e l’abbate
Cuanno te lo dich’io, credelo, cattera!
Le cose che ddich’io sò ttutte vere.
La serva c’annò vvia da Mastro Zzattera
se fasceva scopà ddar Cancejjere.
Lei lo fasceva entrà ttutte le sere,
e ssi bbussava lui,
1
la sora sguattera
2
da bbrava puttanella der mestiere
l’annisconneva drento in de la mattera.
3
Una sera però cche vvenne er Mastro
co la chiave, trovò stesa Luscia
cor pittore a ddipíggnela a l’incastro.
4
Sai che jje disse lui? «Ggentaccia indeggna,
la mi’ casa nun è ccancellaría
da stipolà strumenti de la freggna».
5
Roma, 16 gennaio 1833
1
Lui, per antonomasia, «il padrone».
2
Guattera.
3
Madia.
4
Equivoco di encausto, che dalla plebe dicesi appunto
all’incastro.
5
Fuor di questa circostanza, le tre ultime parole si userebbero in via di ripieno, per modo di cruccio.
753. Dommine-covàti
1
A Ddommine-covàti sc’è un ber zasso
piú bbianco d’una lapida de latte,
cor un paro d’impronte de sciavatte,
2
che ppareno dipinte cor compasso.
Llí, un giorno, Ggesucristo annanno
3
a spasso,
trovò ssan Pietro, che, ppe nnun commatte
4
cor Re Nnerone e st’antre teste matte,
lassava a Rroma er zu’ Papato grasso.
«Dove vai, Pietro?»,
5
disse Ggesucristo.
«Dove me pare», er Papa j’arispose,
come avería risposto l’Anticristo.
Io mó nun m’aricordo l’antre cose;
ma sso cch’er zasso ch’io co st’occhi ho vvisto
Cristo lo siggillò cco le carcose.
6
Roma, 15 gennaio 1833
1
Domine quo vadis, piccola chiesa suburbana sulla Via Appia. È tradizione che san Pietro, fuggendo Roma e il
martirio, ivi incontrasse il Maestro, e gli dicesse: Domine, quo vadis?, e che rispostogli da Cristo: Eo Romam iterum
crucifigi, egli, vergognoso della sua pusillanimità, ritornasse indietro e v’incontrasse la morte.
2
Ciabatte.
3
Andando.
4
Combattere.
5
Qui s’intende che la ignoranza dell’interlocutore confonde i fatti tradizionali.
6
Le calcóse: vocabolo
romanesco antiquato, sinonimo di «scarpe». La pietra, di cui qui si parla, conservasi ivi presso, nella Chiesa di San
Sebastiano.
754. Santa Rosa
O llima,
1
o rraspa, de sei anni o ssette
santa Rosa era sciuca
2
e annava a scola,
e ffascenno
3
la cacca a la ssediola
tirava ggiú mmiracoli a ccarrette.
Ecchete un temporale! Le saette
fioccheno che cce vò la bbavarola:
4
cuanto scrocchia, per dio, ’na castaggnola
5
dove lei lavorava le solette.
6
Che ffa llei! stenne un braccio piano piano,
e, ccome fussi un tacco o uno spunterbo,
7
striggne e tt’acchiappa la saetta in mano.
Si
8
era un’antra,
9
meritava er nerbo;
ma llei co Ddio ciaveva er soprammano
10
santa Rosa de Lima de Viterbo.
11
Roma, 15 gennaio 1833
1
Equivoco fra lima e Lima.
2
Ciuca: piccina.
3
Facendo.
4
Ci vuole la bavarola: dicesi quando si mangiano frutta molto
succose, le quali grondano d’ogni parte.
5
Saetta.
6
Qui per piante delle calze.
7
Listello di cuoio, che si ricuce attorno
alle scarpe rotte, fra il tomaio e la suola.
8
Se.
9
Altra.
10
Ci aveva credito: n’era bene veduta: n’aveva autorità di favore.
ecc.
11
Altro equivoco, che di due cognite Sante Rose ne fa una sola.
755. La Bbeata Chiara
1
Come se pò ddí ppeste de la fede,
cuann’Iddio da li sette tabbernacoli
sce
2
manna
3
tanti santi che ssò oracoli
da fà ppuro dí ssí cchi nun ce crede?
Presempio,
4
a Mmonte-farco sce se vede
un miracolo solo in tre miracoli,
un spettacolo solo in tre spettacoli,
ché nun zerve a intiggnà:
5
bbisogna scede.
6
Dico tre ppalle de carne de core,
c’a una, a ddua, a ttre, cchi vva a ppesalle,
peseno sempre un’oncia ar pesatore,
e cchi le cose sa bbene aggiustalle
disce che nnun pò avé pprova mijjore
la Santa Tirnità
7
che ste tre ppalle.
Roma, 15 gennaio 1833
1
Venerata a Monte-Falco, terra presso Foligno.
2
Ce: ci.
3
Manda.
4
Per esempio.
5
Ostinarsi.
6
Cedere.
7
Trinità.
756. San Zirvestro
San Zirvestro, finiti scerti chiassi,
volenno
1
viení a Rroma a ccose leste,
disse a una bbella mula co le sceste:
«Curre,
2
per Dio, ch’er vento nun te passi».
A la mula je preseno le creste;
3
e cco ggnente de ppiú che de tre ppassi,
lassanno le pedate su tre ssassi,
4
se ne venne sin qui dda Sant’Oreste.
5
Cristo! Senza speroni e ssenza brijja,
ma ssolo co la frusta de la fede
pe ’ggni passo volà ssedisci mijja!
Inzomma, cazzo, la faccenna aggnede
6
che, o sta mula era er diavolo o la fijja,
fesce er viaggio in tre ssarti,
7
e spregò un piede.
Roma, 15 gennaio 1833
1
Volendo.
2
Corri.
3
Imbizzarrì.
4
Si conservano venerati in una chiesa di Roma.
5
Il celebre Monte Soratte, chiamato di
S. Silvestro. Il nome più comune però in oggi è di S. Oreste, da un paese che sopra vi sorge. Vedi Orazio, ode IX, lib. I;
Virg. Aeneid. II.
6
Andò.
7
Salti.
757. Er zagrifizzio d’Abbramo
Sonetti 3
La Bbibbia, ch’è una spesce
1
d’un’istoria,
disce che ttra la prima e siconn’arca
Abbramo vorze
2
fà dda bbon Patriarca
n’ojjocaustico
3
a Ddio sur Montemoria.
Pijjò dduncue un zomaro de la Marca,
che ssenza comprimenti e ssenza bboria
stava a ppassce
4
er trifojjo e la scicoria
davanti a ccasa sua come un Monarca.
Poi chiamò Isacco, e ddisse: «Fa’ un fasscetto,
pijja er marraccio,
5
carca er zomarello,
chiama er garzone, infílete er corpetto,
saluta Mamma, scercheme
6
er cappello;
e annamo via, perché Ddio bbenedetto
vò un zagrifizzio che nnun pòi sapello».
Roma, 16 gennaio 1833
1
Specie.
2
Volle.
3
Olocausto.
4
Pascere.
5
Specie di scure a corto manico, usata nelle boccherie e nelle cucine.
6
Cércami.
758. Er zagrifizzio d’Abbramo
Doppo fatta un boccon de colazzione
partirno tutt’e cquattro a ggiorno chiaro,
e ccamminorno sempre in orazzione
pe cquarche mmijjo ppiú dder centinaro.
«Semo arrivati: aló, ddisse er vecchione,
«incòllete er fasscetto, fijjo caro»;
poi, vortannose in là, ffesce
1
ar garzone:
«Aspettateme cqui vvoi cor zomaro».
2
Saliva Isacco, e ddisceva: «Papà,
ma dditeme, la vittima indov’è?».
E llui j’arisponneva: «Un po’ ppiú in là».
Ma cquanno finarmente furno sú,
strillò Abbramo ar fijjolo: «Isacco, a tté,
faccia a tterra: la vittima sei tu».
Roma, 16 gennaio 1833
1
Disse.
2
Expecta hic cum asino.
759. Er zagrifizzio d’Abbramo
«Pascenza», disce Isacco ar zu’ padraccio;
se bbutta s’una pietra inginocchione,
e cquer boja de padre arza er marraccio
tra ccap’e ccollo ar povero cojjone.
«Fermete, Abbramo: nun calà cquer braccio»,
strilla un Angiolo allora da un cantone:
«Dio te vorze
1
provà co sto setaccio...».
Bbee, bbee... Cchi è cquest’antro!
2
è un pecorone.
Inzomma, amisci cari, io ggià ssò stracco
d’ariccontavve er fatto a la distesa.
La pecora morí: fu ssarvo Isacco:
e cquella pietra che mm’avete intesa
mentovà ssur piú bbello de l’acciacco,
sta a Rroma, in Borgo-novo, in d’una cchiesa.
3
Roma, 16 gennaio 1833
1
Volle.
2
Altro.
3
S. Giacomo Scossacavalli, detto dal popolo «San Giachemo Scosscia-cavalli».
760. Le feste cresiastiche
1
Sentite bbene a mmé, ssora Terresa:
è in ne le feste ppiú pprivileggiate
che sse vede le ggente bbattezzate
si
2
ssanno li proscetti
3
de la Cchiesa.
È cquello er tempo de fà bbona spesa:
cuello è ’r tempo de fà bbone maggnate.
Senza dorci,
4
e ppappine, e ccioccolate
Iddio se l’averebbe pe un’offesa.
La Cchiesa in du’ parole se la sbriga;
e ppe spiegacce
5
er gusto der Zignore
disce: Servite dommine in lettiga.
6
Nun vedessivo
7
er giorno de Natale
che bber pranzetto scelebbrò er Priore
co vventinove preti e un cardinale?
Roma, 16 gennaio 1833
1
Ecclesiastiche.
2
Se.
3
Precetti.
4
Dolci.
5
Spiegarci.
6
Servite Domino in laetitia.
7
Vedeste.
761. La Mess’in musica
Sí, ll’ho ssentit’io puro
1
all’Orfanelli
2
sta gran messa a ccappella co li sòni
d’obboli,
3
de trommette, de trommoni,
de violini, violoni e vvioloncelli.
E nnun zò
4
mmejjo assai li ritornelli
5
su cquelli nostri cari calasscioni,
che ssentí ’na gabbiata de capponi
6
che
7
tutt’er bono è nnun avé ggranelli?
E llui che stava immezzo a dajje sotto
co la bbotta obbrigata, nun pareva
che imminestrassi
8
l’ojjo der cazzotto?
Co cquer zu’ muso color de sciscerchia
dava a la sorfa sua
9
’na scerta leva,
come discessi:
10
«A vvoi, tanta de nerchia!».
11
Roma, gennaio 1833
1
Pure.
2
Orfanelli. Chiesa di S. Maria in Aquiro, appartenente all’Orfanotrofio di Roma.
3
Oboè.
4
Sono.
5
Vedi il
Sonetto…
6
Musici castrati.
7
Il che è spesso adoperato come segno di relazione senza affisso di articolo: come dicesse
de’ quali, ecc.
8
Ministrasse, dispensasse.
9
Solfa.
10
Dicesse.
11
Così (facendo un gesto sconcio, consimile a un certo
modo del battere il tempo musicale) dice la plebe, per indicare la lunghezza e il movimento di cosa che il lettore
troverà notata nel Sonetto…
762. L’immassciata
1
de l’ammalato
Sor Luca, manna
2
a ddí
3
Ppadron Vitale
che jje mettete le riscette in pronto,
pe vvia c’adesso che nnun sta ppiú mmale
vò vvede
4
tutto e vvò ssardà
5
ll’ammonto.
Disce accusí che nnun je fate er tonto:
6
che cce seggnate puro er zervizziale,
ma cche pperantro in ner mannajje
7
er conto
nun je mannate un conto da spezziale,
8
E ssoprattutto je preme mortissimo
9
che in test’ar conto pe pprimo capitolo
nun je date la bbotta d’illustrissimo;
perché nnun ve vorrebbe mette a ccoppia
cor Medico, che ddannoje
10
sto titolo
j’ha vvorzuto
11
appoggià lla tassa doppia.
Roma, 16 gennaio 1833
1
Ambasciata.
2
Manda.
3
Dire.
4
Vedere.
5
Saldare.
6
Non simuliate semplicità.
7
Mandargli.
8
I conti enormi di qualunque
specie sono chiamati conti da speziale.
9
Moltissimo.
10
Dandogli.
11
Voluto.
763. La vergna l’ha cchi la vò
La donna che nnun vò, vàttela a ffrega!
Mica er fregà ssò ffiaschi che ss’abbotteno.
Tutte le fiche ar Monno che sse fotteno
s’hanno perché nnun c’è cchi tte le nega.
Le donne che nun vonno uprí bbottega
sò sserpe, furie, arpíe, tizzi che scotteno:
te sgraffieno la faccia, te scazzotteno...
chi ttrova er buscio pe scopalle? Bbrega?
1
E Mmaria de le Grazzie? e la Madonna?
Sta in Chiesa a Pport’Angelica er quadretto
cor Pē-Gē-Rē
2
che jj’attac una donna.
Lei sta ddipinta a ccossce larghe a lletto,
e un omo co una mano su la monna
tiè cco ddu’ deta
3
un ber garofoletto.
4
Roma, 17 gennaio 1833
1
Personaggio immaginario al quale si paragonano i ridicoli e spregevoli.
2
P.G.R., iniziali di «Per Grazia Ricevuta»
colle quali sono contraddistinte le tavolette votive.
3
Diti.
4
Veramente nella chiesa di S. Maria delle Grazie presso la
Porta Angelica, contigua al Vaticano, esiste questa tavoletta rappresentante una deflorazione tentata e non consumata
per favore della Vergine. Essa è in un andito piuttosto oscuro, fra moltissime altre, a destra presso l’ingresso.
764. Santa Pupa
1
Santa Pupa è una santa che ddavero
je peseno, pe ccristo, li cojjoni;
2
e appett’a llei tanti santi bbarboni
nun zò,
3
Terresa, da contalli un zero.
Va a ddí a li fijji tui che ssiino bboni!
Lo so io co li mii si mme dispero,
e mme spormóno
4
er zanto ggiorno intiero:
senza de lei Dio sa li cascatoni!
Eppuro,
5
a sta gran zanta, poverella,
je vedi mai una cannela accesa?
j’opre ggnissuno un buscio de cappella?
Furtuna e ddorme:
6
ecco ch’edè,
7
Tterresa;
e ssan Pietro, che ddiede in ciampanella,
8
ruga, e ttiè er culo in cuer boccon de cchiesa!
Roma, 17 gennaio 1833
1
La Santa che vuolsi vegliare pei bambini.
2
Cioè: Santa di vaglia.
3
Sono.
4
Spolmono, sfiato.
5
Eppure.
6
Proverbio.
7
Ecco cos’è: ecco la cagione spiegata.
8
Dare in ciampanella: fallire.
765. La Vesta
Già, ttu ssei stato sempre un miffarolo:
dichi la verità ccome le riffe.
Ma de sta cosa sola io me conzolo,
che nnun ce cucchi ppiú cco le tu’ miffe.
Cuesta nu la diría manco Bbargniffe:
sta bbuggiarata la pòi dí ttu ssolo.
Levate mano, via, dateje er ziffe,
sor carotaro mio, sor fuffarolo.
Ma ddavero sce tienghi senza testa,
pe vvienicce a ccarzà st’antra sciavatta,
che ll’antichi adoraveno una Vesta?
Oh annateve a ccercà cchi la sbaratta!
Oh vvienite davanti a mmezza festa,
e ddatela a d’intenne ar Padre Patta.
Roma, 17 gennaio 1833
766. Er quieto-vive
1
Te maravijji e vvai discenno in piazza
ch’er Curato vò ffatte
2
sposà Tteta,
senza volé ccapí cche la regazza
l’ha ddata a ttutti pe ccipoll’e bbieta.
3
Che spesce
4
t’ha da fà ssi tte strapazza
un tiranno che pporta la pianeta?
Che spesce t’ha da fà cc’abbi sta razza
la test’uperta
5
come una segreta?
Co cquesti vàcce cor bemollo,
6
amico.
Co li preti nun giova er bell’umore:
abbada a cquer che ffai veh, Ddoluvico.
7
Vòi vince
8
er punto tuo senza rimore?
9
Lassa le bbrutte,
10
e ffa cquer che tte dico:
impiómmelo,
11
per dio: dajje er tortore.
12
Roma, 17 gennaio 1833
1
Il quieto-vivere è nome di tutto ciò che vaglia a ridurre altri a pace.
2
Farti.
3
Per nulla.
4
Specie.
5
Qui sinonimo di
intelligente.
6
Vacci col bimolle: con le dolci.
7
Ludovico.
8
Vuoi vincere.
9
Romore.
10
I modi aspri e strepitosi.
11
Impiombalo: riducilo col danaro alla immobilità.
12
Dare il tortore, è stringere i legami di un carro, aggirando un legno
passato fra la corda, onde questa, ravvolgendovisi, si tenda e freni il carico. Qui vale: astringilo coi doni al silenzio.
767. Er creditore strapazzato
Sonetti 2
Te ggiuro, Iggnazzio, ch’è ffaccenna seria
co sti du’ prelatacci de la bbua:
1
è ccosa propio da sputà un’alteria
2
p’èsse
3
pagati de la robba sua.
Oggniggiorno se trova sta miseria
che stanno in Coro a ccantà ttutt’e ddua:
Dommine mea melappia mea aperia
e ttòssa mea nun z’abbi in laude tua!
4
Li preti, dichi tu, ssò bburattini!
Sò bburattini un cazzo, perché cquelli
nun rubbeno a ggnisuno li quadrini.
E cquesti hanno li cori e li sciarvelli
5
pe ffà mmejjo la parte d’assassini,
e bbuggiarà li poveri fratelli.
Roma, 17 gennaio 1833
1
Del malanno.
2
Arteria.
3
Per essere.
4
Domine labia mea aperies, ecc.
5
Cervelli.
768. Er creditore strapazzato
Li bburattini nun maggneno pane
e nnun beveno vino a ttradimento,
li bburattini nun vanno a pputtane,
e nnun danno a ggnisuno farzamento.
1
Cuelli, per dio, nun zoneno campane
pe ffà er cristiano futtuto e ccontento;
e nnun zò
2
ccome st’anime de cane
che vvénneno
3
la crosce e ’r zagramento.
Come, per cristo! A un omo che jj’avanza,
dàjje
4
la porta in faccia, e curre in Coro
pe llevajje la bborza e la speranza!
Sú, er zangue de la vita e dder lavoro
dàmolo
5
tutto ar grasso d’una panza.
Mojje, fijji, sorelle: è ttutto loro.
Roma, 17 gennaio 1833
1
Dar falsamento: farci stare alcuno, soperchiarlo.
2
Sono.
3
Vendono.
4
Dargli.
5
Diamolo.
769. Er Monno
Va bbè
1
dde lamentasse
2
co rraggione,
ma cchi sse laggna a ttorto è un cazzo-matto.
Er Monno è una trippetta,
3
e ll’omo è un gatto
che jje tocca aspettà lla su’ porzione.
Tutto cuer che cc’è ar Monno, chi l’ha ffatto?
Ggesucristo: lo sa ppuro
4
un cojjone.
Ggesucristo però dduncue è ’r padrone
d’empicce
5
a ttutti o rripulicce er piatto.
Ma Ggesucristo, sor cazzaccio mio,
lo sapete chi è llui? è, ssora sferra,
la terza parte de domminiddio.
Duncue nun zerve a ffà ttante parole:
si er Zanto-padre è un Gesucristo in terra,
è ttutto suo pe cquanto vede er Zole.
6
Roma, 17 gennaio 1833
1
Va bene.
2
Lamentarsi.
3
Trippa di scarto che va vendendosi per Roma col grido di gnao, al qual grido tutti i gatti
corrono.
4
Pure.
5
Empirci.
6
Dottrina della chiesa romana, alquanto però controversa.
770. Er Papato
Chi discessi,
1
fijjoli, ch’er Papato
a sti tempi è un boccone da invidiallo,
diría
2
spropositoni da cavallo
e ppotria risicà dd’èsse impalato.
Oggi un Papa, la quale è ddiventato
come chi ppijja carte su lo spallo,
che ssucchia l’ovo
3
come avessi un callo,
4
dev’èsse compatito e nnò invidiato.
E ddev’èsse accusí, pper dio de leggno,
perché sto servitor de servitori
nun porta per un cazzo
5
er zu’ trerreggno.
Cuello è un zeggno de pena e dde dolore,
un vero seggno de passione, un zeggno
de la coron
6
-de-spine der Ziggnore.
Roma, 17 gennaio 1833
1
Dicesse.
2
Direbbe.
3
«Succhiar l’uovo»: tirare dentro il fiato in segno di dolore.
4
Un callo doloroso.
5
Per nulla.
6
Coron per corona: apocope usata dai nostri volgari in perifrasi sacre specialmente, cioè la coron-de-spine, la coron
-de-la-madonna, etc.
771. L’Ombrellini
Tu vvòi sapé pperché li Cardinali
useno cuell’usanza de l’ombrelli,
e pperché ppoi sti settanta fratelli
co l’ombrelli nun porteno stivali?
Cuesti
1
ppe nnoi poveri animali,
e ssò ppe lloro ariservati cuelli,
pe mmostrà cc’a nnojantri
2
poverelli
tocca l’acqua che vviè dda li canali.
E nnun te pare che ssii vero tutto?
Nu lo vedi c’a nnoi sce
3
piove addosso,
e sti servi de Ddio stanno a l’assciutto?
Ah! pper dio santo è un ber colore er rosso!
Ma cce vorebbe poco a ffallo
4
bbrutto,
bbruscianno chi lo porta, inzino all’osso!
Roma, 17 gennaio 1833
1
Sono.
2
Noi altri.
3
Ci.
4
Farlo.
772. La porpora
Ch’edè
1
er colore che sse vede addosso
a ste settanta sscimmie de sovrani?
Sí, ll’addimanno
2
a vvoi: ch’edè cquer rosso?
sangue de Cristo? Nò: dde li cristiani.
È er zangue de noi poveri Romani
che jje curre a li piedi com’un fosso,
cuanno sce
3
danno in gola cor palosso
4
come se fa a le pecore e a li cani.
Ner zangue de noi pecore sta a mmollo
cuella porpora infame; e a nnoi sta sorte
tocca, per dio, da presentajje er collo.
Epperò le patente de sta Corte
sò ttutte in carta-pecora e ccor bollo:
che pprima bbolla,
5
e ppoi condanna a mmorte.
Roma, 17 gennaio 1833
1
Che è.
2
Lo dimando.
3
Ci.
4
Stocco.
5
Bollare, nel senso più ovvio ai Romaneschi, significa «togliere altrui il danaro
con male arti».
773. Chi ha ffatto ha ffatto
Non piussurtra,
1
Anna mia: semo a lo scorto:
2
è spiovuto er diluvio de confetti.
Ecco li schertri
3
a ddà a li moccoletti
l’urtimo soffio. Er carnovale è mmorto.
Già ssona er campanon de lo sconforto,
4
e ggià st’acciaccatelli
5
pasticcetti
6
vanno a ccasa a ordinà li bbrodi stretti
d’orzo, ranocchie e ccicorietta d’orto.
E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbascia!
Ggià ssò ttutti scottati: ma stasera
da la padella cascheno a la bbrascia.
7
Domani è la manguardia
8
de le Messe
co la pianeta pavonazza e nnera,
domani ar Mementò-cchià-ppurvissesse.
9
Roma, 17 gennaio 1833
1
Non plus ultra.
2
Siamo al fine.
3
Carabinieri pontifici, successori dei gendarmi francesi, chiamati scheletri dal popolo,
a cagione degli alamari bianchi che, sul principio della loro instituzione, portavano attraverso al petto.
4
L’ultima sera
di carnevale, all’un’ora di notte, principia a suonare la campana che avverte il popolo della predica del giorno
seguente, e così continua per tutta la quaresima.
5
Infievoliti.
6
Zerbini.
7
Proverbio, dinotante «andare di male in
peggio».
8
Vanguardia.
9
«Memento homo, quia pulvis es», etc.
774. Le scénnere
1
Pe ffà da bbon cristiano, e sscontà in chiesa
tante scopate, tanti pranzi e ccene,
e ttutte st’antre invanità tterrene,
ho ppreso er cenneraccio a Ssant’Aggnesa.
2
Nun dubbità che ssò cascato bbene!
3
ch’er prete, forze
4
pe ffamme
5
un’offesa,
in cammio
6
d’appricammene
7
una presa,
m’ha inzuccherato er ggruggno a mmano piene.
Penza si a mmé, cche nun maggno cresscioni
che mme faccino fà lla pisscia fresca,
8
me s’è scallato er pisscio a li cojjoni!
Figuret’io che sò come una lesca!
9
...
Ma cche vvòi dí? sti preti sò sturioni
che sfassceno le rete a cchi li pesca.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Il delle ceneri.
2
Chiesa al Foro agonale, oggi Piazza Navona, fabbricata da Innocenzio X sulle rovine dell’antico
circo di Alessandro Severo.
3
Cascar bene, vale: «aver buon successo in checchessia». Qui in modo ironico.
4
Colla o
chiusa: «forse».
5
Farmi.
6
In cambio.
7
Di applicarmene.
8
Questa è la virtù che si celebra de crescioni, ad alta voce, dai
venditori per la città.
9
Esca.
775. Er cazzetto
1
de ggiudizzio
Capite er zor fischietto,
1
er zor piviere,
1
er zor ciscio,
1
er zor schizzo dilicato,
1
come lavora,
2
come fa er mestiere,
che bber trucchio da dritto
3
j’ha ttirato?!
Prima de tutto lui s’è incoppolato
4
la fijja fijja-sola
5
der curiere,
eppoi è ito come un cavajjere
a ffà la su’ spontaggna
6
ar Vicariato.
E ’r Notaro c’ha intesa la faccenna
ne la maggnera
7
che dev’èsse intesa,
subbito carta, calamaro e ppenna!
Brevi-e-sverbi
8
er pivetto
1
se l’è ppresa;
e cco ttutto ch’er padre nu l’intenna,
l’ha sposata a la faccia de la Cchiesa.
9
Roma, 18 gennaio 1833
1
Tutti vocaboli più o meno sinonimi di «garzone», «adolescente»: un minore insomma di cui si abbia poca
considerazione.
2
«Lavorare», per: «operare», «condursi».
3
Colpo da scaltro.
4
Circa alla copula vedi il Sonetto...
5
Perifrasi che si usa invece di «unica».
6
Spontanea.
7
Maniera.
8
Brevis verbis. Roma formicola di modi latineschi come
di romaneschi.
9
In faciem ecclesiae.
776. Fratèr caro
Io, fratèr caro, nun ho ggnente ar zole:
campo de bbraccia, e ffaccio er callararo,
1
duncue a llui je vennei
2
ttre ccazzarole,
una marmitta, un cuccomo e un callaro.
Je li diede
3
a ccredenza
4
io, fratèr caro,
ché nnun credevo l’ommini sciriole
da scivolà dde mano ar ciriolaro,
e sbarattajje in faccia le parole.
Ma er fatto sta che ccorre un mese, corre
un anno, dua, sce
5
vado, sciaritorno…
6
Ah,
7
dde verbo pagà nnun ze discorre.
Heh, ffinarmente, ffratèr caro, un giorno
ch’ero stufo de tutto st’irre orre,
8
prese
9
un curiale e mme lo messe
10
intorno.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Calderaio.
2
Vendetti.
3
Diedi.
4
A credito.
5
Ci.
6
Ci ritorno.
7
Particella negativa.
8
Tergiversazioni.
9
Presi.
10
Me lo
misi.
777. Fratèr caro
Nu l’avesse
1
mai fatto! Sto curiale,
fratèr caro, era un ber baron futtuto;
e ppe mme ssaría stato meno male
de scrive: aút aút,
2
chi ha aúto ha aúto.
3
Cuadrini, je n’ho ddati co le pale:
tempo, n’ha ppreso cuello c’ha vvorzuto:
4
e ssai com’è ffinita? Er tribbunale
disce c’ho da mostrà cquer c’ho vennuto!
5
Ma ggnente, fratèr caro: sc’è dde peggio:
sto sor abbate caccia un conto adesso,
un conto, c’hai da dillo
6
un zagrileggio!
Le scentinare
7
se curreno
8
appresso:
e oggni addio che jj’ho ddato a lo spasseggio
9
me sce
10
l’ha mmesso drento pe un congresso.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Avessi.
2
Àut àut.
3
Chi ha avuto, ha avuto.
4
Voluto.
5
Venduto.
6
Dirlo.
7
Centinaia.
8
Corrono.
9
Passeggio.
10
Ce.
778. Er Zenator de Roma
Davanti a la ferrata,
1
indove è un mese
ch’io pe ddebbiti aggnede carcerato,
2
stammatina a bbon’ora m’ha affermato
3
un todescotto che mm’è pparzo ingrese.
Disce: «Cual’è er palazzo der Zenato?».
Dico: «Me pare cuesto ar mi’ paese».
4
Disce: «Cuant’anni sò
5
cch’è ffrabbicato?».
Dico: «Da la repubbrica francese».
Ma ssò ccuriosi assai sti furistieri!
Disce: «Come se chiama er Zenatore?».
Dico: «Se chiama Don Palazzo Artieri».
6
Disce: «E cche uffiscio tiè cquesto Signore?».
Io la finii allora: «Ha ddu’ mestieri:
lava le mano ar Papa
7
e sta a l’odore».
8
Roma, 18 gennaio 1833
1
Inferriata.
2
Nel piano terreno del Palazzo Senatorio sono le carceri pe’ debitori.
3
Fermato.
4
Al mio paese: così dice
chi crede che la cosa in questione debba esser già chiara.
5
Sono.
6
Don Paluzzo Altieri, principe romano. Il Senatore
dovrebb’essere un estero, ma dal M.se Patrizi, antecessore del vivente, si è derogato alla costumanza.
7
Nelle Cappelle
papali.
8
«Stare all’odore» è frase esprimente ogni specie di esclusione.
779. La Commedia de musica
È vvero, sí, cc’a Ttordinone
1
er ballo
nun vale manco un pelo de la monna;
ma nnun ze pò nnegà cche cc’è una donna
che ffa ssarti ppiú bbelli d’un cavallo.
E ll’antra donna co cquer manto ggiallo
ch’essce a ccantà dda dietro a una colonna,
nun ha una bbella vosce da siconna?
nun ha una bbella vosce de metallo?
2
Io, Pepp’er matto, er Guercio e li du’ osti
sce l’annassimo a ggode
3
jerassera
a un parc’ar sesto che ss’affitta a pposti.
E ddiscessimo
4
tutti a una maggnera:
5
sti canterini cqua ssò ttutti tosti,
6
e dda arzajje
7
una statua de scera.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Pronunciato con entrambe le o chiuse.
2
È il Teatro Regio di Torre di Nona o Tordinona.
3
Metallo di voce:
espressione dell’arte.
4
Ce l’andammo a godere.
5
Dicemmo.
6
Maniera.
7
Forti, valorosi.
8
Alzar loro.
780. Er coruccio
1
2
bbello accusí nnero? eh? ddi’, sò bbello?
Nun paro
3
er Mannataro de la Morte?
Stamo in guai, cammerata, ma in guai forte:
sò ffinite le scene
4
in zur più bbello.
Er padrone ha sserrato mezze porte,
e ccià
5
mmesso sto scencio
6
sur cappello,
pe vvia ch’è mmorto er zoscero ar fratello
de la mojje der fijjo de la corte.
Tu nun hai da guardà ll’Immassciatore
si
7
rride co nnoantri e sse ne fotte:
abbasta che ppe nnoi piaggni er colore.
Tratanto hai da sapé che sto dolore
ha da durà tre mmesi e mmezza notte:
poi mettemo er coruccio ar cacatore.
8
Roma, 18 gennaio 1833
1
Corruccio: gramaglia.
2
Sono.
3
Paio, sembro.
4
Cene.
5
Ci ha.
6
Cencio.
7
Se.
8
Espressione di molto uso, allorché si
vuol fare intendere il poco interesse che si prende di certi avvenimenti che altri vorrebbe farci sentire calamitosi.
781. La vita dell’Omo
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
1
tra sbasciucchi,
2
lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio,
3
in ner crino,
4
e in vesticciola,
cor torcolo
5
e l’imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scola,
l’abbeccè, le frustate, li ggeloni,
la rosalía, la cacca a la ssediola,
e un po’ de scarlattina e vvormijjoni.
6
Poi viè ll’arte, er diggiuno,
7
la fatica,
la piggione, le carcere, er governo,
lo spedale, li debbiti, la fica,
er zol d’istate, la neve d’inverno...
E pper urtimo, Iddio sce
8
bbenedica,
viè la Morte, e ffinissce co l’inferno.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Il bambino in fasce dicesi sempre cratura in fassciola.
2
Baci dati con insistenza.
3
Cinghia attaccata dietro le spalle
de’ bambini per sorreggerli ne’ loro primi mesi di cammino. Può presso a poco paragonarsi al tormento della corda.
4
Canestro in forma di campana, aperto in alto e nella base, entro cui si pongono i bambini, che lo spingono col petto e
tengonsi ritti in esso nel camminare.
5
Salva-capo contro le cadute.
6
Vormiglioni: vaiuolo.
7
Digiuno ecclesiastico che
principia all’anno ventunesimo.
8
Ci.
782. La luna
Tutto dipenne
1
da la luna ar Monno,
cuanno è in frusso e rifrusso co le stelle.
Sempre, tra er primo cuarto e ttra ’r ziconno
l’acqua in celo sce sta tra ppelle e ppelle.
Si
2
ppoi vedete la luna in ner tonno
3
e le nuvole fatte a pecorelle,
4
potete puro
5
dí, Mmastro Rimonno,
6
ch’er tempo vojji piove a ccatinelle.
Tutte ste cose me l’ha ddette Antonio,
perché er padrone suo tiè ddu’ strumenti,
chiamati, uno er Tremò,
7
ll’antro er Baronio.
8
Disce che cquelli dicheno
9
li venti
er callo, er freddo, la neve, er demonio,
e ttutte l’antre sorte d’accidenti.
Roma, 18 gennaio 1833
1
Dipende.
2
Se.
3
Luna piena.
4
Nuvole minutissime e sparse ugualmente per tutta atmosfera, come le macchie di un
cavallo stornello. Celo a pecorelle, acqua a ccatinelle.
5
Pure.
6
Raimondo.
7
Termometro.
8
Barometro.
9
Indicano,
predicono.
783. Li discorzi
Li discorzi
1
ccome le scerase,
che ne pijji una e tte viè appresso er piatto.
Accusí li discorzi: uno è l’abbase
2
d’un antro, e un fatto t’arichiama un fatto.
Parlàmio
3
de li frati der Riscatto:
cuesto portò a l’editto su le Case:
4
sto discorzo annò ar zorcio: questo ar gatto:
questo ar Governo, e ssempre ppiú se spase.
Dar Governo passassimo
5
ar zomaro:
da questo ar Cardinale, e all’ombrellino
rosso che ttiè ppe mmostra e ppe rripparo.
Dar rosso s’annò
6
ar bianco: e ’r fornarino
disse ch’er Papa bbianco è un mulinaro
che ccerca de tirà ll’acqua ar mulino.
7
Roma, 18 gennaio 1833
1
Sono.
2
Base.
3
Parlavamo.
4
Editto limitativo de’ diritti de’ proprietari verso gl’inquilini. Fu provvisoriamente
immaginato dalla Santa Memoria di Leone XII, e ad ogni scadenza di termine si rinnuova.
5
Passammo.
6
Si andò.
7
Proverbio.
784. Er dente der Papa
Er Papa
1
aveva un dolore puttano
a un dente maggellanico
2
o ccanino;
e ppe sservisse
3
d’un dentista fino,
chiamò dda la Ritonna
4
er Ciarlatano.
Subbito annò a Ppalazzo er Castellino
5
a vvede er dente guasto der zoprano;
6
e lo cacciò ccor un corpo
7
de mano,
mejjo che ffussi stato un zuccherino.
Nostro Siggnore, o er Papa, ch’è ll’istesso,
perch’è er padrone de tutta la ggente,
nun vorze un cazzo
8
fà gguardasse appresso:
9
e disse: «Bravo! nun ciai fatto ggnente:
10
ecchete scento ggnocchi;
11
e ssin d’adesso
te dichiaramo Cavajjer der dente».
12
Roma, 19 gennaio 1833
1
Fu Leone XII.
2
Magellanico o mascellare, che è tutt’uno.
3
Servirsi.
4
Dalla Piazza del Pantheon, che per solito è il
teatro delle gesta de’ cerretani.
5
Castellini: nome di quel veramente abile chirurgo-dentista.
6
Sovrano.
7
Colla o chiusa:
colpo.
8
Non volle menomamente.
9
«Farsi guardar dietro o appresso», vale «non cedere altrui in generosità o
splendidezza».
10
«Non far niente», cioè «non fare alcun male».
11
Scudi.
12
«Cavalieri del dente» sono detti in Roma i
dilettanti delle altrui mense.
785. Er madrimonio de la mi’ nipote
Cuarche ccosa sarà. Llei la regazza
ggià è dda Pascua de llà
1
cche cce parlava,
2
sin che la madre, ch’è una donna bbrava,
lo chiamò ssú pperché nnun stassi
3
in piazza.
E mmó cche llei je stira e cche jje lava,
lui je sce fa lo stufo e la strapazza:
e llei s’accora, e ppiaggne che ss’ammazza,
che cce l’ho vvista fà ssino la bbava.
Cuant’a ppijjalla, disce che la pijja;
ma Ddio me perdonassi li peccati
com’avrà dda penà, ppovera fijja!
Abbasta, madrimòni e vvescovati,
eh? ddico bbene o nnò, ssora Scescijja?
4
sò ttutti cuanti in celo distinati.
5
Roma, 19 gennaio 1833
1
Dalla penultima Pasqua.
2
Ci amoreggiava.
3
Stasse.
4
Cecilia.
5
Modo proverbiale.
786. Ciancarella
Cosa dite?! Io sposà cquela zoppaccia?!
Che?! a mmé cquer Toto-tuppete?
1
sbajjate:
vojjo stajole
2
dritte io pe annà a ccaccia:
me piasceno le scianche
3
arissettate.
4
Avanti de pijjà ste ssciabbolate
5
io me vorebbe
6
fà ssegà le bbraccia:
vorebbe prima un’indurgenza in faccia
co mmille quarantine
7
de sassate.
Nu la vedi, per cristo, come ggioca
de griffo e dde risbarzo
8
sta naticchia?
9
nu la vedi, per dio, come arïoca?
10
Nu le scibba
11
mïodine
12
ste freggne
che cce vojji
13
la zeppa e la cavicchia
pe mmetteje d’accordo er zalissceggne.
14
Roma, 19 gennaio 1833
1
Far tuppete, cioè cadere. Toto tuppete dicesi a chi cade.
2
Staggi di reti: qui «gambe».
3
Gambe.
4
Rassettate,
composte.
5
Sciabla per «gamba torta».
6
Vorrei.
7
Sono assai note le romane indulgenze di «tanti anni e altrettante
quarantene».
8
Giuocare di posta e di balzo: metafora presa dal giuoco della palla: qui «andar balzellon balzelloni».
9
...
10
«Riocare», per «ripetere il già fatto»: translato tolto dal così detto e stampato nobile et diletteuole givoco dell’ocha.
11
«Cibarsi una cosa»: sorbirsela: prenderla suo malgrado.
12
La mia persona.
13
Ci voglia.
14
Saliscendo.
787. De la chiavetta
1
Pijjatela per oro sta schifenza,
ma pper oro de bbollo
2
veh, oro fino,
oro passato ggiú pp’er Pellegrino,
3
oro colato
4
cor cocciòlo
5
e ssenza.
Ma ssicuro, è una donna de cusscenza
che nnun diría
6
de nò mmanco ar rabbino;
e ttutt’assieme poi mezzo lustrino
7
è cquello che ppò ffà la pinitenza.
8
L’arte ggnisuno la sa ppiú de lei,
che ggià ssapeva fà lla puggnettara
pe li portoni de scinqu’anni o ssei.
E dde dodisci a ppiazza Montanara,
9
tra ccattolichi, e tturchi, e mmanichei,
10
sce
11
curreva inzinenta la pianara.
12
Roma, 19 gennaio 1833
1
Essere «della chiavetta» significa aver qualità di raro e prezioso, da tenersi in nascosto ripostiglio.
2
Abbiamo detto
altrove che il «bollo» e il «bollare» equivalgono a lasciare in altrui i segni della propria fraude o avarizia.
3
«Oro
passato pel pellegrino», cioè «oro falso». Il Pellegrino è la contrada degli orafi.
4
«Oro colato»: cosa purissima.
5
Crogiuolo.
6
Direbbe.
7
Mezzo grosso di argento: un quarto di paolo.
8
«Far la penitenza»: qui significa «pagare» o
«costare».
9
Piazza di adunanza de’ lavoratori della terra presso all’antico teatro di Marcello.
10
Tre nomi allusivi a tre
maniere di carnalità.
11
Ci.
12
La piena delle acque piovane per mezzo alle strade.
788. Er predicatore
Un gran predicatore ha ppredicato
oggi a la cchiesa de Sant’Agustino!
Sentime:
1
un antro Padre Remolino
nun c’è oro che ppòzzi
2
èsse pagato.
Pe pperzuade
3
a ttutti ch’er peccato
nun è una cosa bbona, Ggiuacchino,
sto bbon zervo de Ddio parla latino
e sse smazza
4
che ppare un spiritato.
T’abbasti cuesto cqui, cche a l’improviso
ha ddato sopr’ar purpito un cazzotto
che mm’ha ffatto strillà: «Ppòzzi èsse impiso!».
5
Che aratore,
6
per dio! che omo dotto!
Sino è arrivato a ddí cche in paradiso
nun pò entracce
7
oramai che un cacasotto!
8
Roma, 19 gennaio 1833
1
Sentimi.
2
Possa.
3
Persuadere.
4
Smazzarsi: scalmanarsi.
5
Che tu possa essere impiccato: frase napolitana, in onore
anche a Roma.
6
Oratore, intendiamoci bene.
7
Entrarci.
8
Un fanciulletto.
789. Le redità
Sò mmorti du’ prelati,
1
du’ angeletti,
du’ ggioje, du’ tesori, du’ modelli:
ma ppropio, credi a mmé, ddu’ santarelli
da métteli
2
p’erliquie
3
a li bbrevetti.
4
Ereno ar Monno tanto guittarelli,
che appena hanno lassato, poveretti,
drento a ccerti sfassciumi de cassetti
cento mijjoni, ar piú, dde quadrinelli.
5
E vvòi sapé li poveri prelati
sti pochi quadrinelli messi a pparte
a cchi in grazzia de ddio l’hanno lassati?
Va a ccerca drento in ner libbro dell’arte
6
dodisci e ssettantotto, e, cconfrontati,
troverai tanto da sbroj
7
le carte.
Roma, 20 gennaio 1833
1
Monsignori Nicolai, Lancellotti.
2
Metterli.
3
Per reliquie.
4
Certi cuscinetti in forma di rombo o di cuore che ripieni di
reliquie si attaccano ai fianchi de’ fanciulli sotto le vesti.
5
Cinque quattrini compongono un baiocco, e cento baiocchi
uno scudo.
6
Libro di sorti, che, contenente i 90 numeri del lotto, a ciascun numero sono attribuite varie classi di nomi
di cose, persone od azioni.
7
Sbrogliare.
790. L’arrede der Prelato
Cuer Prelato,
1
cuer cazzo de somaro
che mmorze
2
de pulenta
3
francescana,
sappi che llassò arrede fittucciaro
4
don Fregaddio, cuell’antra bbona lana.
Sentito er testamento der Notaro,
fesce
5
er marito d’Anna la frullana:
«Vòi scommette
6
ch’er prete miggnottaro
7
dà ttutto a cquarche ffijjo de puttana?».
Bbe’, er prete oggi ha ccacciato una cartuccia
che ddisce: «Io chiamo a tté, ddon Sperandio:
tu cchiama er fijjo che mm’ha ffatto Annuccia».
E er cornuto mó escrama,
8
e ll’ho intes’io:
«Che bbon prete! ha spiegato la fittuccia
9
tutta in testa de Peppe er fijjo mio».
Roma, 24 gennaio 1833
1
Monsignor Nicolai.
2
Morì.
3
Gonorrea.
4
Erede fiduciario.
5
Disse.
6
Vuoi scommettere.
7
Bagascione.
8
Esclama.
9
Fiducia.
791. Er piede acciaccato
Cuanno
1
t’ho cchiesto scusa è una sscemenza
2
che ffai
3
sto ghetto
4
e cce bbestemmi Cristo.
Tu ssei puro
5
un regazzo
6
de cusscenza
pe nnun crede
7
un compaggno accusí ttristo.
Cuanno t’ho ddetto io nun t’avevo visto,
sc’è bbisoggno de bbattesce in credenza?
8
Me te metti de dietro, e ssi tte pisto
li piedi, è ccorpa
9
tua, abbi pascenza.
Subbito che lo sai che ssei de vetro,
nun ficcamme
10
le zampe tra li piedi,
ch’io sciò
11
ll’occhi davanti e nnò dde dietro.
Eppoi, crede
12
de mé cquello che ccredi;
ma ttu cquanno te bbuggera Don Pietro,
dimme la verità, Nnino,
13
lo vedi?
Roma, 20 gennaio 1833
1
Quando.
2
Sciocchezza.
3
Che tu faccia.
4
Strepito, chiasso.
5
Pure.
6
«Ragazzo» dicesi anche di un uomo allorché si
vuole annettergli una idea di bontà.
7
Credere.
8
Battere in credenza: «battere di cassa, ecc.», «rugare», «non
rassegnarsi».
9
Colpa.
10
Ficcarmi.
11
Ci ho.
12
Credi.
13
Giovannino, Giovanni.
792. Er vecchio
Che vvolete voantri
1
pappagalli
stà a mmette pecca
2
a li teatri antichi?!
Pe mmé li tempi antichi bbuggiaralli,
ma ppe tteatri Iddio li bbenedichi.
In pratea,
3
nun te dico portogalli,
ma ppotemio
4
maggnà ppuro
5
li fichi,
tratanto ch’er tenore de li bballi
scannava un venti o un trenta re nnimmichi.
Si vvedemio
6
un compaggno in piccionara,
7
lo potemio chiamà dda la pratea,
e, ssenza offenne
8
Iddio, facce
9
caggnara.
Ma mmo sti schertri
10
e li mortacci loro
sce vorríano
11
a l’usanza de l’ebbrea
ricuscicce la bbocca all’aco d’oro.
12
Roma, 20 gennaio 1833
1
Voi altri.
2
Stare a metter pecca.
3
Platea.
4
Potevamo.
5
Pure.
6
Vedevamo.
7
L’ultimo ordine di palchetti.
8
Offendere.
9
Farci.
10
Carabinieri: vedi il Sonetto...
11
Vorrebbero.
12
Ricucire all’ago d’oro (mestiere specialmente delle ebree) è un
talmente ricucire due o più parti di panno, che non se ne vegga la commessura.
793. Li teatri de mó
Che vvò’ annà! Ttordinone
1
è una porcara
che mme pare er teatro de le palle:
2
va’ a Crepanica:
3
è cchiuso. Va’ a la Valle,
e nnun ce trovi ppiú la piccionara.
4
Pe ccocciòli
5
viè ffora una caggnara
de lanternini-a-ojjo de le stalle!
6
Ar zoffione
7
je schiaffeno a le spalle
un zoffiettone da soffià la fiara!
8
Vò’ annà in pratea? te danno un bullettino
che ppe ttrovatte er posto hai d’annà a scola
e imparatte a l’ammente l’abbichino!
9
Llí ppoi come un pupetto in vesticciola,
sbarrato fra ddu’ tavole e un cusscino,
fai la cacca e la pisscia a la ssediola!
10
Roma, 20 gennaio 1833
1
Vedi il Sonetto...
2
In questo teatro, rinnuovato con gran dispendio dai duchi Torlonia, sono state poste delle palle
indorate sui parapetti tra l’uno e l’altro di tutti i palchetti. Avvertasi qui che il vocabolo palle è sinonimo di genitalia:
diciamolo in latino per verecondia.
3
Il Teatro Capranica.
4
Nel luogo dell’ultimo ordine, sempre il più basso e
indecoroso, in questo teatro rifabbricato si è praticata una galleria, sostenuta in giro da colonne, sulle quali si appoggia
anche il lacunare del teatro.
5
Così chiamavansi alcuni tegami pieni di sevo, che formavano, sino a non molti anni
addietro, la illuminazione avanti alla scena.
6
S’intendono le due lumiere che sorgono belle accese tra l’orchestra e la
scena, succedute ai tegami di sevo, ecc., che anticamente usciva un falegname ad accendere, vestito nel suo proprio
abito alquanto sudicetto, e parlando ad alta voce coi suoi confratelli sparsi qua e pel teatro in altre faccende.
7
Suggeritore.
8
Fiamma.
9
Ad imparare a mente l’abbaco: allude ai biglietti numerati.
10
Così è chiamato il mobile che
serve di uso necessario ai bambini: e così è chiamato il luogo da sedersi in tutte le panche di Tordinona, e in alcune
privilegiate di Valle.
794. Li posti
Sonetti 3
Sora Mmaschera
1
mia, sete un cojjone.
Me parerebbe, sangue d’un giudio,
che nn’abbi da sapé ddomminiddio
un po’ ppiú dde chi ha ffatto Tordinone.
2
E ssi ssò
3
ggrasso, sce
4
n’ho ccorpa
5
io?
Potevio
6
fà ppiú granne le porzione.
Cuann’io spenno,
7
pe ccristo, er mi’ testone,
8
vojjo un posto adattato ar culo mio.
E in che ddanno
9
ste tavole, ste fotte
10
de tramezzi, che un omo sce s’attappa
come fossi er turaccio d’una bbotte?
Cqua er culo mio nun c’entra e nnun ce scappa;
e ppe ddà ggusto a vvoi, sore marmotte,
io nun me tajjo una fetta de chiappa.
Roma, 20 gennaio 1833
1
Colui che presiede all’ordine della platea.
2
Vedi il Sonetto...
3
Se sono.
4
Ce.
5
Colpa.
6
Potevate.
7
Spendo.
8
Moneta di
3 paoli, prezzo del biglietto dell’opera.
9
Cosa concludono?, etc.
10
Queste sciocchezze.
795. Li posti
Li culi
1
un pell’antro
2
e vvanno a ccoppia
un grasso e un magro, come li capponi.
Ne viè uno, e li bbusci je sò bboni:
ne viè un antro, e cce vò ppietanza doppia.
Vedi ch’idea de fà sta filastroppia
3
de scatolette de li mi’ cojjoni,
ch’er zecco sce se sguazza li carzoni,
e ’r grasso o nnun ce cape, o cce se stroppia.
Inzomma, sor cazzaccio, io nun v’adulo:
un de le dua: o li mi’ sei lustrini,
4
o un posto a cchiappe mie. Asino, o mmulo.
Che cc’è da ride cqua, ssori paini?
5
È mmejjo a ddà li cuadrini p’er culo,
ch’er culo, com’e vvoi, pe li cuadrini.
Roma, 20 gennaio 1833
1
Sono.
2
Altro.
3
Filastroccola.
4
Sei grossi, componenti i tre paoli, prezzo del biglietto d’ingresso all’opera.
5
Zerbinotti.
796. Er ricurzo ar presidente
1
Sor Presidente mio, per avé ddetto
ste poche cose che ssò ttutte vere,
cuela
2
nidata llà dde panze-nere
3
me minacciorno inzino er cavalletto.
Se fesce avanti un ber
4
cherubbignere,
5
me messe, bbontà ssua, le man’in petto,
e ssenza manco arrenneme
6
er bijjetto
me cacciò ffora come un cavajjere.
Perché, ddich’io, nun fanno come in chiesa,
che cchi nun vò li bbanchi sc’è la ssedia?
Pe pparte mia
7
me la sarebbe
8
presa.
Ma cquesta intanto come s’arimedia?
Ho da bbuttà l’incommido e la spesa,
e llassajje
9
er testone
10
e la commedia?
Roma, 20 gennaio 1833
1
Presidente regionario di Polizia.
2
Quella.
3
Gente abbietta, così detta dall’andare colle pance annerite dal sole che le
percuote nelle loro nudità. Qui è detto in via di dispregio.
4
Bel.
5
Carabiniere: soldato di polizia.
6
Rendermi.
7
In
quanto a me.
8
Sarei.
9
Lasciar loro.
10
Vedi la nota… del Sonetto…
797. Le figurante
Che angeli che ssò!
1
cche pputtanelle!
oh bbenemío che bbrodo de pollanche!
Je metterebbe
2
addosso un par de bbranche
da nun fajje restà mmanco la pelle.
A vvedelle arimòvese,
3
a vvedelle
co cquelli belli trilli de le scianche
4
tremajje
5
in petto du’ zinnette bbianche
come ggiuncate drento a le froscelle!
6
Che mmodo de guardà! cche occhiate ladre!
Mó vvedo c’ha rraggione er prelatino
che ha mmannato a ffà fotte
7
er Zanto-Padre:
e bbuttanno
8
la scorza
9
e ’r collarino,
d’accordo co la fijja e cco la madre
cià
10
ffatto er madrimonio gran-destino.
11
Roma, 20 gennaio 1833
1
Sono.
2
Gli metterei: metterei loro.
3
Rimoversi, agitarsi della persona.
4
Gambe.
5
Tremargli: tremar loro.
6
Fiscelle.
7
Ha abbandonato.
8
Buttando.
9
La divisa.
10
Ci ha.
11
Clandestino.
798. La ssedia de Tordinone
1
Ierassera cuer
2
bon pezzo de fica
de la reggina, doppo avé ccantata
una canzona tutta smerlettata,
3
se bbuttò a ssede
4
pe la gran fatica.
Ma nnun te crede che cascassi
5
mica
sur una ssedia nova, cammerata:
de cazzi! era la ssedia inargentata
c’arippresenta una ssediona antica.
Era l’istessa ssedia in carne e in ossa,
c’avemo visto da tant’anni addietro
cor cusscino obbrigato
6
in zeta
7
rossa.
Bbuggiaralla, per dio, si
8
è antica assai!
Me pare er Catredone de San Pietro,
che nnun ze roppe
9
e nnun ze tarla mai!
Roma, 20 gennaio 1833
1
Vedi la nota... del Sonetto...
2
Quel.
3
Adornata, fiorita (secondo il gergo dei musici).
4
Sedere.
5
Cascasse.
6
Questo
vocabolo, molto adoperato in Roma nel senso qui espresso, è tolto dal gergo musicale: come «recitativo obligato,
obligazione di strumenti, etc.». Vale: «annesso per legge, per apposito disegno, etc.».
7
Seta.
8
Se.
9
Si rompe.
799. La Stramutazzione
1
La sai la gran notizzia? Anna Bbalena
2
cuella donna co ttanta de ficona,
3
che ccantava in commedia a Ttordinona,
4
è ddiventata omo, e sse lo smena.
Credi che tte cojjoni, Madalena?
In ste cose che cqui nnun ze cojjona.
È ppropio, diventata Omo in perzona
cor ciscio
5
che jje fa lla cannofiena.
6
Ma ccome fu? Bbisoggna dí, Ssan Marco,
7
ch’er nome istesso de cuann’era donna
8
l’aiutassi a ppassà ssott’a cquell’arco.
9
Cuest’arco pò ffà ppuro un Manfrodito:
10
e ddev’èsse
11
accusí
12
cche la Madonna
diventassi
13
da sé mmojje e mmarito.
Roma, 21 gennaio 1833
1
La transmutazione.
2
Sull’Anna Bolena, detta Anna balena, vedi il Sonetto...
3
La Signora che rappresentava la parte
di quella famosa regina, era assai grande e membruta. La Galzerani.
4
Vedi la nota... del Sonetto...
5
Vedi il Sonetto...
6
Il giuoco dell’altalena.
7
San Marco vale «per forza».
8
Cioè balena: vedi qui la nota 2.
9
L’arco baleno: l’iride. Si fa
credere ai fanciulli, e qualche donna lo crede anch’essa, che, passando sotto l’arcobaleno, si muti sesso.
10
Ermafrodita: androgine.
11
Essere.
12
Così.
13
Diventasse.
800. La prima canterina
La fijja a Ttordinone
1
de cuer vecchio
che nnun je vò ffà mmette er cappelletto,
2
pe vvia de scert’affari d’un vertecchio
3
che ttrovorno co llei drent’in nel letto:
sí, Romea, la regazza de Ggiujjetto,
che sse
4
fà ccojjonà dda un mozzorecchio,
e ccanta in zepportura un minuetto
accimata
5
ppiú mmejjo c’a lo specchio;
jerassera era tanta arifreddata,
che ffesce annà la musica a ccazzotti,
e nnun pareva mai risusscitata.
Se pò ccantà ttossenno,
6
eh ggiuvenotti?
Meno male saría fà una cantata
co le moroide o li ggeloni rotti.
Roma, 25 gennaio 1833
1
Tor-di-Nona: teatro dell’opera.
2
Allude ai Capuleti e Montecchi, tragedia lirica del Romani, messa in musica dal
Bellini.
3
Vedi la nota precedente. Il vertecchio è l’anello che si aggiunge al fuso.
4
Se.
5
Azzimata.
6
Tossendo.
801. L’affare der fritto
1
Ho dda ricurre?
2
a cchi? ffámme er zervizzio,
dimme
3
a cchi, si cqua è ttutta una corona!
4
Ho dda ricurre! Cuanto sei cojjona!
Me voressi
5
mannamme
6
in priscipizzio?
Sto ladro è una bbravissima perzona,
un bon ciarvello,
7
un omo de ggiudizzio,
che gguarda sempre addosso a Ccaglio e Ttizzio,
8
eppoi curre ar Governo
9
e sse spassiona.
10
Governatore e spie
11
ttutt’un ballo:
sò ccome li bbatocchi e le campane:
sò la favola tua der cescio e ’r gallo.
12
Cane, sorella mia, nun maggna cane.
13
Duncue, è mmejjo a stà zzitti, e dde lassallo
fà er zu’ mestiere e gguadaggnasse
14
er pane.
Roma, 21 gennaio 1833
1
Agli offesi, per ischernirli di soprappiù, si suol dire: lo sapete l’affare der fritto? abbozzate e stateve zitto. Il verbo
abbozzare corrisponde perfettamente alla forza del francese endurer.
2
Ricorrere.
3
Dimmi.
4
Tutta una lega.
5
Vorresti.
6
Mandarmi.
7
Cervello.
8
Cajo e Tizio: nomi generici.
9
Il palazzo della Polizia e del Criminale.
10
Fa delazione.
11
Sono.
12
Un gallo di una persona si beccò un cece di un’altra. Il padrone del cece gridava al padrone del gallo volere il cece o
il gallo che per lui era la stessa cosa. Favola che si narra in Roma ai bambini per avvezzarli alle grandi idee.
13
Proverbio.
14
Guadagnarsi.
802. Er Vescovo de grinza *
A un Vescovo, e, dde ppiú, ppredicatore,
che ppecca un po’ d’ussuria
1
e un po’ de gola,
1a
je mannò jjermatina un creditore
un curzoretto a ddijje una parola.
Figurateve er Zanto Monziggnore!
Cominciò a sfoderà dde cazzarola,
2
eppoi, volenno
3
convertí er curzore,
pijjò ppe ccroscifisso una pistola.
«Che mmaggnèra
4
d’offenne
5
er tribbunale»,
er curzore strillava, «e ppe vvennetta
6
maneggià vvoi st’armacce temporale?!».
E er Vescovo: «Te pijja
7
una saetta,
l’ho ffatta diventà spirituale
perché in nome de Ddio l’ho bbenedetta».
Roma, 21 gennaio 1833
* Di grinza: valente.
1
Lussuria.
1a
Monsignor Foscolo, arcivescovo di Corfù.
2
Cominciò a giurare con parole oscene.
3
Volendo.
4
Maniera.
5
Offendere.
6
Vendetta.
7
Che ti pigli.
803. L’orazzione a la Minerba
1
Vergine bbenedetta der Rosario
2
voi che ccon zette spade
3
immezzo ar core
v’incontrassivo
4
a vvede
5
er Redentore
a mmorí mmorto in crosce in zur carvario;
moveteve a ppietà dd’un zervitore
che jj’amanca
6
inzinenta
7
er nescessario:
fateje cressce
8
un scudo de salario
pe ppagà la piggione all’esattore.
Voi lo sapete ch’io servo un prelato
che mm’ha ppromesso in oggni ammalatia
de lassamme,
9
si mmore,
10
ggiubbilato.
Duncue, o bbeata vergine Mmaria,
benedite la vojja che ha mmostrato:
riccojjetelo
11
presto; e accusí ssia.
Roma, 21 gennaio 1833
1
Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, così detta dall’antico tempio edificato da Pompeo a quella Dea della Sapienza.
Appartiene ai frati della Inquisizione. Quali successori alla Dea della Sapienza!
2
Ivi si presta gran culto alla Vergine
del Rosario.
3
Confusione dell’Addolorata colla Madonna del Rosario.
4
V’incontraste.
5
Vedere.
6
Gli manca.
7
Sino.
8
Fategli accrescere.
9
Lasciarmi.
10
Se muore.
11
Raccoglietelo.
804. San Cristofeno
Sonetti 2
In zagristia de cuella bbona ggente
de Sant’Onofrio
1
cianno
2
un riliquiaro
che ffanno vede
3
a cchi nnun è un zomaro
che nnun capischi o cche nnun credi ggnente.
Drento a sto coso c’è ariposto un dente,
ma ppotete dí ppuro
4
un dente raro,
5
che ppare mezza pietra de staggnaro,
6
e aveva a ttempi sui trentun parente.
San Cristofeno mio co sta famijja
sce fasceva una vorta colazzione,
cuanno nun era tempora o vviggijja.
Prese duncue le ggiuste proporzione,
noi potemo escramà cco mmaravijja:
accidenti che ppezzo de freggnone!
Roma, 21 gennaio 1833
1
Chiesa degli eremitani di S. Girolamo, fondata sul Gianicolo dal B. Niccolò da Forca, dove giacciono le ossa di
Tasso e del Guidi.
2
Ci hanno.
3
Vedere.
4
Pure.
5
È gentilmente un pezzo di corona di un dente molare d’elefante.
6
S’intende qui parlare di que’ grandi macigni, sui quali gli stagnari distendono i loro metalli malleabili.
805. San Cristofeno
San Cristofeno è un zanto grann’e ggrosso
un po’ ppiú dd’un facchino de Ripetta,
1
che a ppiedi scarzi
2
e cco le ggente addosso
passava un fiume come la bbarchetta.
3
Forzi
4
sto fiume sarà stato un fosso,
o una pianara,
5
oppuro una vaschetta:
ma io nun posso dilla
6
a vvoi, nun posso,
che ttal’e cquale a mmé mm’è stata detta.
Ecchete un giorno un regazzino bbionno:
7
lui lo passò, ma ddoppo du’ zampate
san Cristofeno grosso annava a ffonno.
«Per cristo! e ccosa
8
ste bbuggiarate»,
strillava er Zanto; «e cche cciò
9
addosso, er Monno?!
Fregheve, fijjo mio, come pesate!».
Roma, 21 gennaio 1833
1
Il porto di Ripetta sul Tevere, dove approdano le barche del vino e del carbone.
2
Scalzi.
3
Si allude alla barca di
traghetto, fissata a Ripetta.
4
Forse.
5
Le piene d’acqua che scorrono per le strade di Roma in tempo di pioggia.
6
Dirla.
7
La pia tradizione vuole che fosse il Redentore apparsogli sotto forme di fanciullo.
8
Sono.
9
Ci ho.
806. Lo Spaggnolo
A un Spaggnolo, che
1
ttutto ar zu’ paese
era uguale c’a Rroma, o assai ppiú bbello,
gujje, colonne, culiseo, castello,
palazzi, antichità, ffuntane e cchiese,
io vorze
2
fajje
3
un giorno un trucchio
4
bbello
pe pprovà dde levajje ste pretese:
aggnede
5
a la Ritonna,
6
e llí mme prese
7
un ber
8
paro de mmànnole
9
d’aggnello.
Le metto in d’uno stuccio, e ppoi lo chiamo.
Dico: «Vedete voi sti du’ cojjoni?
Sò li dua soli che ttieneva Adamo».
A sta bbotta lui parze un po’ imbriaco:
poi disse: «cuesti cqui ssò rreliquioni;
ma ar mi’ paese avemos er caraco».
Roma, 21 gennaio 1833
1
Il relativo che serve ai Romaneschi indeclinabile per tutti i casi.
2
Volli.
3
Fargli.
4
Scherzo da scaltro.
5
Andai.
6
Piazza
della Rotonda (il Pantheon) dove trovansi moltissimi venditori di vettavaglie.
7
Presi.
8
Bel.
9
Mandorle.
807. Un’erliquiona
1
A Ssan Francesc’a Rripa
2
una matina
me disse un frate amico mio che lloro
fra ll’antre erliquie tiengheno un tesoro:
e ssapete ch’edè? ’na mmannolina.
3
Ha ingrossato le chiappe Caterina!
4
E sto frutto che vvale a ppeso d’oro
lo corze
5
Adamo un giorno de lavoro,
e lo sarvò
6
ppe nnoi drent’in cantina.
Duncue sta mmannolina, a cchi cce vede,
è ppiú antica ch’er vino e ll’imbriaconi,
è ppiú vvecchia der Papa e dde la fede.
Ma ccome l’hanno avuta sti torzoni?
Ner diluvio de ddio bbisoggna crede
7
la tienesse Novè ttra li cojjoni.
8
Roma, 21 gennaio 1833
1
Una gran reliquia.
2
Chiesa e convento di frati zoccolanti.
3
Mandorlina.
4
Precise parole che vanno gridando i
venditori di mandorle in erba, così dette mandorline, «Caterina» dal popolaccio.
5
Colse.
6
Salvò.
7
Credere.
8
Altre
mandorle, delle quali vedi il Sonetto…
808. La crosce
Ciuccio
1
futtuto, ggiacubbino indeggno!
che ddanno ne pò usscì ssi cc’è la vosce
che pp’er Monno cor leggno de la crosce
potrebbe fasse
2
un magazzin de leggno?
Ggià ppotrebb’èsse
3
ppiú vvosce che nnosce,
4
o una miffa de vescovi d’ingeggno;
ma ppoi, vero che ssii, sor brutt’ordeggno,
5
che ddanno je pò ffa? ccosa je nòsce?
6
Le vennessi
7
puranche er rigattiere,
io nun ce so ttrovà ggnisuno stàcolo
8
che ssiino tutte cuante crosce vere.
Nun pò Iddio dar zu’ santo tabbernacolo
mortipricanne
9
le mijjara intere
pe ffacce
10
venerà ccrosce e mmiracolo?
Roma, 22 gennaio 1833
1
Asino.
2
Farsi.
3
Essere.
4
È più la voce che la noce: modo proverbiale: «è più la rinomanza che la realtà».
5
Ordeggno
(ordigno) dicesi di un cattivo soggetto.
6
Nuoce.
7
Vendesse.
8
Ostacolo.
9
Moltiplicarne.
10
Farci.
809. La mostra de l’erliquie
1
Tra ll’antre
2
erliquie che tt’ho ddette addietro
c’è ll’aggnello pascuale e la colonna:
c’è er latte stato munto a la Madonna,
ch’è ssempre fresco in un botton de vetro.
C’è ll’acqua der diluvio: c’è lla fionna
3
der re Ddàvide, e ’r gallo de san Pietro:
poi c’è er bascio de Ggiuda, e cc’è lo sscetro
der Padr’Eterno e la perucca bbionna.
4
Ce sò ddu’ parmi
5
e mmezzo de l’ecrisse
6
der Carvario, e cc’è un po’ de vita eterna
pe ffà er lèvito
7
in caso che ffinisse.
C’è er moccolo che aveva a la lenterna
8
Dio cuanno accese er zole, e ppoi je disse:
«Va’, illumina chi sserve e cchi ggoverna».
Roma, 22 gennaio 1833
1
Reliquie.
2
Altre.
3
Fionda.
4
Bionda.
5
Palmi.
6
Eclissi.
7
Lievito.
8
Lanterna.
810. Una scirimonia
Io scercavo una vorta cuarche
1
llume
pe ssapé er certo e le raggione vere
perché li preti cor loro incenziere
un coll’antro
2
s’accècheno
3
de fume.
Trovai defatti un bon pinitenziere
che mme spiegò che cquesto è un pio costume
pe ddà un zeggno d’amore e ttenerume,
4
de rispetto, de stima e dde dovere.
Si
5
dduncue un po’ de fume è un zeggno schietto
de tenerume e amore, e, ccoll’inchino,
de dovere, de stima e dde rispetto;
pijjanno
6
pe l’orecchie oggni pretino,
li farebbe
7
inchinà ttutti sur tetto
cor gruggno s’una cappa de cammino.
Roma, 22 gennaio 1833
1
Qualche.
2
Altro.
3
Si accecano.
4
Tenerezza.
5
Se.
6
Pigliando.
7
Farei.
811. Er zanto pastorale
Perché er Vescovo porta er pastorale?
Pe mmostrà cche nnoi semo pecorone
da illuminasse
1
a ffuria de bbastone
pe ccorpa
2
der peccato origginale.
Chi mm’ha ddetto accusí nnun è un stivale,
e jje do cquarche ffilo de raggione;
perché, a striggne li panni,
3
in concrusione
er torto è ssempre torto, o bbene, o mmale.
Ma pperché cquarche ppecora je scappa,
in cima ar pastorale scià
4
un rampino
che ll’arriva in ner collo e lla riacchiappa:
e pijjannola
5
doppo p’er cudino,
6
je dà ddu’ carci in culo, uno pe cchiappa,
che sse chiameno er resto der carlino.
7
Roma, 22 gennaio 1833
1
Illuminarsi.
2
Colpa.
3
«Stringere i panni», cioè «alla fin de’ conti».
4
Ci ha.
5
Pigliandola.
6
Codino.
7
La giunta alla
derrata. Il Carlino è oggi moneta convenzionale del valore di sette baiocchi e mezzo.
812. L’occhiaticcio
1
«Cuanto sta bbene er Papa! cuant’è bbello!
che appitito che ttiè nner rifettorio!
Ma cche ssalute ha sto Papa Grigorio!
Cuesto campa una bbotte e un sgummarello!».
2
Piano, piano: e cch’edè?!
3
Spara Castello?!
C’è er funtanon de San Pietro Montorio?!
4
Voréssivo
5
godé st’antro
6
mortorio?
Voréssivo vedé sto mortiscello?
Basta, Lesandro mio: bbasta, Mazzocchio:
nun ne dite de ppiú, fijji mii cari,
perché ccor tanto dí, ppoi viè lo scrocchio.
7
Ggià, sti Papi de Ddio, sti su’ vicarj
dovrebbeno portà ccontro er mal occhio
er pel der Tasso come li somari.
8
Roma, 22 gennaio 1833
1
Il mal occhio: il fascino; il mal augurio. Si sa che senza dubbio accade disgrazia a quelle persone o cose che sieno
troppo lodate!
2
Campa molto e un altro po’ più. Lo sgommarello è un utensile di ferro o di rame, con lungo manico
per attingere liquidi da un vaso che ne contenga.
3
Che è?
4
Celebre fontana sul Gianicolo, la cui acqua cadendo nel
bacino fa molto fracasso.
5
Vorreste.
6
Altro.
7
Lo scoppio di qualche disastro.
8
Ai cavalli, per lo più da carretti, ed agli
asini favoriti, si adorna il capo di pelo di tasso onde preservarli dal mal occhio de’ malevoli.
813. Er rigalo
1
Azzecca
2
che tte porto, Caterina:
ma, ttiettela
3
da conto e ccustodita.
Guarda, cuesta è una santa dissciprina
c’ho rruspato
4
stasera ar Caravita.
5
Tu addopra
6
questa cqui ssera e mmatina,
si da li fijji sei disubbidita;
e vvederai che la bbontà ddivina
te darà ggrazzia de mutajje vita.
Mena senza pietà: sfrusta, Ninetta,
senza pavura mai de fajje male,
perché la dissciprina è bbenedetta.
E li mannassi puro
7
a lo spedale,
penza c’oggni frustata è una bbolletta
d’indurgenza in articolo papale.
Roma, 22 gennaio 1833
1
Regalo.
2
Indovina.
3
Tientila.
4
In buoni termini ruspare significa «rubare».
5
Vedi il Sonetto...
6
Adopera.
7
E se pure
tu li mandassi, etc.
814. La scrupolosa
Inzomma, cazzo, se pò avé sto bbascio?
se pò ttastà un tantino er pettabbotto?
1
Ma nnun avé ppavura, che ffo adascio:
cuanto che ssento
2
che cce tienghi sotto.
Ciai
3
scrupolo? e dde cosa? E cche! tte fotto?!
Semo parenti? Sí, ppe vvia der cascio:
cuggini de cuggini: cascio cotto:
4
parenti come Ggnacchera e ssan Biascio.
Parenti, ggià! cche scrupoli der tarlo!
5
Per un bascio co mmé ttanta cusscenza,
eppoi te fai fischià
6
ddar Padre Carlo.
Ma cche ccredi? che Cristo abbi pascenza
d’abbadà ssi tte bbascio, o ssi tte parlo?
A ste cojjonerie manco sce
7
penza.
Roma, 22 gennaio 1833
1
Vedi la nota... del Sonetto…
2
Solo ch’io senta, etc.
3
Ci hai.
4
Esser «cacio cotto» significa passare fra due persone
lontanissima parentela.
5
Proverbio: «Il tarlo si mangl’ostia consacrata, ed ebbe poi scrupolo di rodere il ciborio».
6
Se sapeste qual brutto significato ha qui il «fischiare»!...
7
Ci.
815. Er caffettiere fisolofo
1
L’ommini de sto Monno sò ll’istesso
che vvaghi
2
de caffè nner mascinino:
c’uno prima, uno doppo, e un antro
3
appresso,
tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
er vago grosso er vago piccinino,
e ss’incarzeno
4
tutti in zu l’ingresso
der ferro che li sfraggne in porverino.
5
E ll’ommini accusí vviveno
6
ar Monno
misticati
7
pe mmano de la sorte
che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
e mmovennose
8
oggnuno, o ppiano, o fforte,
senza capillo
9
mai caleno a ffonno
pe ccascà nne la gola de la Morte.
Roma, 22 gennaio 1833
1
Filosofo.
2
Vaga.
3
Altro.
4
S’incalzano.
5
Polvere.
6
Vivono.
7
Mescolati.
8
Movendosi.
9
Capirlo.
816. Li Morti de Roma
Cuelli morti che ssò
1
dde mezza tacca
2
fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte,
3
vanno de ggiorno,
4
cantanno a la stracca,
verzo la bbúscia
5
che sse l’ha dda iggnotte.
6
Cuell’antri,
7
in cammio,
8
c’hanno la patacca
9
de Siggnori e dde fijji de miggnotte,
10
sò ppiú cciovili,
11
e ttiengheno la cacca
12
de fuggí er Zole, e dde viaggià dde notte.
13
Cc’è ppoi ’na terza sorte de figura,
’n’antra spesce
14
de morti, che ccammina
senza moccoli e ccassa in zepportura.
Cuesti semo noantri,
15
Crementina,
che ccottivati
16
a ppesce de frittura,
sce
17
bbutteno a la mucchia de matina.
Roma, 23 gennaio 1833
1
Sono.
2
Di mezzana condizione.
3
Perisce.
4
Il così detto «giorno» è lo spazio della giornata che corre dal mezzodì al
tramontar del sole.
5
Buca.
6
Inghiottire.
7
Altri.
8
In cambio.
9
Patente.
10
Bagasce. Credesi che i bastardi abbiano in vita
buona fortuna.
11
Civili.
12
Vanità.
13
Vanno dall’ave-maria alle due ore di notte.
14
Specie.
15
Noi altri.
16
Vedi il
Sonetto...
17
Ci.
817. Er focone
La sai la gran disgrazzia ch’è ssuccessa
a Rrocco er capo-presa,
1
eh Furtunato?
Lui stava ar naviscello ch’è arrivato,
e la mojje era ita a ssentí mmessa.
Ebbè, er pupo
2
c’aveveno lassato
ar focone cor fijjo de l’ostessa,
pe inchinasse
3
a ppijjà una callalessa,
cascò ssur foco, e cce restò ggelato.
4
Penza si
5
cquanno aritornò la madre
dev’èsse stato er giorno der giudizzio,
6
e ssi cche inferno ar riviení dder padre!
Perde
7
un fijjo accusí,
8
ccerto, è un zupprizzio;
9
ma cche faressi
10
a ste madracce ladre
ch’esponeno
11
li fijji ar priscipizzio?
Roma, 23 gennaio 1833
1
Padron di barca, o direttor di essa.
2
Bambino.
3
Inchinarsi.
4
Restar gelato: morire all’istante.
5
Se.
6
Scompiglio,
rovina di confusione e di pianto.
7
Perdere.
8
Così.
9
Supplizio.
10
Faresti.
11
Espongono.
818. Er foconcino
Er chiodarolo mio, cuer Mastr’Aggnello
dove sce crompo
1
sempre le bbollette,
tiè un foconcin de ferro che cce mette
a rroventà lli chiodi da martello.
Pare un fornello, ma nnun è un fornello:
è un coso come sò
2
le coppolette;
e ddisce lui che anticamente cuello
era un ermo
3
de cuarche
4
ammazzasette.
Chi ssa cquante scittà, cquanti nimmichi
averà ffatto diventà ttonnina
5
chi pportava cuell’ermo a ttempi antichi!
E mmó cche li sordati e ll’uffizziali
nun ammazzeno ppiú, ffa dda fuscina
6
pe bbollette e ppe cchiodi de stivali.
Roma, 23 gennaio 1833
1
Ci compero.
2
Sono.
3
Elmo.
4
Qualche.
5
Far tonnina, vale: «ridurre in minutissimi pezzi».
6
Fucina.
819. La Ggiustizzia
Tra le cuattro Vertú cch’er Monno spera
c’averíano
1
d’avé li cardinali
2
sce
3
sta ddipinta la Ggiustizzia vera
come l’hanno da fà li tribbunali.
Tiè in mano uno spadone e una stadera:
carca
4
un aggnello sotto a li stivali:
e sta bbennata
5
co una bbenna nera,
cuann’io, pe mmé, jje mettería
6
l’occhiali.
Ma ccome, cristo!, ha da trovà la strada,
cusí orba la povera Ggiustizzia,
de contà ll’once e dde calà lla spada?
Come pò vvede
7
mai si la malizzia
de li curiali je dà ggrano o bbiada,
e ss’è zzucchero-d’orzo o rregolizzia?
Roma, 23 gennaio 1833
1
Avrebbero.
2
Le virtù cardinali.
3
Ci.
4
Calca.
5
Bendata.
6
Metterei.
7
Vedere.
820. Er Conzento
1
Pe avé mmesso accusí
2
ppe mmattería
3
’na mano a Ddorotea sotto la vesta,
c’era da dàmme
4
una fujjetta
5
in testa
e mmannà ssottosopra l’ostaria?
Dímmelo tu: perch’è ffatta la festa?
pe stà un po’ da cristiani in alegria:
pe mmaggnà, bbeve, e rride in compaggnia:
e nnò ppe offenne Iddio, pe ffà la cresta.
6
S’averebbe d’annà cco li cortelli
duncue addosso ar cristiano oggni momento!
Semo fratelli, o nnun zemo fratelli?
Cuant’ar conzento, io je lo do er conzento;
ma er nun avejje
7
sfranto li granelli,
8
cuesto è, ccumpare mio, cuer che mme pento.
Roma, 23 gennaio 1833
1
Consenso. Il consenso dato in tribunale alla remissione della pena.
2
Così.
3
Bizzarria.
4
Dovevasi mo darmi?…, etc.
5
Foglietta.
6
Fare il fiero, il bizzarro.
7
Il non avergli ecc.
8
Vedi il Sonetto…
821. Tutte a mmé!
Nun zo mmannalla
1
ggiú: ppropio a sto tasto
me sento diventà llo sputo amaro.
Pussibbile ch’io sii sempre er zomaro
che in oggn’incontro ho da portà ll’immasto?
2
Sò ccreditore o nnò dder barrozzaro?
J’ho ffatto er pasto, o nnun j’ho ffatto er pasto?
3
E un Presidente ha da finí er contrasto:
«Abbi un po’ d’impicchea,
4
fijjo mio caro!».
Che tte ne pare de sta bbell’idea?
Doppo, dio santo, che nnun pijjo un cazzo,
m’amancassi
5
du’ fronne
6
d’impicchea!
E nnun è er medemissimo
7
strapazzo
de cuanno me cacciorno da pratea?
S’ho da famme impiccà, pprima l’ammazzo.
Roma, 24 gennaio 1833
1
So mandarla.
2
Il basto.
3
Fare il pasto, nella favella degli osti, significa: «dare il pranzo».
4
Epicheja.
5
Mi mancasse.
6
Due fronde, cioè: «un tantino».
7
Stessissimo.
822. Una bbella mancia
M’ha rriccontato Rosica, er curzore
che sta ddrent’ar Governo
1
a ppian-terreno,
ch’er zoppo a cquella che cce fa l’amore
j’ha ddato una propina
2
de veleno.
Freghelo, Ggesú Cristo Nazzareno
unico Siggnor nostro redentore!
che ppropine der cazzo! è mmejjo a ffieno,
a ppajja, a ttorzi: armanco
3
nun ze more.
Pènzete
4
a st’animaccia bbuggiarossa
5
si cche proscessettaccio sopraffino
li preti te j’inzubbieno
6
nell’ossa!
Penza si Mmastro Titta ombrellarino,
7
co la pírola
8
sua de cina-grossa
9
nun je farà ppassà ttutto er morbino!
Roma, 24 gennaio 1833
1
Palazzo del criminale.
2
Propinato veleno.
3
Almanco.
4
Pènsati.
5
Alterazione di un vocabolo osceno, nell’intenzione
di mitigarne la oscenità.
6
Insubbiare, da subbia.
7
Così chiamasi volgarmente in Roma il carnefice della Legge.
L’attuale esercita il mestiere d’inverniciatore di tele per ombrelle ordinarie.
8
Pillola.
9
Cinoglossa, o lingua di cane,
erba medicinale.
823. La bbellona de Trestevere
Si ha ccacca?!
1
lei? nun je se pò ddí ggnente,
nemmanco «che bbell’occhi avete in fronte».
È ssuperbiosa come un accidente,
piú cche ssi ffussi de cristal de monte.
Gran brutto fà cco llei da protennente!
2
lei nun vò ppe mmarito antro
3
che un conte.
Penza mo ttu cche ppò sperà un minente
4
che sta a ppescà cco la bbilancia a pponte.
5
Oh, ppe bbellezza poi, propio è ssciarmante;
6
e pponno appett’a llei dàsse
7
pe vvinte
guasi staria pe ddí ll’anime sante.
Ché nnun è ccome ste facce dipinte
de Siggnore de grinza,
8
che ssai cuante
porteno cul de stracci e zzinne finte.
Roma, 24 gennaio 1833
1
Vanità.
2
Pretendente.
3
Altro.
4
Minente, aferesi di eminente, è un trasteverino.
5
Sotto i ponti di Roma, eccettuato
quello di Sant’Angiolo (l’Elio), sono stabilite delle reti cosi dette a bilancia, le quali in forma di un cono rovesciato, e
attaccate alle due estremità di un palo bilicato e impernato per via di un asse nel mezzo, sono aggirate dall’acqua
corrente, ed una sorgendo quando l’altra s’immerge, pescano.
6
Stupenda.
7
Darsi.
8
Di vaglia, distinte.
824. Er calzolaro
Tajjo rancico?
1
ebbè, ccome lei vò:
ma ppe la robba cosa sc’è da dí?
Cuesta è ppelle d’Osanna.
2
Come oibbò!
Vitellino d’Osanna, ggnora sí.
Vienghi ar lume, Madama, e gguardi cqui
si cche apparecchio, si cche bber ponzò;
e ho ttant’onore de potejje
che ddrento Roma antro che io
3
sce ll’ho.
Puzza?! oh Ggesú! lla vallonea se sa
c’ha cquer tanfetto: ma in du’ ggiorni o ttre
come che
4
ssente l’aria se ne va.
Care ste scarpe?! Ah, lo so io ch’edè:
5
Madama nun ha vvojja de carzà.
Un scudo nun ze pò: ccosteno a mmé.
Roma, 24 gennaio 1833
1
Rancido: antico.
2
Losanna.
3
Altro che io: io solo.
4
Appena.
5
Cos’è.
825. Er Medico de Roma
Un Medico bbruggnano
1
ha vvisitati
scent’ommini,
2
e ll’ha mmessi a lo spedale:
mica cche ssiino st’ommini ammalati,
ma ppe impedijje che nnun stiino male.
Potríano ammascherasse
3
a ccarnovale,
e accusí, ddioneguardi, ammascherati
pijjasse
4
una frebbaccia accatarrale,
e mmorí, ddioneguardi, accatarrati.
«Bbisoggna prevedelli li malanni»,
lui disce; «e a ttemp’e lloco un lavativo
conzerva er culo e ffa ccacà ccent’anni».
Sto dottore chi è? ccome se chiama?
Er nome nu lo so, ma sso cch’è vvivo
e sta ar Palazzo de Piazza Madama.
5
Roma, 24 gennaio 1833
1
Browniano. Il sistema del dottor Brown era in onore presso noi sul principio di questo secolo.
2
Cent’uomini.
3
Mascherarsi.
4
Pigliarsi.
5
Il Palazzo della Polizia.
826. Er granturco
1
Disse er Zurtano a un tar governatore:
«Impicchete, vassallo, e tte perdono».
Er vassallo arispose ar Gran-Ziggnore:
«Dàmme un anno de tempo, e tte la sòno».
E ggià er padrone nun sta ppiú ssur trono:
già ccià
2
mmesso le chiappe er zervitore:
e attenti, mordivói, ché mmó vviè er bono,
3
strillò er giudio che sse cacava er core.
Visto er Granturco a ppassà gguai lo sscetro,
messe
4
er tesoro suo sopra un carretto,
e scappò vvia co le puttane addietro.
Er Papa ha ppianto, e jj’ha scritto un bijjetto,
discenno:
5
«Fijjo mio, curre
6
a Ssan Pietro,
dove se pò accordà Ccristo e Mmaometto».
Roma, 25 gennaio 1833
1
Corse una voce che Ibrahim Pascià, figlio di Mèhemet Alí viceré d’Egitto, fosse arrivato a Costantinopoli. La novella
(benché incredibile al tempo che fu sparsa, che fu quello della vittoria sul Gran Visir), diede luogo al seguente
Sonetto, fondato sopra alcune opinioni pubbliche.
2
Ci ha.
3
Specie di ditterio, usato ne’ momenti d’aumento di danno,
Il vocabolo «mordivoi» è una esclamazione de’ moderni ebrei romani.
4
Mise.
5
Dicendo.
6
Corri.
827. La Messa der Venardí Ssanto
C’averà ffatto Ggenova, ché er frate
tre vvorte, jjeri a mmessa, co cquer laggno
disse: «Affettamus Genova»;
1
e ’r compaggno
tre antre vorte repricò: «Llevate»?
Ma sse ponno sentí ppiú bbuggiarate?
Cristo, si vvedo cuesta, io me li sfraggno!
E cche ssò
2
le scittà, ttele de raggno,
paste frolle, miggnè,
3
ffichi, patate?!
Affettà er monno a uso de salame!
Levallo, sant’iddio, come ar cammino
pò llevasse
4
er cuperchio da un tigame!
Raschià Ggenova mó ccor temperino,
cuanno
5
ar tempo che cc’era er brigantame
nun zeppeno spianà mmanco Sonnino!
6
Roma, 25 gennaio 1833
1
Flectamus genua.
2
Sono.
3
Bignè.
4
Levarsi.
5
Quando.
6
Mezzo acconcio ad estirpare i Masnadieri di Marittima e
Campagna si era creduto e decretato la distruzione della Città di Sonnino, onde con una terra di meno crescesse un
deserto di più.
828. Er festino de ggiuveddí ggrasso
Tra ttante secchità,
1
ttra ttanti ggeli,
essenno
2
nescessario un po’ de callo,
3
ggiuveddí a ssera sc’è
4
un festin de bballo
drento a la frateria de la Resceli.
5
Dove stroppieno in Coro li Vangeli,
fra Ffottivento e ’r Padre Bbuggiarallo
accoppieranno una gallina e un gallo
tra li frati pelosi e ssenza peli.
Accoppiati un patrasso e un fratiscello,
s’uprirà a ssòno d’orgheni
6
er festino
co la lavannarina e ’r sartarello.
7
Se bballerà ttutta la notte, inzino
ch’er Generale a ssòn de campanello
rifarà ttutti maschi a mmatutino.
Roma, 25 gennaio 1833
1
Siccità.
2
Essendo.
3
Caldo.
4
C’è.
5
Il Convento di S. Maria in Ara-Coeli degli zoccolanti, sul Campidoglio, dov’era il
tempio di Giove Capitolino.
6
Vedi, per la intelligenza di questo passo, il Sonetto... verso...
7
La lavandarina e il
saltarello, due specie di balli popolari.
829. La risurrezzion de la carne
Smorzato er Zole e sfracassato er Monno,
tutte le ggente che la terra ha ffatte
anneranno
1
a la val de Ggiosaffatte,
dove sce ponno entrà cquanti che vvonno.
Tra er padre, er fijjo, er nonno e lo sbinnonno,
2
vecchi bbavosi e ccrature de latte,
ommini de ggiudizzio e tteste matte,
nun ce sarà nné pprimo né ssiconno.
Llà ttutti-cuanti iggnudi e ssenza panni
rinassceremo come Adamo e Eva,
e averemo d’avé ttrentatré anni.
3
Chi mmorze
4
de ppiú età jje se ne leva:
li piccinini se sò ffatti granni:
duncue oggnuno averà cquello c’aveva.
Roma, 25 gennaio 1833
1
Anderanno: andranno.
2
Bisnonno.
3
È popolar credenza che tutti al giudizio finale compariranno della età in cui morì
Nostro Signore.
4
Morì.
830. L’arte *
Gran bell’arte è er pittore, lo scoparo,
er giudisce, er norcino,
1
er rigattiere,
er beccamorto, er medico, er cucchiere,
lo stroligo, er poveta e ’r braghieraro.
Piú mmejj’arte è er cerusico, er barbiere,
er coco, er votacàntera, er notaro,
er ciarlatano, er Curiale, er chiavaro,
e ll’oste, e lo spezziale e ’r funtaniere.
Stupenna è ll’arte de chi ssona e ccanta,
cuella der banneraro
2
e dder zartore,
e ttant’antre da dí ffino a mmillanta.
Ma la prima de tutte è er muratore,
ché cquanno s’arifà
3
la Porta-Santa
capo-mastro chi è? Nostro Siggnore.
4
Roma, 26 gennaio 1833
* Le arti.
1
Que’ di Norcia vanno in giro uccidendo e conciando maiali.
2
Banderaio.
3
Si rifà.
4
Il Papa dà il primo colpo
di martello al distruggere, e getta la prima pietra nel riedificare.
831. Le catacomme
1
Indov’antro
2
c’a Rroma se pò vvede
3
le cacatomme de San Zebbastiano,
dove una vorta er popolo cristiano
fesce a nnisconnarello
4
pe la fede?
In cuer zagro Arberinto,
5
chi cce crede,
trova d’erliquie
6
un cimiterio sano:
e cqui abbusca uno stinco, e llí una mano,
llà un osso-sagro, e una ganassa, e un piede.
Dov’è er lume perpetuo che sse smorza
ar zentí ll’aria,
7
llí ss’ariccapezza
corpi-santi da venne
8
e empí lla bborza.
Si un schertro
9
nun è ttutto, s’arippezza;
e cquanno è ffatto un martire pe fforza,
indovinela-grillo,
10
e sse bbattezza.
Roma, 26 gennaio 1833
1
Le famose catacombe romane: antiche cave di pozzolana servite di rifugio ai primitivi cristiani nelle persecuzioni de’
gentili.
2
Altro.
3
Si può vedere.
4
Il «nascondarello» è un giuoco di fanciulli.
5
Laberinto.
6
Reliquie.
7
Le lucerne di terra
cotta che trovansi ne’ sepolcri, chiamate volgarmente «lumi perpetui», credonsi dai romaneschi e da moltissimi romani
arder sempre fino al momento che sentano il contatto dell’aria: e così, al primo aprirsi di uno di que’ sepolcri,
s’immaginano di vedere il fumo della fiamma allor’allora spenta.
8
Vendere.
9
Se uno scheletro.
10
L’Indovinala-grillo è
un libretto di sorti o vaticinj molto riputato in Roma.
832. Le catacomme
Mica sò
1
bboni l’ossi sani soli
pe ffà ll’erliquie e ffrabbicà
2
li santi,
ma inzino li tritumi somijjanti
a ffarro e ttarlature de piroli.
Li nostri fratiscelli e ppretazzoli
fanno un riduno
3
de st’ossetti sfranti,
e li pisteno inzieme tutti-cuanti
all’uso d’una sarza
4
de piggnoli.
Sfravolati
5
che ssiino in farinaccio,
se canta un Zarmo,
6
e mmentre che sse canta
se passa la farina pe ssetaccio.
Con oggni dosa
7
poi de scinqu’o ssei
libbre, e mmezza fujjetta
8
d’acqua-santa,
ecco fatta la pasta d’Aggnus-dei.
9
Roma, 27 gennaio 1833
1
Sono.
2
Fabbricare.
3
Radunamento. Salza.
5
Sfracellati.
6
Salmo.
7
Dose.
8
Foglietta: misura di liquidi.
9
Questi oggetti
divoti hanno, comunemente la forma di un cuore. Generalmente però si compongono di varie sostanze unite a terra
che credesi saturata di sangue de’ martiri.
833. E poi?
Chi ffiotta, chi pperzeguita, chi intiggna,
1
chi mmaneggia la crosce e cchi er cortello,
chi pperde la pascenza e cchi er ciarvello,
chi rresta iggnudo e cchi ingrassa la viggna.
2
Tratanto er Zanto-padre, poverello,
è la stanga-de-mezzo,
3
e ssi la sbiggna
d’appricà er piommacciolo
4
a sta sanguiggna,
dite puro
5
c’ha in culo farfarello.
6
Coll’aco, co le forbisce e la stoppa,
oggi er Papa è un’ebbrea
7
che ccusce e ttajja,
e cqua mmette una pezza e llà una toppa.
Ma ccome acconcerà ttanta canajja?
Vattel’a ppesca!
8
La caggnara è ttroppa.
Quint’azzecca:
8
indovina indovinajja.
Roma, 27 gennaio 1833
1
Intignare: ostinarsi.
2
«Essere una vigna» vale: «aver buon tempo». «Ingrassar la vigna», cioè «utilizzare».
3
«Stanga di
mezzo» dicesi di chi trovasi a ricevere l’urto di due contendenti.
4
Piumacciuolo.
5
Pure.
6
Lo aiuta il diavolo.
7
Le
donne ebree racconciano i vecchi panni.
8
Vàttelo a pescare: quinto azzecca: indovina indovinaglia: tre modi di
esprimersi allorché trattasi di un dubbio avvenire.
834. Le dimanne
1
indiggestive
Pe strappacce
2
le penne co la pelle
ciaspetteno
3
cor vischio a ttutte l’ora:
sce
4
fanno la cappiola scurritora
5
a uso de rondoni e rrondinelle.
Tutte le smorfie e le parole bbelle,
e cquella bbocca a rriso ch’innamora,
tutte appostatamente
6
escheno fora
pe ttiracce
7
dar corpo le bbudelle.
Tienete er fiato a vvoi cuanno li neri
ve spasseggeno
8
intorno a ttorme a ttorme:
pijjate in mano lo spassapenzieri.
Voi lo sapete, fijji, che cconforme
cuer ch’io ve dico
9
li fatti veri:
epperò ccarta canta e vvillan dorme.
10
Roma, 27 gennaio 1833
1
Dimande.
2
Strapparci.
3
Ci aspettano.
4
Ce.
5
Cappio corsoio all’estremità di un lungo filo di seta cruda, raccomandato
in cima a una alta canna, con che i fanciulli dànno la caccia alle rondini.
6
Apposta.
7
Tirarci.
8
Passeggiano.
9
Sono.
10
Proverbio.
835. Un tant’a ttesta
Giacubbinacci che ccovate in petto
l’arbaggía
1
de sfreggnà
2
la Santa Cchiesa
senza volé
3
cche llei facci un fischietto
pe cchiamà Ggesucristo in zu’ difesa,
l’editto de Pa
4
ll’avete letto?
la scummunica sua l’avet’intesa?
Conzolateve duncue coll’ajjetto
5
c’avete fatto una gran bell’impresa!
La Cchiesa fischia, Cristo nun è ssordo,
li Romani sò ttutti papalini,
e la Santità Ssua nun fa er balordo.
E ppe ffotte
6
voantri
7
ggiacubbini,
già er Zanto-padre e nnoi semo d’accordo:
lui dà indurgenze e nnoi dàmo quadrini.
Roma, 28 gennaio 1833
1
Albagia.
2
Violare, distruggere, ecc.
3
Volere.
4
Alludesi alla cedola di scomunica fulminata nel 1832 contro i ribelli
rifugiati in Ancona.
5
Consolarsi coll’aglietto: vale: «prender consolazione di piccole speranze contro grave ruina».
6
Rovinare.
7
Voi altri.
836. Li colori
Tutti li bbullettoni e bbullettini
che se vedeno a Rroma appiccicalli
o ddall’ommini veri, o bburattini,
pe ccommedie, pe mmusiche e ppe bballi,
chi tte li caccia fora scennerini,
chi li fa rrossi, e cchi li tiggne ggialli:
chi ll’arza pavonazzi, e cchi tturchini,
pe ddà mmejjo sull’occhi e ccojjonalli.
Per oggni pantomina
1
sc’è un colore
che ss’usa d’appri
2
ssu la pescetta
3
de chi tte disce che vvò ffasse
4
onore.
E ll’editti accusí dde la farzetta
che rrescita sto Papa de bbon core,
de che ccolore sò? dde verd’aspetta.
5
Roma, 29 gennaio 1833
1
Pantomima.
2
Applicare.
3
Pecetta: affisso.
4
Farsi.
5
Il colore delle cose che non si avranno mai dicesi essere il verde
aspetta, come gradazione di quel colore emblematico della speranza.
837. L’inferno
Cristiani indilettissimi, l’inferno
è una locanna senza letto e ccoco,
ch’er bon Iddio la frabbi abbeterno
perché sse popolassi appoco appoco.
Cuanti Santi, in inzoggno,
1
la vederno,
2
dicheno che ssibbè
3
ppiena de foco,
nun c’è un’ombra de lusce in gnisun loco,
e cce se trema ppiú cche ffussi inverno.
Sur porton de sta casa de li guai
sce sta a llettre da cuppola un avviso,
che ffora disce sempre, e ddrento mai.
Ggesú mmio bbattezzato e ccirconciso,
arberghesce
4
li turchi e bbadanai,
5
e a nnoi dàcce
6
l’alloggio in paradiso.
Roma, 29 gennaio 1833
1
Sogno.
2
Videro.
3
Sebbene.
4
Albergaci.
5
Gli ebrei.
6
Dacci.
838. Er giuvveddí santo
Disce Don Pio che cquanti forestieri
pronottaveno
1
un giorno a la locanna,
avanti d’annà a ccena e a ffà la nanna
se fàvano
2
sciacquà lli piedi neri.
E st’usanza vor
3
dí cquella lavanna
che ssu a Ppalazzo fesce er Papa jjeri,
pe ddà un esempio all’osti e llocannieri
de pulí
4
ll’aventori ch’Iddio manna.
Un antro
5
esempio che ddà er Papa all’oste
è cche ddoppo er maggnà nnun z’avería
6
mai e ppoi mai da fà ppagà le poste.
7
Sibbè
8
cc’oggi San Pietro
9
è un’osteria,
dove un’annata sana de bbatoste
10
fa scontà un pranzo che sse porti via.
Roma, 30 gennaio 1833
1
Pernottavano.
2
Facevano.
3
Vuol.
4
Pulire, amfibologia di nettare e spogliare.
5
Altro.
6
Si avrebbe.
7
Avventori fissi.
8
Sebbene.
9
Il Vaticano.
10
Qui batoste sta per «colpi», angherie, etc.
839. Er letteroso
1
Io poi nun faccio er zuperbioso,
2
e cquanno
m’incontro ar Monno a nnun zapé
3
lle cose,
ricurro da le ggente talentose,
e ssu ddu’ piedi, aló, jje le dimanno.
Diteme un po’, ccom’imparai l’antr’anno
a ffà aggnusdei co le su’ vere dose?
4
Dite, da chi imparai cuer c’arispose
San Pietro a Ddio?
5
Da quelli che lo sanno.
Ccusí la Scala-Santa. Don Libborio
me la spiegò cquann’io je la chiedei
drent’ar cortile de Monte-scitorio.
La Scala-Santa, don Libborio Mei
6
disce ch’era un Pretorio, e cch’er Pretorio
era er Monte-scitorio
7
de l’ebbrei.
Roma, 30 gennaio 1833
1
Letterato.
2
Superbo.
3
Sapere.
4
Vedi il Sonetto...
5
Vedi il Sonetto...
6
Vedi il Sonetto…
7
Vedi il Sonetto…
840. Er lavore
1
Nun vojjo lavorà: ccosa ve dole?
2
Pe sta vita io nun me sce sento nato.
Nun vojjo lavorà: mme sò spiegato,
o bbisoggna spregacce
3
antre
4
parole?
A ddiggiuno sò ffiacco de stajole;
5
e ddoppo c’ho bbevuto e cc’ho mmaggnato,
tutto er mi’ gusto è dde stà llí sdrajato
su cquer murello che cce bbatte er Zole.
Cuanno che ffussi dorce la fatica,
la voríano
6
pe ssé ttanti pretoni
che jje puncica
7
peggio de l’ortica.
Va’
8
in paradiso si cce sò
9
mminchioni!
Le sante sce se
10
gratteno la fica,
e li santi l’uscello e li cojjoni.
Roma, 30 gennaio 1833
1
Il lavoro.
2
Cosa volete?
3
Spregarci.
4
Altre.
5
Gambe.
6
Vorrebbero.
7
Punge.
8
Guarda.
9
Se ci sono.
10
Ci si.
841. Er marito polagroso
1
Eh cche mme preme a mmé ssi sse
2
conzagra
oggi le crosce illuminate in Chiesa!
Manco la santa Messa oggi l’ho intesa
pe sta porca futtuta de polagra.
Eppoi che ffunzion’è? ’na festa magra
de du’ cudrini,
3
pe ddí assai, de spesa;
oggni pilastro una cannela accesa;
’na messaccia
4
cantata: ecco la Sagra!
Oh, mmojje mia, nun me scoccià le palle.
Ste funzione io le vener’e arispetto,
ma cquanno è una scert’ora, bbuggiaralle.
Io so che cciò
5
la crosce de sto letto,
porto la crosce tua sopra le spalle,
e ggnisuno m’accenne un moccoletto.
Roma, 31 gennaio 1833
1
Podagroso.
2
Se si.
3
Quattrini: centesimi di lira romana (il papetto), cinque delle quali formano lo scudo.
4
Dicesi così
talvolta in semplice senso di Messa non solenne, senza pompa.
5
Ci ho: ho.
842. Er giucator de pallone
Ar Bervedé cc’è ppoco.
1
Er Papa vola
che ppe vvolate
2
manco Ggentiloni!
3
Ma in partita è ttareffe,
4
e ffa cciriola,
5
ché li falli sò assai piú de li bboni.
6
Che sserve che nnoi poveri cojjoni
je seggnamo le cacce?
7
A cquella scòla
de mannà ssempre a sguincio
8
li palloni,
si ll’impatti è pper dio grasso che ccola.
9
Ggiuchi a ppassa-e-rripassa, o ccor cordino,
10
dà llui solo l’inviti e le risposte,
11
e vvò stà ssempre lui sur trappolino.
12
Cuann’è all’onore
13
poi, fa ccerte poste
14
scerte finte,
15
c’a èss’io Tuzzoloncino
16
je darebbe er bracciale in de le coste.
Ne le partite toste
17
o nne le mossce
18
s’ingeggna, er bon prete
cor vadi e vvienghi, e cquale la volete.
19
Tira sempre a la rete
20
cuann’è in battuta, e nnun fa mmai un arzo
o rribbatti de primo o dde risbarzo.
21
Ar chiamà
22
cchiama farzo;
e ssi
23
er quinisci
24
penne
25
da la tua,
procura de tornà ssempre a le dua.
26
Ha una regola sua
oggni tanto de dà ffora una messa
27
pe ffàtte ariddoppià la tu’ scommessa;
e cco sta jjoja
28
fessa,
qualunque cosa er cacciarolo
29
canti,
sce gonfia li palloni
30
a ttutti-cuanti.
Roma, 31 gennaio 1833
1
Manca poco al vedersi gli effetti. Notisi che quel modo proverbiale è tolto dal Belvedere, luogo sotto il Museo
Vaticano, dove sino agli ultimi anni si giuocava al pallone.
2
Volare, volate, cioè: «iattare, iattanza, sfoggio di vane
promesse». Al giuoco di pallone si dice volare e far volare il mandare di prima battuta i palloni oltre i termini estremi
della palestra.
3
Rinomato giuocator di battuta, o battitore.
4
Fallace.
5
Far ciriola: intendersi segretamente cogli
avversari, in fraude di chi è con lui o tiene dalla sua.
6
Dicesi fallo o buono, secondo che il pallone trapassi o no le
linee che limitano o partono l’arena.
7
Le cacce sono quei punti sui quali un giuocatore di rimando ha arrestato in
qualunque modo un pallone si che non trascorra più lungi, ciò che egli si sforza di eseguire il meno discosto che può
dalla battuta di dove poi egli stesso è obbligato ad oltrepassare quel segno, onde vincere il giuoco. Segnar le cacce,
significa: «notare gli altrui mancamenti».
8
A sghembo.
9
È, cioè, il maggior dei successi.
10
Il giuoco a passa-e-ripassa,
è quello in cui si conviene di non dovere che oltrepassare la linea media della palestra. Quello poi del cordino consiste
nel superare una corda attaccata in alto e attraversante la rena in sito e direzione parallela alla detta linea media.
11
L’invito è una specie di scommessa fra giuocatori, che vinta o perduta da ciascuna delle parti avversarie, le raddoppia
il successo favorevole o contrario della partita. La risposta è l’accettazione o il rifiuto dell’invito, con certe regole che
qui sarebbe inopportuno e lungo il riferire.
12
Tavolato inclinato dal quale discende il battitore, onde il colpo prenda
più vigore dall’urto del corpo in discesa.
13
All’onore, così gridasi dal chiamatore o cacciarolo, al principiarsi
dell’ultima partita.
14
Poste: i palloni colpiti in aria, prima cioè che abbiano toccato terra, ciò che sarebbe di balzo.
15
Finte: astuzie di giuoco, come dimostrare gran colpo e colpir piano e viceversa, ovvero di dirigere il pallone altrove
che non si era accennato, ecc. ecc.
16
Tuzzoloncino: giuocatore rinomato per la sua forza, e detto Tuzzoloncino dal
tuzzare o percuotere. Tuzzolone poi era altro giuocatore più robusto di lui.
17
Partite di dura prova.
18
Il rovescio della
nota 17.
19
Formule d’invito o accettazione, di che vedi la nota 11.
20
In fondo all’arena è un palchettone, coperto da
una rete, che difende gli spettatori. Chi percuote in quella o al disopra indeterminatamente, fa volata. Vedi la nota 2.
21
Vedi la nota 14.
22
Il chiamare è dire ad alta voce il numero dei punti de’ quali si è in guadagno.
23
Se.
24
Il quindici,
ossia una quarta parte della partita, che si divide in quindici, trenta, quaranta, e cinquanta. Ciascuno di questi quattro
numeri dicesi abusivamente un quindici.
25
Pende, inclina.
26
Quando entrambi gli avversari, fatti nella partita pari
guadagni, sono giunti egualmente a quaranta, cioè al terzo quindici (vedi la nota 4), si torna alle due, cioè si retrocede
al punto anteriore, ci ai trenta, vale a dire si torna a passare due volte per quel grado, onde la partita abbia più
probabilità di eventi e non termini di un sol colpo al cinquanta, che ne è il fine.
27
Messa: posta pecuniaria delle
scommesse.
28
Joia: cosa lunga e noiosa.
29
Il chiamatore del giuoco.
30
Gonfiare i palloni: conciar male.
843. Li dritti
1
de li Curati dritti
2
Indov’èlli
3
sti preti santarelli
che nunn metteno a ttajja li cristiani?
Indov’èlli sti parrichi
4
granelli
5
che nnun zanno spojjà lli parrocchiani?
Indov’èlli, per dio, dimme, indov’èlli,
si ssò
6
ttutti ppiú ccani de li cani?
Guarda er curato mio dell’Orfanelli
7
che cce divora a ttutti sani sani!
Senti un po’ cquesta, e nnun rimane statico.
8
Cuanno morze
9
mi’ padre d’un bubbone,
vorze fasse
10
pagà ccrosce e vviatico.
11
Io lo dico da mé cche ssò un cojjone
e dde ste forche cqui bbojja mar-pratico,
12
ma cchi ha ppagato mai la commuggnone?!
13
Roma, 1° febbraio 1833
1
Competenze.
2
Scaltri.
3
Indov’ello? Indov’elli?, quasi dicesse: «dove è ello? dove sono elli?».
4
Parrochi.
5
Minchioni,
semplici.
6
Se sono.
7
Chiesa di S. Maria in Aquiro, appartenente all’orfanotrofio di Roma. Avvertasi che questo fatto,
è d’invenzione.
8
Estatico.
9
Morì.
10
Volle farsi.
11
Nome che significa tanto «eucaristia» quanto dritto di trasporto nel
funere.
12
Boia mal pratico dicesi di chiunque non conosce bene ciò che imprende a fare.
13
Comunione.
844. La sincerezza
E ttu ddàjjel’a ddodisci!
1
E cco mmé
nun tienghi antri
2
discorzi da caccià,
ch’er zanto madrimonio e lo sposà?
Ste sciarle, sorcia mia,
3
tiettel’a tté.
Ma pperché, mma pperché! la vòi sapé
la santa iggnuda e vvera verità?
Nun vojjo mar
4
de testa: eccola cqua:
nun me piasceno corni: ecco er perché.
Oh, ll’hai saputo? Sei contenta mó?
Ma ccazzo! cuanno te le vòi sentí,
sentile: ch’io nun
5
mmica un c, o, co.
6
Sempre una cosa m’hai sentita dí:
l’amore sí, mma er madrimonio no:
pe mmojje no, mma ppe pputtana sí.
Roma, 1° febbraio 1833
1
E tu seguita sempre d’un tono.
2
Altri.
3
Espressione carezzevole, come «mia cara», «cuor mio», etc.
4
Mal.
5
Sono.
6
Coglione.
845. Nono, nun disiderà la donna d’antri
Forze
1
a Rroma sciamàncheno
2
puttane
che vvai scercanno
3
le zzaggnotte
4
in ghetto?
Vòi fotte? eh ffotte co le tu’ cristiane
senza offenne
5
accusí Ddio bbenedetto.
Cqua per oggni duzzina de Romane
un otto o un diesci te guarnissce er letto:
e cche pòi spenne?
6
Un pavolo, un papetto,
e dd’un testone poi te sciarimane.
7
Eppuro tu ssei bbattezzato, sei:
e nnun zai che cquann’uno è bbattezzato
nun pò ttoccà le donne de l’ebbrei?
E una vorta c’hai fatto sto peccato
hai tempo d’aspettà
8
lli ggiubbilei
se
9
more, fijjo mio, scummunicato.
Roma, 1° febbraio 1833
1
Forse.
2
Ci mancano.
3
Cercando.
4
Sozze bagasce.
5
Offendere.
6
Spendere.
7
Ci rimane, ne rimane.
8
Avrai
bell’aspettare etc.
9
Si.
846. Gobbriella
1
Che ggobb’è
2
ttanta ggente? Eppuro, Cola,
cuer Zeta
3
llí, cquer ciníco
4
de donna
chi ddiría
5
mai ch’è ttanta fijjarola
6
che li pisscia a bbizzeffia da la monna?
M’aricordo cuann’era primarola:
7
noi pregamio
8
Sant’Anna e la Madonna;
e llei ’n d’un Credo,
9
e cco una dojja sola,
bbuttò ggiú la cratura e la siconna.
10
Cuanno è ggràdiva
11
lei, sai che ddiventa?
un tommolo,
12
e in zur fà
13
dde gomma lastrica
14
la panza je fa ttrippa
15
e sse sbrillenta.
16
Nu la guardà ssi è rridotta a mmar-termini:
17
nun zò stati li parti, ma una castrica
18
che ll’ha ffatta arrestà
19
ppiena de vermini.
Roma, 1° febbraio 1833
1
Nome che si dà per ischerno a chi ha la gobba.
2
Espressione pure di scherno, perché quasi omofona con «che rob’è».
etc.
3
Persona storta come la lettera Z.
4
Briciolo.
5
Direbbe.
6
Feconda.
7
Primípara.
8
Pregavamo.
9
Nel tempo che può
recitarsi un Credo.
10
La seconda: placenta.
11
Gravida.
12
Tombolo.
13
In sul fare.
14
Elastica.
15
Fa sacco: si rilascia.
16
Vedi la nota antecedente.
17
A mal termine.
18
Gastrica.
19
Restare.
847. Er pesscivennolo
1
Er Zantocchio
2
che bbascia le paggnotte,
che ttutte le matine sente messa,
che le notte che cc’è la mezza-notte
3
nun maggnería cuer ch’è una callalessa,
4
c’ha scrupolo a ssentí pparlà dde fessa,
e abbruscerebbe vive le miggnotte,
5
mentre che in verb’articolo de fotte
lo schiafferebbe in culo a un’Abbatessa;
invesce de pagamme
6
er zangue mio,
pijja er pessce, e mme disce chiar’e ttonno:
«N’averai tanta grolia avant’a Ddio».
E io, che nnun ciabbozzo,
7
j’arisponno:
«Sta moneta nun curre in ner cottío.
8
La grolia in Celo, e li quadrini ar Monno».
Roma, 1° febbraio 1833
1
Il pescivendolo.
2
«Santone», «santo», in modo ironico.
3
Allorché viene un giorno di vigilia, o simili altri, ne’ quali
debbasi digiunare, si dice la sera antecedente «esservi la mezzanotte», oltre il qual termine sarebbe peccato il cenare.
4
Pel peso di una caldalessa: castagna lessa.
5
Meretrici.
6
Pagarmi.
7
Abbozzare: uniformarsi, rassegnarsi, etc.
8
Apprezzamento del pesce in pescheria, che si fa la mattina quasi colle leggi di un pubblico incanto.
848. Piazza Navona
1
Se
2
pò ffregà
3
Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto,
4
una fiera, un’allegria.
Va’ dda la Pulinara
5
a la Corzía,
6
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
7
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
8
cqua una gujja
9
che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago
10
cuanno torna istate.
Cqua ss’arza
11
er cavalletto
12
che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Roma, 1° febbraio 1833
1
Così detta, secondo alcuni, dalla voce greca άγώυ, dappoiché ivi era il circo di Alessandro Severo. Ora è la piazza
dell’erbe, ecc.
2
Si.
3
Qui significa ridere.
4
Teatro.
5
La Piazza di S. Apollinare, che confina con Piazza Navona dalla
estremità settentrionale.
6
Sentiero di passaggio che attraversa Piazza Navona nella sua metà.
7
Nome della estremità
meridionale della piazza.
8
Inalberate, cioè: «ritte».
9
Obelisco egizio appartenente già al Circo di Caracalla, ed ora qui
elevato sopra la maggior fontana nel centro della piazza per opera del Bernini.
10
In tutti i sabati e le domeniche del
mese di agosto si allaga questa piazza, occasione di concorso e di allegrezza pei Romani.
11
Si alza.
12
Specie di
supplizio, creduto necessario alle natiche del nostro volgo.
849. La staggionaccia
Zitto, Don Fabbio mio, pe ccarità!
se
1
chiameno staggione queste cqui?
State chiuse, un callaccio da crepà:
state uperte, un ventaccio da morí.
Fora, ve viè la fanga inzino cqua:
drento, è una vita che vve fa ammuffí.
Ringrazziamo la Santa Tirni
2
ch’è un Zanto grosso: e cc’antro s’ha da dí?
Ne la ggiornata cuarche ccosa fo:
ciò
3
la novena der bambin Gesú...
ricamo.., e ttiro via com’Iddio vò.
Ma ssi
4
la sera nun vienissi tu
a ffà cquer fatto e arillegramme un po’,
Don Fabbio mio, nun ne potrebbe
5
ppiú.
Roma, 1° febbraio 1833
1
Si.
2
Trinità.
3
Ci ho: ho.
4
Se.
5
Potrei.
850. Er tempo bbono
Ah,
1
nnun è ggnente: è un nuvolo che ppassa.
Eppoi nun zenti che nnun scotta er zole?
2
Eppoi, come a mmé er callo nun me dole
nun piove scerto. Ah, è una ggiornata grassa.
Mentre portavo a ccasa le bbrasciole,
3
c’era una nebbia in celo bbassa bbassa...
Lo sai, la nebbia come trova lassa:
4
nun pole
5
piove, via, propio nun pole.
Lo capimo da noi, sora ggialloffia,
6
che cquanno è ttempo rosso a la calata,
ne la matina appresso o ppiove o ssoffia.
Io nun vedde però nne la serata
le stelle fitte: duncue, ar piú, bbazzoffia
7
pol’èsse oggi, ma nnò bbrutta ggiornata.
Roma, 2 febbraio 1833
1
Questa è una interiezione, dinotante nel caso presente che la opinione di chi parla è diversa da quella di chi ascolta,
intorno al soggetto in quistione. Per pronunciarla a dovere, devesi mandare un suono dubbio, accompagnato da un
leggero crollamento di capo e da una smorfia di labbra.
2
Le stelle dense, il sole che scotta, sono pel volgo forieri di
pioggia. L’indizio delle stelle è dei due il più stupendo.
3
Bragiuole.
4
Lascia.
5
Pole, talora puole, sono termini
ricercati, che chi si picca di ben parlare adopera invece di può: e questo per analogia di vuole.
6
Donna giallastra.
7
Il
bazzoffio è una specie di quid-medium.
851. Er dua de frebbaro
1
Uh! cch’edè
2
ttanta folla a la parrocchia?
Perch’entri tutta eh! nunn j’abbasta un’ora.
E in sta cchiesa piú cciuca
3
d’una nocchia
sai cuanti n’hanno da restà de fora!
Senti, senti la porta come scrocchia!
4
Guarda si
5
ccome er gommito lavora!
Ma pperché ttanta ggente s’infinocchia
6
drento? Ah è vvero, sí, sí, è la cannelora.
7
Ecco perché er facchino e ffra Mmicchele
usscirno dar drughiere
8
co una scesta
9
jeri de moccoletti e dde cannele.
Tra ttanta divozzione e ttanta festa
tu a ste ggente però llevejje er mele
10
de la cannela, eppoi conta chi rresta.
Roma, 2 febbraio 1833
1
Febbraio.
2
Che è.
3
Piccola.
4
Scricchiola.
5
Se.
6
Si caccia.
7
La Candelaia: festa della Purificazione della Vergine.
8
Droghiere.
9
Cesta.
10
Levagli (leva loro) il dolce, l’utile, etc.
852. La Madonna tanta miracolosa
Oggi, a fforza de gómmiti e de spinte,
ho ppotuto accostamme ar butteghino
1
de la Madonna de Sant’Agustino,
2
cuella ch’Iddio je le dà ttutte vinte.
Tra ddu’ spajjère
3
de grazzie
4
dipinte
se ne sta a ssede
5
co Ggesú bbambino,
co li su’ bbravi orloggi ar borzellino,
e ccatene, e sscioccajje,
6
e anelli e ccinte.
De bbrillanti e dde perle, eh ccià
7
l’apparto:
8
tiè vvezzi, tiè smanijji, e ttiè ccollana:
e dde diademi sce
9
n’ha er terzo e ’r quarto.
Inzomma, accusí rricca e accusí cciana,
10
cuella povera Vergine der Parto
11
nun è ppiú una Madonna: è una puttana.
Roma, 2 febbraio 1833
1
Far botteghino: far traffico.
2
Chiesa degli Agostiniani.
3
Spalliere.
4
Tavolette votive.
5
Sedere.
6
Lunghi e fragorosi
pendenti d’oro da orecchie. Pare che venga dal francese chocailles.
7
Ci ha: ne ha.
8
Appalto.
9
Ce.
10
Vana per
ricercatezza di vesti e di fregi.
11
Nome di quella Madonna, che è una statua.
853. Er voto
Senti st’antra.
1
A Ssan Pietro e Mmarcellino
sce
2
stanno scerte Moniche bbefane,
c’aveveno pe vvoto er contentino
de maggnà ttutto-cuanto co le mane.
Vedi si una forchetta e un cucchiarino,
si un cortelluccio pe ttajjacce
3
er pane,
abbi da offenne Iddio! N’antro tantino
leccaveno cor muso com’er cane!
Pio Ottavo però, bbona-momoria,
4
che vvedde una matina cuer porcaro,
je disse: «Madre, e cche vvò ddí sta storia?
Sete state avvezzate ar Monnezzaro?!
5
Che vvoto! un cazzo. A ddio pò ddàsse groria
6
puro
7
co la forchetta e ccor cucchiaro».
Roma, 2 febbraio 1833
1
Altra.
2
Ci.
3
Tagliarci.
4
In una visita che loro fece all’improvviso.
5
Immondezzaio.
6
Può darsi gloria.
7
Pure.
854. Er Re novo
Se pò ssapé cche ddiavolo se freghi
1
la ggente? Io sò
2
ppe mmé bbell’e ccontrito
che sto povero Monno s’è ammattito,
e cce vò un Aguzzino che lo leghi.
Guarda, per cristo, a cchi ddanno l’impieghi,
e ssi
3
sto caso s’è mmai ppiú ssentito!
oh Menicuccio, azzecca
4
un po’ cchi è ito
a ffà er Zoprano,
5
e ggovernà lli Greghi.
Opri l’orecchie, Menicuccio mio:
incoronato de mortella e llàvero
6
j’hanno mannato un bavero,
7
per dio!
E li Greghi pe Rre ppijjeno un bavero,
uno scarto d’un zacco d’un giudio,
8
che sse pòzzi
9
addormí ssenza papavero.
Roma, 2 febbraio 1833
1
S’imbrogli.
2
Sono.
3
Se.
4
Indovina.
5
Sovrano.
6
Lauta.
7
Vocabolo di due sensi.
8
Gli ebrei commerciano di robe
vecchie.
9
Si possa.
855. Er Papa cappellaro
Bbenedetto sia sempre quelle scianche
1
che cce portorno er Papa Cappellaro!
Ammalappena ch’io sentii lo sparo,
2
disse: ecco a Rroma le gabbelle franche.
Ce l’ha mmannato
3
un angiolo! e cquann’anche
nun fossi
4
bbono de trovà un ripparo
a li guai nostri, è ssempre un Papa raro
piú dd’un bon oste e dde le mosche bbianche.
Suda frascico,
5
e ppiaggne, e sse dispera,
arrocchia
6
editti, e impasta, e inforna e sforna,
pe bbuttà ttutto ggiú cquello che cc’era.
Ma, oh ddio, vò rrinunzià! cché nnun je torna
7
de fà sta vita da matina a ssera,
pe ccosa poi? per avé mmazza e ccorna.
8
Roma, 2 febbraio 1833
1
Gambe.
2
Del Castello, annunziatore della elezione.
3
Mandato.
4
Fosse.
5
Fracido: suda a profluvio.
6
Arrocchiare: fare
con abbondanza e precipitazione alla meglio o alla peggio.
7
Tornare: in questo senso vale: «trovare il suo conto».
8
Danno e scorno.
856. Er call’e ’r freddo
Er callo
1
che dd’istate ciariscalla
2
Dio fa cche dda la terra se sollevi
e ar tornà dde l’inverno l’ariscevi
3
la terra, c’ha la forma d’una palla.
Ecco spiegato perché vvedi, Lalla,
4
che ll’acqua ch’essce da Funtan-de-Trevi
e oggn’acqua che cce lavi e cche cce bbevi,
d’istate è ffredda, eppoi d’inverno è ccalla.
Tu discorri co mmé, fijja, discorri;
e ssappi c’ar bicchiere inummidito
j’intraviè
5
ccom’a tté cquanno che ccorri.
Appena l’acqua fresca te l’ha empito
ar bicchiere je s’opreno
6
li porri,
7
e ssuda: seggno che nnun è ppulito.
Roma, 3 febbraio 1833
1
Caldo.
2
Ci riscalda.
3
Lo riceva.
4
Adelaide.
5
Gli accade.
6
Si aprono.
7
Pori.
857. La strega
Sta vecchiaccia cqua in faccia è er mi’ spavento:
nun fa antro
1
che incanti e inciarmature,
2
fattucchierie, stregonerie, fatture,
sortileggi e mmaggie, oggni momento.
Smove li fattijjoli
3
a le crature,
e oggni notte, sopr’acqua e ssopr’a vvento
4
er demonio la porta a Bbenevento
sotto la nosce de le gran pavure.
Llí cco le streghe straformate
5
in mostri
bballa er fannango,
6
e jje fanno l’orchestra
li diavoli vestiti da Cajjostri.
7
Tutte le sere, io e lla Maestra,
ar meno pe ssarvà lli fijji nostri,
je mettémo la scopa a la finestra.
8
Roma, 3 febbraio 1833
1
Altro.
2
Questa voce ha lo stesso significato che le sue vicine.
3
Fantiglioli (infantiglioli): convulsioni dei bambini.
4
Formula di scongiuro delle streghe al diavolo: «Sopr’acqua e sopra vento, portami alla Noce di Benevento».
5
Transformate.
6
Fandango.
7
È famoso Giuseppe Balsamo, detto il Cagliostro, impostore, e creduto stregone.
8
La scopa
alla finestra è un potente disincanto di malie.
858. Er parlà bbuffo
«Coso, hai cosato er coso ch’er Zor Coso
cosò jjerzera in quela cosa tonna!».
1
Eh a sto sciangotto
2
tuo tanto curioso
ma cchi ddiavolo vòi che tt’arisponna?
3
Io sce vorebbe vede
4
la Madonna
o cquarche Ssanto ppiú mmiracoloso,
si ppotessi sbroj sta bbaraonna
5
de sciarle che mme fai senza riposo.
Coso, cosa, cosato!... Ma, Vvincenza,
come protenni
6
poi che cchi tte sente
nun te ridi sur muso? abbi pascenza!
Come te perzuadi che la ggente
t’abbi da intenne!
7
Cuant’a mmé, in cusscenza,
nun capisco davero un accidente.
8
Roma, 3 febbraio 1833
1
Il coso, la cosa, il cosare sono belli e comodi vocaboli, che cavano assai bene d’impaccio chi ha difetto di termini: e
nel discorso romano fanno una continua ed eccellente figura.
2
Borbottio.
3
Ti risponda.
4
Ci vorrei vedere.
5
Baraonda
equivale a «caos, confusione».
6
Pretendi.
7
Intendere.
8
Nulla affatto.
859. Li coggnomi
1
ccoggnomi da mettese
2
Bbuffoni,
Tonti, Vassalli, Giacobbini, Squajja,
e Mmaggnatordi, e Pporcari, e Ccanajja,
Cicciaporci, Cacò, Cciucci e Ffregoni?!
S’hanno da chiamà ll’ommini Sbarajja,
Tartajja, Tartajjini, e Ttartajjoni,
Cacurri, Uscelli, Cacasce, Cojjoni,
Quarantotto, Ciovè, Ppazzi e Ppazzajja!
Sò nnomi da cristiani l’Asinelli?
li Cavalli sò nnomi da cristiani?
e li Lupi, e li Gatti e li Porcelli?
Sentisse
3
dí pe strada: eh sor Villani,
sor Ciavatta, sor Fuga, sor Granelli,
sor Pelagalli mio! sor Castracani!
Roma, 3 febbraio 1833
1
Sono.
2
Mettersi.
3
Sentirsi.
860. Li fijji
Disiderà li fijji, eh sora Ghita?
Sí, ppe le bbelle ggioje che vve danno!
Prima, portalli in corpo guasi un anno:
poi, partorilli a rrisico de vita:
allattalli, smerdalli: a ’ggni malanno
sentisse
1
cascà in terra stramortita:
e cquanno che ssò ggranni, oh allora è ita:
pijjeno sú er cappello, e sse ne vanno.
Cqua nnun ze pò scappà da sti du’ bbivi:
si ssò ffemmine, sgarreno oggni tanto:
si ssò mmaschi, te viengheno cattivi.
’Gniggiorno un crepacore, un guaio, un pianto!...
E vvòi disiderà li fijji vivi?!
No, nnò, Ccommare: Paradiso Santo!
Roma, 3 febbraio 1833
1
Sentirsi.
861. Er diluvio univerzale
Iddio disse a Nnovè: «Ssenti, Patriarca:
tu cco li fijji tui pijja l’accetta,
e ssur diseggno mio frabbica un’arca
tant’arta, tanto longa, e ttanto stretta.
Poi fa’ un tettino, e ccròpisce
1
la bbarca
com’e cquella der Porto de Ripetta;
2
e ccom’hai incatramato la bbarchetta,
curri p’er Monno, acchiappa bbestie, e imbarca.
Vierà allora un diluvio univerzale,
c’appett’a llui la cascata de Tivoli
parerà una pissciata d’urinale.
Cuanno poi vederai l’arco-bbaleno,
cuell’è er tempo, Novè, cche tte la sscivoli,
3
scopi la fanga, e ssemini er terreno».
Roma, 25 febbraio 1833
1
Còprici.
2
Il minor porto del Tevere a Roma. Ivi si passa da una all’altra riva sopra una barca fissa.
3
Scivolarsela:
uscir fuori destramente.
862. L’arca de Novè
Liofanti, purce,
1
vaccine, leoni,
pecore, lupi, lepri, cani, uscelli,
mosche, vorpe,
2
galline, orzi,
3
stalloni,
sorci, gatti, majali e ssomarelli.
Cascio, carnaccia, scorze de meloni,
granturco, conciatura, osse, tritelli,
trifojjo, canipuccia, bbeveroni,
e ffieno, e ccore-pisto e vvermiscelli.
Tutte ste cose, e ttant’artre nun dette,
messe
4
inzieme Novè ddrento in nell’Arca
che la mano de Ddio doppo chiudette.
5
Un anno e ppassa
6
galleggiò la bbarca!
E ffra cquer guazzabbujjo come annette?
7
Dimannàtelo, ggente, ar bon Patriarca.
Roma, 4 febbraio 1833
1
Pulci.
2
Volpi.
3
Orsi.
4
Mise.
5
Chiuse.
6
Un anno e più.
7
Andò.
863. La visita der Governo
Du’ ggiorni doppo er fatto der cortello
pe vvia de cuella Madalena affritta
1
se presentò un Abbate e ’r Bariscello
2
drent’ar mi’ catapecchio
3
de suffitta.
Disce: «Che nnome avete, bberzitello?».
4
Dico: «Una vorta me chiamavo Titta».
5
Disce: «Ma Ttitta cuale?» «Titta cuello
che sse pulissce er cul co la man dritta».
Cqua cciarlonno
6
un tantino tra dde sé;
e ddoppo, disce: «Chi cce sta cqui ggiú?
Dico: «La fia
7
der coco de Sciamblè».
8
Disce: «Ho capito; e bbon zuàr monzú».
9
fesceno
10
com’er Corvo de Novè
c’annò
11
in malora e nnun ze vedde
12
ppiú.
13
Roma, 4 febbraio 1833
1
Maddalena affritta dicesi di ogni donna mesta. Ha una faccia da Maddalena affritta.
2
Bargello.
3
Stanzettaccia.
4
Bel-zittello.
5
Giambattista.
6
Ciarlarono.
7
Figlia.
8
Chiablais.
9
Boun soir, monsieur.
10
Fecero.
11
Andò.
12
Non si vide.
13
Questi ultimi due versi, scritti in lingua illustre, sono un furto da me fatto ad un sonetto di un mio amico.
Confessiamoci.
864. Lo scànnolo
1
Bizzoche farze,
2
bbrutte corve nere,
che nnun zete
3
ppiú bbone pe mmiggnotte,
perché invidiate mó a le ggiuvenotte
cuello che vvoi fascévio
4
pe mmestiere?
Sicuro, tiengo in casa un forestiere:
sto forestiere sta cco mmé oggni notte;
stanno
5
co mmé, ppe bbontà ssua, me fotte:
e sto fotte me dà mmorto
6
piascere.
C’è dda scannolizzasse
7
pe ste cose?
Trovanno
8
un cazzo ar caso de fottérve,
le faressivo
9
voi le schizziggnose?
10
Nu lo sapete, bbrutte vecchie corve,
che cchi ccià
11
er commido e nnun ze ne serve,
nun trova confessore che l’assorve?
12
Roma, 4 febbraio 1833
1
Scandalo.
2
Falze.
3
Siete.
4
Facevate.
5
Stando.
6
Molto.
7
Scandalezzarsi.
8
Trovando.
9
Fareste.
10
Schizzinose.
11
Ci ha:
ha.
12
Assolve.
865. Li fichi dorci
1
Che mmanna
2
eh Nino? Iddio te bbenedichi:
pròsite,
3
porco mio: bbon prò tte facci.
4
Tièlli
5
pe tté: nun zerve che li spacci:
nun è rrobba da scèdese
6
all’amichi.
Senza sturbamme
7
co li tu ficacci,
trovo a ppiazza-Navona tanti fichi
da fanne
8
scorpacciate, com’e pprichi
9
ch’empieno
10
le valisce
11
a li procacci.
Lo stommico,
12
a ppenzacce,
13
me se guasta.
Grazzie: obbrigato: se li maggni lei:
14
ffichi de l’Ortaccio,
15
e ttant’abbasta.
Monghi, ciscíni, cardilatti e mmei
16
me pareríano
17
a mmé tutt’una pasta
co sti fichi ingrassati da l’ebbrei.
Roma, 5 febbraio 1833
1
Dolci.
2
La manna ebraica.
3
Prosit.
4
Faccia.
5
Tienli.
6
Cedersi.
7
Sturbarmi.
8
Farne.
9
Plichi.
10
Empiono.
11
Valigie.
12
Stomaco.
13
Pensarci.
14
Sono.
15
Il cemetero degli ebrei.
16
Il significato di queste parole bisogna dimandarlo a chi
s’intende di cose stercoratorie.
17
Parrebbono.
866. Er tempo bbono
Una ggiornata come stammatina,
senti, è un gran pezzo che nnun z’è ppiú ddata.
Ah bbene mio! te senti arifiatata:
te s’opre er core a nnun stà ppiú in cantina!
1
Tutta la vorta
2
der celo turchina:
l’aria odora che ppare imbarzimata:
3
che ddilizzia! che bbella matinata!
propio te disce: cammina-cammina.
N’avem’avute de ggiornate tetre,
ma oggi se pò ddí
4
una primavera.
Varda che ssole va’:
5
spacca le pietre.
Ammalappena c’ho ccacciato er viso
da la finestra, ho ffatto
6
stammatina:
«Hâh! cche ttempo! è un cristallo; è un paradiso».
Roma, 6 febbraio 1833
1
Stare in cantina: essere al buio.
2
Volta.
3
Imbalsamata.
4
Si può dire.
5
Guarda che sole, guarda.
6
Qui, fatto equivale a
detto.
867. Er tempo cattivo
C’aria serrata! oh ddio che ttemporale!
Guarda, guarda San Pietro cor cappello!
1
Oh cche ttempo da lupi! oh cche ffraggello!
Eh cqua ssemo ar diluvio univerzale.
Ogni goccia che vviè ppare un canale:
fa un’acqua a vvento, un piove
2
a mmulinello,
che nnun pòi tiené ssú mmanco l’ombrello,
e ssi ll’arregghi
3
uperto nun te vale.
Er celo è nnero nero com’in bocca:
e, o vvadi immezzo o accosto a le gronnare,
4
credi sempre de stà ssotto a una bbrocca.
Le pianare
5
sò ffiumi e nnò ppianare:
ggià nnun c’è ppiú una chiavica che imbocca,
e ’r fiume cressce che Rripetta
6
è un mare.
Che sperpetua!
7
Nun pare
che Iddio vojji ruprí
8
le cataratte,
e scateni li diavoli a ccommatte?
9
E cche ffai, Ggiosaffatte?
Eschi da casa mó ppe ffà ddu’ passi?!
Chi nnun l’ha sse la scerca, e ttu lla lassi!
10
Co sti nuvoli bbassi
speri che slarghi e cche tte dii ’no scanzo?!
Tu vvòi fà la tu’ fine a Pporto-d’Anzo.
11
Ma aspetta a ddoppo-pranzo:
stamo a vvede
12
un po’ ppiú: llassa che sfoghi;
ché cco sta lússcia
13
cqua, fijjo, t’affoghi.
Roma, 7 febbraio 1833
1
Il Vaticano è a ponente verso il mare. Allorché i nugoli si addensano sovr’esso, dicesi avere S. Pietro messo il
cappello, ed è ai Romani indizio di pioggia.
2
Un piovere.
3
E se lo reggi.
4
Grondaie.
5
I rivi d’acqua scorrenti per
mezzo alle vie in tempo di pioggia.
6
Il minor porto di Roma sul Tevere.
7
Rovina pertinace.
8
Voglia riaprire.
9
Combattere.
10
Lasci.
11
Porto d’Anzio.
12
Stiamo a vedere.
13
Lúscia: acqua dirotta e continua.
868. L’inverno
Sí, ppe vvoantri
1
è un’invernata bella
ma ppe mmé ’na gran porca de staggione.
Io so cche co sto freddo bbuggiarone
nun me pòzzo
2
fermà lla tremarella.
3
Fischia scerta ggiannetta
4
ch’er carbone
se strugge come fussi carbonella.
5
E annate a vvede
6
un po’ cche bbagattella
de zazzera c’ha mmesso Tiritone.
7
Sempre hai la goccia ar naso, e ’r naso rosso:
se sbatte le bbrocchette
8
che ttrabballi:
tramontane, per dia,
9
ch’entreno all’osso:
stai ar foco, t’abbrusci e nnun te scalli:
se’ iggnudo avessi
10
un guardarobba addosso...
E cchiameno l’inverno? bbuggiaralli!
Roma, 7 febbraio 1833
1
Per voi altri.
2
Posso.
3
Tremito.
4
Brezzolina acuta.
5
Carbone leggero, formato con le legna spente de’ forni.
6
Andate
a vedere.
7
Al Tritone, che getta in saliente di acqua a Piazza Barberini, si copre il capo nei grandi freddi come di una
parrucca di ghiaccio.
8
Lo sbattimento degli ossi dei ginocchi l’un contro l’altro.
9
Per dia, invece di per dio.
Transazione tra il vizio e lo scrupolo.
10
Sei ignudo, se pure avessi, ecc.
869. Er callo
1
Uff! che bbafa
2
d’inferno! che callaccia!
Io nun ho arzato un deto
3
e ggià ssò
4
stracca:
oh cche llasseme-stà!
5
ssento una fiacca,
che nnun zò bbona de move
6
le bbraccia.
Sto nnott’e ggiorno co li fumi in faccia,
sudanno
7
a ggocce peggio d’una vacca;
che inzino la camiscia me s’attacca
su la pelle. Uhm, si ddura nun ze caccia.
8
Ho ttempo a ffamme
9
vento cor ventajjo,
a bbeve
10
acqua e sguazzamme
11
a le funtane:
è ttutto peggio, perché ppoi me squajjo.
P’er maggnà, ccrederai? campo de pane.
E nnun te dico ggnente der travajjo
de ste purce,
12
ste mosche e ste zampane.
13
Roma, 7 febbraio 1833
1
Caldo.
2
Afa.
3
Alzato un dito.
4
Sono.
5
Il lassame stà (lasciami stare) è quella mala voglia che nasce da lassitudine.
6
Muovere.
7
Sudando.
8
Non si cava, cioè: «non se ne esce vittoriosi».
9
Farmi.
10
Bere.
11
Sguazzarmi.
12
Pulci.
13
Zanzare.
870. L’istate
1
’Na caliggine come in cuest’istate
nu la ricorda nemmanco mi’ nonno.
Tutt’er giorno se smania, e le nottate
beato lui chi rrequia e ppijja sonno!
L’erbe, in campaggna, pareno abbrusciate:
er fiume sta cche jje se vede er fonno:
le strade sò ffornasce spalancate;
e sse diría
2
che vvadi
3
a ffoco er Monno.
Nun trovi antro
4
che ccani mascilenti
sdrajati in ’gni portone e ’ggni cortile,
co la lingua de fora da li denti.
Nun piove ppiú dda la mità dd’aprile:
nun rispireno ppiú mmanco li venti...
Ah! Iddio sce scampi dar calor frebbile!
5
Roma, 8 febbraio 1833
1
La state.
2
E si direbbe.
3
Che vada.
4
Altro.
5
Crede il popolo, con ispavento, che giunto il calore al grado così detto
febbrile, in tutti gli uomini entri la febbre.
871. L’ammalato
Nun ha ffrebbe?
1
e cche ssò
2
cquelli gricciori
3
che sse
4
sente oggni notte a ora tarda?
Nun sta mmale? e cche ssò cquelli colori
ggiall’e nnero che ppare una cuccarda?
Pe pparte mia
5
vorebb’èsse bbusciarda,
ma abbasta de vedé, ssori dottori,
6
come straluna l’occhi e ccome guarda,
pe ppotejje
7
intimà: ffijjo, tu mmori.
Che sserve de passalla in comprimenti?
Je puzzava la vita?
8
e mmó la sconta,
e ll’anima la tira co li denti.
9
Lui
10
le cose io le scàtolo
11
da tonta
12
ha ttempo mó a ppij
13
mmedicamenti:
nu la rippezza
14
ppiú, nnu la ricconta.
15
Roma, 8 febbraio 1833
1
Febbre.
2
Sono.
3
Brividi.
4
Si.
5
In quanto a me.
6
Questo è sempre un modo ironico.
7
Poterli.
8
Ciò dicesi di coloro ai
quali, pel disordini che fanno, pare che sia grave la vita.
9
Tirar l’anima co’ denti: trattenerla quasi tra la morte e la
vita.
10
I seguenti due versi sono di una costruzione o sintassi tutta volgare.
11
Le butto giù.
12
Con semplicità da
ignorante.
13
Ha bel prendere ora.
14
Non la rappezza: non la rimedia.
15
Non la racconta: muore.
872. La lita
1
dell’orto
Er padre suo bbon’anima
2
cuell’orto
me lo vennette
3
lui mentr’era vivo
e ggià ccurreno ott’anni da che è mmorto
ch’io l’ho scritto ar Castrato
4
e llo cortivo.
5
Cuant’ecchete,
6
ch’edè?
7
scappa sto storto,
e mme scita
8
a ppagà er quantitativo.
E er giudisce, ch’è un prete, me dà ttorto,
discenno
9
ch’er contratto era allessivo.
10
Cento scudi pe un orto che vva a mmille
protenne
11
lui che ssò ccómprite
12
ladre
da facce un baffo sopra
13
e dda punille,
14
E a Ggiacobbe, che un piatto de lenticchia
je crompò ttutto l’asso
15
de su’ padre,
chi jje l’ha mmessa mai st’antra
16
cavicchia?
17
Roma, 8 febbraio 1833
1
Lite.
2
Di buona memoria.
3
Vendé.
4
Catastro, come chiamasi in Roma il Catasto.
5
Coltivo.
6
Quanto eccoti.
7
Che è?
8
Cita.
9
Dicendo.
10
Lesivo.
11
Pretende.
12
Compere.
13
Da cassarle, annullarle.
14
Punirle.
15
Asse: patrimonio.
16
Altra.
17
Eccezione.
873. Che or’è?
Che or’è? cche or’è? È una cosa che tt’accora.
Nu le sentite, sposa, le campane?
Lo sapete
1
che or’è, ssora Siggnora?
È ll’ora che le donne sò pputtane.
È ll’ora istessa de jjeri a cquest’ora,
e cche ssarà ppe mmorte sittimane.
Nun ve state a ppenà,
2
sposa: è abbonora,
perché bbutteno ancora le funtane.
È ll’ora de nun rompe
3
li cojjoni:
è ppropio l’ora de damme
4
de bbarba:
è ll’ora ch’io ’mminestro
5
cazzottoni.
È ll’ora, sposa mia, che ssi vve garba
cascheno li crepuscoli
6
a mmijjoni
da mó inzinenta a lo schioppà
6
ddell’arba.
7
Roma, 9 febbraio 1833
1
Lo sapete? Volete sapere?
2
Non state a penarvi.
3
Rompere.
4
Darmi.
5
Spaccio.
6
Due modi co’ quali si suole augurare
altrui il «crepare» e lo scoppiare.
7
Alba.
874. La carrozza d’un Cardinale
Ggià,
1
a Ccacciabbove,
2
proprio indove strozza
3
la strada sur Mascello, ecco de bbotto
sce s’infroscia
4
abbrivata
5
una carrozza
co un gentilomo in abbit’e ppancotto.
6
Llí er cucchieraccio fijjo de ’na zozza
7
senza dí a vvoi davanti,
8
e dde gran trotto,
sapenno
9
ggià cch’er poverello abbozza,
10
t’acchiappa un vecchio e tte lo mette sotto.
Le ròte je passonno s’una zampa,
ché ffu pportato a ccasa mezzo morto,
e ddisce ch’è un miracolo si
11
ccampa.
De tutto è stato fatto er zu’ rapporto:
ma cche tte credi? er cucchiere la scampa,
ché, sse sa, cchi vva a ppiede ha ssempre torto.
Roma, 9 febbraio 1833
1
Sicuramente: certo.
2
Contradetta di Roma, presso alla piazza-Colonna.
3
Si ristringe.
4
Infrociarsi: cacciarsi dentro. Le
froce sono le narici.
5
Briva: lo slancio che si prende nel corso.
6
Abito da città, d’uficio.
7
Sozza.
8
Grido de cocchieri.
9
Sapendo.
10
Abbozzare, tacere con rassegnazione: propriamente il francese endurer.
11
Se.
875. La rinunzia de su’ Eminenza
Ciavemo
1
su a Ppalazzo un Cardinale
1a
c’ha ppe ppadrone un nostro Romanello,
1b
e ffra ttutte le cariche papale
tiè er posto er piú maggnàtico e ’r piú bbello.
1c
Ma rrinunzianno
2
er posto prencipale
per annà a ffà er guardiano d’un cancello,
3
dimanno
4
a vvoi si nnun starebbe male
addirittura in ner core
5
der ciarvello.
Zitti, però, cché nnun rinunzia un cazzo;
e cquann’anche volessi
6
da gabbiano
7
dà un carcio
8
a cquella viggna
9
de Palazzo,
in zu lo scrive,
10
er Romanello nostro
je sfilería
11
la penna da la mano
sbaffannoje
12
le deta
13
co l’inchiostro.
Roma, 9 febbraio 1833
1
Ci abbiamo: abbiamo.
1a
Card. Bernetti.
1b
Paolo Massani.
1c
Segretario di Stato.
2
Rinunziando.
3
Cancelliere di S. C.
4
Dimando.
5
Nel mezzo.
6
Volesse.
7
Sciocco.
8
Calcio.
9
Cosa comoda e fruttuosa.
10
In sullo scrivere.
11
Sfilerebbe.
12
Sbaffandogli: baffo per «frego».
13
I diti.
876. Piú ppe la Marca annamo
piú mmarchisciàn trovamo
1
Hai tempo a mmutà
2
ppesi a la bbilancia,
c’ar fin de conti, a nnoi, pesa e rripesa,
sce
3
tocca sempre de parà la guancia
sott’a li schiaffi de la Santa Cchiesa.
Cualunque legge nova avemo intesa,
nun dubbità, tutt’hanno la su’ francia.
4
Duncue, o ppatí, o mmorì:
5
cquesta è la mancia
che cce venne a intimà Ssanta Terresa.
Er Papa e li su’ preti taratufoli
6
sò bbelli e bboni a mmaneggià li nerbi,
ma ppe ffà bbone Legge
7
un par de sciufoli.
8
Lo so er Papa, lo so ccome s’arrampica:
9
lui se fa fforte co sti du’ proverbi:
chi fferra inchioda, e cchi ccammina inciampica.
10
Roma, 9 febbraio 1833
1
Proverbio. Più si va e peggio si trova.
2
Hai bel fare a mutare, etc.
3
Ci.
4
Frangia: codicillo: giunta.
5
O patire, o
morire: aut pati, aut mori.
6
Tartufi.
7
Leggi: pronunzia con entrambe le e aperte.
8
Un paio di ciuffoli: nulla.
9
Arrampicarsi: qui vale «tenersi su con sofismi».
10
Inciampa.
877. Er Carnovale der trentatré
Zitti: vò mmorí er diavolo! Er Governo
sce ne manna
1
una bbona arfinamente.
2
Eppoi dite ch’er Papa è un accidente,
un Neronaccio, un Zènica,
3
un Liunferno.
4
Ce saranno le mmaschere, uguarmente
che ssott’all’antri papi se vederno...
5
Come?! ch’è stato?! oh ccorpo de l’inferno!
l’editto nun viè ppiú?! nnun c’é ppiú ggnente?!
Ah ggriscio,
6
rafacano,
7
pataccone!
8
cuello ch’è oggi nun è ppiú ddomani!
Ah Ppapa de du’ facce pasticcione!
Figurete a sta nova li Romani!
le bbiastime
9
se spregheno. Uh bbastone,
che pperdi tempo immezzo de li cani!
Roma, 10 febbraio 1833
1
Ce ne manda.
2
Finalmente.
3
Seneca.
4
Oloferne.
5
Videro.
6
Nome che si agli orzaiuoli e a loro compatriotti.
7
Persona cavillosa e di gretto animo.
8
Goffaccio.
9
Bestemmie.
878. Er Venardì Ssanto
Ne la Morte de Ddio la luna e ’r zole
co la famijja bbassa de le stelle
se messeno er coruccio;
1
e ccastaggnole
s’inteseno per aria e zzaganelle.
2
E cquesto vonno dí cquelle mazzole
e cquelli tricchettracche e rraganelle
3
che sse fanno, pe ddillo in du’ parole,
de leggno, ferro, canna, crino e ppelle.
Er chiasso che cce fâmo
4
è stato un voto
per immità cco li su’ soni veri
cuello der temporale e ’r terramoto.
E pperché Ccristo è mmorto, e oggi e jjeri
vedessivo
5
arrestà ll’artare vòto
sino de carte-grolie e ccannejjeri.
Roma, 10 febbraio 1833
1
Si misero il lutto.
2
Due fuochi artificiali che dànno leggiere detonazioni.
3
Strumenti, coi quali i fanciulli fanno un
fragore per le vie della città.
4
Facciamo.
5
Vedeste.
879. Er ciarlatano novo
C’è mmó a Rroma un dentista, un giuvenotto
nato a Vvienna in dell’isola de Como:
un medicone, un ciarlatano dotto,
che sse potría legà ddrento in un tomo.
Lui strappa denti de sopra e dde sotto
tutti eguarmente a un pavolo per omo.
1
Chi sse ne caccia poi diesci in un botto,
ha ll’undescimo auffa:
2
eh? cche bbrav’omo!
Venne
3
inortre un zegreto pe ddu’ ggiuli
4
ch’è un’acqua bbona assai pe ddà ssoccorzo
a cchi è esposto a li carci
5
de li muli.
Bbasta intíggnesce
6
un pezzo de sfilarcio
7
e strufinasse,
8
o dde succhianne
9
un zorzo
10
un momentino prima d’avé er carcio.
Roma, 10 febbraio 1833
1
Per omo: per cadauno. Dicesi sempre così, o che si parli di persone o di cose, e in qualunque genere.
2
Gratis.
3
Vende.
4
Paoli.
5
Calci.
6
Intignerci.
7
Di filaccia.
8
Strofinarsi.
9
Succhiarne.
10
Sorso.
880. Er zervitore quarelato
Oh,
1
cquanno lei me parla d’un brillante,
c’intennemo,
2
e nnun ciò
3
ggnente in contrario;
ma nnò cquanno me disce un zolitario,
credenno de parlà cco un iggnorante.
Drent’a un libbro ch’io sempre me sce svario
4
c’è: er zolitario è un vermine c’ha ttante
canne de vita, o un passero, o un birbante
che ccampa cor diggiuno e ccor breviario.
Cuer che ppoi disce la padrona mia
ch’io nell’essenza
5
sua je l’ho ttruffato,
la mi’ padrona disce una bbuscía.
In cuesto io nun ciò ccorpa
6
né ppeccato:
l’anello suo je l’ho pportato via,
perché nnun je l’avessino
7
arrubbato.
Roma, 10 febbraio 1833
1
Oh, pronunziato con prolungato suono, esprime affermazione e concordanza di opinioni.
2
Ci intendiamo.
3
Ci ho.
4
Mi ci diverto.
5
Assenza.
6
Colpa.
7
Avessero.
881. La schizziggnosa
1
Io te sto ssempre appresso, e ttu, Ggiascinta,
m’arivorti
2
le spalle, e ffai la tonta.
3
Tu ddichi ch’io sò bbirbo; e ttu ssei finta:
chi è ppiú bbirbo de noi? famo la conta.
Tu ssei la bbirba, fijja, e dde che ttinta
4
ché vvedennome
5
in callo
6
pe la monta,
e nnun volenno
7
mai dàmmela
8
vinta,
ciài
9
sempre a mmano cuarche scusa pronta.
Un giorno è lla Madonna de l’Assunta:
un antro
10
hai sonno, e ssò
11
bbuscíe de pianta:
un antro er coso mio tiè ttroppa punta.
Mó ssei zitella! Ahú,
12
«Ffiore de menta,
cuanno vierà cquela ggiornata santa
ch’er prete ve dirà: Ssete contenta?».
13
Roma, 10 febbraio 1833
1
La schizzinosa.
2
Mi rivolti.
3
Stupida.
4
E di qual peso! e di che grado!, ecc.
5
Vedendomi.
6
Caldo.
7
Volendo.
8
Darmela.
9
Ci hai: hai.
10
Altro.
11
Sono.
12
Il seguente è un ritornello. Vedi il Sonetto...
13
Siete contenta? Formula di
interrogazione che fa il sacerdote negli sponsali.
882. La Caccia de la Reggina
1
’Na Regginella annanno
2
in portantina
a ccaccia in d’una macchia ariservata,
vede una bbestia nera che ss’inchina
fra le frasche, e cce
3
resta arimpiattata.
Presto pijja la mira la Reggina,
e, ppúnfete, je’n’archibbusciata;
e ggià ssu cquella bbestia mmalandrina
tiè la siconna
4
bbotta preparata.
«Oh ddio, sagra Maestà, nnun m’accidete»,
strillò una vosce for de la verdura:
«io nun zò
5
un porco, Artezza mia, sò un prete».
La Reggina a sto strillo ebbe pavura;
e jje disse: «Aló, in gabbia;
6
e imparerete
a spaventamme in corpo la cratura».
Roma, 10 febbraio 1833
1
Questo fatto veramente accadde presso Sorrento, dove cacciava all’uso reale la moglie di Francesco I Re del Regno
delle due Sicilie.
2
Andando.
3
Ci.
4
Seconda.
5
Sono.
6
In carcere. La Regina difatti condannò il prete-porco ad un tempo
di reclusione entro un convento per averle fatto paura nel gridare mercé.
883. Er marito de la mojje
Perch’è annata mi’ mojje a le Scalette?
1
Perch’er zu’ Prelatuccolo è una piggna,
2
che ar tempo bbono promette promette,
e appena vede er nero se la sbiggna.
3
Ccusí ssuccede a cquelle poverette
che li preti je zappeno la viggna:
pe cquesti nun ze troveno lancette
che jje pòzzino
4
fà mmezza sanguiggna.
Si er zu’ amico nun era un piggna-verde,
e ddava ar vicariato un po’ de taffio,
5
nun aveva Luscìa ggnente da perde.
6
Ma ssi llui ciariviè
7
ccor zu’ pataffio
de cuelle du’ croscette de le mmerde,
me j’affiàro
8
ar gruggnaccio, e jje lo sgraffio.
Roma, 10 febbraio 1833
1
Luogo di penitenza per le traviate.
2
Avaro.
3
Se ne cava: fugge.
4
Possano.
5
Mangiata.
6
Perdere.
7
Ci riviene.
8
Mi gli
avvento.
884. Er brav’omo
S’è una gran testa!? ah nnò?:
1
pporta er cudino:
2
veste de nero come un carbonaro:
sa vventitré pparole de latino:
canta l’istorie come un istoriaro:
sòna un’arietta o ddua sur mannolino:
rifà
3
a ppennello er rajjo der zomaro:
inzomma er zu’ sciarvello è, in ner piú ffino,
piú ggrosso d’un bancon de mascellaro.
4
Annate
5
a ssentí llui, sputa sentenze
piú cche li servitori de commedia,
che nne potrieno empí mmille credenze.
Stanno
6
viscino a llui cuanno che pparla,
sempre cuarche struzzione
7
s’arimedia:
8
si nun fuss’antro
9
a llavorà dde sciarla.
10
Roma, 10 febbraio 1833
1
Espressione ch’equivale a: «che ve ne pare? lo neghereste?».
2
Codino.
3
Imita.
4
Macellaio.
5
Andate.
6
Stando.
7
Istruzione.
8
Si rimedia.
9
Se non fosse altro.
10
Ciarla.
885. Er dispetto
Io riparlà cco llui?! che? Mme ne fotto.
Nu lo sai che mm’ha ffatto cuer ruffiano?
Disse «Lello, una presa»; e io gabbiano
je presento la scatola de bbotto.
Lui stenne justa-solito
1
la mano,
ippisi-fatto
1
poi la passa sotto,
e llí ssan-bruto
1
me je dà un cazzotto
che mme la fa zzompà
2
ddu’ mía
3
lontano.
Ciavevo
4
messo allora tre bbaiocchi
de mezzo Sanvincenzo e mmezz’Olanna,
che mme volorno
5
in bocca e ddrent’all’occhi.
Tutto pe ccorpa
6
ggià de chi ccommanna,
che nun vò che sse portino li stocchi,
dove che cce voría bbainetta
7
in canna.
Roma, 11 febbraio 1833
1
Iuxta solitum: ipso facto: ex abrupto. L’esempio continuo delle tante frasi latine delle quali in Roma si fa tanto
sciupinio, seduce e addottrina anche i plebei.
2
Saltare.
3
Miglia.
4
Ci avevo.
5
Volarono.
6
Colpa.
7
Baionetta.
886. L’allèvo
1
La Mammana protenne
2
che la pupa
3
me sta ssempre accusí strana e ffurastica,
4
perché la zinna mia è ttroppa cupa,
5
e ’r mi’ calo
6
è una spesce de scolastica.
7
Cuant’ar tiro, eh cche vvòi! pare una lupa:
s’attacca ar caporello,
8
e mme lo mastica,
e jje dà nnotte e ggiorno, e mme lo ssciupa,
9
che mme scià
10
ffatto ggià ppiú dd’una crastica.
11
Oh vvadino
12
mó a ddí: chi ha mmojje ha ddojje!
Nun zo ssi cce pozz’èsse
13
paragone
si
14
ppeni piú er marito che la mojje.
Vienghino
15
cqui a ssentí er farzo-sbordone
16
ch’io canto cuanno er petto me s’accojje,
17
e ddíchino
18
chi ha ttorto e cchi ha rraggione.
Roma, 11 febbraio 1833
1
L’allievo.
2
Pretende.
3
Bambina.
4
Forastica.
5
Troppo rotonda.
6
Calata del latte.
7
Colostro: siero.
8
Capezzolo.
9
Scipa.
10
Ci ha.
11
Castrica: screpolatura.
12
Vadano.
13
Non so se ci possa essere.
14
Se.
15
Vengano.
16
Falso bordone.
17
Si
accoglie: suppura.
18
Dicano.
887. Er canto provìbbito
1
Sta in priggione, ggnorzí,
2
ppovero storto!
Io da l’abbíle
3
sce faría
4
la bbava.
Sta in priggione: e pperché? pperché ccantava
jer notte: Maramào, perché ssei morto.
5
Ebbè? ssi
6
è mmorto er Papa? e cche cc’entrava
de dì cche ccojjonassi
7
er zu’ straporto?
8
E cché! ttieneva l’inzalata all’orto
er Zanto-Padre? e cché! fforze
9
maggnava?
Teste senza merollo:
10
idee brislacche.
11
Duncue puro a ccantà cce vò er conzenzo
de sti ssciabbolonacci a ttricchettracche!
Io me sce sento crèpa
12
da la rabbia.
«Ma», ddisce, «è bben trattato»: eh, bber compenzo
d’avé la canipuccia e dde stà in gabbia.
Roma, 11 febbraio 1833
1
Proibito.
2
Gnorsì: signor sì.
3
Bile.
4
Ci farei.
5
Antica canzone volgare: Maramao, perché sei morto? / Pane e vin non
ti mancava: / L’insalata avevi all’orto: / Maramao, perché sei morto?
6
Se.
7
Schernisce.
8
Trasporto.
9
Forse.
10
Midollo.
11
Stravaganti.
12
Modo d’ingiuria, invece di dire «io mi sento crepare».
888. La Verità
La Verità è ccom’è la cacarella,
che cquanno te viè ll’impito
1
e tte scappa
hai tempo,
2
fijja, de serrà la chiappa
e stòrcete
3
e ttremà ppe rritenella.
E accusí, ssi la bbocca nun z’attappa,
la Santa Verità sbrodolarella
4
t’essce fora da sé dda le bbudella,
fussi tu ppuro un frate de la Trappa.
5
Perché ss’ha da stà zzitti, o ddí una miffa
6
oggni cuarvorta sò le cose vere?
No: a ttemp’e lloco d’aggriffà ss’aggriffa.
7
Le bbocche nostre Iddio le vò ssincere,
e ll’ommini je metteno l’abbiffa?
No: ssempre verità: ssempre er dovere.
Roma, 11 febbraio 1833
1
Impeto.
2
Hai bel fare di, etc.
3
Storcerti.
4
Sgocciolante.
5
Che ha voto di silenzio.
6
Menzogna.
7
Aggriffare è tirare una
palla da terra, in modo che, descritta la sua parabola, cada precisamente sopra un punto in cui si vuole che si arresti
senza trascorrere.
889. L’ommini
Dichi tu c’a sto Monno nun ce pozzi
1
tiené er piede in du’ staffe
2
chi cce vive,
e a uso de li nostri bbarilozzi
er Monno cacci
3
peperoni e olive.
L’ommini, dichi tu,
4
uguali a ppozzi,
o ppieni d’acque bbone o de cattive.
Oh a cquesta scerca un po’ cchi te sciabbozzi
5
perch’io nun te la pòzzo
1
sottoscrive.
Dunque, a cquer che tte va pp’er coccialone,
6
cuanti maggneno pane, tutti cuanti
o ssò ggente cattive o ggente bbone.
E vvoressi
7
legà ttutti in du’ fassci,
un fasscio vertüosi, uno bbirbanti!
E li cazzacci, ohé, ddove li lassci?
Roma, 12 febbraio 1833
1
Possa: posso.
2
Far due figure.
3
Dia fuori.
4
Sono.
5
Ci abbozzi: chi ci si uniformi.
6
Testa.
7
Vorresti.
890. Li Spedali de Roma
Cqua avemo sei Spedali, e ttutti granni
1
che cce sei medicato e stai bbenone.
Si ttrovi cuarchiduno
2
che tte scanni,
ciai
3
lo Spedàr de la Conzolazzione:
4
ciai San Giachemo,
5
senza che tt’affanni,
si gguadaggnassi mai cuarche bbubbone:
c’è Ssan Spirito
6
poi e Ssan Giuvanni
7
che ccura ammalatie d’oggni fazzione.
Hai la tiggna? te pía
8
San Galigano,
9
dove tajjeno
10
auffa
11
li capelli
mejjo de Rondinella
12
er babbilano.
13
Finarmente sce sò li Bbonfratelli:
14
ma cqui nun pò appizzacce
15
oggni cristiano.
Cuesto nun è Spedàr da poverelli.
16
Roma, 12 febbraio 1833
1
Grandi.
2
Qualcuno.
3
Ci hai.
4
Santa Maria della Consolazione, destinato principalmente alle ferite.
5
S. Giacomo-
degl’incurabili, dove si curano i sifilitici.
6
Santo Spirito in Sassia, assistito da un ordine di canonici-cavalieri.
7
S.
Giovanni ad Sancta Sanctorum: diviso in due, per gli uomini e per le donne.
8
Piglia.
9
S. Gallicano.
10
Tagliano.
11
Gratis. Vedi il Sonetto…
12
Noto parrucchiere.
13
Impotente, etc.
14
Benfratelli, o Fate-bene-fratelli, servito da un ordine
di religiosi laici, fondato da S. Giovanni Calibita. È sull’isola tiberina.
15
Introdurvisi.
16
Si paga due paoli al giorno per
esservi ammesso. Vi hanno però varii letti gratis di juspatronato d’alcune famiglie.
891. Er verde
1
Oh cche rride
2
co Cciscia-Pacchiarella!
Noi fàmio
3
ar verde siconno
4
er costume,
e o nnotte o ggiorno, o ar lume o ssenza lume
nun me poteva cojje in ciampanella.
5
Jer’ar giorno a la fine, poverella,
doppo tamante
6
prove annate in fume,
venne a ssapé cch’io ero ito a ffiume
a nnotà
7
ssolo solo a la Renella.
8
Credenno
9
in testa sua de famme perde,
10
subbito lei, pe ccòjjeme in freganti,
11
curre a la riva, e ddisce: «Oh, ffora er verde».
E llesto io j’arisponno: «Un momentino».
E accusí iggnudo me je faccio avanti
cor finocchio attaccato ar pennolino.
12
Roma, 12 febbraio 1833
1
In primavera è uso di scommettere fra due persone una moneta o altro di convenzione, da pagarsi da chi in
qualsivoglia momento si faccia sorprendere senza alcun che di erba verde indosso. Per solito questo consiste in
finocchio, e dev’essere tanto fresca quanto possa tingere del suo colore una parete bianca. Dicesi il giuoco «fare al
verde».
2
Ridere.
3
Facevamo.
4
Secondo.
5
Cogliere in fallo.
6
Tante.
7
Nuotare.
8
Una riva del fiume in Trastevere.
9
Credendo.
10
Farmi perdere.
11
In flagrante delitto.
12
Pendaglio. Cosa esso si fosse, vedi il Sonetto…
892. Li miseroschi
1
Che vvor dí sto succhià, bbrutti paíni?
2
Che sso, mmai ve rodessi
3
er terenosse!
4
Sò ffía
5
de bbona madre, e a mme le sbiosse
6
nun me le sona chi nnun cià
7
cquadrini.
Co nnoi li scarzacàni?
8
heh heh, cche ttosse!
9
che ccatarro da marva
10
e zzuccherini!
11
Sori sfrizzoli
12
agretti e ttenerini,
13
cqua nun c’è ppasso c’a le bborze grosse.
Si sse metteno
14
ar torchio li corpetti,
nun ce sprèmeno l’arma d’un baiocco
da sfamasse
15
a ppatate e a ggrasscioletti;
12
e cce viengheno
16
a ddí: ssucchia sto cocco!
Succhiatelo tra vvoi co li culetti,
contentanno
17
accusí mmànico e ffiocco.
18
Roma, 12 febbraio 1833
1
Miserabili, detti così in via di scherno.
2
Zerbini.
3
Rodesse.
4
Le ossa: voce tratta dal pater-noster che termina nella
bocca del popolo «e tterenosse inducasse in tentazione», ecc.
5
Figlia.
6
Colpi di Venere.
7
Ci ha: ha.
8
Scalzi per
miseria.
9
Pretensione, vanità, ecc.
10
Malva.
11
Vedi la nota... del Sonetto...
12
«Grascioletti»; quel che rimane della
torcitura della sugna, bollita onde estrarne il distrutto. Sono insomma i così detti sfrizzoli stretti da torchio in un
masso, che, tagliati e venduti a fette, mangiansi dal volgo con una schifosa avidità. Si nome di sfrizzolo a persona
magra della persona e asciutta di danaro.
13
«Agri e teneri», cioè guitti, miserini.
14
Se si mettono.
15
Sfamarsi.
16
Vengono.
17
Contentando.
18
Vedi i Sonetti…
893. Ar pittore
Caro sor Bonascópa,
1
a la grazzietta.
Voi che ffate li cquadri a ssotto-scianca,
2
dico, diteme un po’, cquanto sciamanca
3
a sporcà sta mi’ stanzia bbenedetta?
Me pare ch’è un ber pezzo che ss’aspetta,
e ssarebb’ora de passà la bbanca.
4
Eh cchi ssete, un pittore o un artebbianca,
5
che vve pijji, diograzzia, una saetta?
Pe cquattro sgraffi schiccherati a sguazzo
6
nun avería mai creso
7
d’impiegacce
8
tutte ste cuattro tempore der cazzo.
Che cciavete
9
a le mano, le legacce?
State a mmette li conzoli in palazzo,
sor sbaffa-culi, sor impiastra facce?
Roma, 13 febbraio 1833
1
Ai cattivi pittori si il nome di Michelangiolo Bonascopa per parodia di Michelangiolo Buonarroti.
2
A sotto-
gamba: con estrema disinvoltura: con somma facilità.
3
Ci manca.
4
«Passar la banca» vale «venir la sua volta».
5
Venditore di minestre ed altre minutaglie.
6
Freghi fatti giù a guazzo.
7
Creduto.
8
Impiegarci.
9
Ci avete.
894. Li siggnificati
Lo sapevo da un pezzo, scioscia mia,
1
che cquanno er zacerdote s’è apparato,
2
oggni cosa c’ha ppresa in zagristia
tiè anniscosto er zu’ bber ziggnificato.
Perantro, te confesso er mi’ peccato,
3
sta cosa sola nun zo ddí cche ssia:
ciovè
4
che mmentre scèlebbra un prelato
j’abbino da tiené cquella bbuscía.
5
Eppuro,
6
cazzo, su st’usanza fessa
7
le poteveno dí cquattro parole
pe sscife una cosa ch’interessa.
Uhm, mai
8
nun fussi cqua ddove je dole,
9
che li vescovi fora de la messa
co le bbuscíe
10
sce ggireno le mole.
Roma, 13 febbraio 1833
1
Ciocia mia: mia diletta, cara mia, etc.
2
Parata.
3
Ti confesso la mia ignoranza: ti dico il vero, etc.
4
Cioè.
5
Bugia.
6
Eppure.
7
Spiacevole, molesta.
8
Se mai, etc.
9
«Dove je dole»: dov’è il punto, dov’è il mistero.
10
Ci.
895. Li santi protettori
Oggnuno ar Monno ha cquarche ddivozzione:
tutti adoreno er zu’ Sant’avocato.
Li frati vonno bbene a Ssan Lupone,
1
e li preti a Ssan Dazzio
2
e Ssan Donato.
3
Chi ddisce un paternostro ar bon Ladrone,
chi vvò Ssan Maggno
4
e cchi Ssan Libberato,
5
e ’r Papa nostro che nun è ccojjone
tiè ppe ssé Ssan Filisce e Ffurtunato.
6
Li servitori pregheno San Giobbe,
le donne San Cornelio e Cciprïano,
7
e ttutti li paini
8
San Giacobbe.
Er zanto de li guìtti è Ssan Bassano;
9
e oggni Re c’a sto Monno se conobbe
ricurze
10
a Ssan Giuvan de Capestrano.
11
Roma, 13 febbraio 1833
1
San Lupo e San Lupone. Vedi il Martirologio Romano.
2
Al 14 gennaio.
3
Al 17 febbraio.
4
Al 5 novembre.
5
Al 20
dicembre.
6
Al 26 febbraio.
7
Al 12 settembre.
8
Giovani alla moda.
9
19 gennaio.
10
Ricorse.
11
S. Giovanni da
Capistrano al 23 ottobre.
896. La Santa Crosce
A nnegà ttutto sce vò
1
un ber
2
coraggio!
Si llei però sse vò ppijjà sto svario,
3
troverà in ner festivo
4
e in ner lunario
l’invenzion de la crosce ar tre de maggio.
Anzi, potrebbe lei fà ttutt’un viaggio,
e ccercà ppuramente
5
in ner dïario,
6
e vvedrà che cquer giorno in zur Carvario
fu inventata la crosce pe un assaggio.
E ariusscí l’invenzione tanta bbella,
che dda cuer giorn’impoi s’è ssempre detto
che nnun ze po ssarvà cchi nnun vò avella.
7
Pe cquesto sce sò
8
ccrosce in oggni tetto,
cuppola, campanile, arma, cappella,
casa, saccoccia,
9
pissciatore
10
e ppetto.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Ci vuole.
2
Bel.
3
Divertimento.
4
Calendario annuale de Santi.
5
Pure: ancora.
6
Libercolo indicatore delle quotidiane
festività nelle chiese di Roma, e di tutte le altre sacre appartenenze dell’anno.
7
Averla.
8
Ci sono denari.
9
«Aver la
croce in saccoccia» vale essere senza denari.
10
Vedi il Sonetto...
897. San Pietr’in carcere
1
La mejjo cosa che a Ccampo-Vaccino
se fascessi
2
a li tempi de Nerone
fu a ppied’a ccampidojjo una priggione,
che ttutti sce parlaveno latino.
Cuer logo se chiamava er Mammerdino;
e nnun credete a mmé cche ssò un cojjone,
ma ffatevene fà la spiegazzione
da un certo Avocatuccio piccinino.
3
È ppropio cuella la priggione, indove
sce fotterno
4
San Pietro carcerato
prima c’annassi a le Carcere nove.
5
E llui sce fesce
6
cuer pozzo affatato,
7
che dda tant’anni, o ttempo bbono, o ppiove,
è ssempre pieno e nnun z’è mmai vôtato.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Nome moderno dell’antico carcere Mamertino, fatto costruire dal re Anco Marzio, o Mamerzio secondo l’antica
lingua latina, Trovasi appiè del Colle Capitolino, nel Foro romano donde vi si montava per le Scale Gemoniae, delle
quali può cercarsi la etimologia nelle tremende cagioni che nominarono il ponte de’ Sospiri di Venezia.
2
Si facesse.
3
Il chiarissimo Fea, archeologo, che qui si nomina per onore di questa pagina.
4
Ci gettarono dentro.
5
Prigioni attuali in
via Giulia.
6
Ci fece.
7
Reca sommo stupore ai più divoti che idraulici come non si alteri mai il livello dell’acqua di
questo pozzetto, circostanza però non mai bene verificata. Quest’acqua, freddissima in estate, ha talvolta procurato dei
dolori colici a qualche pia persona che riscaldata dal sole in Cancro è discesa a berne in quel sotterraneo, in cui si
vuole che coll’acqua medesima fossero da S. Pietro battezzati i suoi carcerieri.
898. Eppoi te sposo
1
Eppoi me sposi, eh? Ppovero sciuchetto,
2
fàteme un po’ ssentí ccor un detino
si vv’amancassi mai cuarche ddentino!
Sciavete mamma? Volete er confetto?
Bravo er zor cascamorto innoscentino!
Co ste bbelle promesse de l’ajjetto,
3
se scerca
4
d’abbuscà cquarche ffiletto,
5
eppoi fume de cappa de cammino.
6
Dàmmela e ppoi te sposo: quant’è ccaro!
Er patto è ggrasso assai, ma nun me torna:
7
rivienite a li trenta de frebbaro.
E ttant’e ttanto me credevi sciorna?
8
Nò cco mmé:
9
tte conosco, bbicchieraro.
10
Cqua, pprima de sposà, nnun ce s’inforna.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Sposo: pronunciato con le o chiuse.
2
Ciuco significa «piccolo»; ciuchetto, «piccino».
3
Dell’aglietto. È un ripieno, per
rendere ridicolo il soggetto; quasi: «promesse ridicole», ecc.
4
Si cerca.
5
Guadagno.
6
Fumo, fumarsela, ecc.:
espressioni che indicano lo scomparire di alcuno.
7
Non fa al mio caso.
8
Semplice.
9
Non con me si riesce in simili
artifici.
10
Espressione d’uso; quasi: «ti conosco, maschera».
899. Li fratelli de la sorella
De li fratelli bboni è vvero, Teta,
che ssi ne trovi dua sò ccasi rari;
ma li mii! li mii poi sò ppropio cari
com’e ddu’ catenacci de segreta.
Storti,
1
scontenti,
2
menacciuti, avari:
tutto li fa strillà, ttutto l’inquieta...
E ttu mme dichi: «Sei ’n’accia de seta»!
3
Vatte a ingrassà cco sti bbocconi amari.
Cualunque sciafrería
4
porteno addosso
tutto ha da usscí dda ste povere mane:
e Iddio ne guardi si jje chiedo un grosso.
5
Io ’r cammino, io la scopa, io le funtane...
Cuann’è la sera nun ciò
6
ssano un osso!
Inzomma, via, sce
7
schiatterebbe un cane.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Stravaganti.
2
Aspri.
3
Sei magra.
4
Qualunque più minuta cosa.
5
Moneta d’argento da cinque baiocchi.
6
Ci ho: ho.
7
Ci.
900. Er madrimonio disgrazziato
Sí, intavola! Tra Ggaspero e Pprezziosa
er madrimonio è bbell’e intavolato.
Ma cche vvòi che tte dichi? Mo una cosa,
mo un’antra, è stato sempre arispostato.
1
Voleveno sposà ppe Ppascua-rosa,
2
e cce fu cquella picca der Curato.
Doppo, venne la roggna de la sposa:
doppo lo sposo aggnéde
3
carcerato:
mó ss’è incajjato er punto
4
de la dote,
ch’inzinenta
5
ch’er Papa nun ritorna
sta indemoniata,
6
e nnun ze pò ariscote.
7
Cuest’è la cuarta vorta che sse storna.
Già, madrimoni! Hai tempo uggne
8
le rote,
sempre er diavolo sc’entra co le corna.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Differito.
2
Pentecoste.
3
Andò.
4
L’articolo, l’affare.
5
Sino.
6
Indemaniata. Allude al Demanio della dominazione
napoleonica.
7
Riscuotere.
8
Ungere.
901. Chi ssì e cchi nnò
Sor Bragalisse
1
mio, con cuell’occhiali
voi sce
2
vedete meno d’un pupazzo.
Li Sagramenti tutt’e ssette uguali?!
Ve posso dí cche nnun è vvero un cazzo.
Pe cconfessà, li sagri tribbunali
sò ssempre uperti: bbattezzi un regazzo,
l’acqua sta ssempre in ordine: t’ammali,
e ll’ojjo-santo te lo danno a sguazzo.
3
Nun c’è antro ch’er zanto madrimonio
c’ha li tempi províbbiti, e vviè a èsse
4
mezzo de Cristo e mmezzo der demonio.
Fregamo tutto l’anno e vvoi e io,
e li preti sce serreno le fesse
5
da fotte in grazzia der Ziggnor’Iddio.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Nome che si a chi porta brache scomposte e cadenti, come avviene ne’ vecchi.
2
Ci.
3
Con profusione.
4
Essere.
5
Vedi il Sonetto…
902. La comprimentosa
Ihii, llassa fà a llei pe ccomprimenti.
E mmica te pasteggia o tt’aripassa,
1
sai? La su’ lingua è ccome una matassa,
che ttiri un capo e tte ne trovi venti.
Lei sputa cuello che jje viè a li denti.
Sei ’na saraca,
2
e ddisce che ssei grassa:
nun hai ggnisuno ar monno, e tte sfracassa
co le grannezze de li tu’ parenti.
Piú de jjerzera
3
a ccasa de Sciscijja?
4
Ma ssenti, Madalena, a sta sciufeca
5
si ppe llodà cche ffantasia je pijja!
C’era la sora Teca.
6
«Ah ssora Teca»,
disce, «che ggran bell’occhi ha vvostra fijja!».
Oh ttu azzécchesce
7
un po’: la fijja è cceca.
Roma, 15 febbraio 1833
1
Due verbi che signifìcano: «beffare con fine e velate maniere».
2
Salacca (pesce salato), per «persona adusta».
3
Iersera.
4
Cecilia.
5
Ridicola, sgarbata.
6
Tecla.
7
Indovinaci.
903. L’Angeli ribbelli
Sonetti 2
Appena un angelaccio de li neri
pijjò l’impunità, ssarva la vita,
Iddio chiamò a l’appello una partita
de Troni, Potestà e Ccherubbiggneri.
1
E ttratanto fu ssubbito imbannita
2
’na Legge
3
contr’all’osti e llocannieri
che ttienessino
4
in casa forastieri
senz’avvisà la Pulizzia pulita.
Poi San Micchel’Arcangelo a ccavallo
de gran galoppo, a uso der Croscifero,
uscì cco uno Stennardo bbianch’e ggiallo.
E ddoppo er zono d’un tammurro e un pifero,
lesse st’editto: «Iddio condanna ar callo
5
l’angeli neri e ’r Capitan Luscifero».
Roma, 16 febbraio 1833
1
Così sono volgarmente chiamati i Carabinieri, milizia della Polizia.
2
Bandita.
3
Pronunciata con entrambe le e aperte.
4
Tenessero.
5
Caldo.
904. L’istesso
[L’Angeli ribbelli]
Letto l’editto, oggn’angelo ribbelle
vorze
1
caccià lo stocco, e ffasse
2
avanti;
ma Ssan Micchele bbuttò vvia li guanti,
e ccominciò a sparà lle zzaganelle.
L’angeli allora, coll’ale de pelle,
corna, uggne,
3
e ccode, tra bbiastime e ppianti,
tommolorno
4
in ner mare tutti-cuanti,
che li schizzi arrivaveno a le stelle.
Cento secoli sani sce metterno
5
in cuer gran capitommolo e bbottaccio
dar paradiso in giú ssino a l’inferno.
Cacciati li demoni, stese un braccio
longo tremila mijja er Padr’Eterno,
e sserrò er paradiso a ccatenaccio.
Roma, 16 febbraio 1833
1
Volle.
2
Farsi.
3
Unghie.
4
Tombolarono.
5
Misero: impiegarono.
905. Gnente de novo
1
Nun zò
2
da Papa, nò, ttante sciarlette.
Oh, llui studi un po’ ppiú: llegghi er Vangelo;
e vvederà, ssi mai, che ppuro in Celo
sce sò stati li torbidi e le sette.
E ssi nnun era, dioneguardi, er zelo
de San Micchele co le su’ saette,
l’angeli a Ddio je daveno le fette,
3
te lo dich’io, da rivedejje er pelo.
Anzi aringrazzi lui cuer zerra-serra:
ché ssi nnò cchi lo sa cche antra piega
pijjaveno l’affari in Celo e in terra?
Nun ze fa ssegatura senza sega.
Duncue er Papa pò ddí cche cquella guerra
j’ha ddato campo a llui d’uprí bbottega.
Roma, 16 febbraio 1833
1
Nil sub Sole novum.
2
Non sono.
3
Battiture.
906. Er Monno muratore
«Pe vvéde
1
cosa sc’è ssopr’a le stelle
che sse pò ffà?» disceveno le ggente.
Fesce uno: «E cche cce vò? nnun ce vò ggnente:
fabbricamo la torre de Bbabbelle.
Sú, ppuzzolana, carcia, mattonelle...
io capo-mastro: tu soprintennente...
lavoramo, fijjoli, alegramente!...».
E Ddio ’ntanto rideva a ccrepa-pelle.
Già ssò ar par de la crosce de San Pietro,
cuanno, ch’edè?! jje s’imbrojja er filello,
2
e invesce d’annà avanti vanno addietro.
Gnisuno ppiú ccapiva l’itajjano;
e mmentr’uno disceva: «Cqua er crivello»
l’antro je dava un zecchio d’acqua, in mano.
Roma, 17 febbraio 1833
1
Per vedere.
2
Scilinguagnolo.
907. La regazza de Peppe
1
Ma lo sai de cuer cefolo
2
de Peppe?
Nun z’è incazzito
3
appresso a cquella zozza
4
piú ppeggio d’un turaccio de tinozza?
Io m’intese
5
ggelà cquanno lo seppe.
6
Cià una scrófola in gola che la strozza;
un fiato che jj’odora de ggileppe,
7
e un petto, un petto poi, che ssan Giuseppe
je sc’è ppassato sú cco la pianozza.
8
Tiè ssott’ar collo un par de catenacci
9
che sse potrebbe chiudesce
10
una stalla.
Bbravo Peppetto mio! bbon pro jje facci.
Er gnocco j’ha ccrompato
11
una casuppola
e cquanno ciaverà
12
speso una spalla,
13
si ll’appesta je dii de bbarb’in cuppola.
Roma, 17 febbraio 1833
1
La innamorata di Giuseppe.
2
Babbaccio.
3
Perduto.
4
Sozza.
5
Intesi, per «sentii».
6
Seppi.
7
Giulebbe.
8
Pialla.
9
Le
clavicole.
10
Chiuderci.
11
Comperano.
12
Ci avrà.
13
Spendere una spalla: spendere quasi tutto il suo.
908. Er re de li dolori
Ma cche ppolagra
1
e ppannarisce:
2
senti:
tu ne pòi mentovà ssino a ddomani,
ma uno spasimo simile a li denti,
cristoggesummaria, manco a li cani!
Pe mmé sso cch’io da diesci ggiorni a vventi,
ciò
3
in bocca scento inferni sani sani.
E acqua de la Scala, e mmarva, e inguenti,
e sèntisce
4
chierurghi, e cciarlatani!
Ggnente: ppiú cce ne faccio, e ppiú mme dòle.
Cuer che ppoi me fa rride è Ddelarocca.
5
Disce: «Mettéte la radica ar zole».
Ma indove se pò ddà ppiú ccosa ssciocca!
L’ho er tempo io d’impiegà ddu’ ora sole
llí a bbocc’uperta, e cco le deta in bocca?
Roma, 17 febbraio 1833
1
Podagra.
2
Panereccio.
3
Ci ho: ho.
4
Sentici.
5
Celebre chirurgo, oggi morto.
909. L’istoria romana
Che bbell’abbilità, cche bbella groria
de sapé rrescità sta filastroccola!
Cuanto faressi mejjo èsse una zoccola,
e nnun vienicce
1
a ffà ttanta bbardoria!
Che mme ne preme un cazzo de l’istoria:
a mmé mme piasce de vive a la bbroccola,
senza stamme
2
a intontí la sciriggnoccola,
3
e impicciamme
4
li fili a la momoria.
E cche! ho da fà er teolico, er profeta,
ho da incide le statue, li quadri,
m’ho da mette la mitria, la pianeta?!
Bast’a ssapé cc’oggni donna è pputtana,
e ll’ommini una manica de ladri,
ecco imparata l’istoria romana.
5
Roma, 17 febbraio 1833
1
Venirci.
2
Starmi.
3
Testa.
4
Impicciarmi.
5
L’autore qui crede suo debito il protestare solennemente aver lui così scritto
a solo fine di esprimere gli eccessi delle menti popolari, non già una sua propria opinione, troppo falsa e ingiuriosa a’
buoni cittadini di Roma.
910. L’Uffizzio der bollo
1
Presa a Ppiazza de Ssciarra
2
la scipolla
dall’ortolano, e, llí accanto, er presciutto,
le paggnottelle e ’r pavolo de strutto,
annavo
3
a ffà bbollà la fede a Ttolla.
4
Quanto m’accosto a un omettino assciutto,
che stava a ppij er Cracas
5
tra la folla:
«Faccia de grazzia, indov’è cche sse bbolla?»
6
«Eh, a Rroma, nu lo sai?», disce: «pe ttutto».
Doppo, ridenno,
7
m’inzeggnò ll’uffizzio.
Ma ttratanto
8
capischi che ffaccenna?
che stoccatella a nnostro preggiudizzio?
Ma ssai cche jje diss’io? «Sor coso, intenna,
9
ch’è vvero che ccertuni hanno sto vizzio,
ma cquer tutti lo lassi in de la penna».
Roma, 17 febbraio 1833
1
Il bollo straordinario della carta.
2
Piazza sulla via del Corso, dove si crede fosse eretto anticamente l’arco trionfale di
Claudio per le vittorie sopra la Britannia e le Isole Orcadi.
3
Andavo.
4
Teresa.
5
Il gabinetto dove si dispensa il foglio
politico (Diario), chiamato da alcuni il Cràcas, dal nome dell’antico editore del così detto Cràcas o notiziario romano
attuale.
6
Bollare significa in Roma anche «il fraudare altrui nel denaro, sorprenderlo in interesse», ecc.
7
Ridendo.
8
Intanto.
9
Intenda.
911. Li sette peccati mortali
Senti, te vojjo dà ssette segreti
su la distribbuzzion de li peccati.
L’avarizzia è er peccato de li preti,
e ll’usuria er peccato de li frati.
La superbia impallona li poveti
pe li loro sonetti stiracchiati:
e la gola incazzissce
1
li tre cceti
de Cardinali, Vescovi e Pprelati.
Le donne attempatelle hanno l’invidia:
li cavajjeri cojjonati,
2
l’ira;
e l’impiegati pubbrichi l’accidia.
Striggni poi tutto er zettenàrio, e ccapa:
3
mettelo
4
drent’ar bussolo, e ppoi tira:
cualunque pijji nun sta bbene ar Papa.
Roma, 17 febbraio 1833
1
Istupidisce.
2
Beffeggiati.
3
Scegli.
4
Mettilo.
912. L’avocato de le cause sperze
1
Eh ggià, ttutti li guai, tutti li scarti
2
sò ppe ccausa der Papa a sto paese:
e nnun fuss’io che nn’aripìo li cuarti,
3
lo voríano
4
schiattato in mezzo mese.
Li Cardinali fanno troppe spese:
è er Papa. S’arisenteno l’assarti:
5
è er Papa. S’arricchischeno le cchiese:
è er Papa. S’ariddoppieno l’apparti:
è er Papa. Tutto er Papa, sciorcinato!
6
Lui cressce le gabbelle, cala er pane,
frega
7
er zuddito, bbuggera
8
lo Stato!...
Come! cuesto è er linguaggio che ss’addopra
cor Crist’-in-terra, eh fijji de puttane?
Zitti: e ar Papa, per Dio, ’na pietra sopra.
9
Roma, 18 febbraio 1833
1
Chiamasi così a Roma chi imprende la difesa di cose indifendibili.
2
Scarti, scartare: passi falsi, errori.
3
Ripigliare i
quarti: modo beffardo, quasi a «riprender le parti; difendere».
4
Vorrebbero.
5
Si risentono gli assalti.
6
Ciorcinato,
cioè: «poverino».
7
Tradisce.
8
Rovina.
9
Mettere una pietra sopra: seppellire nel silenzio.
913. Le ricchezze priscipitose
1
Me chiedi si
2
ccom’è cch’er terzo e ’r quarto
ch’ereno
3
ggià er ritratto der malanno,
mó ccrompeno
4
li titoli e tte vanno
in carrozz’a bbommè tutt’in un zarto:
subbito, bbello mio, ch’è ppiú dd’un anno
5
che mmonteno la scala de l’apparto,
6
deven’èsse
7
saliti tant’in arto
che nnun ze vedi
8
ppiú cquello che ffanno.
Er Caporal’Andrea, ch’è un artijjere,
disce: «A la bbomma
9
bbast’a ddàjje
10
foco,
e ’r resto va da sé ccom’er dovere».
Pe nnun mutà ffurtuna a ppoc’a ppoco,
ma ddiventà addrittura cavajjere,
cqua nnun ze n’essce: o ffurti, o apparti, o ggioco.
Roma, 18 febbraio 1833
1
Subitanee.
2
Se.
3
Erano.
4
Comperano.
5
Subitoché, bello mio, è più di un anno ecc.
6
Appalto.
7
Debbono essere.
8
Non
si veda.
9
Bomba.
10
Dargli.
914. La madre poverella
Fijja, nun ce
1
sperà: ffatte
2
capasce
che cqua li ricchi sò ttutti un riduno;
3
e un goccio d’acqua nun lo dà ggnisuno,
si tte vedessi
4
immezzo a una fornasce.
Tu bbussa a li palazzi a uno a uno;
ma ppòi bbussà cquanto te pare e ppiasce:
tutti: «Iddio ve provedi: annate in pasce».
Eh! ppanza piena nun crede ar diggiuno.
Fidete,
5
fijja: io parlo pe sperienza.
Ricchezza e ccarità ssò ddu’ perzone
che nnun potranno mai fà cconosscenza.
Se
6
chiede er pane, e sse trova er bastone!
Offerímolo
7
a Ddio: ché la pascenza
è un conforto che ddà la riliggione.
Roma, 18 febbraio 1833
1
Ci.
2
Fatti.
3
Tutti una massa: tutti uguali.
4
Se ti vedesse.
5
Fidati.
6
Si.
7
Offeriamolo.
915. La regazza acciuffata
1
Che ccos’ho, cche ccos’ho! Nun ve l’ho ddetto
mill’antre vorte ggià cche nun ho ggnente?
C’ho da fà? Pe ddà ggusto ar zor gaudente,
m’ho da mett’a bballajje
2
un minuetto?
Bbe’, ssi llei se la sona,
3
io fo un balletto.
Ma ssò bbuffe l’idee c’hanno le ggente!
Cuanno che stanno loro alegramente
vonno c’oggnuno ridi
4
a ssu’ dispetto.
Io ve la canto un’antra vorta sola,
ch’io nun ho ggnente; e ssippuro l’avesse,
5
nu ne direbbe a llei mezza parola.
Caso dunque lei tiè cquarch’interresse
da sbrigà cco la sora Luscïola,
vadi,
6
ché ttanto noi semo l’istesse.
Roma, 18 febbraio 1833
1
La innamorata cipigliosa.
2
Ballargli.
3
Suonarsela: partire.
4
Rida.
5
Avessi.
6
Vada.
916. Da la matina se conossce er bon giorno
1
Nun è da dí ppe cquesto ch’io me stracchi:
no, er bene je lo vojjo, e Ddio sa cquanto.
Piú ppresto
2
di’ cche ccasomai la pianto,
c’è er ber
3
motivo suo c’arzo li tacchi.
4
Nun m’è mmojje, e ggià ho ssempre spavuracchi,
che mme tocca de stà ccoll’ojjo-santo
in zaccoccia.
5
E ssi ttanto me dà ttanto,
6
figuramose
7
un giorno li pennacchi!
8
Sei propio caro tu cco la tu’ fiacca:
9
«Nun te mette ste purce in de l’orecchie».
10
Cuesto, compare, nun è mmal da bbiacca.
11
Cuanno che jje ne va,
12
ggiovene o vecchie,
la fanno je cuscissi
13
la patacca:
e ppe imbrojjatte
14
poi, sò mmozzorecchie.
15
Roma, 18 febbraio 1833
1
Proverbio.
2
Piuttosto.
3
Bel.
4
Alzare il tacco, o i tacchi: andarsene, evadere.
5
Stare coll’olio santo in sacconcia vale:
«essere sempre in pericolo».
6
E con questa proporzione ecc.
7
Figuriamoci.
8
Corna.
9
Indifferenza.
10
Cioè: «non entrare
in questi sospetti».
11
Non è piccolo male.
12
Quando ne hanno voglia.
13
Seppure tu cucissi loro ecc.
14
Imbrogliarti.
15
Artificiose. Un mozzorecchio è un «leguleio».
917. Er letto
Oh bbenedetto chi ha inventato er letto!
1
Ar Monno nun ze dà ppiú bbella cosa.
Eppoi, ditelo voi che sséte sposa.
Sia mille e mmille vorte bbenedetto!
Llí ttra un re de corona e un poveretto
nun c’è ppiú regola. Er letto è una rosa
che cchi nun ce s’addorme s’ariposa,
e ssente tutto arislargasse
2
er petto.
Sia d’istate o d’inverno, nun te puzza:
pôi stacce
3
un giorno e nnun zentitte
4
sazzio,
ché ar monno sc’è ppiú ttempo che ccucuzza.
Io so cc’appena sciò
5
steso le gamme,
6
dico sempre: Signore t’aringrazzio;
e ppoi nun trovo mai l’ora d’arzamme.
7
Roma, 18 febbraio 1833
1
Questo verso, purificato qui al modo romanesco, è di Giulio Perticari, nella Cantilena di Menicone Frufolo. Il
Cervantes disse in lingua sua le stesse parole in lode del sonno.
2
Riallargarsi.
3
Starci.
4
Sentirti.
5
Ci ho.
6
Gambe.
7
Alzarmi.
918. Er Presidente de petto
Ce sò li Presidenti
1
pe ’ggni urione,
2
ma è ccome nun ce fussino,
3
fratello.
Cuesto sta ar foco a rriscallasse:
4
cuello
sente e rrisente, e nnun dà mmai raggione:
uno se fida d’un ispettorello...
Basta, nun vojjo mmormorazzione.
Fatt’è cch’er fijjo de le propie azzione
sta ssempre tra l’ancudine e ’r martello.
T’aricordi lo schiaffo che mme diede
Marco? Tu mme discessi: «Va’, Ccremente,
5
va’ a rricurre,
6
pe ccristo»; e io sciaggnéde.
7
Lo sai che mme concruse
8
er Presidente?
«Oh vvia te l’avrà ddato in bona-fede:
nun me fate impiccià co st’accidente».
9
Roma, 18 febbraio 1833
1
I Presidenti regionari di polizia.
2
Rione.
3
Fossero.
4
Riscaldarsi.
5
Clemente.
6
Ricorrere.
7
Ci andai.
8
Concluse.
9
Con
questo cattivo soggetto.
919. Er tordo
1
de Montescitorio
2
Ecco propio er discorzo che mme tenne
parola pe pparola er mi’ avocato.
«Pe rraggione, hehei! sce n’hai da venne,
3
ma er giudisce, che sserve?, nun c’è entrato.
Monziggnore, fijjolo, nu l’intenne.
4
Ma ssai che jj’ho ffatt’io? me sò appellato.
E sta’ cquieto, ché cquello che sse spenne
5
t’ha dda èsse
6
poi tutto aringretato».
7
Cqua intanto sò ttre mmesi che sse squajja;
8
e ssi ddura accusí, ttra un antro mese
se finissce a ddormí ssopr’a la pajja.
Brutti affaracci er méttese
9
a st’imprese!
Si tt’incocci,
10
pòi perde
11
la bbattajja:
e, ssi tte stracchi, bbutti via le spese.
Roma, 18 febbraio 1833
1
Come dicesse merlotto: la dupe dei Francesi.
2
Palazzo del Foro.
3
Vendere.
4
Intende.
5
Spende.
6
Essere.
7
Reintegrato,
rimborsato.
8
Si cava danari.
9
Mettersi.
10
Se ti ostini: se perseveri.
11
Perdere.
920. Li rossi d’ova
1
La Verità assomijja ar giuramento
cuanto s’arissomijjeno du’ fave.
Una de loro è ccome er fonnamento
de la frabbica, e ll’antro è ccome er trave.
Epperò cqua sse ggiura oggni momento.
Li Cardinali ggiureno in Concrave;
e ’r Papa ggiura poi sur Zagramento
cuanno pijja er trerregno co le chiave.
Giureno tistimonj, liticanti,
giudisci, frati, preti, e ’ggni gginìa:
2
ché er giurà mmanna
3
sempre un pass’avanti.
E pperché in prova de nun dí bbuscía
st’usanza de ggiurà cc’è in tutti-quanti,
la santa Verità sse
4
bbutta via.
Roma, 19 febbraio 1833
1
È un detto in Roma che i giuramenti vanno giù come rossi d’ovi: o dicesi altresì di un cibo che facilmente s’ingoi.
«Va giù, come un giuramento falso».
2
Genia.
3
Manda.
4
Si.
921. Da Erode a Ppilato
Sei mesi fa, la bbaronessa Moma
1
se n’entrò dda un Mercante che cconossce,
e dde morletti e dd’antre robbe frossce,
2
nun fo bbuscía, ne caricò una soma.
Ma pperché aveva le saccocce mossce,
guajo c’accade spesso spesso a Rroma,
fesce:
3
«Nun dubbità, ssò ggalantoma:
pagherò ttutt’assieme cor filossce».
Cuant’ecco, venardí, tutto compito,
4
er Mercante cor conto de le dojje.
«Portatelo», lei disce, «a mmi’ marito».
Ma er zor Barone, poco avvezzo a ssciojje,
5
visto cuer conto, tutto inviperito
j’arispose: «Portateto a mmi’ mojje».
Roma, 19 febbraio 1833
1
Gerolama. La contessa Pianciani.
2
Flosce.
3
Disse.
4
Compito, nel senso di gentilezza.
5
Sciogliere: cavar danari.
922. Le bbussole
1
Tutte ste bbussolone e bbussolette
che vvedete cqua e llà, ssor Libberato,
stanno impostate pe ppotecce mette
2
le lemosine, e ssò
3
lleggno spregato:
perché o nnun c’è un cristiano bbattezzato
che ttienghi
4
ppiú st’usanze bbenedette,
o ssippuro
5
se dà cchi ha imbussolato,
’ggna
6
guardà ppoi chi vvòta le cassette.
Poveri sagrestani e ccammarlenghi!
Trovannose
7
davanti a cquer ber quadro
io vorebbe
8
vedé cchi sse trattienghi.
9
O ssii sacco, o ssii cotta, o ssii pianeta,
l’occasione, se sa, ffa ll’omo ladro,
e li quadrini sporcheno te deta.
Roma, 19 febbraio 1833
1
Quelle cassette fisse al muro, che s’incontrano per Roma ad ogni passo, in tutte le chiese, per tutti i Santi, per tutte le
Madonne, a tutti gli usi, ecc.
2
Per poterci mettere.
3
Sono.
4
Tenga.
5
Seppure.
6
Bisogna.
7
Trovandosi.
8
Vorrei.
9
Trattenga.
923. La padrona bisbetica
1
Nun ce pòzzo stà ppiú;
2
nnun trovo loco:
in sta casa sce sò
3
ttroppi scompijji.
Cuanno aritorna Lei c’ha pperzo
4
ar gioco,
pare propio una furia co l’artijji.
Vò ccenà e nnun cenà: strapazza er coco:
mena a le donne: fa svejjà li fijji:
mó nnun arde er chenchè: mmó ppuzza er foco...
nun c’è inzomma con chi nnun ze la pijji.
Butta via li bbonè, straccia li guanti;
e ll’abbiti cqua e llà nne fa una spasa,
5
bestemmianno er Ziggnore co li Santi.
Poi, per urtima bbotta de catubba,
6
pijja quadrini dar Mastro de Casa,
7
che ddiesci je ne dà, ddiesci n’arrubba.
Roma, 19 febbraio 1833
1
La principessa Chigi.
2
Non ci posso star più.
3
Ci sono.
4
Perduto.
5
Dal verbo spargere.
6
Gran cassa.
7
Il signor
Patrizi.
924. Er zalame de la prudenza
1
Co ste bbellezze e cco st’annà
2
a la moda,
tratanto che vvor dí,
3
ssora Sciscijja?
4
Tutti ve vonno e ggnisuno ve pijja;
e vve tocca a rrestà ssempre a la coda.
Nun ve lodate tanto, bbella fijja,
perché a Rroma a la ggente che sse loda
je dimo
5
noi: chi sse loda se sbroda,
6
e trova chi jj’arrenne la parijja.
Perché avete vent’anni e ’r culo tonno,
7
oggnantra donna appetto vostro è un torzo?
Chi ha pprudenza l’addopri, io v’arisponno.
8
Riccomannàteve a Ssan Carl’ar Corzo,
che vve curri
9
la vita, e ppo’ a sto Monno
state a vvedé ssi vve vò
10
mmanco un orzo.
11
Roma, 21 febbraio 1833
1
Regolarsi col salame della prudenza è una frase comunissima in Roma.
2
Con questo andare, ecc.
3
Che vuol dire,
ecc.
4
Cecilia.
5
Diciamo.
6
Chi si loda si vitupera.
7
Tondo.
8
Vi rispondo.
9
Vi corra.
10
Se si vuole.
11
Orso.
925. Li scardíni
1
Brungia!
2
E cco cquella pelle de somaro,
che sséguiti a ddormí ssi tte s’inchioda,
fai tanto er dilicato? Ih, un freddo raro!
nun ze trova ppiú un cane co la coda!
Ma ccazzo! Semo ar mese de ggennaro:
che spereressi?
3
de sentí la bbroda?
4
L’inverno ha da fà ffreddo: e ttiell’a ccaro
ch’er freddo intosta
5
l’omo e ll’arissoda.
6
E ss’hai ’r zangue de címiscia
7
in der petto,
de ggiorno sce sò
8
bbravi scardinoni
da potette
9
arrostí ccome un porchetto;
e dde notte sce sò ll’antri foconi
c’addoprava er re Ddàvide in ner letto
pe ppij cco ’na fava du’ piccioni.
10
Roma, 21 febbraio 1833
1
Caldani: caldanini.
2
Questa interiezione si adopera allorché alcuno si pone in sullo squisito. Il vocabolo è così
alterato sulla stessa alterazione volgare di bruggna (prugna) per imitare la ricercatezza o la pretensione del
beffeggiato.
3
Spereresti.
4
Aria calda.
5
Indurisce.
6
Lo rassoda.
7
Cimice.
8
Ci sono.
9
Poterti.
10
Proverbio.
926. Li peggni
Oh bbona!
1
A Rroma s’era sempre usato
che li Papi, ar riscéve
2
li trerreggni
fascéveno aridà
3
ttutti li peggni
che li Romani aveveno impeggnato.
Prima io dunque che ffussi spubbricato
4
er Papa novo da sti rrossci
5
indeggni,
m’aggnéde
6
a pportà ar Monte
7
li mi’ ordeggni,
e cce fesce
8
du’ pranzi ar Tavolato.
9
C’avevo da sapé, ffijji mii bbelli,
ch’er Papa dovessi èsse
10
un Cappellaro
11
che sformassi
12
sta razza de cappelli?
13
Cazzo! annajje
14
a vviení lo schiribbizzo
15
de nun ridà li peggni de ggennaro!
16
Cuesta sí cche mm’arriva ar cuderizzo!
17
Roma, 23 febbraio 1833
1
Interiezione usata quando altri non vuole persuadersi delle parole o dell’operato di alcuno. L’a finale deve udirsi
alquanto prolungata.
2
Al ricevere.
3
Facevano restituire.
4
Che fosse pubblicato.
5
Rossi: le Loro Eminenze.
6
M’andai.
7
Il Monte di Pietà.
8
Ci feci.
9
Il Tavolato è nome di un’osteria a circa tre miglia da Roma in sulla via di Napoli.
10
Dovesse essere.
11
Il cognome di Gregorio XVI è Cappellari, come tutti i fedeli e gl’infedeli sanno.
12
Sformasse.
13
Sformar cappelli, o anche semplicemente sformare significa in buona Crusca: «entrare in broncio», o per parlare con
più farina: «prendersi collera».
14
Andargli.
15
Capriccio.
16
Il Pontefice fu creato il 2 di febbraio.
17
Coccige. «Oh questa
sì che mi giunge al vivo!».
927. La scena
1
de marteddí ggrasso
Come s’impiccia
2
sta maggnata, eh Aggnesa,
l’urtimo marteddí dde Carnovale?
Famo
3
accusí: ttu ffiggne
4
de stà mmale,
e bbolla
5
li cristiani in cuarche cchiesa.
Mannamo
6
intanto a ppiaggne
7
Anna e Tterresa
cuanno viè Monziggnore pe le scale:
e io me farò scrive
8
un mormoniale
9
per ottiené un zussidio da l’Impresa.
10
Cqua ttutti sò mmerangole,
11
ma ppuro
12
basta, commare, a ssapé ffà la sscena,
cuarche ccosa se ruspa
13
de sicuro.
Pe mmé vvojjo annà a lletto a ppanza piena;
e pprima me daría
14
la testa ar muro,
che cchiude
15
un Carnovale senza scena.
Roma, 23 febbraio 1833
1
Cena.
2
Impicciare, qui vale «rimediare con ingegno, cavar fuori».
3
Facciamo.
4
Fingi.
5
Bollare: cavare altrui danaro
con astuzia.
6
Mandiamo.
7
Piangere.
8
Scrivere.
9
Memoriale.
10
Impresa de’ lotti.
11
Avari.
12
Pure.
13
Si raccapezza.
14
Darei.
15
Chiudere.
928. La bbazzica
Se va ggiú?
1
Mmanco-male. Io sciò
2
ggilè.
Hoh, mmiracolo! bbazzica de otto.
Ah, tte sa dduro d’avé arzato un re?
Che! voressi
3
oggni mano er bazzicotto?!
L’antra partita m’hai lassato a ttre,
e ho avuto da pagà mmarc’e ccappotto;
e ppe uno scarto che vviè bbene a mmé,
c’è bbisogno der lòtono
4
e dder fiotto!?
5
Vado per uno. Vôi? Asso, cavallo.
Vôi? Dua, quattro... Ma ppropio t’arranchelli
6
pe rripijjà ddu’ carte su lo spallo!
Credi de vince
7
pe la mano, eh mulo?
Cuella l’aveva puro Cafarelli,
8
e nnun fu bbono de pulisse er culo.
Roma, 24 febbraio 1833
1
Si scarta?
2
Ci ho: ho.
3
Vorresti.
4
Lamento.
5
Borbottio.
6
Arranchellarsi: far tutti gli sforzi per istar su.
7
Vincere.
8
Espressione comune nel giuoco, dappoiché è tradizione che uno de’ duchi Caffarelli avesse un braccio più corto
dell’altro, di maniera che quella mano non gli arrivava a tutti i suoi ufici.
929. L’aritròpica
1
Eh ’ggnicuarvorta
2
che sse sii
3
guastata
la massima
4
der zangue, sora Nina,
sce vo antro che ppírole
5
de china
pe aridà
6
la salute a un’ammalata!
Guarda Checca: se trova mediscina
ner Monno che in cuer corpo nun c’è entrata?
C’è ppiú ddonna de lei mejjo trattata,
che nnun j’amanca er latte de gallina?
Eppuro, ècchela llí. Cquann’io sciaggnede
7
jerzera a rriportajje
8
er biribbisse,
9
me parze
10
d’avé avanti un mort’in piede.
Tiè ddu’ gamme accusí:
11
ttanta de panza...
Uhm, ssi er male da sé nnun fa un ecrisse,
12
pe llei dar tett’in giù
13
nnun c’è speranza.
Roma, 3 marzo 1833
1
La idropica.
2
Ogni qual volta.
3
Si sia.
4
Massa.
5
Ci vuol altro che pillole.
6
Ridare.
7
Quand’io ci andai.
8
Riportarle.
9
Biribisso.
10
Parve.
11
Si deve accompagnare queste parole con un gesto di braccia.
12
Crisi.
13
Secondo le vie umane.
930. La puttana abbrusciata
1
Povera Chiapparella! Ah, nnun c’è ccaso:
2
tutte hanno da succède
3
a sto paese.
Bruscià una donna coll’acqua de raso,
4
perché jj’ha ddato un po’ de mar-francese!
Come disce?
5
chi vva ppe le maese,
6
viè la su’ vorta che cce bbatte er naso.
Se sa, st’affari vanno bbene un mese,
e in d’un giorno se resta perzuaso.
7
Lei m’ha impestato: ebbè? cche scusa fiacca!
E llui poteva entracce in camisciola,
8
nun conosscenno
9
a ffonno la patacca.
10
Eppò adesso sarà la donna sola
a attaccà la pulenta che ss’attacca?
e a nnoi chi cce l’attacca? San Nicola?
Roma, 3 marzo 1833
1
Fatto veramente accaduto in Roma per opera di quattro settentrionali.
2
Non c’è verso.
3
Succedere.
4
Acqua di ragia.
5
Come si dice?
6
Maggesi.
7
Ci s’imbatte.
8
Cioè con le debite cautele.
9
Conoscendo.
10
Vedi il Sonetto…
931. La quaresima
Come io nun zò cristiano! Io fo la spesa,
oggni ggiorno der zanto maritozzo.
1
Io nun cenavo mai, e mmó mme strozzo
pe mmaggnà ott’oncia come vò la cchiesa.
2
Ciò avuta la scaletta,
3
e mme sò ppresa
pe l’amor de Ggesú ssin ar barbozzo
4
una pianara o ddua d’acqua de pozzo,
e ll’acqua Iddio lo sa cquanto me pesa.
Io fo ar zu’ tempo li portoni rotti
co la mazzola:
5
io, ssciorte le campane,
6
sparo la divozzione de li bbotti.
Io pijjo pascua pe mmé e le mi’ poste;
7
e, ppe ttappo
8
dell’opere cristiane,
fo bbenedí er zalame e ll’ova toste.
9
Roma, 4 aprile 1833
1
I maritozzoli sono certi pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero, e talvolta canditure, o anaci, o
uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè
mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno.
2
Il maximum nella
tariffa delle commestioni serali in quadragesima. Alcuni troppo semplici, o troppo scaltri, opinano quella essere
obbligatoria meta delle refezioni extra horam, non oltrepassabile in più in meno.
3
Nel giovedí che taglia la
quadragesima in due parti eguali, si usa di appiccare delle carte, tagliate in forma di scala, per di dietro alle persone; e
contro quelle gridare acqua, e gittarne. Quest’uso però, come altri, va ad estinguersi, per la prepotenza della fatale
civilizzazione del tempo.
4
Mento.
5
Sono generalmente i fanciulli che con mazzuole di legno vanno, nel giovedí e
venerdí santo, percuotendo le porte delle case e botteghe, imitando il fragore e le altre convulsioni della natura nella
morte del Figliuolo di Dio.
6
Le campane tacciono fortunatamente in Roma per due giorni, dalla mattina del giovedí a
quella del sabato santo, nel qual giorno, a cui si anticipa dalla odierna chiesa la risurrezione di Cristo, riprincipiano
tutte insieme uno scampanare arrabbiato, lo che dicesi sciogliersi, e si sciolgono infatti davvero per rifarsi del tempo
perduto. Allora si sparano per la città colpi di ogni specie di fuoco artifiziato e di armi, negli orecchi e sugli occhi de’
galantuomini che passano.
7
Prender pasqua: è il quarto precetto della chiesta. Alcuni pietosi ripetono la soddisfazione
dell’obbligo per varie volte e in varie parrocchie, e poi vendono alle lor poste (avventori) i biglietti giustificativi che si
danno al comunicato contemporaneamente colla particola. Ecco un’opera buona, che salva molti cristiani da molti
buoni fastidi, cioè ammonizioni, minacce, citazioni, e finalmente infamia e scomunica notata il 25 di agosto sulla
porta della chiesa di San Bartolommeo all’isola. La lista annuale però di questi contumaci non suole, fra 150.000
romani, comporsi che di una cinquantina di nomi dell’ultima oscurità.
8
Compimento.
9
Si benedicono il sabato santo
dai preti che girano in cotta per le case. Vedi il Sonetto…
932. Giuveddí ssanto
Fa’... che ggusto!... spi... Zzitto! ecco er cannone!
Abbasta, abbasta, sú, ccaccia l’uscello.
Nu lo senti ch’edè? spara Castello:
1
seggno ch’er Papa sta ssopra ar loggione.
2
Mettémesce
3
un’e ll’antro in ginocchione:
per oggi contentàmesce,
4
fratello.
Un po’ ar corpo e un po’ all’anima: bberbello:
5
pijjamo adesso la bbonidizzione.
Quanno ch’er Zanto-padre arza la mano,
pòi in articolo-morte
6
fà li conti
a ggruggn’a ggruggno coll’inferno sano.
E nnun guasta che nnoi semo a li Monti,
7
e ’r Papa sta a Ssan Pietr’in Vaticano:
oggi er croscione suo passa li ponti.
8
Roma, 4 aprile 1833
1
La Mole Adriana, oggi Castel S. Angelo.
2
La gran loggia nella facciata di San Pietro in Vaticano, donde il Pontefice
amministra la solenne benedizione al popolo foltamente adunato sulla gran piazza.
3
Mettiamoci.
4
Contentiamoci.
5
Bel
bello.
6
In articulo mortis, frase di molto spaccio in questa capitale dell’orbe cattolico.
7
Uno dei rioni di Roma molto
discosto dalla così detta Città Leonina, oggi Rione di Borgo, dove sorge il Vaticano che è di là dal Tevere.
8
È qui
opinione che alcune benedizioni papali, in certi giorni, restino efficaci solamente inter praesentes, e alcune altre si
estendano a tutto il resto della città, e poi corrano pel mondo sin che non siano stanche o non trovino qualche
ostacolo.
933. Er giro de le pizzicarie
1
De le pizzicarie che ttutte fanno
la su’ gran mostra pe ppascua dell’ova,
2
cuella de Bbiascio a la Ritonna
3
è st’anno
4
la ppiú mmejjo de Roma che sse trova.
Colonne de casciotte, che ssaranno
scento
5
a ddí ppoco, arreggeno
6
un’arcova
ricamata a ssarcicce, e llí cce stanno
tanti animali d’una forma nova.
Fra ll’antri, in arto, sc’è un Mosè de strutto,
cor bastone per aria com’un sbirro,
in cima a una Montaggna de presciutto;
e ssott’a llui, pe stuzzicà la fame,
sc’è un Cristo e una Madonna de bbutirro
drent’a una bbella grotta de salame.
Roma, 5 aprile 1833
1
Nelle due sere del giovedí e venerdí santo i pizzicagnoli addobbano le loro botteghe con una quantità tale di carni
salate, di caci, ed altre somiglianti delicature, che ne sono totalmente ricoperte le pareti e i soffitti. Le varie forme e i
diversi colori di simili oggetti, stimolanti l’appetito di un popolo che si dovrebbe supporre essersene astenuto per 46
giorni, vi sono calcolati e studiati all’ornamento più o meno elegante in proporzione del genio architettonico del
pizzicagnolo. Inoltre, lontananze da uovi con in fondo specchiere per raddoppiarle, stellette di talchi: zampilletti
artificiali di acque; pesci natanti intorno ad uccelli rinchiusi gli uni e gli altri in campane di doppia fodera: misteri
della Passione dipinti intorno a lanternoni di carta, bilicati, e aggirati dalle correnti opposte di gas e d’aria atmosferica
mercé una interna candela in combustione: finalmente, figure sacre e profane modellate in burro, o, se è freddo, anche
in distrutto di maiale, ecc. ecc., formano, all’uopo di copiosa illuminazione a più colori, un corredo di pompa
edificante che attrae un gran numero di divoti in giro di visita, ciò che per le donne specialmente diviene una specie di
carnevaletto in quaresima.
2
Con questo nome distinguesi la Pasqua di Resurrezione dalle altre Pasque dell’anno, che
sono la Pasqua-rosa (Pentecoste) e la Pasqua-befania (Epifania).
3
Piazza del Pantheon.
4
Quest’anno.
5
Cento.
6
Reggono.
934. La bbonidizzione de le case
1
Me fanno ride a mmé: nnun penzà ar male!
Io so ch’er prete da cuela
2
ficona
de Contessa sc’è stato un’ora bbona
a bbenedijje
3
inzino l’urinale.
E dda mé ssu la porta de le scale
’na sbruffata d’asperge a la scappona,
eppoi parze
4
ch’er diavolo in perzona
je soffiassi in ner culo un temporale.
Er chirico però, cche la sapeva,
5
rimase arreto cor zu’ bber zecchietto
pien d’acqua-santa e dde cuadrini a lleva.
6
«Ho ccapito», fesc’io, «sor chirichetto:
finissce cor pagà: ggià sse sapeva.
Affogamo per dio st’antro papetto».
Roma, 6 aprile 1833
1
Per tutta la giornata del sabato santo girano per le case di Roma i parrochi e altri preti sostituti, seguiti ciascuno da un
chierico, tutti in sottana e cotta, benedicendo le camere, i letti e gli arredi, nonché gli uovi duri e i salami, antichissimi
simboli della generazione che in quel giorno la Chiesa intende rinnovata spiritualmente mercé la risurrezione di Cristo
che compié il riscatto degli uomini.
2
Quella.
3
Benedirle.
4
Parve.
5
Cioè: «furbo».
6
Il chierico suole portare da una
mano un secchietto di acqua santa in cui il prete immerge il suo aspersorio, e dall’altra un canestro. Nel primo i fedeli
tuffano i testimoni metallici della lor divozione, al quale fine credono i maligni porsi anticipatamente in parrocchia
alcuna moneta, per leva, voglio dire per pio eccitamento, non diversamente da quanto si vede praticare nelle
beneficiate teatrali. Nel secondo poi si raccolgono le oblazioni in commestibili per sostituzione o giunta al danaro: e
quei commestibili sono sempre una porzione de’ salami e delle uova benedette dai preti e perciò fatte mezzo dritto di
stola. I preti poi riuniti tutti in parrocchia fanno una divota refezione in comune.
935. L’asina de Bbalaàmme
A ttempo de l’ebbrei c’oggni storiaro
sapeva ppiú er futuro ch’er passato,
Balaàmme, all’usanza d’un frustato
cavarcava a ccavallo d’un zomaro.
Er ciuccio
1
pe un zocché
2
ss’era affermato;
3
e ’r profeta menava.
4
«Eh ffrater caro,
perché mme fate lo scontent’amaro?».
je disse er poverello martrattato.
«Avessiv’occhi
5
com’avete mano,
6
potressivo
7
vedé cchi cc’è cqui avanti,
e snerbamme
8
le chiappe un po’ ppiú ppiano».
Forze
9
ve farà spesce
10
Iddio sa a cquanti
che li somari parlino itajjano:
cazzo! in latineria sce ne sò ttanti!
Roma, 28 aprile 1833
1
Ciuco.
2
Per non socchè.
3
Fermato.
4
Assolutamente, «percuoteva».
5
Se aveste occhi.
6
Mani.
7
Potreste.
8
Snerbarmi.
9
Forse.
10
Specie.
936. La curiosità
La prima notte, per avé una prova
si
1
la sposetta mia fussi curiosa,
je disse: «Oh, ffra le cossce io sciò
2
una cosa
che nnun hai da sapé. Gatta sce cova».
3
Poi finze de ronfà.
4
Cquanto
5
la sposa,
sapenno forzi
6
che cchi ccerca trova,
me venne ar tasto der zalame e ll’ova,
che ppe le donne sò rrobba golosa.
Figuret’io che nnun perdono mai!
Je sartai sopra; e llí cco lo spadone
in d’un ammèn-gesú
7
la bbuggiarai.
Dillo tu, Achille mio, ebbe
8
raggione?
Nun vennero accusí ttutti li guai
ch’Iddio sciarigalò
9
ppe cquer boccone?
Roma, 1° maggio 1833
1
Se.
2
Ci ho.
3
Mistero c’è.
4
Finsi di russare.
5
Ed ecco che ecc.
6
Sapendo forse.
7
In un momento.
8
Ebbi.
9
Ci regalò.
937. Lo stato d’innoscenza
Sonetti 3
Senz’Eva e Adamo, e ssenza er pomo entrato
in cuelle inique du’ golacce jjotte,
1
pe nnoi poveri fijji de miggnotte
2
nun ce saría né mmorte né peccato.
L’omo averebbe seguitato a ffotte
cualuncue donna c’avessi incontrato,
e er Monno saría tutto popolato
da mezzoggiorno inzino a mmezzanotte.
E ccome all’omo, la medema sorte
saría puro
3
toccata a oggn’animale,
pe nnun mette
4
l’esempio de la Morte.
E invesce der giudizzio univerzale,
saría vienuto Iddio parecchie vorte
a ddà una slargatina ar materiale.
Roma, 2 maggio 1833
1
Ghiotte.
2
Bagasce.
3
Pure.
4
Mettere.
938. Lo stato d’innoscenza
Dico, faccia de grazzia,
1
sor Abbate:
si er padr’Adamo nun maggnava er fico,
e nnun ce fussi mó st’usaccio antico
de fà tterra pe ccesci
2
e ppe ppatate;
ciovè,
3
cquanno le ggente che ssò nnate
nun morissino
4
mai; de grazzia, dico,
cosa succedería
5
si cquarc’amico
se pijjassi
6
a ccazzotti o a ccortellate?
Come?! Ggnisuno peccherebbe?! eh ggiusto!
Che bber
7
libber’arbitrio da granelli
8
si
9
Adamo solo se cacciassi
10
un gusto!
Bbe’, llassamo er menà, llevamo er vizzio:
me spieghi duncue che ssaría
11
de cuelli
che cascassino
12
ggiú dda un priscipizzio.
Roma, 8 maggio 1833
1
Faccia grazia.
2
Far terra per ceci, vale: «morire».
3
Cioè.
4
Morissero.
5
Succederebbe.
6
Si pigliasse.
7
Bel.
8
Vedi il
Sonetto…
9
Se.
10
Si cacciasse: si levasse.
11
Sarebbe.
12
Cascassero.
939. Lo stato d’innoscenza
Si ppe
1
cqualuncue bbuggera ggnisuno
nun potessi
2
in ner Monno morí mmai,
me levi un antro dubbio, de che gguai
saría
3
pell’omo a stà ssempre a ddiggiuno.
Lei, sor Abbate, ha da capí cche oggnuno
potrebbe maggnà ppoco, o ggnente, o assai,
strozzà ppuro
4
le pietre, e ccasomai
5
bbeve
6
er veleno senza danno arcuno.
E ccome cresscerebbe uno a ccroscetta?
7
E a cche jje servirebbe er pane e ’r vino,
e ttutta st’antra grasscia bbenedetta?
Ma cquer che ppreme è de sapé er distino
che Iddio sciavessi
8
dato a sta bbuscetta
9
dereto, co lliscenza, ar perzichino.
10
Roma, 8 maggio 1833
1
Se per, ecc.
2
Potesse.
3
Sarebbe.
4
Ingoiar pure.
5
E bisognando anche, ecc.
6
Bere.
7
A digiuno.
8
Ci avesse.
9
Buchetta.
10
Vedi il Sonetto… verso…
940. Er battifòco
A le fichette de scinqu’anni o ssei
lei vò cche ggià jje vienghino li fumi,
perché ss’abbada
1
poco a li custumi,
e jje se parla chiaro: uhm! nun zaprei.
A lo scuro le fie!
2
ma ccara lei,
si a Rroma sce sò
3
accesi tanti lumi
pe illuminalle, in tutti li patumi
4
de cazzi e de cojjoni a li musei!
Basta l’uscello solo d’un pupazzo,
basta la forma de st’uscello solo
pe ffajje indovinà ll’arte der cazzo.
Ce vò antro che ffronna sur cetrolo!
Bisoggnería cropí
5
ffronna e rrampazzo
6
co mmutanne, carzoni e ffarajolo.
Roma, 3 maggio 1833
1
Si bada.
2
Figlie.
3
Ci sono.
4
Pattumi: qui per «carnami».
5
Coprire.
6
Fronda e grappolo.
941. Oggni asceto fu vvino
Se vede bbe’
1
a le tu’ smiracolate
2
che a la scòla de Roma sei novizzio.
Che ffa
3
cc’ar tempo che llui era frate
avessi oggni vertú co ggnisun vizzio?
Già cchissà ste vertú cquale sò state;
ma ppijjamole senza preggiudizzio:
nun zai tu cquante cose sò mmutate
da la natura der diverz’uffizzio?
Prima era frate: adesso è ccardinale;
e cchiuncue tiè er culo in sto Colleggio
puzza de Papa; e cquesto è nnaturale.
Duncue me pare chiaro er privileggio
c’ha un zant’omo d’annà dda bbene in male,
e, ssi ll’ajjuta Iddio, da male in peggio.
Roma, 3 maggio 1833
1
Si vede bene.
2
Meraviglie.
3
Che rileva?, ecc.
942. Li Papati
Li Papi, er primo mese der papato,
sò, un po’ mmeno o un po’ ppiú, ttanti cunijji.
1
Oggnuno t’arinzucchera er passato:
tutti-cuanti t’infioreno de ggijji.
Ma ddajje tempo c’abbino imparato
a ffà er mestiere e a mmaneggià li stijji:
2
aspetta che ss’avvezzino a lo stato:
lassa un po’ cche jje creschino l’artijji;
e allora fra er pasvòbbi
3
e ’r crielleisonne,
cuer nuvolo de ggijji te diventa
garofoli, pe ddio, de scinque fronne.
4
Er ricco ssciala,
5
er ciorcinato
6
stenta:
strilli ggiustizzia, e ggnisuno risponne;
e ppoveretto lui chi sse lamenta.
Roma, 4 maggio 1833
1
Conigli.
2
Stigli: nome generico e complessivo degli attrezzi di qualunque opificio o bottega.
3
Pax vobis.
4
Cioè:
«pugni».
5
Gode nell’abbondanza.
6
Il meschino.
943. Lassateli cantà
Dicheno er Papa ch’è ccattivo,
1
e cquello
ha una bbontà dda nun potesse crede.
2
Badat’a vvoi, nun j’imprestate fede
a cchi pparla accusí ssenza vedello.
Io pòzzo dí
3
cc’ar lago de Castello
4
me je bbuttai pe tterra; e llui me diede,
con rispetto parlanno, a bbascià er piede
co un’umirtà ppiú ppeggio d’un aggnello.
Nun basta: mentr’io stavo in ginocchione,
s’incommidò er zant’omo d’arzà un braccio
e ddàmme
5
puro
6
la bbonidizzione.
Piú: pperch’io stavo llí ccome uno straccio,
se scanzò llui medemo, e un zovranone
lassò a mman dritta un povero cazzaccio.
Roma, 4 maggio 1833
1
«Dicono che il Papa è cattivo»: esempio di costruzione volgare.
2
Da non potersi credere.
3
Posso dire.
4
La terra di
Castel-Gandolfo, che trae il suo nome dall’antica famiglia romana dei Gandolfi, da circa otto secoli a questa parte
passò per diverse dominazioni prima di cadere sotto l’assoluto dominio dei Papi che ora vi hanno la loro villeggiatura.
È posta sopra una delle colline che circondano il Lago Albano, famoso specialmente per l’emissario scavatovi dai
Romani nell’anno di Roma 357, durante la guerra coi Vejenti, per opera dei tribuni militari Cornelio e Postumio.
5
Darmi.
6
Pure.
944. S.P.Q.R.
Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne
1
un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
«Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio».
Roma, 4 maggio 1833
1
Dimandarne.
945. L’omaccio
1
de l’ebbrei
Ve vojjo una bbuggera, ve vojjo.
Er giorno a Rroma ch’entra carnovale
li ggiudii vanno in d’una delle sale
de li Conzervatori
2
a Ccampidojjo;
e ppresentato er palio prencipale
pe rriscattasse da un antico imbrojjo,
3
er Cacamme
4
j’ordissce un bell’orzojjo
5
de chiacchiere tramate de morale.
Sta moral’è cch’er ghetto
6
sano sano
giura ubbidienza a le Legge e mmanate
7
der Zenato e dder popolo romano.
De cuelle tre pperucche inciprïate
er peruccone allora ch’è ppiú anziano
arza una scianca e jj’arisponne: «Andate».
Roma, 4 maggio 1833
1
L’omaggio.
2
I tre magistrati municipali di Roma.
3
Vedi su ciò il Sonetto...
4
Specie di giudice della sinagoga.
5
Orsoio.
6
Ricinto degli Ebrei.
7
Leggi emanate.
946. Un felonimo
1
Perché er zor Dezzio
2
senza move
3
un deto
4
va ssempre bben carzato e bben vistito?
Lo volete sapé? pperch’è mmarito
de la mojje d’un prete: ecco er zegreto.
Er bon deggno eccresiastico, anni arrèto,
5
lo conobbe pe un giovene compito:
je messe amore, e jj’asseggnò ppulito
er frutto de la viggna de Corneto.
Cuanno vedete un omo sfaccennato
che vve fa lo screpante
6
e ’r zostenuto,
guardate avanti a ttutto s’è ammojjato.
S’è scapolo, ha cquarch’antr’arma d’ajjuto:
o ll’uggna
7
longhe, o ffra ddenti e ppalato
un pezzetto de carne un po’ ppizzuto.
Roma, 5 maggio 1833
1
Un fenomeno.
2
Decio.
3
Movere.
4
Di te.
5
Addietro.
6
Lo sfoggiato.
7
Unghie.
947. Er bon esempio
Cuanno se disce poi nun ce se crede!
Come vòi crede
1
a sti parabbolani
de preti, che li cani che ssò
2
ccani
viengheno
3
piú ssinceri, hanno ppiú ffede?
Senti er curato mio che mme succede.
4
Com’oggi m’approvò
5
cche li cristiani
è ppeccato de fotte;
6
e llui domani
ballava su la panza de Pressede.
Ma ggià dar capo viè ttutta la tiggna;
7
ché ssi
8
un po’ ne mannassino
9
a l’incastro,
10
je se potría intor
11
cquarche ffufiggna.
12
«Come va», jje diss’io, «Padre Filisce?».
E llui rispose: «Lei facci,
13
sor mastro,
nò cquer ch’er prete fa ma cquer che ddisce».
Roma, 10 maggio 1833
1
Credere.
2
Sono.
3
Vengono.
4
Cioè: Senti cosa mi succede col curato mio.
5
Provò.
6
Cioè: che, per i cristiani, è
peccato fottere.
7
Proverbio.
8
Se.
9
Mandassero.
10
Ergastolo.
11
Dicesi anche rimporre, cioè «rimanere in gola».
12
Contrabando.
13
Faccia.
948. L’indurgenza papale
Sii Bbreve o llongo, ssii Bbolla o bbolletta,
a ste cose sc’è er Papa che cce penza.
Pe mmé te pòzzo dí
1
cche ll’indurgenza
beato lui chi ne pò avé una fetta.
Cuest’è una marcanzia che sse dispenza
aggratis a la ggente poveretta:
abbast’a rrigalà cquarche ccosetta
a cquello che tte stenne
2
la liscenza.
Pe cqualunque peccato se scantini,
3
c’è un’indurgenza c’arimedia a ttutto,
fora c’ar tanfeggià
4
dde ggiacubbini.
Nun c’è indurgenza a sti fijji de mulo;
e cco sto Papa chi vvò ffacce er brutto,
5
te dich’io, trova er naso p’er zu’ culo.
Roma, 10 maggio 1833
1
Ti posso dire.
2
Ti stende.
3
Scantinare: prevaricare: translato preso dal cantino degli strumenti musicali.
4
Puzzare.
5
Chi vol farci il brutto: chi vuoi farci il bell’umore.
949. La statua cuperta
1
Ha osservata, monzú, llei ch’è ffrancese,
cuella statua c’arresta
2
da sta mano
drent’in fonno a Ssan Pietr’in Vaticano,
sott’ar trono de Pavolo Fernese?
La fanno d’un pittore de Milano,
e ttanta bbella, ch’un ziggnore ingrese
’na vorta un zampietrino
3
sce lo prese
in atto sconcio e cco l’uscello in mano.
Allora er Papa ch’era Papa allora
je fesce fà ccor bronzo la camiscia
che cce se vede a ttempi nostri ancora.
Cuantuncue sce sò ccerti c’hanno detto
che nnun fussi
4
un Milordo su sta sciscia
5
de pietra a smanicà,
6
mma un chirichetto.
7
Roma, 10 maggio 1833
1
Coperta.
2
Resta.
3
I sampietrini sono «gl’inservienti e insieme artefici esclusivamente addetti alla Rev. Fabbrica di S.
Pietro, dalla quale ricevono uno stipendio e un’uniforme».
4
Fosse.
5
Cicia: bella donna.
6
Smanicare: brutta azione
oscena!
7
Questa variante favola è veramente in credito a Roma, circa alla statua giacente della Giustizia, scolpita dal
milanese Guglielmo della Porta al mausoleo di Paolo III, e coperta poi nel busto per cura del Bernino con un panno
assai ben modellato in rame.
950. L’anima
Oh tteste, vere teste da testiera!
Tante sciarle pe ddí ccome se more!
Du’ frebbettacce,
1
a vvoi, quarche ddolore,
’na stirata de scianche,
2
e bbona sera.
Da sí
3
cc’oggni cazzaccio fa er dottore,
e sputa in càtreda, e armanacca, e spera
de pesà ll’aria drento a la stadera,
se n’hanno da sentí dd’oggni colore.
Perché ll’occhio d’un morto nun ce vede?
Perché cquanno che ll’anima va in strutto,
nun lassa ar posto suo ggnisun’erede.
E mmentr’er corpo spiggionato e bbrutto
è ssord’e mmuto e nnun z’arregge in piede,
lei cammina da sé, pparla, e ffa ttutto.
Roma, 11 maggio 1833
1
Febbrettacce.
2
Gambe.
3
Da quando.
951. La perla de le donne
Te scojjoneno?!
1
oh vvarda
2
ch’ingiustizzie!
Tu cche nun pòi trovà ddonna compaggna!
che ttratti tutte case maggnatizzie,
cuante che cce ne sò ddove se maggna!
Te disprezzono?! oh ffijji d’una caggna!
loro! pieni de tàccoli
3
e mmalizzie!
A tté! che cquanti fanno l’esercizzie
4
l’obbrighi a rrisercià
5
ppiazza de Spaggna!
6
Svergoggnà tté! se pò ssentí de peggio?!
Tu cche llavori er manico a le spazzole
a ttutti li pivetti
7
der Colleggio!
Conzólete:
8
sei Tuta,
9
e ttant’abbasta.
Tu ssei come le perle scaramazzole:
er peccato è dder buscio che le guasta.
Roma, 11 maggio 1833
1
Beffeggiano.
2
Guarda.
3
Mende.
4
Fanno gli esercizi: i soldati.
5
Riselciare, cioè: battere, passeggiando di continuo.
6
Ivi già erano le meretrici protette dalla giurisdizione del Palazzo di Spagna.
7
Ragazzi.
8
Consolati.
9
Gertrude.
952. L’appuntamento
Sii detto tra pparentis:
1
accidenti!
t’abbasta mai de famme
2
stà cqui ffora?
S’ha d’aspettà de ppiú, ppe ddina nora?
Bell’ora de viení a l’appuntamenti!
Sí! vvent’ora, e la picca:
3
propio venti!
Come intocca mommó
4
ssò vventun’ora.
Venti e ttrecquarti sò ssonati allora
che Ssucchiella t’ha ttrovo
5
a li Serpenti.
6
Bravo! dàmosce
7
un po’ una scallatina.
8
Va’ vva’!
9
eh ssicuro che vva addietro un mese!
Nu lo senti per dio che nnun cammina?
Tu sguercete
10
in der mio. Cueste sò spese!
E aribbatte
11
co cquello, oggni matina,
che rregola l’imbrojji der paese.
12
Roma, 11 maggio 1833
1
Parentesi.
2
Farmi.
3
Espressione d’impazienza di chi non vuole stare al detto altrui.
4
Or ora.
5
Trovato.
6
Contrada del
Rione de’ Monti.
7
Diamoci.
8
Così suol dirsi, allorché veggasi altri por mano a un oriuoio di vecchia forma. Veggasi
su ciò il Sonetto…
9
Ve’ ve’.
10
Accècati. ecc.: semplicemente: «osserva».
11
Ribatte: si confronta.
12
L’orologio di
Monte Citorio, che dà norma alle udienze del Foro, e all’orario de’ pubblici dicasteri.
953. L’addio
Oh, ddunque, a rivedendosce,
1
sor Nino:
un zaluto a la sora Ggiosuarda.
Nun bevo, grazzie; ’ggna
2
c’arzi la farda...
3
Cojjoni! è mmezzoggiorno: antro
4
che vvino!
Ciò stammatina un frate galoppino
5
che cquanno che mm’appoggia la libbarda,
6
vò ppranzà ar tocco in punto; e ssi sse
7
tarda
un ette, va in decrivio oggni tantino.
Cosa volete! è confessor de Rosa,
e nn’ha in corpo una bbona fattarella.
8
Cacciallo! Parería
9
’na scerta cosa!...
Lui viè a rrifuscilasse
10
le bbudella
’ggni
11
dimenica: e ddoppo, io co la sposa
12
l’ariporto ar convento in carrettella.
Roma, 12 maggio 1833
1
A rivederci.
2
Bisogna.
3
Alzar la falda o le falde: andarsene.
4
Altro.
5
Mangiatore a spese d’altri, una specie del
musca degli antichi Romani.
6
Appoggiare l’alabarda: presentarsi all’altrui mensa.
7
Se si.
8
Quantità.
9
Parrebbe.
10
Rifocillarsi.
11
Ogni.
12
Pronunziata colla o chiusa.
954. La strillata
1
de mamma
Cesere, ssceggni
2
ggiú dda la funtana.
Dio mio, che rrobba! cuanto sei cattivo!
Capo-d’abbisso, alò, bbestiaccia cana!
Eh in cuer corpo che cciài!
3
l’argento vivo?!
Sscivola,
4
sí, ffijjol d’una puttana:
svícola,
4
no, cch’io tanto nun t’arrivo!
Bbasta, sciariparlamo
5
a sta bbefana:
lo vederai che llettera je scrivo.
6
Ma indove se pò ddà, ccresta mancina,
un vivolaccio, una facciaccia pronta
compaggn’a tté? Vva’ vvia, presto, cammina.
Ohé, tte vedo, sai? mica sò ttonta...
7
E mmo cosa te freghi
8
a la vittina?
9
Guàrdelo llí ssi ccome se panonta!
10
Roma, 12 maggio 1833
1
Sgridata.
2
Scendi.
3
Ci hai.
4
Scivolare, svicolare, valgono: «sottrarsi».
5
Ci riparliamo.
6
Vi è un commercio epistolare
colle befane alle quali è generosamente abbandonato dai genitori ogni merito circa alla gratitudine e alla obbedienza
de’ figli.
7
Stupida.
8
T’imbrogli.
9
Vettina: gran vaso da olio.
10
Panontarsi: panuntarsi (da panunto): imbrattarsi in
qualsiasi modo.
955. L’arisposta tal’e cquale
M’arispose accusí: «Ssentite, sora
Nanna (pe ddí ccome me disse lei),
disce, io nun zò nné rricca e nné ssiggnora,
disce, d’avecce attorno sciscisbei;
ma cquanno semo, disce, a una scert’ora,
disce, a ccontacce
1
li partiti, ehéi,
disce, io ve pòzzo dí
2
che ssi
3
Lleonora
sce n’ha avut’uno, io sce n’ho avuti sei.
E ssi
3
nnun me sò ancora maritata,
cuesto, disce, vor dí cche mm’arincressce
de staccamme
4
accusí dda Mamm’e Ttata.
Ma llei dar fatto der decan
4a
de Flessce,
5
disce, ariposa, e nnun z’è ppiú svejjata;
e cchi ddorme, se sa,
6
nnun pijja pessce».
7
Roma, 13 maggio 1833
1
Contarci.
2
Posso dire.
3
Se.
4
Staccarmi.
4a
Servitore.
5
Fesch (il Cardinale).
6
Si sa.
7
Proverbio.
956. Er poscritto
1
M’aricorderò ssempre la matina
de cuell’ammazzataccia coscrizzione.
Stàmio
2
tutti inzeppati in d’un Zalone
3
aspettanno la nostra chiamatina.
Tiramio
4
allora for da un bussolone
una palla co ddrento una cartina:
sott’a un spesce
5
poi de quajjottina,
ce misuramio
6
come er borgonzone.
Io tirai sú er ventuno, e cquanno aggnéde
7
a mmisuramme
8
senza scarpe, intese
9
c’un fariseo strillò: «Ll’è zinque piede».
Ma ddoppo grazziaddio m’ariformonno,
10
perch’ero níobbe;
11
e in capo a mmezzo mese
ebbe
12
la grazzia d’arimane
13
ar monno.
Roma, 13 maggio 1833
1
V’ha chi dice coscritto, e chi poscritto.
2
Stavamo.
3
Una delle sale del Palazzo della Cancelleria di Santa Chiesa, il
quale deve la sua origine al Cardinale Riario, e i suoi materiali al Colosseo, donde furono tolti anche per altri edifici.
4
Tiravamo.
5
Specie.
6
Misuravamo.
7
Andai.
8
Misurarmi.
9
Intesi, per «udii».
10
Mi riformarono.
11
Miope.
12
Ebbi.
13
Di
rimanere.
957. La pisida
1
Don Diego aveva preso ar Pellegrino
2
du’ anni fa una pisida d’argento,
senza che ll’argentiere in pagamento
je potessi scarpí
3
mmezzo cuadrino.
Lui je tastava er porzo
4
oggni momento;
e ppe nnun dajje prausa,
5
annava inzino
a rrèggeje
6
in parrocchia l’ombrellino
cuanno che straportava
7
er zagramento.
E ddon Diego? Arrotava.
8
Arfine in fretta
serrò jjeri er cibborio der Ziggnone,
e sse messe
9
in zaccoccia la chiavetta.
Ito in bottega poi der creditore,
je disse: «Aló, ffinimo
10
sta scoletta.
11
Eccheve
12
carcerato er debbitore».
Roma, 13 maggio 1833
1
Pisside.
2
Contrada degli orafi.
3
Carpire.
4
Tastare il polso: chiedere danari.
5
Per non dargli pausa.
6
Reggergli.
7
Trasportava.
8
Arrotare: cioè i denti: arrovellare.
9
Mise.
10
Finiamo.
11
Abitudine petulante.
12
Eccovi.
958. Er bellìcolo
1
Mi’ nonna è una mammana, e mm’aricconta
c’ar monno tutte-cuante le crature
ch’escheno for de le madre-nature
un po’ mmeno o un po’ ppiú ddoppo la monta,
ciànno
2
un budello indove sta l’impronta
der bellícolo nostro; e ddisce pure
che, ssenza scerte tale legature,
p’er feudo
3
che scappò lla morte è ppronta.
Cosa volemo dí dd’Adamo e dd’Eva
che nnun è usscito
4
da ggnisuna fica?
Sto bbudello l’aveva o nnu l’aveva?
Che tte ne pare? Sce saría pericolo
c’a ddipiggne sta coppia tant’antica
s’avessi
5
da piantà ssenza bbellícolo?
Roma, 13 maggio 1833
1
L’umbilico, il bellico.
2
Ci hanno.
3
Feto.
4
Adamo ed Eva per lo p conservano in comune il numero singolare nel
linguaggio del popolo, quasi formassero entrambi una cosa sola.
5
Si avesse.
959. Li prim’àbbiti
Avanti de maggnà ll’omo e la donna
de cuer frutto chiamato er ben’e ’r male,
l’un e ll’antro
1
era iggnudo tal e cquale
com’e Ccristo legato a la colonna.
Ma appena che lo spirito infernale
je fesce fà la prima e la siconna,
loro
2
subbito mésseno
3
la fronna
indove noi mettemo l’urinale.
Duncue bbisoggna dí cche cquarche ccosa
c’ha er ben’e ’r male de corrisponnenza
l’abbi cor dumpennente e vvarpelosa.
Antrimenti ch’edera
4
sta sscemenza
5
d’annasse
6
a vvergoggnà sposo co sposa?
7
Nun zò
8
ll’istessi co la fronna o ssenza?
Roma, 13 maggio 1833
1
Altro.
2
Loro, per «eglino».
3
Misero, posero.
4
Che era?, ecc.
5
Stolidezza.
6
Andarsi.
7
Pron. colle o chiuse.
8
Sono.
960. A li zzelanti
E ttu sforma:
1
e ttu mmastica veleno:
sfòghete sorfarolo, appicciafoco:
dàmme
2
der birbo, si
3
vvassallo è ppoco;
ma ffàmme
4
dì le mi’ raggione armeno.
5
Sí, l’arepríco,
6
tu ssei troppo pieno
de testesso medemo pe un bizzoco.
Ce vò antro che affrigge
7
in oggni loco
la Madòn der rosario e ’r Nazzareno!
Bbisoggn’avé un schizzetto
8
de prudenza
e nun fa
9
er brodoquamqua
10
pe le case,
pe rróppeje la bbuggera
11
in credenza.
12
Compatisse
13
un coll’antro:
14
ecco l’abbase
de la fede de Ddio: ché l’innoscenza
cominciò ccor primm’omo, e llí arimase.
Roma, 13 maggio 1833
1
Sformare, sformar cappelli: montare in collera.
2
Dammi.
3
Se.
4
Fammi.
5
Almeno.
6
Lo replica.
7
Affiggere.
8
Un
pocolino.
9
Fare.
10
Protoquamquam, cioè: «l’entrante, il censore».
11
Rompergli, ecc.: infastidirle.
12
In credenza: fare
una cosa in credenza. cioè: «gratuitamente, non indòtto», ecc.
13
Compatirsi.
14
Altro.
961. La notte dell’Asscenzione
Domani è ll’asscenzione: ebbè, sta notte
Nostro Siggnore pe bbontà ddivina
se ne ssceggne
1
dar celo a la sordina,
mentre che ll’univerzo o ddorme, o ffotte;
e vva ppe ttutte le maése
2
rotte,
discenno
3
ar grano: «Alò, ppassa e ccammina:
4
l’acqua diventi latte, eppoi farina,
5
pe ddiventà ppoi pasta, e ppoi paggnotte».
Ecco a li bbagarozzi la raggione
che jj’accennémo
6
addosso li scerini,
cantanno er curri curri bbagarone.
7
Ecco perché sse mette li lumini
a le finestre de le ggente bbone:
8
perché Ccristo nun batti a li cammini.
Roma, 15 maggio 1833
1
Scende.
2
Maggesi.
3
Dicendo.
4
Frase de’ giuocolari nel far passare una o più palle dall’uno all’altro de’ lor bossoletti.
5
Veramente crede il popolo che nella notte precedente all’Ascensione discenda appositamente Gesù Cristo a cambiare
in latte l’umore acquoso delle spiche.
6
Accendiamo.
7
La sera della vigilia si attaccano de’ sottili e cortissimi
moccoletti sul dorso di grossi scarabei domestici, e cantasi loro con una monotona nenia: Corri, corri, bagaróne, ché
domani è l’Ascensione: e i poveri animaluzzi, sentendosi bruciare in questo auto da-fé, corrono.
8
Le pie famiglie
espongono un lampadario fuori de’ balconi, per illuminare la discesa del Redentore, al grande atto della
trasformazione de’ frumenti.
962. Er povèta a l’improviso
Er Lanarino
1
è bbravo: io sciacconzento.
2
Ma ssi ssentissi
3
tu a li tre Mmoretti
4
er zoppo che futtuto farzamento
5
je dà, cce resteressi
6
a ddenti stretti.
Eh, sse discurre, cristo pe li tetti!,
che jjerzéra, accusí ppe ccomprimento,
bbuttò ggiú ccert’ottave de sonetti,
ch’er Tasso sciavrìa
7
fatto un istrumento.
Cantò ’na qualità de povesia,
che ppareva c’Appollo e tutt’er Monte
Parnaso fussi entrato all’osteria.
Sce fesce la cascata de Fetonte,
la morte de Sanzone e dde Golia,
Muzzio Scevola all’ara e Orazzio ar ponte,
la bbarca de Caronte,
er vol de Cruzzio
8
drent’a la voraggine,
e l’incennio de Roma e dde Cartaggine.
Roma, 15 maggio 1833
1
Un famoso improvvisatore da bettola. Vedi la Prefazione.
2
Ci acconsento.
3
Se sentissi.
4
Nome di una osteria.
5
Dar
falzamento equivale al «superare in valore».
6
Ci resteresti.
7
Ci avrebbe.
8
Curzio.
963. Le donne bbone, e le bbone donne
1
Donne mie care, avetesce
2
pascenza:
io ve porto pe mmé un amor da cane;
3
me ve vorrebbe
4
tutte a la cusscenza;
e avanti a vvoi
5
rinegherebbe
6
er pane.
Ma ppuro,
7
fra mmé e vvoi in confidenza,
bbe’ cche
8
vve maggnerebbe
9
sane sane,
sii detto co la bbona e cculiscenza,
10
sete in grazzia de ddio troppe
11
puttane.
Lassamo da una parte la Madonna,
ch’è un zanto che nun è dda nominasse,
12
e annàtemene a ttrova
13
la siconna.
14
De le bbone, fra ll’arte e ffra le bbasse,
ammalappena su sta terra tonna
ce ne sò ccento secche e ccento grasse.
Roma, 16 maggio 1833
1
Buona donna, dicesi a una bagascia.
2
Abbiateci.
3
Un amore estremo.
4
Vorrei.
5
Piuttostoché voi.
6
Rinegherei.
7
Pure.
8
Benché.
9
Mangerei.
10
Con buona licenza.
11
Troppe, per «troppo».
12
Nominarsi.
13
Trovare.
14
Seconda.
964. L’istoria de Pepèa
1
Ecco l’istoria de Pepèa de Toto.
2
Avenno visto da un par d’anni arreto
c’attenneva
3
a ingrassasse,
4
fesce voto
de princip la cura de l’asceto.
Le prime vorte ne pijjava un deto,
5
po’ un gotto mezzo pieno e mmezzo vòto,
e ffinarmente, come vò
6
er zegreto,
ne bbeveva oggni ggiorno un terramoto.
Beve che tt’aribbeve,
7
appena empito
un barile, era subbito votato;
e accusí è ito pe ddu’ anni, è ito.
E ppoi che bbonifizzio n’ha ccacciato?
C’a fforza de sta cura oggi ha ffinito
cor finí nne la cura der curato.
Roma, 16 maggio 1833
1
Nepomucena.
2
Antonio.
3
Tendeva.
4
Ingrassarsi: ingrassare.
5
Dito.
6
Vuole.
7
Bevi e ribevi.
965. La bbuscìa ha la gamma corta
Dove set’ito, sor Cianchette-a-zzeta?
1
a mmessa? propio a mmessa? ebbè, sta messa
in che cchiesa, e a cche ora v’è ssuccessa?
De che ccolore è stata la pianeta?
Ar Pianto?
2
nò; pe vvia
3
che cc’era Teta
nell’istess’ora e in ne la cchies’istessa.
De bbianco? nò, pperch’è mmorta l’ostessa,
lassannose
4
pe llei
5
bbona moneta.
Però er discorzo pare corto corto:
si
6
nun ha vvisto a tté la lavannara,
e ttu in ner Pianto nun hai visto er morto,
se pò striggne,
7
e scommettesce
8
magara,
9
che ttu, ppe stammatina, brutto storto,
sei stato a ssen mmessa a la Salara.
10
Roma, 16 maggio 1833
1
Storto.
2
Chiesa di S. Maria del Pianto in Piazza Giudea.
3
Per via, perché.
4
Lasciandosi.
5
Per sé.
6
Se.
7
Si può
stringere.
8
Scommetterei.
9
Magari.
10
Udir messa alla Salara; salar la messa. vale: «lasciarla, non udirla».
966. La Siggnora Pittora *
La mi’ padrona (e mmica sce prosume)
1
frabbica scerti cuadri de pittura,
che ssi vviè
2
a Rroma la madre-natura,
pe rrabbia, te dich’io, se bbutta a ffiume.
Ha inventato una spesce
3
de custume
d’arberi, co una sorte de figura
de bbestie, che nnun fo ccaricatura
te faríano
4
sbascí
5
dde tenerume.
6
È llesta, che ddipiggne per assarto;
e averessi da vede
7
cuer cuadrone
che ffesce jjeri a ttredisciora e un cuarto.
Er giorn’avanti lei me mannò a ttrova
8
un Monzú a ddimannajje un’istruzzione
pe ffà la lusce de la luna nova.
Roma, 16 maggio 1833
* Quel che segue è realmente accaduto a Roma in persona della Principessa Reale di Danimarca.
1
Ci presume.
2
Se
viene.
3
Specie.
4
Farebbero.
5
Basire.
6
Tenerezza.
7
Avresti da vedere.
8
Mandò a trovare.
967. Un cuadro bbuffo
1
Chi è sto bbrutto vecchio caccoloso,
che in logo de stà in pasce in zepportura,
succhia co la bboccaccia er caporello
2
de cuella donna, come una cratura?
Chì è sta vacca che nnun ha ppavura
de dà er latte a cquer po’ dde bbambinello,
che ppare er Merdoccheo de la Scrittura,
o, cquanno nun è llui, pare er fratello?
A mmé ppuro
3
me piasce sto succhietto;
ma ppe cquanto me spremo in comprimenti,
ggnisuna bbalia vo attaccamme
4
ar petto.
Cuello averà ccent’anni, io nnun n’ho vventi
er zuo sta bbasso, e ’r mio sarta
5
sur tetto:
duncue? sarà er motivo de li denti.
Roma, 18 maggio 1833
1
La Carità Romana.
2
Capézzolo.
3
Pure.
4
Attaccarmi.
5
Salta.
968. La bbellezza
Nun ha da preme
1
a vvoi si nun zò
2
bbella.
Ebbè, ssi
3
nnun zò bbella, sò ppiascente;
e ssi nun piascio a vvoi, piascio a antra ggente.
Ve garbeggia accusì, ssor cacarella?
4
Le bbellezze l’ha ttutte Marí-Stella,
che dda tanto che ffa la protennente,
5
ancora nun ha ttrovo
6
un accidente
pe pperde
7
er brutto nome de zitella.
Fuss’omo io, fijjolo, co sti lumi
de luna,
8
nun starebbe
9
a la bbellezza
cuanto c’a la salute e a li custumi.
Ché ggià
10
ste bbelle nun ce pòi commatte;
11
e mmessa che ppoi j’abbi la capezza,
de scarpe er tempo te le fa cciavatte.
12
Roma, 18 maggio 1833
1
Premere.
2
Se non sono.
3
Di qui fino a tutto il verso seguente sono parole esattamente ripetute ogni momento dalle
Vanitose romanesche.
4
Ragazzaccio.
5
Pretendente.
6
Trovato.
7
Perdere.
8
Con questi torbidi; con questi pericoli, ecc.
9
Starei.
10
In primo luogo.
11
Combattere.
12
Ciabatte.
969. La zitellona levitata
1
Sora Caterinella! ebbè? cche ffamo?
2
se maggna o nnun ze maggna sti confetti?
Che ddiavolo! sti sposi bbenedetti
stanno ancora in der cazzo ar padr’Adamo?
Me pare un pezzo che bbuttate er lamo,
3
ma vve viengheno
4
sú ppochi pesscetti:
è un pezzo che ffischiate all’uscelletti,
ma ssò ffurbi e nnun zènteno
5
er richiamo.
Eppuro nun zei guercia e nnun zei storta;
e cchi mmai mormorassi,
6
Iddio ne guardi,
che nun zai cacà ffijji da la sporta,
basta che ttu pportassi sti testardi
a Ssanspirito-in-Zassi
7
una sor vorta
8
li faressi
9
restà ttutti bbusciardi.
Roma, 19 maggio 1833
1
Lievitata: stagionata.
2
Facciamo.
3
L’amo.
4
Vengono.
5
Sentono.
6
Mormorasse.
7
Ospedale di S. Spirito in Sassia, ov’è
la casa degli esposti.
8
Una sol volta: una sola volta.
9
Faresti.
970. A li ggiacubbini
Giacubbini somari, state in tono,
ché ddoppo er zole pò vviení er tempaccio.
Nun ve fidate tanto de cuer braccio
der Papa che vve dà ssempre er perdono.
Nun dite: «Er Zanto-Padre è un omo bbono»:
bbon omo nun vò ddí ssempre cazzaccio;
e ssi una vorta o ll’antra roppe er giaccio,
1
trista la mmerda che ffa ppuzza ar trono!
Er Papa, è vvero, ha mmorto ggentilesimo,
2
ma un po’ de mosche ar naso che jje vanno,
ve ne dà ttante pe cquant’è er millesimo.
3
Giacubbini somari, stat’all’erta:
nun ve mettete sur caval d’Orlanno:
4
omo a ccavallo sepportura uperta.
5
Roma, 19 maggio 1833
1
Rompe il ghiaccio.
2
Ha molta gentilezza.
3
1833.
4
Orlando. Proverbio.
5
Altro proverbio.
971. La diliggenza nova
Io, dijje
1
a cquela testa de cucuzza
de la sposa der fijjo de Vincenza,
c’ho vviaggiato una vorta in diliggenza
inzin’a un po’ ppiú in zú dde la Merluzza.
2
E cche llí bbisoggnava, co lliscenza,
tiené le chiappe, pe ssentí cche ppuzza
de vacchetta e vvernisce! E llei sce ruzza
3
a scramà
4
che la pippa è una schifenza.
Tre ggiorni prima che lle’ usscissi in zanti,
5
je s’incordò la panza p’er sospetto
ch’io je fuss’ito co un zicàrio
6
avanti.
Pènzete
7
dunque che ssaría de lei,
si jj’entrassi
8
de posta
9
sott’ar letto
la diliggenza mia cor tir’a ssei.
Terni, 27 maggio 1833
1
Dirgli, per «dille».
2
Luogo a quindici miglia da Roma, sulla Via...
3
Ci scherza.
4
Esclamare.
5
Che ella uscisse in
sanctis. Le donne, dopo i quaranta giorni del puerperio, vanno a farsi purificare in chiesa coll’acqua-santa di cui il
prete le asperge dietro la offerta di una candela, successa all’antico paio di colombe: e ciò chiamasi «uscire in sanctis
». Per tutto il lasso del detto puerperio, le romane almeno, non possono patire odori di sorta, senza grave rischio di
vita, al che contribuisce spesso la fantasia.
6
Sigaro, zigaro o cigaro.
7
Pènsati.
8
Se gli (le) entrasse.
9
Tutto ad un tratto.
972. Er peccato origginale
Arrivato a l’età dde la raggione
Ggesucristo entrò a sguazzo
1
in ner Giordano,
e sse fesce
2
cristiano, fedelone,
cattolico, apostolico, romano.
Poi se n’annò ccor croscifisso in mano
predicanno a ’ggni sorte de perzone
che cchi nun z’è ssciacquato er coccialone
3
vederà er paradiso da lontano.
L’unica fu la Vergine Mmaria
che sse sarvò
4
ssenz’èsse bbattezzata,
perché, a cquanto se sa, mmorze
5
ggiudia.
E la cosa è bbenissimo aggiustata.
Nun aveva bbisoggno de lesscía
6
chi nnascé
7
ccome un panno de bbucata.
8
Terni, 27maggio 1833
1
A guazzo.
2
Si fece.
3
La testa.
4
Si salvò.
5
Morì.
6
Di...
7
Nacque.
8
Di bucato.
973. La prima cummuggnone
1
Terminata che ffu ll’urtima scena,
2
Cristo diede de piccio
3
a una paggnotta,
la conzagrò, la róppe,
4
e, appena rotta,
cummunicò un e ll’antro
5
a ppanza piena.
6
E ss’ha da dí cche ppropio stassi
7
in vena,
pe ddà la su’ fettina a cquer marmotta
de Ggiuda (vojjo dí Ggiuda Scariotta),
che annò a ffa cquer tantin de cannofiena.
8
Poi lui puro,
9
viscino a la passione,
pe mmorí cco li santi sagramenti,
se maggnò da sestesso in cummuggnone.
S’intenne
10
ggià cco ttutti l’ingredienti;
ciovè
11
ddoppo una bbona confessione,
pe rregola dell’antri
12
pinitenti.
Terni, 27 maggio 1833
1
Comunione.
2
Cena.
3
Diede di piglio.
4
Colla o chiusa: «ruppe».
5
Uno e l’altro, tutti.
6
Come sono cambiati i costumi!
Andate ora dopo mangiato a prendere l’Eucaristia! Vi beete la condanna del qui manducat et bibit indignè. Ma in quel
cenacolo, l’ultimo boccone sarà disceso nello stomaco all’ultimo minuto avanti la mezza-notte, e la comunione
sacramentale al primo minuto seguente, ciò che forma una intiera giornata, e val meglio che non una digestione già
perfetta in sei o sette ore seguite in una giornata medesima. Ecco il vero spirito del digiuno naturale, prescritto ad uno
stomaco destinato per albergo al Signore.
7
Stasse.
8
Altalena.
9
Egli pure, anch’egli.
10
S’intende.
11
Cioè.
12
Degli altri.
974. Er viaggio de l’Apostoli
Morto er Ziggnor’Iddio da bbon cristiano,
oggni apostolo vivo, a ppiede a ppiede,
se messe
1
in giro a ppredicà la fede
cor zacco in collo e ccor bastone in mano.
Uno aggnede
2
a la Storta, uno a Bbaccano,
un antro
3
a Mmonterosi, e un antro aggnede
a Nnepi; e in ner viaggià, ccome succede,
véddeno
4
tutto er Monno sano sano.
Naturarmente, ar Monno, oggni paese
aveva la su’ lingua, chi spaggnola,
chi ttodesca, chi rrussia, e cchi ffrancese.
Eppuro
5
quelli co una lingua sola
se fesceno
6
capí dda chi l’intese,
che nun ze ne spregò mmezza parola.
Terni, 28 maggio 1833
1
Si mise.
2
Andò.
3
Altro.
4
Videro.
5
Eppure.
6
Si fecero.
975. Una difficortà indiffiscile
1
Quelle quattro parole de latino
hanno, dico, d’avé ttanto valore
de mutà mmezzo càlisce de vino
ner zangue che sverzò
2
Nnostro Siggnore!
Nun badanno
3
c’ar gusto e cc’ar colore,
se diría:
4
questa è rrobba de Marino;
5
ma nnun badanno a la vista e ar zapone,
s’ha da ggiurà: cquest’è ssangue divino.
Ma co la cosa
6
che sto sangue arresta
7
ner calisce der prete tal e cquale
che ffussi
8
ancóra er zugo de l’agresta;
9
io voría dimannavve
10
si
11
un bucale
12
de vino conzagrato po ddà in testa
de chi sse lo bbevessi,
13
e ffajje male.
14
Terni, 29 maggio 1833
1
Difficile.
2
Versò.
3
Non badando.
4
Si direbbe.
5
Marino, terra vicino a Roma, ferace di buoni vini.
6
Ma pel motivo.
7
Resta.
8
Fosse.
9
Il sugo dell’agresto: il vino.
10
Vorrei dimandarvi.
11
Se.
12
Boccale.
13
Se lo bevesse.
14
Fargli.
976. Un conto arto-arto
1
È de fede c’appena una cratura
2
scappa for da la picchia,
3
er Padr’eterno
la mette a nnavigà ssott’ar governo
d’un Angelo e dd’un diavolo addrittura.
4
Uno de loro st’anima prucura
de dàlla
5
ar paradiso, uno a l’inferno,
sin che sse vedi
6
chi gguadaggna er terno
7
ner giorno che vva er corpo in zepportura.
Liticàtase l’anima ar giudizzio,
oggnuno de li dua serra bbottega,
8
pe nun rifà mmai ppiú sto bbell’uffizzio.
Oh mmò ttira li conti, amico mio,
sopr’ar Gener’umano, e vva’ cche ffrega
9
d’angeli e dde demoni ha ffatt’Iddio!
Terni, 29 maggio 1833
1
Alto-alto: approssimativo.
2
Creatura.
3
Nome da aggiungersi a quelli del Sonetto...
4
A dirittura, subito.
5
Di darla.
6
Sin che si veda.
7
Chi vince la prova.
8
Cessa dalle sue funzioni.
9
E guarda che quantità.
977. Er giudizzio in particolare
Mentre in ne l’angonía
1
tira er fiatone,
2
se
3
vede er peccatore accant’ar letto
er diavolo a mman dritta co un libbrone,
e ll’angiolo a mman manca co un libbretto.
Nell’uno e ll’antro
4
sta ttutto er guazzetto
5
de le cose cattive e dde le bbone
c’abbi
6
fatto in zu’ vita er poveretto:
penzieri, parole, opere e omissione.
Lui se voría
7
scusà, mma Iddio nun usa
de sentí le raggione de chi mmore,
e lo manna
8
a l’inferno a bbocca chiusa.
Cusí in terra er Vicario der Ziggnore
fa cco li vivi; e nnun intenne
9
scusa
da ggnisuno,
10
ossii ggiusto o ppeccatore.
Terni, 29 maggio 1833
1
Agonia.
2
È affannato.
3
Si.
4
Altro.
5
La mistura.
6
Che abbia.
7
Egli si vorrebbe.
8
Manda.
9
Non intende.
10
Nessuno.
978. Er madrimonio sconcruso
Ggnente: nun c’è ppietà: nnun m’arimovo.
1
Io pe la tiggna,
2
bbella mia, sò ll’asso.
3
Ho ppiú ttostezza io mó cco llei, che un zasso
che ffascessi a scoccetto cor un ovo.
4
Pe nun guardalla mai quanno la trovo,
vado tutto intisito
5
e a ggruggno
6
bbasso,
come un pivetto
7
che la festa a spasso
sa d’avé addosso er vistituccio novo.
Lei m’aveva da fà mmeno dispetti:
m’aveva da tiené mmejjo da conto,
e ffàsse
8
passà vvia tanti grilletti.
9
Io sposalla? è impossibbile: nun smonto.
10
Sc’è ttropp’onore tra li mi’ parenti
perch’io vojji pe llei fàjje
11
st’affronto.
Terni, 29 maggio 1833
1
Non mi piega.
2
Per la ostinazione.
3
Sono l’asse: metafora presa dal giuoco di carte, così detto della briscola, nel
quale l’asse è la carta superiore.
4
Si giuoca a Roma dalla plebe percuotendo colla parte più acuta di un uovo allessato
(chiamato ovo tosto) sulla stessa parte d’un uovo simile che tiene in mano l’avversario. Colui, il guscio del cui uovo si
frange all’urto, perde il giuoco: e ciò dicesi fare a scoccetto.
5
Teso, ritto.
6
Volto.
7
Fanciullo.
8
Farsi.
9
Capricci.
10
Non
discendo, non cedo.
11
Fargli, per «far loro».
979. La donna gravida
O sii femmina o mmaschio, o bbello o bbrutto
farò cquer che vvorà Ddio nipotente.
Bbasta sii san’e llibbero: ecco tutto.
Der resto nun m’importa un accidente.
1
Nun c’è stato che un caso assciutt’assciutto
2
de sapé pprima d’èsse
3
partorente
s’era omo o ddonna er benedetto sfrutto
der tu’ ventr’e ttu jèso.
4
Ma la ggente,
che vvò ffà in oggni cosa l’indovina,
protenne
5
da la forma de la panza
de travede si
6
cc’è ggallo o ggallina.
Nun ce potrebbe stà una misticanza
d’un passeretto e dd’una passerina
7
da fà ttra lloro un’antra
8
gravidanza?
Terni, 30 maggio 1833
1
Nulla.
2
Solo solo.
3
D’essere.
4
Il benedictus fructus ventris tui Jesus.
5
Pretende.
6
Se.
7
Vedi il Sonetto...
8
Altra.
980. Le quattro tempora
1
Sete curioso voi! Avevio
2
fame
e nnun c’era antro
3
da maggnà, nnun c’era!
Queste nun
4
rraggione pe jjerzera!
De tempora un par d’ova in ner tigame?!
5
Nò, nnò, mmanco
6
una fetta de salame.
Iddio nun porta in mano la stadera.
Com’è rrobba províbbita, chi spera
ne la pochezza è un giacubbino infame.
Vedi: si ppuro
7
avessi, padron Biascio,
8
le vertú dde millanta Salamoni,
tant’e ttanto
9
ar maggnà bbiggna annà adascio.
10
Perché, ffratello, in quell’antri carzoni
11
pesa ppiú un ovo e una grosta de cascio
che ttutte ste Vertú dde li cojjoni.
15 agosto 1833
1
I quattro-tempi dell’anno, cioè i digiuni e le astinenze dalle carni che la Chiesa prescrive nei giorni di mercoldí,
venerdí e sabato più prossimi agli equinozii ed ai solstizii, per rendere forse benigna la natura in que’ critici momenti.
Qualunque di questi dodici giorni si dice tempora: oggi è tempora, la quale voce deriva senza dubbio dalle parole
quatuor tempora anni.
2
Avevate.
3
Non c’era altro.
4
Non sono.
5
Nel tegame, nella tegghia.
6
Neppure.
7
Se pure:
quando anche.
8
Biagio.
9
Ad ogni modo.
10
Bisogna andare adagio.
11
In quell’altro mondo.
981. Er Monno
1
Vedi mai nove o ddiesci
2
cor palosso
attorno a un ber
3
cocommero de tasta,
che inzinamente
4
che cce sii rimasta
’na fetta da spartí, ttajja ch’è rrosso?
5
Accusí er Monno: è ttanto granne e ggrosso,
e a nnove o ddièsci Ré mmanco j’abbasta.
Oggnuno vò er zu’ spicchio, e ppoi contrasta
lo spicchio der compaggno e jje dà addosso.
E llèvete
6
li scrupoli dar naso
che nnoi c’entramo per un cazzo:
7
noi
semo monnezza
8
che nnasscémo a ccaso.
Ar piuppiú ciacconcedeno
9
er ristoro
de quarche sseme che jje casca, eppoi
n’arivonno
10
la mmànnola
11
pe llòro.
10 settembre 1833
1
Il mondo.
2
Nove o ddieci: sottintendi «persone».
3
Bel.
4
Insino.
5
Taglia, ch’è rosso: dicesi anche nelle circostanze di
una determinazione ferma di spacciare alcun ché.
6
Levati.
7
Che noi mai ci entrassimo per nulla.
8
Siamo immondezza.
9
Ci concedono.
10
Ne rivogliono.
11
Mandorla.
982. Ciamancherebbe quest’antra
1
Semo fritti, o rreggina:
2
er zor Grigorio
vò arimette
3
le scedole de carta:
4
eppoi nun lo mannate a ffasse squarta
5
co ttutto er zu’ piviale e ’r fardistorio!
Si
6
ha bbisoggno de noi, pisscia risorio
7
e cce fa ttutti cavajjer de Marta;
8
ma un po’ c’aridà ssú,
9
vviè
10
e cciaribbarta
11
pe ffijji de Pasquino e de Marforio.
12
Eh a sta maggnèra
13
cqui ttutti sò bboni
a ppagà cchi ha d’avé, ssenza ch’aspetti:
che bbella forza de li mi’ cojjoni!
Una risma de carta a scaccoletti,
e ecco le mijjara e li mijjoni
pe sserví da quadrini e ffazzoletti.
14
Terni, 16 ottobre 1833
1
Ci mancherebbe quest’altra.
2
Siamo fritti, ecc. Modo d’espressione proverbiale usato per esprimere un avvenimento
ruinoso.
3
Vuol rimettere.
4
Dopo le vicende politiche del 1831, era nata voce che il Papa meditasse di mettere in
circolazione una carta monetata onde riparare in que’ primi momenti all’enorme squilibrio dell’erario: riparo che si è
poscia cercato nei prestiti. Vedi il sonetto...
5
A farsi squartare.
6
Se.
7
Rosolio.
8
Malta. Si allude alle moltissime croci
cavalleresche dispensate ai zelatori della causa sovrana.
9
Ridà sù.
10
Viene.
11
Ci ribalta, ci rinega.
12
Due pubbliche
statue, delle quali vedi i sonetti...
13
Maniera.
14
Aggiungi «per nettarsi», ecc.
983. Er patto-stucco
1
Sto
2
prelato a la fijja der zartore,
che cciannava a stirajje
3
li rocchetti,
je fesce vede
4
drent’a un tiratore
una sciòtola
5
piena de papetti,
6
discennoje:
7
«Si vvòi che tte lo metti,
8
sò ttutti tui
9
e tte li do dde core».
E llei fesce bbocchino e ddu’ ghiggnetti,
eppoi s’arzò er guarnello
10
a Mmonziggnore.
Terminato l’affare, er zemprisciano
11
pe ppagajje
12
er noleggio de la sporta,
13
pijjò un papetto e jje lo messe
14
in mano.
Disce: «Uno solo?! e cche vvor dí sta torta?
15
Ereno tutti mii!...»
16
- «Fijjola, piano»,
disce, «sò ttutti tui, uno pe vvorta».
17
Terni, 16 ottobre 1833
1
Far patto-stucco, vale: «fare un contratto complessivo di tutte le sue parti a un solo prezzo prestabilito».
2
Questo.
3
Ci
andava a stirargli, ecc.
4
Le fece vedere.
5
Ciotola.
6
Il papetto è moneta d’argento da due paoli.
7
Dicendole.
8
Se vuoi
che te lo metta. Dove poi e che, Dio lo sa!
9
Son tutti tuoi.
10
Si alzò la vesta.
11
Ironia di semplice.
12
Per pagarle.
13
Vedine il senso nel Son...
14
Le lo mise.
15
Che è questo?
16
Erano tutti miei!...
17
Uno per volta.
984. L’abborto
A Ssaspírito in Zassi,
1
in d’un boccione
pien d’acquavita de le sette peste,
2
sc’è a mmollo una cratura co ddu’ teste,
come che ll’arma der ministro Appone.
3
Er cerusico nostro de l’Urione,
4
che ste fotte
5
le spiega leste leste,
m’ha ddetto ch’è un buscèfolo,
6
e cche cqueste
sò ccose che cce vô la spiegazzione.
Abbasta, dico, o ssii scefolo o ttonno,
vojjo vede
7
ar giudizzi’ univerzale
co cquanti nasi ha da rinassce
8
ar Monno.
Si n’ariporta dua, bber
9
capitale
da paradiso! e ssi uno, er ziconno,
dico, indove arimane, a lo spedale?
Terni, 17 ottobre 1833
1
A Santo Spirito in Sassia, uno degli ospedali di Roma.
2
Cioè rettificata: alcool.
3
Il conte Appony, ambasciatore
austriaco presso la Santa Sede.
4
Del rione. Ogni rione di Roma ha medico, chirurgo e farmacia, per gratuito soccorso
de’ poveri infermi.
5
Queste materie.
6
Bicefalo.
7
Vedere.
8
Rinascere.
9
Bel.
985. Er cane
Er cane? a mmé cchi mm’ammazzassi
1
er cane
è mmejjo che mm’ammazzi mi’ fratello.
E tte dico c’un cane com’e cquello
nun l’aritrovi a ssono de campane.
Bbisoggna vede
2
come maggna er pane:
bbisoggna vede come, poverello,
me va a ttrova
3
la scatola e ’r cappello,
e ffa cquer che noi fàmo
4
co le mane.
Ciaveressi da èsse
5
quann’io torno:
me sarta
6
addosso com’una sciriola,
7
e ppare che mme vojji dà er bon giorno.
Lui m’accompaggna le crature a scòla:
lui me va a l’ostaria: lui me va ar forno...
Inzomma, via, j’amanca la parola.
8
Terni, 18 ottobre 1833
1
Mi ammazzasse.
2
Vedere.
3
Trovare, per «cercare».
4
Facciamo.
5
Ci avresti ad essere.
6
Mi salta.
7
Ciriola.
8
Cioè: «non
gli manca che la parola».
986. L’udienza de Monziggnore
Nun dico che nun vai
1
da Monziggnore,
ché de raggione tu cce n’hai d’avanzo:
dico che nun ce vai de doppo-pranzo,
perch’è arta la pasqua,
2
Sarvatore.
Quell’è er tempo ch’er povero siggnore
fa un po’ de ròtti
3
sur zofà de ganzo:
4
e llui se pijja quer tantin de scanzo
5
pe ddà
6
udienza a le pupe
7
e ffà l’amore.
Oppuramente
8
ruzza
9
cor caggnolo,
o s’aritira in stanzia a ccontà er morto,
10
o bbiastima
11
tra ssé dda sol’a ssolo.
Nun ciannà
12
ddunque a or d’indiggistione,
13
ché la matina, è vvero, pò ddà
14
ttorto,
ma er doppo-pranzo nun dà mmai raggione.
15
Terni, 18 ottobre 1833
1
Che tu non vada, che non ci vada.
2
Essere alta la Pasqua, vuol dire: «essere ubbriachi».
3
Rutti.
4
Stoffa d’oro o
d’argento.
5
Intervallo di tempo.
6
Per dare.
7
Femine.
8
Ovvero.
9
Scherza.
10
Oro sepolto.
11
Bestemmia.
12
Non ci andare.
13
Indigestione, per «digestione»: scambio di voci frequente nel popolo.
14
Può dare.
15
Fra i molti prelati, ai quali
questo sonetto può riferirsi, non possono passarsi sotto silenzio i monsignori Cioia e Capelletti, il secondo dei quali
già governatore di Roma ed oggi cardinale, ed il primo divenuto Uditor della Camera da Commendatore di Santo
Spirito, e fra breve cardinale anch’esso.
987. Er Curato de ggiustizzia
Un curato da mette
1
appett’a cquesto
quanno lo pôi trovà ccerchelo puro,
2
dotto compagn’a llui, lescit’e onesto,
inzomma un zanto appiccicato ar muro.
Addimànnelo
3
ar chírico: ecce testo:
4
lui te pò ddì ssi
5
cquanto è mmuso duro,
e ssi ppe mmette
6
li sciarvelli
7
a sesto
er vicolo
8
lo trova de sicuro.
È un vero Salamone:
9
e lo sa Rrosa
si in articolo affari de cusscenza
vò la santa ggiustizzia in oggni cosa.
Lei se
10
fasceva fotte da Ggiuvanni,
e llui pe ffajje
11
fà la pinitenza
j’ha
12
bbuggiarato un fijjo de sett’anni.
13
Terni, 19 ottobre 1833
1
Mettere.
2
Pure.
3
Dimandalo.
4
Ecce testis.
5
Se.
6
Mettere.
7
Cervelli.
8
La via, il modo.
9
Salomone.
10
Ella si.
11
Fargli,
per « farle ».
12
Gli ha, per «le ha».
13
Un saggio di questa giustizia distributiva lo ha dato un don Diego Mattei, pio
parroco in Terni.
988. Settimo,
1
seppellì li morti
Bbast’a vvede
2
sto bboja de Curato
si
3
ccome seppellí Bbonaventura!
che ffussi puro
4
stato scopatura,
l’averebbe ppiú mmejjo bben trattato.
Ma cquanno che ccrep’io, per dio sagrato,
vojjo fà stenne
5
una bbrava scrittura
che bbuttannome drento in zepportura
me sce mettino bbello arissettato.
Bbisogn’èsse ggiudii
6
pe nnun capilla
7
che ffa ppiú ccosa
8
er zeppellicce
9
bbene
che de cantacce
10
in culo una diasilla.
Perch’io sentivo dí ssempre da Nonno
che ll’anima arimane in de le pene
come ch’er corpo suo casca a sto monno.
11
Temi, 19 ottobre 1833
1
La settima opera di misericordia corporale.
2
A vedere.
3
Se.
4
Fosse pure.
5
Voglio fare stendere.
6
Essere giudei.
7
Per
non capirla.
8
Fa più cosa: rileva più; influisce più.
9
Il seppellirci.
10
Di cantarci.
11
La Chiesa grida che il dannato aut
ad austrum, aut ad aquilonem, in quo loco ceciderit, ibi erit. Il volgo porta più in là la credenza, dappoiché moltissimi
hanno per articolo di fede che come il corpo si avviene a cadere nel sepolcro cosí l’anima cade e resta per sempre
nell’inferno. Che se la cosa va realmente cosí, pare prenderne consistenza la opinione di qualche dotto scrittore che
pensa i dannati giacere resupini e a strati come le acciughe in barile; e il fuoco eterno, compenetrando quei suoli, fare
le veci del sale per la conservazione della materia che strugge.
989. Settimo, nun rubbà
Settimo nun rubbà.
1
Cquesto è un proscetto
2
da ficcàsselo
3
bbene in de la mente;
epperò, Ggnazzio,
4
nun rubbà mmai ggnente,
quanno er bisoggno nun te scià
5
ccostretto.
E, a la peggio, abbi un po’ de ggiudizzietto
de nun fàttene
6
accorge
7
da la ggente;
ché ar fin de fine er comparí innoscente
è ssempre mejjo assai der cavalletto.
8
La profession der ladro è bbella e bbona;
ma ddar momento c’arincrebbe a Ddio
è ddiventata un’arte bbuggiarona.
Pe cquesto dàmme
9
retta, Ggnazzio mio:
piú ppresto
10
c’arrubbà, scrocca, cojjona,
11
campa d’innustria, e ffa’ ccom’e Ddon Pio.
Terni, 20 ottobre 1833
1
Il settimo precetto del Decalogo.
2
Precetto.
3
Ficcarselo.
4
Ignazio.
5
Ti ci ha: ti ci abbia.
6
Di non fartene.
7
Accorgere.
8
Supplizio notissimo alle natiche romane e tedesche.
9
Dàmmi.
10
Piuttosto.
11
Inganna.
990. Lo scortico
1
Dichi
2
quer che jje
3
pare chi ggoverna,
a mmé mme piasce de fregà, ccompare;
e le puttane me sò ttante
4
care,
che le vado a scavà cco la lenterna.
5
Nun fregheno l’uscelli all’ari’esterna?
nun fregheno li pessci in fonn’ar mare?
dunque io vojjo fregà cquanto me pare,
e ffregamme
6
si mmai
7
la vit’eterna.
Mentre ch’Iddio m’ha ddato sto negozzio,
è sseggno che jj’aggarba in concrusione
ch’io lo maneggi e nnun lo tienghi in ozzio.
Ma ssii
8
peccato: ebbè? ssò
9
ssempre leste
’na bbona confessione e ccummuggnone
10
pe ffà ppasce co Ddio tutte le feste.
Terni, 20 ottobre 1833
1
«L’atto carnale», vocabolo la cui etimologia deve forse cercarsi in scortum.
2
Dica.
3
Gli.
4
Mi son tanto. I Romaneschi
accordano la preposizione col genere e col numero del nome.
5
Lanterna. Il nostro Romanesco non durela fatica di
Diogene.
6
Fregarmi.
7
Se mai: quand’anche si voglia.
8
Sia.
9
Sono.
10
Comunione.
991. Er vedovo
Er zanto madrimonio? er pijjà mmojje?
accidentacci a cchi ne disce bbene.
Ar ripenzà ar passato, me s’accojje
1
la massima
2
der zangue in de le vene.
È mmeno male de passà in catene
mill’anni, senza mai potesse ssciojje:
3
è mmejjo a vvive
4
drent’a un mar de dojje
tutto pien de bbubboni e ccancherene.
Li crapicci, li ghetti,
5
li scompijji...
Ma, ssenza che tte sfili la corona,
bbasta er mal de le corna e dde li fijji.
Eppoi, fussi
6
la mojje cosa bbona,
ciaverebbe
7
pe ssé mmesso l’artijji
sta razzaccia de preti bbuggiarona.
Terni, 20 ottobre 1833
1
Mi si accoglie: mi si putrefà.
2
Massa.
3
Potersi sciogliere.
4
Vivere.
5
Gli strepiti.
6
Se fosse.
7
Ci avrebbe.
992. La porta dereto
1
Er Papa tiè
2
una scerta portiscella
pe ddove verzo sera un par de spie
je
3
vanno a rrescità le lettanie
e a sputasse
4
pormoni e ccoratella.
Llí jje bbutteno ggiú ’ggni marachella
5
de teatri, caffè, ccase, ostarie...
e, mmezze verità, mmezze bbuscìe,
ciànno
6
sempre da dì cquarche storiella.
Ecco da che ne nassce quarche vvorta
che tte vedi li zzaffi
7
a la sordina:
è ttutto pe vvertú dde quella porta.
E cchi ssò
8
ste du’ spie? Vall’a indovina.
9
Oggni lingua oggidí cche nun zii
10
morta
pò èsse
11
un de li dua che tte cuscina.
12
Terni, 20 ottobre 1833
1
Di dietro.
2
Tiene.
3
Gli.
4
Sputarsi.
5
Ogni pecca.
6
Ci hanno.
7
Birri.
8
Sono.
9
Vallo a indovinare.
10
Non sia.
11
Può
essere.
12
Ti cucina. A chi però fosse curioso di conoscere le due spie del Papa (Leone XII), diremo che erano il signor
Gianfrancesco Cecilia e il signor... Calderari, l’uno colonnello e l’altro luogotenente de’ carabinieri.
993. Lo scalìn de Rúspoli
1
E aringrazziam’Iddio: mancozimale.
2
Oh ttiette
3
poi dar rinegà la fede!
Ciavemio
4
quer boccon de marciapiede
d’affittacce
5
le ssedie er Carnovale;
nonziggnóra: viè
6
er Zagro tribbunale
de le strade, e cch’edè?
7
cce vô ffà ccrede,
8
perché la ggente nun ze metti a ssede,
9
ch’er Corzo
10
come stava stassi
11
male.
E ssubbito, aló,
12
mmano a li picconi,
e pper aria sto povero scalino.
Perché ppoi? pe ingroppà
13
cquattro maggnoni.
Ma inzinenta
14
a li serci
15
e ar travertino
s’ha da roppeje
16
a Rroma li cojjoni?
Ah! ppe cquer cristo, è un gran porco distino!
27 ottobre 1833
1
Fra i molti scalini che deturpavano la via del Corso di Roma, è celebre quello che ricorreva lungo tutto il palazzo
Ruspoli. Ivi affluiva in carnevale il maggior concorso di maschere: ivi accadevano le più rumorose scene di que’
giorni di baccanale: ivi finalmente era il centro de’ famosi moccoletti. Ora è scomparso per la nuova livellazione di
quella contrada, che apparisce fiancheggiata di bassi e tutti uniformi gradini.
2
Manco-male: ironia di va-bene.
3
Tienti.
4
Ci avevamo.
5
Da affittarci.
6
Viene.
7
E che è?
8
Ci vuol far credere.
9
A sedere.
10
Che il Corso.
11
Stasse.
12
Colla o
chiusa: l’allons dei francesi.
13
Per arricchire.
14
Insino.
15
Selci.
16
Rompergli.
994. Er galoppino
1
Dico, pe ccristallino fino fino,
2
quanno ve n’anneressivo
3
a ffà fotte?
Ma nun v’abbasta mai, eh sor paino,
de sgranà
4
le mi’ povere paggnotte?
Viè ppe ddu’ ggiorni, e mmom
5
ssemo inzino
da sei mesi e un po’ ppiú cche ggiorn’e nnotte
me se ròsica l’osse crud’e ccotte,
manco s’io fussi er fío
6
der Re Ppipino.
Disce: t’agliuto
7
a ccosce
8
l’ova-toste.
9
E cquelle ch’arifate a la cassetta?
10
e cquell’antre che vv’èrivo
11
anniscoste?
Quest’è ccome er rosario de Ninetta,
12
quanno contempra
13
l’agliuto de coste
de la Madonna a Ssant’Elisabbetta.
14
27 ottobre 1833
1
Il parasito.
2
Questa frase è uno de’ trovati de’ cristiani scrupolosi per bestemmiare e non bestemmiare.
3
Quando ve
ne andreste.
4
Di divorare.
5
Or’ora.
6
Il figlio.
7
Ti aiuto.
8
Cuocere.
9
Gli uovi-duri.
10
Che rifate al cesso.
11
Quell’altre
che vi eravate.
12
Caterinetta.
13
Contempla.
14
Della quale Madonna è voce che stesse tre mesi con suo marito
mangiando e beendo alle spalle di Zaccaria.
995. La fruttaroletta
Pe mmé ssò stufa
1
de stà
2
ssur cantone
a ccosce
3
callaroste e ccallalesse.
Eppoi, cqua sse pò ddí,
4
ppe cche interresse?
sfiatasse
5
un anno pe abbuscà un testone!
6
Ôh, ssi
7
Ddio me provede, in concrusione
vojjo mette
8
un telaro, e annà in calesse.
Ccusí, cquanno me cricca
9
de stà a ttesse
10
ciò
11
er capitale mio: nun ho rraggione?
Eppoi, ’na donna ch’abbi
12
er zu’ telaro
e ssappi
13
tesse la su’ bbrava tela,
nun è ppiú mmejjo d’un callarostaro?
Eppoi, questo dich’io: s’io sò de vela
14
in cammio
15
d’un mestiere a ffanne
16
un paro,
chi mme lo po inibbí?
17
vvenno
18
le mela.
27 ottobre 1833
1
Per me sono annoiata, stanca.
2
Di stare.
3
Cuocere.
4
Si può dire.
5
Sfiatarsi.
6
Testone: moneta d’argento di tre paoli.
7
Se.
8
Mettere.
9
Mi aggarba: mi salta il baco.
10
Di stare a tessere.
11
Ci ho.
12
Che abbia.
13
Sappia.
14
Sono di vela: ho
desiderio.
15
Cambio, vece.
16
Farne.
17
Proibire.
18
Vendo.
996. Le du’ mosche
Tu sta’ attenta a le mosche, Nastasía,
1
mentr’una nun ze
2
move e una cammina,
che ammalappena questa j’è vviscina,
je zompa su la groppa e ttira via.
Accusí
3
è la cumprisione
4
mia:
ch’io vedenno
5
una femmina, per dina!,
si nun je do una bbona incarcatina
6
me parerebbe d’èsse in angonia.
7
Lo sa l’Urion
8
de Monti s’io sce tiro,
9
e lo pò ddí cco ttutta la raggione
ch’io sò la mosca che vva ssempre in giro.
E istesso
10
lo sa ttutta la Caserma
de Scimarra,
11
che ttu ddrent’a l’Urione
8
sei l’antra
12
mosca che sta ssempre ferma.
27 ottobre 1833
1
Anastasia.
2
Non si.
3
Così.
4
Complessione, per «natura» o anche «costume».
5
Vedendo.
6
Incalcatina, compressione.
7
D’essere in agonia.
8
Rione.
9
Ci tiro, ci anelo.
10
Medesimamente.
11
Il Palazzo de’ Conti Cimarra, presso l’Esquilino.
ridotto in oggi a Caserma di soldati.
12
L’altra.
997. Ggnente senza un perché
Io ne le cose ho ssempre avuto er vizzio
de volenne
1
pescà lla su’ raggione.
Ccusí vviengo imparanno un priscipizzio
de vertú, cche nnemmanco Salamone.
2
Nerbigrazzia,
3
perché ssotto l’innizzio
4
de la figur’umana der piccione
sc’è lo Spiritossanto? Er mi’ ggiudizzio
me n’ha ffatta trovà la spiegazzione.
Er piccione è un volàtico
5
focoso,
che rruga ruga,
6
bbecca bbecca, e ar gioco
de l’ingrufà
7
nnun trova mai riposo.
Che vve ppare, cristiani? Ecco spiegata
la storia der cenacolo e dder foco,
e de quer che ssuccesse a la Nunziata.
27 ottobre 1833
1
Volerne.
2
Salomone.
3
Verbi-gratia.
4
Indizio.
5
Volatile.
6
Il verso del piccione.
7
Del coìre.
998. Er passaporto
Vorzi
1
annà a ttrova
2
in quell’antra
3
staggione
mi’ padre, mi’ cuggnato e mmi’ fratello,
che ppe vvertú dde quarche ffurtarello
stanno in galerra, grazziaddio, bbenone.
Quanno un cherubbiggnere
4
a Mmonterone
5
disce: «Le vostre carte, bberzitello».
6
Dico: «Che ccarte?» e mme caccio er cappello,
volenno fajje intenne
7
la raggione.
Nun ce fu Ccristo né Ssanta Maria:
8
bbisoggnò ttornà a Rroma carcerato,
e ddormí ppe ttre nnotte in Pulizzia.
Ma, er Monno, Iddio lo fesce spalancato.
Dunque adesso ch’edè sta fernesia
9
de carte, che cce l’ha ttutto sbarrato?
28 ottobre 1833
1
Volli.
2
Andare a trovare.
3
Altra.
4
Carabiniere.
5
L’osteria di Monteroni, a mezza strada tra Roma e Civitavecchia.
6
Bel-zittello.
7
Volendo fargli intendere.
8
Non ci fu rimedio.
9
Che è questa frenesia.
999. La serenata províbbita
Ier notte a sson de quattro mmannolini
1
noi cantàmio
2
in zú e ’n giú ppe li Serpenti.
3
Io discevo: «Accidenti a li paini»,
4
e ll’antri risponneveno: «Accidenti».
Quant’ècchete
5
una man
6
de Galantini,
7
e ddisce: «A ccasa, aló,
8
ssori Minenti»,
9
come si
10
cquelli porchi ggiacubbini
fussi ggente da fàcce
11
comprimenti.
Li Galantini de chi ssò
12
ssordati?
der Papa. E er Papa mó li framasoni
nun l’ha cquanti che ssò
13
scummunicati?
Ma ddunque, quanno li sudditi bboni
mànneno
14
un accidente a st’addannati,
perché mmó jje se scoccia li cojjoni?
15
28 ottobre 1833
1
Il mandolino, la mandola, è istrumento molto accetto alla plebe romana, che lo suona unito al colascione e alla
chitarrabattente.
2
Cantavamo.
3
Contrada del rione de’ Monti.
4
Nome che si dal volgo alle persone coll’abito in
falde.
5
Eccoti.
6
Un drappello, come nel dire illustre.
7
Specie di birri monturati, che dall’essere stati assoldati da un
tale antico bargello Galanti, diconsi Galantini. Bisogna quindi distinguere il loro nome da quello del recente Beato
Ippolito Galantini, già capo di una pia congregazione in Toscana. I nostri Galantini birri sono composti del rifiuto
della società, raccolto dopo il 1831, per succedere alla porzione abolita dei Carabinieri che fecero causa comune coi
liberali. Ora a questi birri regimentati si più propriamente il nome di bersaglieri.
8
Colla o chiusa. È l’allons de’
Francesi.
9
Minenti (eminenti): nome distintivo de’ popolani di certi rioni.
10
Se.
11
Farci.
12
Sono.
13
Quanti sono, tutti.
14
Mandano.
15
Perché si molestano?
1000. L’aricompenza
’Gni
1
prete, predicanno
2
pe le cchiese,
disce: «Cchi bbene fa, bbene aritrova».
Sí, ssur cazzo, io risponno. A sto paese
mó ss’è inventata una ggiustizzia nova.
Ste meravijje se
3
saranno intese
quann’er er gallo che ffetava l’ova.
Ma dda sí cch’
4
er Governo è un Maganzese,
5
si
6
mmiracoli fai manco te ggiova.
Specchiateve in Antonio. Stammatina,
perché ammazzò la mojje (che arfin’era
carne sua) nun è annato in quajjottina?
7
Ecchelo
8
er ber
9
compenzo, e in che maggnera
10
s’è ppremiato er Cristiano che pper dina
11
portò ar piede der Papa una bbanniera.
12
28 ottobre 1833
1
Ogni.
2
Predicando.
3
Si.
4
Da che: da quando.
5
Vocabolo di origine classica, che vale «fedifrago».
6
Se.
7
Ghigliottina.
8
Eccolo.
9
Il bel.
10
In qual maniera.
11
Per dina, sostituzione a «per dio».
12
Ne’ fortunosi giorni del
febbaio 1831, una numerosa masnada di Romani de’ rioni Monti e Borgo fece e portò a far benedire dal Papa una
bandiera di religione. Il vessillifero (un tal Pericoli, carrettiere montigiano) accoltellò poco dopo la moglie, e poi così
ferita la chiuse in una camera, perché morisse senza soccorso. Di che fu egli giudicato e ne andò al patibolo, con grave
maraviglia e scandalo de’ suoi confratelli difensori della fede del 1831.
1001. Li polli de li vitturali
Lo sapémo
1
che ttutti sti carretti
de gabbie de galline e cceste d’ova
viengheno
2
da la Marca: ma a cche ggiova
de sapello a nnoantri
3
poverelli?
Pe nnoantri la grasscia nun ze
4
trova.
Le nostre nun zò
5
bbocche da guazzetti.
Noi un tozzo de pane, quattr’ajjetti,
6
e ssempre fame vecchia e ffame nova.
Preti, frati, puttane, cardinali,
monziggnori, impiegati e bbagarini:
ecco la ggente che ppô ffà li ssciali.
Perché ste sette sorte d’assassini,
come noantri fussimo animali,
nun ce fanno mai véde
7
li quadrini.
28 ottobre 1833
1
Sappiamo.
2
Vengono.
3
Noi altri.
4
Non si.
5
Non sono.
6
Aglietti.
7
Vedere.
1002. Er pover’omo
È una spesce
1
de quer che mm’è
2
successo
a mmé, llí da l’Impresa a la Missione.
Passava un prelatino; e un lanternone
3
de decanaccio
4
je vieniva appresso.
Io je stese
5
la coppola; e cquer fesso
6
sai che mme disse? «Fatica, portrone.
Ma eh? ssò
7
ppropio sscene? Er bove adesso
disce cornuto all’asino.
8
Ha rraggione.
Dimme
9
portrone a mmé, ppe ccristallina,
10
che cquanno viè
11
la sera che mme corco
nun me sento ppiú ll’ossa de la schina!
12
Mentre che llòro, fijji de miggnotte,
13
fanno la vita der Beato Porco
tra annà in carrozza, maggnà, bbeve
14
e ffotte.
29 ottobre 1833
1
Specie.
2
Mi.
3
Lanternone dicesi ad uomo lungo e mal fatto.
4
Servitoraccio.
5
Gli stesi.
6
Quello sgarbato.
7
Sono.
8
Proverbio.
9
Dirmi.
10
Giuramento modificato.
11
Viene.
12
Schiena.
13
Bagasce.
14
Bere.
1003. Er zervitore liscenziato
Fijjo, nun biastimà:
1
zzíttete fijjo:
nun dí
2
ste buggiarate
3
co la pala.
4
Cqua a Rroma un zervitore che ss’ammala,
si
5
ccerca agliuto,
6
ar piú ttrova conzijjo.
A mmé, a ’na frebbe
7
che mme prese in zala
la mi’ padrona m’intimò l’esijjo,
parlannome lontan da mezzo mijjo
cor naso tutto pien de madrigala.
8
Me portai quattro mesi de terzane,
commattenno
9
la morte co la vita,
senza un bajocco da crompamme
10
er pane.
E cquanno aggnéde,
11
a mmalatia guarita,
pe rripijjà la riverèa,
12
quer cane
der cammio
13
restò in rollo,
14
e ffu ffinita.
30 ottobre 1833
1
Non bestemmiare. Notisi che qui non è questione propriamente di bestemmia, ma di quella lode che talvolta alcuno
a persone od a cose, intorno alle quali altri abbia diversa opinione.
2
Non dire.
3
Queste sciocchezze.
4
A bizzeffe.
5
Se.
6
Aiuto.
7
Febbre.
8
Di matricaria.
9
Combattendo.
10
Comperarmi.
11
Quando andai.
12
La livrea.
13
Del cambio: il
servitore supplente.
14
Ruolo.
1004. Antro
1
è pparlà dde morte,
antro è mmo
Eh, bbisoggna trovàccese,
2
Sor Diego,
ar caso che vve tajjino
3
er boccino.
4
Se
5
fa ppresto de dillo:
6
io me ne frego;
7
ma, ar fatto è un’antra sorte de latino.
8
Oh incirca a le vertú, nnun ve lo nego,
un assassino è ssempre un assassino.
Però,
9
la vita, nun zo ssi mme
10
spiego,
tanto va a ssangue
11
a un ré, cquant’a un burrino.
12
M’aricorderò ssempre un marvivente,
13
che l’aveva davero er cor’in petto,
e cche la Morte je pareva ggnente.
Eppuro,
14
ar punto de perde
15
la vita,
spennolava
16
la testa sur carretto,
che sse
17
sarebbe creso
18
un Gesuita.
30 ottobre 1833
1
Altro.
2
Trovarcisi.
3
Vi taglino.
4
La testa.
5
Si.
6
Di dirlo, a dirlo.
7
Io me ne rido, non me ne cale.
8
È un’altra cosa.
9
Purtuttavia.
10
Non so se mi.
11
Tanto interessa.
12
Villano.
13
Malvivente.
14
Eppure.
15
Di perdere.
16
Spenzolava.
17
Si.
18
Creduto.
1005. La monizzione
1
Lassa ste vanità: llassele, sposa.
2
Ar monno, bbella mia, tutto finissce.
Come semo arrivati ar profiscissce,
3
addio vezzi,
4
addio fibbie, addio ’ggni cosa.
Quanto te
5
credi de fà la vanosa
co ste pietrucce luccichente e llissce?
Diescianni, venti, trenta; eppoi? sparissce
la ggioventú, e cche ffai, povera Rosa?
Er tempo, fijja, è ppeggio d’una lima.
Rosica sordo sordo e tt’assottijja,
che
6
ggnisun giorno sei quella de prima.
Dunque nun rovinà la tu’ famijja:
nun mette a rrepentajjo
7
la tu’ stima.
Lassa ste vanità; llassele, fijja.
31 ottobre 1833
1
L’ammonizione.
2
Pronunzia con la o chiusa.
3
Proficiscere, anima cristiana, ecc.
4
Monili.
5
Ti.
6
Attalché.
7
Repentaglio, cimento.
1006. Er marito vedovo
Dàjjela
1
co sto lòtono
2
futtuto.
Pe mmé nun zo
3
ccapí ccosa v’importa.
«E ccos’aveva? E dde che mmale è mmorta?»
De mancanza de fiato: ecco saputo.
Sarà er male ch’er medico ha vvorzuto.
4
Uno n’ha dda viení cche cce se
5
porta.
So cch’è spirata, e mmanco
6
se n’è accorta,
e ss’è ttrova
7
de llà ccome sto sputo.
8
Ihí che gguai! Nun me ne pijjo io
che mm’era mojje, e vv’affriggete voi!
Bbisoggna fà la volontà de Ddio.
Credo che mm’abbi
9
messe tante corna,
pe ddílla
10
in confidenza cqui ffra nnoi,
che mmó ssalut’a mmé ffin c’aritorna.
31 ottobre 1833
1
Dagliela: e da capo.
2
Cantilena, lagno.
3
Non so.
4
Voluto.
5
Ci si.
6
Nemmeno.
7
Trovata.
8
Qui si deve sputare, per
accompagnare la parola coll’azione.
9
Mi abbia.
10
Per dirla.
1007. Er teolico
1
V’appetterà er piovano ch’è ppeccato
de dí a uno: «Te pijji un accidente».
Nun ce credete: nun è vvero ggnente:
sò ttutte cacheríe
2
der zor Curato.
Che
3
bbene je se
4
fa ccor
5
a la ggente:
«Pòzzi
6
èsse
7
santo, pòzzi avé un papato»?
Chi era sciorcinato
8
è cciorcinato,
e oggni cosa arimàne istessamente.
La vita nostra è in mano der Ziggnore;
e nnoi potémo dí cquer che cce cricca,
9
ché cquanno Iddio nun vo, ll’omo nun more.
Se
10
sente puro
11
a dí a la ggente ricca:
«Siino impiccati», e ddijjelo
12
de core;
ma un ricco, dite un po’, cchi vve l’impicca?
31 ottobre 1833
1
Il teologo.
2
Sono tutte invenzioni zelanti.
3
Qual.
4
Gli si.
5
Col dire.
6
Possa tu.
7
Essere.
8
Ciorcinato: misero.
9
Ci va
per la mente.
10
Si.
11
Pure.
12
Dirglielo, per dirlelo.
1008. Li soffraggi
Quanto me
1
fanno ride
2
tant’e e ttanti
co le su’ divozzion de doppo morte!
E llimosine, e mmesse, e llumi, e ccanti,
e llasscite, e indurgenze d’oggni sorte!
Nun hanno fatto mai ccusì li Santi.
Bbisoggna in vita empìssele le sporte.
Er bene, si lo vòi,
3
mànnel’avanti
4
a ffàtte
5
largo e spalancà le porte.
Sapete Iddio de llà ccosa v’intòna
quanno er bene sciarriva pe ssiconno?
6
«Annate
7
via, canajja bbuggiarona.
La robba vostra me la date adesso,
perché l’avévio
8
da lassà in ner Monno,
e nnun potevio
9
strascinalla appresso».
31 ottobre 1833
1
Mi.
2
Ridere.
3
Se lo vuoi.
4
Mandalo avanti.
5
A farti.
6
Ci arriva per secondo.
7
Andate.
8
Avevate.
9
Potevate.
1009. Er bene pe li Morti
Oggi se dà ccomincio
1
all’ottavario
de li poveri Morti; e ddite puro
2
che ttra ppredica, moccoli, e rrosario,
se
3
vòta er purgatorio de sicuro.
Se sa,
4
a le donne, llì mmezz’a lo scuro,
quarche ppízzico ar culo è nnescessario.
Quarche smaneggio tra la porta e ’r muro
serve a li vivi pe un tantin de svario.
Ecco er fine de tante bbaraonne
5
de regazze che vvanno pe le cchiese.
Quest’è ’r carnovaletto de le donne.
Tutte sciànno
6
piú o mmeno er zu’ racchietto,
7
e llí, ssiconno
8
er genio der paese,
fanno l’amore senza dà ssospetto.
1° novembre 1833
1
Si dà principio.
2
Pure.
3
Si.
4
Si sa.
5
Baraonde: frotte.
6
Ci hanno, semplicemente «hanno».
7
Il suo ganzo.
8
Secondo.
1010. Er corpo aritrovato *
È una sscèna, per dio, propio una sscèna.
Ma ttutte ar tempo mio s’ha da vedelle!
Pe quattr’ossacce senza carn’e ppelle
s’ha da pijjà la ggente tanta pena!
E ttutti fanno sta cantasilèna:
1
È llui: nun è: ssò cquelle: nun zò cquelle:
è Rraffaelle: nun è Rraffaelle...
E ttutt’er giorno la Ritonna
2
è ppiena.
Certo, nun dubbità, ssò ccasi serj!
Come c’a Rroma sciamancassin’ossa
3
tramezz’a un venti o un trenta scimiteri!
Trovi uno schertro
4
in de la terra smossa?
Ebbè, ssenza de fà ttanti misteri,
aribbuttelo drento in de la fossa.
1° novembre 1833
* Le ossa di Raffaele Sanzio.
1
Cantilena.
2
Rotonda.
3
Ci mancassero ossa.
4
Scheletro.
1011. Er Medico ggiacubbìno
Sabbit’a ssera
1
un medico todesco
in pubbric’osteria disse che ll’ossa
c’hanno aritròvo a Ssisi
2
in quela fossa,
so
3
dd’una donna, e nnò de San Francesco.
Io, sentenno
4
sta bbuggera, me n’esco:
5
«Bbravo, sor froscio
6
mio: dítela grossa.
Seguitate accusí, ssor pippa-rossa,
7
ch’un giorno poi ve
8
manneranno ar fresco.
9
Nun zapéte ch’er Papa, er Pap’istesso
pe llegà la linguaccia a ttant’e ttanti,
ha spaccato la crosce in zur proscesso?
C’è mmó ggnent’antro da risponne?
10
avanti.
Questa voría
11
sentí, cch’un Papa adesso
nun conoschi ppiú ll’ossa de li santi».
1° novembre 1833
1
Sabato a sera.
2
Ad Assisi.
3
Sono.
4
Sentendo.
5
Prorompo dicendo.
6
Nome dato in Roma a’ Tedeschi.
7
Naso-rosso.
8
Vi.
9
In carcere.
10
Rispondere.
11
Vorrei.
1012. Er confessore de manica larga
1
Doppo morta mi’ madre, io da zitella
fascevo le mi’ sante devozzione
2
da un certo Padre Bbiascio
3
bbennardone,
4
che mm’annava
5
inzeggnanno
6
st’istoriella.
Me disceva accusí: «Ffijja mia bbella,
trall’opere cattive e cquelle bbone
bbisoggna abbadà bbene all’intenzione,
pe nnun confonne
7
mai questa co quella.
Ecco, pe ssemprigrazzia,
8
io te do un bascio.
Si
9
ttu lo pijji per offenne
10
Iddio,
questo, fijja, è peccato; e vvàcce adascio.
11
Ma ssi ttu nner pijjatte
12
er bascio mio
vòi dà ggusto ar Ziggnore e ar Padre Bbiascio,
pijjelo,
13
fijja, e ffa’ ccome facc’io».
1° novembre 1833
1
Ciò vuol dire «indulgente»; ma qui è un quietista.
2
Fare le divozioni, vale: «accostarsi alla penitenza e all’eucaristia».
3
Biagio.
4
Bernardone, di S. Bernardo.
5
Mi andava.
6
Insegnando.
7
Per non confondere.
8
Exempli-gratia.
9
Se.
10
Offendere.
11
Vacci adagio.
12
Nel pigliarti.
13
Piglialo.
1013. La madre canibbola
1
Madraccia sscellerata! a una cratura
annajje
2
a ddà le gginocchiate in petto?!
metteje
3
er culo su lo scallaletto
eppoi menajje
4
su la scottatura?!
Legallo a un luscernario inzin che ddura
la sperella der zole in cim’ar tetto;
e un tantino che ppiaggne, poveretto,
5
li bbòtti pe mmétteje
6
paura?!
Che ste barbererìe le facci un padre
che ppò ddì: cquesto nun è ffijjo mio,
tant’e ttanto s’intenne:
7
ma una madre!
Ma una madraccia che ll’ha ppartorita
e jj’ha ddato er zu’ sangue! Ah nnò, pper dio,
nò, ttra le tigre nun z’è mmai sentita.
2 novembre 1833
1
Cannibala.
2
Andargli.
3
Mettergli.
4
Menargli: batterlo.
5
Fare.
6
Mettergli.
7
S’intende.
1014. La bbellezza
Viè a vvéde
1
le bbellezze de mi’ Nonna.
Ha ddu’ parmi
2
de pelle sott’ar gozzo:
è sbrozzolosa
3
come un maritozzo
e trittica
4
ppiú ppeggio d’una fronna.
Nun tiè ppiú un dente da maggnasse
5
un tozzo:
l’occhi l’ha pperzi
6
in d’una bbúscia tonna,
7
e er naso, in ner parlà, ppovera donna,
je fa cconverzazzione cor barbozzo.
Bbracc’e ggamme
8
stecche de ventajjo:
la vosce pare un zon
9
de raganella:
10
le zinne, bborze da colacce
11
er quajjo.
12
Bbe’, mmi’ nonna da ggiovene era bbella.
E ttu dda’ ttempo ar tempo; e ssi
13
nun sbajjo,
sposa,
14
diventerai peggio de quella.
2 novembre 1833
1
Vieni a vedere.
2
Due palmi.
3
Bernoccolosa.
4
Tremola.
5
Mangiarsi.
6
Perduti.
7
Buca tonda: l’occhiaia.
8
Sono.
9
Un
suon.
10
Suono che rende la gola degli agonizzanti.
11
Colarci.
12
Quaglio.
13
Se.
14
Pronunzia colla o chiusa.
1015. Le stelle
Bbella dimanna!
1
«De che ssò
2
le stelle?».
Io sciò
3
una rabbia sciò cche mme sciaccoro.
4
Bbasta avé ll’occhi in fronte da vedelle
pe ppotello capí. Ssò ttutte d’oro.
Che tte ne pare? nun è un ber lavoro
c’ha ffatto Ggesucristo, eh Raffaelle?
Mette
5
per aria tutto quer tesoro,
che sse
6
move da sé! cche ccose bbelle!
Questo sí, ssò un po’ ttroppe
7
piccinine,
perché dde tante nun ce n’è mmanc’una
che nnun pàrino
8
occhietti de galline.
Che jje
9
costava a Ddio? poca o ggnisuna
fatica de crealle, per un díne,
10
granne,
11
ar meno che ssii, come la luna.
3 novembre 1833
1
Dimanda.
2
Sono.
3
Ci ho.
4
Mi ci accoro.
5
Mettere.
6
Si.
7
Troppo. È uso del volgo di accordare la preposizione col
nome.
8
Paiano.
9
Gli.
10
Per un dire: per modo di esempio.
11
Grandi.
1016. Li Commedianti
Chi vve
1
sente a vvoantri
2
commedianti,
tutti nasscete scime de Siggnori.
A ccasa avete serve e sservitori,
e Ttata
3
viaggia cor curiero avanti.
E cqua pregate poi Cristo e li Santi
de fà ppiove
4
ar teatro l’aventori,
sinnò
5
ar zor oste e all’antri creditori
je se dà ppagarò-pper-antrettanti
Tutti fate er mestiere pe ccrapiccio:
ma ttratanto se
6
va ppe nnove mesi
dell’anno in carzoncini de terliccio.
7
Tutti ricconi a li vostri paesi.
Però in zaccoccia nun ce n’è uno spiccio,
né un antro da spiccià. Cce semo intesi.
13 novembre 1833
1
Vi.
2
Voi altri.
3
Tata: sinonimo di «babbo, papà».
4
Di far piovere.
5
Se no, altrimenti.
6
Si.
7
Traliccio.
1017. Er Curato
Ch’edè
1
er Curato? È un pezzo de carnaccia
co nnove bbusci
2
messi in zimmetria.
Li primi dua je serveno de spia
pe ssapé ddove ha da slongà lle bbraccia.
Dua piú ssotto, poi fà cquer che sse sia,
3
che ttanto a ccasa tua lui sce li caccia.
Dua sò uperti a cchi jj’empie la pilaccia,
4
e un antro
5
è ppe pportà la carestia.
L’ottavo, nero nero e ffonno fonno,
sta llí ammannito per rriempí ’ggni tanto
de puzza-e-vvento e dde rimore
6
er Monno.
E ll’urtim’è ppe ffà vviení le dojje,
sempre in vertú de lo Spiritossanto,
drento a la panza de le nostre mojje.
13 novembre 1833
1
Che è.
2
Buchi.
3
Puoi fare quel che si sia.
4
A chi gli empie la borsa.
5
Altro.
6
Romore.
1018. Mosconi regazzi
1
Antro
2
s’ar Papa io je volevo bbene!
Io so cche in de l’affare der trentuno,
quann’era all’orlo d’arrestà
3
a ddiggiuno,
j’avería
4
dato er zangue in de le vene.
Ma da quer temp’in poi fa ttante sscene
sto sor Mossciarellaro der bell’uno,
5
ch’io (e sta cosa nun la dí a ggnisuno)
6
me ne frego de lui ppiú cche dde mene.
7
Viè a Rroma dar bell’uno e ddar ber-dua
8
a ffà er cazzaccio!
9
Poteva, pe ccristo,
stà a vvenne
10
le fusajje a ccasa sua.
De tanti ggiacubbini, uno impiccato,
uno ch’è uno, nun ze m’è mmai visto!
È un Papa questo che ppòzzi èsse
11
amato?
15 novembre 1833
1
Alcuni uomini, quasi tutti del Friuli, vanno per Roma gridando: Moscia moscia: oh fusaglia dolce: mosconi, ragazzi.
Sono i co detti mosciarellari, che vendono castagne infornate e poi bollite, lupini, e mosconi verdi...
2
Altro.
3
Di
restare.
4
Gli avrei.
5
Belluno, patria di S. S.
6
Non la dire a nessuno.
7
Di me.
8
Bel-due.
9
A fare lo sciocco.
10
Stare a
vendere.
11
Possa essere.
1019. Er Papa de mó
Er Papa d’oggi, Iddio lo bbenedichi,
è un omo, crede
1
a mmé, arissettatello.
È un papetto
2
de core e de sciarvello
3
d’avé in ner culo l’antri
4
Papi antichi.
E ggnisuno pò ddí
5
cche nun fatichi:
ché nun fuss’antro questo, poverello,
quanti lavori ha ffatti in castello
pe ssarvacce
6
la panza pe li fichi.
Lui se veste da sé: llui s’arispojja:
lui tiè in testa quer pezzo de negozzio
che cce vorebbe sotto la corojja.
7
Lui trotta: lui ’ggni ggiorno empie un cestino
de momoriali... E ddichi
8
che sta in ozzio,
quanno, Cristo-de-Ddio, pare un facchino!
16 novembre 1833
1
Credi.
2
Un papetto è anche moneta d’argento da due paoli.
3
Cervello.
4
Gli altri.
5
Nessuno può dire.
6
Per salvarci.
7
Coroglia, quella corona di panni ravvolti che si pone fra il capo ed i pesi.
8
Dici.
1020. La vita der Papa
Io Papa?! Papa io?! fussi cojjone!
1
Sai quant’è mmejjo a ffà lo scarpinello?
Io vojjo vive
2
a mmodo mio, fratello,
e nnò a mmodo de tutte le nazzione.
Lèveje
3
a un Omo er gusto de l’uscello,
inchiodeje
4
le chiappe s’un zedione,
mànnelo
5
a spasso sempre in priscissione
e cco le guardie a vvista a lo sportello:
chiudeje
6
l’osteria, nègheje
7
er gioco,
fàllo sempre campà cco la pavura
der barbiere, der medico e dder coco:
è vvita da fà ggola e llusingatte?
8
Pe mmé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le sciavatte.
9
16 novembre 1833
1
Fossi stolto.
2
Voglio vivere.
3
Levagli.
4
Inchiodagli.
5
Mandalo.
6
Chiudigli.
7
Niegagli.
8
Lusingarti.
9
Rattoppo le
ciabatte.
1021. Le riformazzione
Perza
1
ch’ebbe la lite, er zor Marchese
disse a la mojje: «Cqua, Mmarchesa mia,
bbisogna fà un po’ ppiú de colomia,
2
mette
3
ggiudizzio, e arisegà le spese».
De fatti, cominciorno a ccacc vvia
li maestri der fijjo: poi s’intese
ch’aveveno calato un tant’er mese
a le paghe de sala e scuderia.
Doppo de questo scassorno dar rollo
4
tutti li famijjari ggiubbilati,
ch’uno s’annò
5
a bbuttà da ponte-mollo.
6
Inzomma, poverelli, e striggni e strozza,
de tanti sfarzi nun ze sò llassati
7
ch’er casino, er teatro e la carrozza.
16 novembre 1833
1
Perduta.
2
Di economia.
3
Mettere.
4
Dar ruolo.
5
Si andò.
6
Dal Pontemolle o Milvio.
7
Non si sono lasciati.
1022. Li padroni sbisbetichi
1
Lui la intenne
2
accusí? Ddàjjela vinta:
tanto co llòro er repri nnun vale.
Tanto come che ffai sempre fai male.
Li padroni sò
3
ttutti d’una tinta.
Ppiú dder mio? Disce: «Scerca a Ggrotta-pinta,
4
nummero tale, er carzolaro tale,
e ddíjje che mm’allarghi sto stivale,
e cche ggià cquesta che mme fa è la quinta».
Io curro,
5
vedo s’una porta nova
scritto Bottierre,
6
che vvo ddí
7
bbottaro,
torno a ppalazzo, e ddico: «Nun ze
8
trova».
E llui s’infuria, me dà dder zomaro,
me sbatte in faccia una manata d’ova,
e pprotenne
9
che llí cc’è un carzolaro.
16 novembre 1833
1
Bisbetici.
2
Intende.
3
Sono.
4
Luogo di Roma.
5
Corro.
6
Bottier. Non sono pochi i bottegai di Roma e d’Italia, che
abbiano il vezzo di annunziarsi agli occhi del pubblico in lingue straniere, che poi caricano di spropositi.
7
Vuol dire.
8
Non si.
9
Pretende.
1023. La sonnampola
1
Io che ssò
2
vvecchio e ho ssempre visto, fijja,
come vanno le cose de sto Monno,
co ccerti casi io nun me sce confonno;
e nun me fanno un cazzo maravijja.
Questa è un’ammalatía che a cchi jje pijja
lo fa ddiscorre
3
e nun je roppe
4
er zonno:
e cce
5
ttanti che, ddormenno, ponno
fà oggni faccenna e ccamminà le mijja.
Dunque nun c’è ggnisuna inconcrudenza
6
che sta regazza, in ner pijjajje er male,
parli e rrisponni
7
come una sentenza.
Io ho sservito tant’anni un Cardinale
che in oggni venardí che ddava udienza
risponneva dormenno tal’e cquale.
17 novembre 1833
1
La Sonnambula. Titolo della musica scritta da Vincenzo Bellini sopra il dramma di Felice Romani.
2
Sono.
3
Discorrere.
4
Non gli rompe.
5
Ci sono.
6
Incongruenza.
7
Risponda.
1024. Li fijji de li Siggnori
La madre pe nnun fàlli
1
viení ggrassi,
poveri disgrazziati siggnorini,
li governa a l’usanza de purcini:
e Ddio guardi de noi chi jje ne dassi.
2
Guardeli llí! nnun pareno
3
compassi,
manichi de palette, tajjolini,
4
tiri de campanelli? Accusí ffini
farebbeno pietà ppuro
5
a li sassi.
Ecco poi che vvor dí,
6
mmadracce infame,
nun métteje
7
lo stommico a bbon’ora
d’accordo co la gola e cco la fame:
ché cquanno co st’iniqua educazzione
8
ppoi prelati e ccardinali, allora
crèpeno, grazziaddio, d’indiggistione.
18 novembre 1833
1
Per non farli.
2
Chi gliene dasse.
3
Non paiono.
4
Tagliolini: lasagne sottilissime.
5
Pure.
6
Che vuol dire.
7
Mettergli.
8
Sono.
1025. La Commare der bon-conzijjo
Oh, ssai che tt’ho da dí? ssei ’na cojjona,
1
che nnun ze ne pò ddà ll’antra
2
compaggna.
Tu ssudi, e ttu’ marito te bbastona.
Tu abbuschi er pane, e ttu’ marito maggna.
Sposa,
3
da’ retta a mmé: ffa’ la portrona:
arza la cresta: e cquanno lui se laggna,
risponni sempre co la su’ canzona:
«Fatica, bbello mio: porco, guadaggna».
Tu mm’arisponnerai che nun te torna
4
per via de quell’affare... E ttu in sto caso,
fàtte un regazzo,
5
e mmetteje
6
le corna.
C’è ggiusto
7
mi’ fratello, che ttu ssai
s’è ggiuvenotto che jje rode er naso,
8
e tte pò arimedià ttutti li guai.
18 novembre 1833
1
Sciocca.
2
Non se ne può dare l’altra.
3
Pron. colla o chiusa.
4
Non ti torna il conto.
5
Fatti un amante.
6
Mettigli.
7
Appunto.
8
Rodere il naso: aver voglia di risse.
1026. Er povero ladro
Nun ce vò mmica tanto, Monziggnore,
de stà llí a ssede
1
a ssentenzià la ggente
e dde dí:
2
cquesto è rreo, quest’è innoscente.
Er punto forte è de vedejje er core.
Sa cquanti rei de drento hanno ppiú onore
che cchi de fora nun ha ffatto ggnente?
Sa llei che cchi ffa er male e sse ne pente
è mmezz’angelo e mmezzo peccatore?
Io sò
3
lladro, lo so e mme ne vergoggno:
però ll’obbrigo suo saría de vede
4
si
5
ho rrubbato pe vvizzio o ppe bbisoggno.
S’avería
6
da capí cquer che sse
7
pena
da un pover’omo, in cammio
8
de stà a ssede
sentenzianno la ggente a ppanza piena.
21 novembre 1833
1
Di star a sedere.
2
E di dire.
3
Io sono.
Il lo so, che segue poco appresso, è del verbo sapere.
4
Sarebbe di vedere.
5
Se.
6
S’avrebbe.
7
Quel che si.
8
In cambio.
1027. Er Cariolante
1
de la Bbonifiscenza
2
Disce: Meo,
3
nun trincià!
4
Cazzo, io nun trincio,
ma mmanco
5
pe pparlà cchiedo liscenza.
Io li guai me li pijjo co ppascenza:
ma gguardàteve poi quanno comincio.
Doppo, per dio, che la Bbonifiscenza
6
cià
7
ffatto sudà ssangue ar Monte-Pincio
8
co ttanti scavi e ttanti muri a sguincio,
mó cche mmori de fame, usa prudenza!
Curre er mese mommó cche ffàmo festa.
E cche! cce lo commanna er Zarvatore
che cce fàmo
9
acciaccà le nosce in testa?
10
S’ha da tiené,
11
fijjacci de puttane,
du’ mila bbraccia e ppiú ssenza lavore,
12
e un mijjaro de bbocche senza pane!
24 novembre 1833
1
Il portatore di carrucola, nei lavori pubblici.
2
L’instituto di Beneficenza fondato in Roma sotto il governo di
Napoleone, e con gran pena conservato dopo la restaurazione. Il Commissario Pontificio, monsignore Agostino
Rivarola, nel primo editto che bandì avanti al ritorno di Pio VII nel 1814, parlando degli ordinamenti francesi che
andavano a spirare, nominò fra gli altri il sacrilego Demanio e la infame Beneficenza. Il bollo della carta però non
meritò da lui contumelie.
3
Bartolommeo.
4
Non detrarre!
5
Nemmeno.
6
Beneficenza.
7
Ci ha.
8
Il pubblico passeggio del
Pincio fu aperto dai Francesi sopra un grande orto dei Frati della Madonna del Popolo. Ritornato il Papa nei suoi
Stati, ne avevano questi quasi quasi ottenuto di ridistruggere questa magnifica opera, in grazia de’ cavoli del loro
refettorio. Ma i cardinali Consalvi e Pacca tennero fermo contro l’opinione di molti loro eminentissimi confratelli.
Ancora i lavori non sono terminati.
9
Ci facciamo.
10
Opprimere in silenzio.
11
Si ha da tenere.
12
Lavoro.
1028. Er prete ammalato
Dico: «Ch’edè,
1
rregazze, che ccurrete
2
cor piant’all’occhi e li capelli sparzi
pe la fanga de Roma a ppiedi scarzi
rescitanno er rosario?
3
eh? ccos’avete?».
M’arisponne una: «Sta mmorenno un prete,
e nnoi pregam’Iddio; perché ppò ddarzi
ch’in grazzia de Maria lui s’arïarzi
san’e ssarvo: e pperò nnun me tienete
4
».
M’avessi
5
detto un capo de famijja,
m’avessi detto er padre, er zu’ dolore
m’avería
6
fatto
7
ppovera fijja!
Ma ss’ha da piaggne
8
perché un prete more?!
Pe mmé,
9
ppozzi
10
morí cchi sse ne pijja;
11
e ssii fatta la gròlia
12
der Ziggnore.
24 novembre 1833
1
Che è?
2
Correte.
3
Si vede in Roma quest’uso che riusciti inefficaci i soccorsi della medicina e principiandosi a
curare un infermo con le divozioni, mandansi di notte delle donne scalze recitando il rosario della Vergine. S’intende
già che questa modificazione di prefiche vende l’orazione ed il pianto.
4
Non mi trattenete.
5
Mi avesse detto.
6
Mi
avrebbe.
7
Dire.
8
Da piangere.
9
In quanto al mio avviso.
10
Possa.
11
Chi se ne piglia: chi ne prenda pena.
12
Sia fatta la
gloria, ecc.
1029. La Terra e er Zole
Ggira er Zole o la Terra? Uh ttatajjanni
1
imbottiti de rape e ccucuzzole!
Abbasterebbe a gguardà inzú, bbestiole,
senza stasse
2
a ppijjà ttutti st’affanni.
Invesce de spregà ttante parole,
dite, chi è cche dda un mijjone d’anni
essce sempre de dietro a Ssan Giuvanni
e vva ddietr’a Ssan Pietro?
3
eh? nnun è er Zole?
Ch’edè
4
cquer coso tonno
5
oggni matina
che vve passa per aria su la testa?
Dunque è la terra o ’r Zole che ccammina?
Sippuro
6
nnun è er dubbio che vve resta,
vedenno
7
oggni Minente
8
e oggni paína
9
nun poté arregge
10
a ttiené ggiú la vesta.
11
27 novembre 1833
1
Stolidi.
2
Starsi.
3
Chiese de’ due Santi, prese pe’ due punti orientale e occidentale di Roma.
4
Che è?
5
Quell’oggetto
rotondo.
6
Seppure.
7
Vedendo.
8
Donna del volgo, specialmente di alcuni rioni.
9
Cittadina.
10
Non poter reggere,
riuscire.
11
A tener giú la vesta. La malizia del nostro romanesco riproduce in certo modo le obiezioni vecchie de’ frati
intorno agli uomini a capo-in-giù, ai pozzi rovesciati, e a tante altre luminose considerazini che fruttarono la frusta
inquisitoriale a Galileo Galilei. Vorremo noi dire che fosse quello il primo e l’ultimo errore de’ frati e de’ loro
confratelli da chierca?
1030. A Padron Marcello
Chi ha ffrabbicato
1
Roma, er Vaticano,
er Campidojjo, er Popolo,
2
er Castello?
Furno Romolo e Rmemolo, Marcello,
che ggnisun de li dua era romano.
Ma un e ll’antro
3
volenno esse
4
soprano
5
de sto paese novo accusí bbello,
er fratello nimmico der fratello
vennero a ppatti cor cortello in mano.
Le cortellate aggnédero
6
a le stelle;
e Rroma addiventò ddar primo ggiorno
com’è oggi, una Torre-de-Bbabbelle.
De li sfrizzoli
7
oggnuno ebbe li sui:
e Rroma, quelli dua la liticorno,
8
ma vvenne er Papa e sse la prese lui.
27 novembre 1833
1
Fabbricato.
2
La Piazza e il Rione del Popolo.
3
Uno e l’altro.
4
Volendo essere.
5
Sovrano.
6
Andarono.
7
Dei colpi.
8
Litigarono.
1031. La promessa der romano
Sor Giacubbino mio, tutte le palle
nun riescheno tonne, io ve l’avviso.
Ancòra sce
1
ssanti in paradiso
che a la Cchiesa je guardeno le spalle.
Abbasta, abbasta quer c’avete riso:
mó vviè l’inacqua lagrimàr’in valle.
2
Adesso è ’r tempo de le facce ggialle,
sor giacubbino mio, gruggno d’impiso.
3
Sentirete che nnespole,
4
fijjolo,
oggi ch’er Papa pe ggrazzia de Ddio
chiama cqua li su’ amichi der Tirolo.
Lassàteli arrivà, cché ssubbit’io
ve viengo a ddà er bon giorno, e vve conzolo
co cquattro stoccatelle a ggenio mio.
27 novembre 1833
1
Ci sono.
2
Ora viene l’in hac lacrymarum valle.
3
Faccia d’impiccato.
4
Che bòtte.
1032. Un’istoria vera
Morto Tufò d’una stoccata presa
sur canton de le Stalle de Corzini,
1
e Bbasville ar trapasso de l’Impresa,
2
d’un tajjo de rasore a li destini;
3
la setta de francesi ggiacubbini,
pijjannose
4
ste morte pe un’offesa,
spidí a Rroma una truppa d’assassini
a llegà Bbraschi er capo de la Cchiesa.
Doppo incirc’a ddiescianni, Napujjone
mannò a ffà la scalata a Cchiaramonti,
perché nnun era un Papa framasone.
E, ppe ffà er terzo, mó li carbonari
vorebbeno vienissene
5
ónti ónti
6
ppizzicasse
7
Papa Cappellari;
quanti
8
ccari!
Nun dubbità pperò cche stanno freschi;
e in Itajja sce sò
9
bboni Todeschi.
27 novembre 1833
1
Vicolo cieco che si apre alla destra del Palazzo Corsini, già Riario, in Via della Lungara, nella regione transtiberina.
In questo Palazzo si teneva da Giuseppe Bonaparte il club repubblicano.
2
La Impresa de’ Lotti.
3
Agl’intestini.
4
Pigliandosi.
5
Venirsene.
6
Indifferenti indifferenti.
7
Pizzicarsi: beccarsi.
8
Quanto sono.
9
Ci sono.
1033. Li Chìrichi
1
Li chírichi de Roma? crosc’e spine!
2
Dove te vòi
3
scavà ppeggio gginía?
Uno ruffiano, uno gatto, uno spia,
uno... inzomma canajja senza fine.
Ggiucheno a zzecchinetto
4
in zagrestia:
se scoleno oggni sempre l’ampolline:
vonno bbene a le ggente pasqualine
5
e vvenneno
6
er bijjetto a cchissesia.
Cor butteghino
7
de le ssedie, intanto
àzzichen’
8
oggni donna, o cce ssii tata,
o Mmamma, o Nnonna, o er cornutello accanto.
Serveno Messa ch’è un zocché
9
dde tristo;
e cconnischeno
10
a ccasa l’inzalata
coll’ojjo de le lampane de Cristo.
11
29 novembre 1833
1
Chierici.
2
Croce e spine! croce e chiodi! cristiane interiezioni di maraviglia.
3
Ti vuoi.
4
Giuoco di carte consimile al
faraone.
5
Chi non prende l’Eucarestia che la pasqua.
6
Vendono. Nelle provincie, prima della pasqua si portano dai
curati per le case tanti biglietti pasquali, quanti sono individui nella famiglia, onde ciascuno restituisca il suo, munito
del proprio nome, nell’atto che si comunica all’altare. A Roma al contrario si usa che i comunicandi li ricevano al
momento che prendono il sacramento; e, terminato quindi il tempo pasquale, girano i curati a raccogliere per le case i
biglietti e ne eseguiscono il confronto cogl’individui. Di che avviene che nella provincia si faccia maggior luogo ai
sacrilegii, e in Roma al traffico de’ polizzini per mezzo de’ chierici; dappoiché il confronto accade attualmente, e
qua si riferisce ad azioni passate, delle quali il parroco non può serbare memoria. Nulladimeno il buon cristiano
sempre quello che ha un biglietto da rendere.
7
Col traffico.
8
Àzzicano: adescano, insidiano, uccellano.
9
È un
nonsocché.
10
Condiscono.
11
Vedi il Son. intit. Er riggistrato a S. Bartolommeo.
1034. Cose antiche
Propio bbisoggna dí cc’all’Angeletto,
ar Moro, ar Gallo, e in quarc’antra ostaria
m’abbino bbattezzato
1
pe ’na spia
che ttiè oggni cosa ariservat’in petto.
Che ccosa m’ho da intenne
2
io si
3
er Messía
è nnato prima o ddoppo de Maometto,
oppuro de Mosè? Vvadino in Ghetto
a ffà ste sciarle: vadino in Turchia.
4
impicci da sbrojjà ddoppo tant’anni?
L’omo nun pò ssapé cche cquer c’ha vvisto:
ma eh? nun dico bbene, sor Giuvanni?
Prima o ddoppo, cchi vvòi che jje n’importi?
Bbasta, o Mmosè, o Mmaometto, o Ggesucristo,
quello ch’è ccerto è cche ssò ttutti morti.
30 novembre 1833
1
«Giudicato, ritenuto», e simili.
2
Intendere.
3
Se.
4
Sono.
1035. La vedova der zor Girolimo
È vvero ch’er marito era un gran brutto
vecchio bbavoso, ma ttratanto Ghita
1
pò ddí
2
cch’è nnata carzata e vvistita,
3
e a sposallo scià ttrovo
4
er zu’ costrutto.
5
Eh, mmica ggnente! l’ha llassata in vita
donna e Mmadonna espotica
6
de tutto,
padrona de godesse
7
er lusufrutto
dell’asso,
8
de l’entrata e dde l’usscita.
Ôh, in quant’ar capitale, er morto ha ddetto
c’ha da rimane
9
in testa a la cratura
10
che mmó ha ddu’ anni, e ppropio è un bel racchietto.
11
Si
12
è ppoi fijjo de lui vattel’a ppesca.
13
Perantro ha la medema incornatura
14
tutta der zor Girolimo requiesca.
30 novembre 1833
1
Margherita.
2
Può dire.
3
Di esser nata fortunata.
4
Ci ha trovato.
5
Il suo vantaggio.
6
Dispotica.
7
Godersi.
8
Dell’asse.
9
Rimanere.
10
Creatura.
11
Fanciulletto.
12
Se.
13
Vattelo a pescare.
14
La medesima indole di fisionomia.
1036. Er rimedio der cazzo
1
Dímoje
2
marfrancese
3
a sto fraggello
oppuro scolazzione o ggomorrea,
fatt’è ch’è stata una gran ladra idea
d’attossicacce
4
un gusto accusí bbello.
Bbastassi
5
ar meno quer che ffesce quello,
6
c’avanti d’ingrufasse
7
Dorotea,
un giorno pij un po’ de vallonea,
aggnéde
8
a ccasa e sse conciò l’uscello.
9
Che nn’ariccorze?
10
Un ber par de cojjoni.
11
Co ttutta la su’ concia ariverita,
sce
12
s’empí de pulenta
13
e dde tinconi.
Senza contacce
14
poi trall’antri mali,
ch’un omo co sta concia pe la vita,
si ha mmojje, c’ha da fà? ffijji o stivali?
2 dicembre 1833
1
Equivoco di rimedio da nulla.
2
Diciamogli.
3
Mal francese.
4
D’attossicarci.
5
Bastasse.
6
Fece quello. Fu il marchese
Giuseppe Origo, colonnello dei vigili per gl’incendi.
7
D’ingrufarsi: di comprimere.
8
Andò.
9
L’uccello. Vedi il Son...
10
Che ne raccolse.
11
Un bel paio, ecc, nulla.
12
Ci.
13
Di gonorrea.
14
Contarci.
1037. Le bbagarine
1
Te se sò infrascicate?
2
Ôh adesso sbuffa.
È ccalata la piazza?
3
Ôh mmó bbarbotta.
4
Che tte discevo? Le fruttajje in grotta
tanto la va
5
mma ppoi fanno la muffa.
Mica c’abbi da dà la robba auffa,
6
ma cquanno te sce scappa la paggnotta
7
da’ mmano e sbarza via: nun èsse jjotta.
8
Nun venni, e vvò’ abbuscà?!
9
cquanto sei bbuffa!
Li negozzi sò
10
bbestie de du’ code.
Una te pò ffà rricca: una te frega.
11
Ecco perché cchi sse contenta gode.
12
Sai che mme canta sempre mi’ marito?
«A invecchià ttroppo er fonno de bbottega
sce s’arimette
13
poi nicch’e ppartito».
14
2 dicembre 1833
1
Le bagherine. Bagherini: rivenditori e monopolisti specialmente di commestibili.
2
Ti si sono infradiciate?
3
Calare la
pizza, vale: «abbassarsi il prezzo dei generi».
4
Borbotta.
5
A lungo può andare.
6
Gratis. Vedi la n... del Son....
7
Quando puoi trarne un discreto lucro.
8
Non esser ghiotta.
9
Non vendi, e vuoi guadagnare?
10
Sono.
11
Ti rovina.
12
Proverbio.
13
Ci si rimette.
14
Nicch’e ppartito; l’unguento e le pezze, e simili, cioè: «i lucri ed il capitale».
1038. Er grann’accaduto successo a Pperuggia
Ma cche ffatti se
1
senteno, eh Strijjozzo?
Manco fussimo
2
ar tempo de Nerone.
Legà in der zonno un povero padrone
e bbuttallo in camiscia drent’ar pozzo!
Striggneje, sarv’oggnuno, er gargarozzo
co un fazzoletto bbianco de cottone!
3
ficcajje un stracc’in bocca, e cco un bastone
incarzajjelo ggiú ssino in der gozzo!
Pe arrubbà cquattr’argenti e cquarc’anello
c’era bbisoggno mó, ffijji de cani,
de fà ttutto st’orrore de sfraggello?
Volete ammazzà un omo oggi o ddomani?
Eh bbuggiaravve, pijjate un cortello
e ammazzatelo ar meno da cristiani.
5 gennaio 1834
1
Si.
2
Nemmeno se fossimo.
3
Cotone.
1039. La puttana protetta
Ma Mmonziggnore, quanno un padre affritto
1
chiede ggiustizzia in pubbrico palazzo,
nun arrivo a ccapí ssi
2
ccon che ddritto
s’abbi da merità ttanto strapazzo.
Viè una scrofa
3
e ccaluggna er mi’ regazzo,
e io, povero padre, ho dda stà zzitto
perché nnun mostro er corpo der dilitto?
Cosa averebbe
4
da mostrajje? er cazzo?
Lei l’ha impestato, eppoi, bbrutta marmotta,
je s’ha da crede,
5
Iddio la bbenedichi,
ch’è stato er fijjo mio che jje l’ha rrotta!
Ôh, Mmonziggnore, vò cche jje la dichi?
me maravijjo assai c’a ’na miggnotta
li prelati je faccino l’amichi.
6 gennaio 1834
1
Afflitto.
2
Se.
3
Viene una bagascia.
4
Avrei.
5
Le s’ha da credere.
1040. La zitella
Sete
1
zitella, sí: ccome ve
2
pare:
zitella, zitelluccia, zitellona:
deggna inzomma de stà ssopr’a l’artare
co ssanta Margherita da Cortona.
Peccato che la luna in mezz’ar mare
quarche mmese nun essce, e vve cojjona;
3
e cche spesso, a Ssaspirito, er compare
curre a una rota, mette drento, e ssòna.
Der rimanente ve se
4
vede in faccia
che vvoi sete zitella a bbocc’uperta
5
a un dipresso in zur gusto de Santaccia.
6
E ffussivo magara
7
puttanella,
nun avenno
8
marito è ccosa scerta
che v’hanno da chiamà ssempre zitella.
8 gennaio 1834
1
Siete.
2
Vi.
3
Vi tradisce.
4
Vi si.
5
Volendo schernire una donzella non creduta vergine, le si dice in Roma zitella
spalancando la bocca nel profferire l’a. Ciò abbiamo inteso di rappresentare qui sopra nel titolo del sonetto.
6
Famosa
meretrice di trivio, della quale vedi il Son…
7
E foste magari.
8
Non avendo.
1041. La musica de Libberti
1
Oh, ssor Paterni,
2
l’avemo sentiti
a Llibberti sti su’
3
musicaroli;
e ssa cche jj’ho da dí? llei se
4
conzoli
che ppropio arimanessimo intontiti.
5
Che angeli! che zzuccheri canniti!
6
che ccanàri, per dio!, che rrosiggnoli!
Pareno
7
llí ddavanti a li coccioli,
8
’na soffitta de gatti inciamorriti.
Dove nun lo dicessi
9
er butteghino
che llí ddrento se
10
canta una commedia,
ar zentí
11
cquel’inferno ar Babbuino
12
currería
13
’r bariggello
14
spaventato,
currería la Mammana co la ssedia,
currería l’ojjo santo cor curato.
8 gennaio 1834
1
Il teatro Alibert, nella stagione del carnovale 1834.
2
Nome dell’impresario.
3
Questi suoi.
4
Ella si.
5
Rimanemmo
attoniti.
6
Canditi.
7
Paiono.
8
I lumi della bocca-d’opera.
9
Dicesse.
10
Si.
11
Al sentire.
12
Via del Babuino, ove si trova il
teatro.
13
Correrebbe.
14
Il bargello.
1042. La famijja sur cannejjere
1
Chi vvò cconossce
2
er fior de le famijje,
entri a rrifasse
3
l’occhi in sto portone,
e vvienghi a vvede
4
a ccasa der padrone
si cche ffrega
5
d’argenti e dde mobbijje.
Cqua ggioje pe la mojje e ppe le fijje:
cqua parchetti a la Valle e a Ttordinone:
6
cqua vviaggi e scampaggnate oggni staggione:
cqua ccavalli da sella e dda parijje.
E rrifreschi, e accademie, e ttavolini
co li ppiú mmejjo ggiochi der paese,
dove nun curren’antro
7
che zzecchini.
Inzomma tra sti sfarzi e ttra ste spese
s’ha da stà ppe ccapí cquanti quadrini
pò avé un Mastro-de-casa d’un Marchese.
8
9 gennaio 1834
1
In auge, in grandezza.
2
Chi vuol conoscere.
3
A rifarsi, a ristorarsi.
4
E venga a vedere.
5
Se che quantità.
6
La Valle e
Tordinona, primi teatri di Roma.
7
Non corrono altro.
8
Abbiamo in Roma fra gli altri un luminoso esempio di questa
verità. Un signor Patrizi maestro di casa del Principe Chigi, e addetto anche al duca Braschi, è stato accusato e
convinto da quest’ultimo di furti vistosi. Ma il signor Patrizi ha danari e bbelle figlie, potentissimi avvocati della
Romana Corte.
1043. Er Carnovale der 34
Ce saranno le mmaschere quest’anno?
A mmé mme
1
disce er mozzo de Caserta
che llui ha inteso a ddí ppe ccosa scerta
da ’na spia amica sua, che cce saranno.
È vvero che le spie sò
2
ggente asperta,
3
che li fatti che ll’antri
4
nu li sanno
tanto imbrojjeno loro e ttanto fanno
che l’arriveno a vvede
5
a la scuperta.
Puro, in quanto a le mmaschere, sor oste,
ho ppavura c’arrestino
6
a lo scuro,
perch’er Papa nun vò ffacce anniscoste.
Er crede
7
e lo sperà ssò ccose bbelle;
ma a sto monnaccio nun c’è de sicuro
che ddu’ cose: la morte e le gabbelle.
9 gennaio 1834
1
Mi.
2
Sono.
3
Esperta.
4
Gli altri.
5
A vedere.
6
Che restino.
7
Il credere.
1044. L’angonìa der Zenatore
1
Sonetti 4
Che ffarà a Rroma er popolo romano
adesso che jje more er Zenatore?
2
Come faranno, adesso che llui more,
li vassalli de Cori e Vvitorchiano?
3
Che ffarà adesso er povero sovrano
der Vicario de Ddio nostro Siggnore,
senza sta prima carica d’onore
che lo vadi a sserví dda lavamano?
4
E ccome se farà ggiuveddí-grasso,
che nun ce sarà ppiú cchi bbatti er Corzo
fra le carrozze che jje danno er passo?
5
Quieti pe ccarità, cché, llui crepato,
nun mancherà de scerto un antro torzo
6
da méttelo
7
a la testa der Zenato.
9 gennaio 1834
1
L’agonia del Senatore.
2
Il principe don Paluzzo Altieri.
3
Vitorchiano, Cori…, sono quattro feudi del popolo romano
in massa, rappresentato dalla Camera Capitolina.
4
Vedi il Son....
5
Il primo giorno di carnovale e il giovedí-grasso, il
Senatore, in forma pubblica, batte, come si dice il Corso, passando col suo seguito di cocchi per mezzo alle due file di
carrozze che lo percorrono.
6
Un altro torzo. Prova superlativa della di lui dappocaggine e pusillanimità si ebbe ne’
torbidi civili del 1831, ai quali egli come primo magistrato del popolo e generalissimo della guardia urbana avrebbe
potuto dare una direzione che ristaurasse in qualche modo il Senato dalle usurpazioni de’ Papi. Il Senatore al primo
sospetto di movimenti popolari, si chiuse nel palazzo e ne fece puntellare i portoni.
7
Da metterlo.
1045. La morte der Zenatore
1
È mmorto er Zenatore: e ddrent’ar mese
chi ddisce che ssii fatto Bbarberini,
chi Ssantacrosce, chi Ssolòfro Orzini,
2
chi Ppatrizzi,
3
e cchi er Prencipe Bborghese.
4
Ma er Papa, che ttiè in testa le protese
che ccacciò ffora er Prencipe Corzini,
5
ha ppavura che cquelli siggnorini
rivojjino er commanno der paese.
6
Forzi,
7
come una vorta era er custume,
metterà in Campidojjo un zu’ nipote,
8
negozziante de paste e nnegrofume.
9
Dunque, si
10
cquesto cqua ssa er zu’ dovere,
11
per entrà in grazzia ar zio uggni le ròte
12
ar cavajjer Ghitano er cammeriere.
13
11 gennaio 1834
1
Accaduta la notte dal 9 al 10 gennaio 1834.
2
Orsini, napolitano Principe di Solòfra e Duca di Gravina, che ai
vantaggi di un sangue illustre unì l’altro splendore di 220.000 scudi di dote avuta dal suocero Duca Torlonia.
3
Il
Marchese Patrizi, figlio del già senatore di questo nome.
4
Francesco Aldobrandini, secondogenito della famiglia
Borghese, di cui ereditò il nome e le proprietà del fratello Camillo Borghese, morto senza prole del suo matrimonio
con Paolina Bonaparte.
5
Morto il senatore Giovanni Patrizi, il principe Tommaso Corsini fiorentino fu eletto a quella
dignità e ne prese il solenne possesso con magnifica pompa. Ma per alcune male intelligenze sorte tra lui e la Romana
Corte intorno alle giurisdizioni della carica, vi rinunziò, ed allora fu che gli venne sostituito Altieri.
6
Rivogliano il
comando, ecc. È noto come i Papi, specialmente da Niccolò III in poi, si tolsero a poco a poco tutto il comando
municipale, di che i Senatori erano investiti sulla città di Roma.
7
Forse.
8
Frequenti sono gli esempi di simili nomine di
nipoti di Papi. L’ultimo si ebbe nel Rezzonico.
9
Questa dicesi essere la professione della famiglia di Gregorio XVI in
Belluno.
10
Se.
11
Il suo dovere.
12
Unga le ruote: piaggi e regali.
13
Gaetano Montani, già barbiere del padre Mauro
Cappellari, oggi Papa.
1046. Er Zenatore novo
Ôh, vvojjo dàvve
1
una gran nova, vojjo:
che ffinarmente er Papa stammatina
ha ffatto senatore Garavina,
2
e ttra ggiorni lo stalla
3
in Campidojjo.
E ggià in Cancellaria se stenne
4
er fojjo
de privileggi in carta bbergamina,
5
ciovè cche aspetta
6
a llui la cunculina
7
quanno fa ar Papa da assistent’ar zojjo.
In quanto poi si
8
ppijje ppossesso,
questo dipennerà dda la saccoccia:
9
ché ggià, lo pijji o nnò, ttant’è ll’istesso.
Li riquisiti per entrà in funzione
10
una bbrava perucca
11
in zu la coccia,
un par de guanti bbianchi, e un ber rubbone.
12
16 gennaio 1834
1
Voglio darvi.
2
Vedi la nota 2 del sonetto precedente.
3
Lo installa.
4
Si stende.
5
In carta pergamena.
6
Spetta.
7
Vedi il
Son....
8
Se.
9
Gravissime spese deve sostenere il Senatore novello, se vuol fare la solenne cavalcata e le altre cerimonie
del possesso pubblico: le più cospicue tra le quali spese consistono nelle regalie ed altre mance d’uso. L’Altieri, e il
più antico Patrizi ne restarono spaventati, e presero il possesso privato. Vedi la nota 5 del sonetto precedente.
10
Sono.
11
La parrucca senatoria incipriata, e con boccoli pendenti sulla schiena del gran magistrato.
12
Rubone, nome della
veste senatoria, tessuta in seta ed oro.
1047. Li du’ senatori
C’è un’antra nova. Doppo la quarella
1
der bastardo de casa Scesarini,
2
che sse vò ffà
3
ppe fforza una sorella
pe llevajje er casato
4
e li quadrini,
mó a l’improviso scappa fora quella
piú strepitosa tra Ccorzini
5
e Orzini,
6
pe vvede
7
a cchi ha d’annà
8
la tabbanella
9
de ganzo e ’r peruccone
10
a ppennolini.
Pe mmé nnun ce farebbe
11
indifferenza
12
tra st’Orzini e Ccorzini. In concrusione
uno tiè un C de ppiú, ll’antro
13
n’è ssenza.
Defatti er liticasse
14
un peruccone,
che nnun ha ppiú ggnisuna incompitenza,
15
propio è una lite da C, o, co, ccojjone.
18 gennaio 1834
1
Dopo la querela.
2
Lorenzo Cesarini, che disputa ad Anna Cesarini, e al figlio di lei Torlonia, il patrimonio de’ Duchi
Sforza Cesarini. Attualmente si agita la causa avanti il Tribunale della Rota Romana, che favorisce il pretendente.
3
Si
vuol fare.
4
Per levarle il cognome.
5
Vedi la nota 5 del Son…
6
Vedi la nota 2 del Son… e il sonetto precedente a
questo.
7
Per vedere.
8
Andare.
9
Vedi la nota 12 del sonetto precedente.
10
Vedi la nota 11 del sonetto medesimo.
11
Per
me non ci farei.
12
Differenza.
13
L’altro.
14
Il litigarsi.
15
Nessuna competenza.
1048. Er Monziggnorino de garbo
1
Quanno nun z’abbi
2
da poté ffidasse
3
manco
4
ppiú de siggnori e dde prelati,
nun c’è dda fà ggnent’antro
5
che bbuttasse
6
pe tterra, cristo mio, pe ddisperati.
Bbravo! perché le stime ereno bbasse,
e vvedevo li tomi arilegati,
io mó avevo da crede
7
che ste casse
de libbri vecchi fussino arrubbati.
Cresi
8
che, mmorto er padre, er prelatino
volessi
9
bbastonà
10
la libbraria
pe ccrompaccese
11
un schioppo e un carrettino.
12
Che ssò
13
io? er profeta de l’urione
14
pe ssapé
15
che li libbri che ddà vvia
16
monziggnore li scrocca a la lauzzione?
17
10 gennaio 1834
1
Avvertiamo che l’interlocutore qui appresso introdotto, è un certo tale, conosciuto in Roma sotto il nome del Rosso,
il quale di servitore che era messosi a fare il libraio, compera a peso o a proporzione del formato i libri de’ librai
falliti, o di chiunque altro abbia desiderio o bisogno di disfarsene. Tra questi un prelatino, figlio di principe romano,
acquistò a credito a un pubblico incanto (o, come dicesi, auzione) per cento scudi circa di libri, che subito rivendé a
contanti al Rosso per circa scudi venti, senza mai più pagare il creditor principale. Questa è la base del seguente
sonetto, nel quale il Rosso si discolpa di una specie di complicità attribuitagli in un furto, del quale non si fece
altronde alcuna colpa al prelatino figlio di principe.
2
Non si abbia.
3
Poter fidarsi.
4
Nemmeno.
5
Nient’altro.
6
Buttarsi.
7
Da credere.
8
Credetti.
9
Volesse.
10
Sacrificare, vendere con perdita.
11
Comperarcisi.
12
Vettura da caccia.
13
Sono.
14
Del rione.
15
Per sapere.
16
Vende.
17
All’auzione.
1049. L’anima bbona
Quello?! Ma ppropio lui?! Jeso,
1
che ssento!
Io casco dalle nuvole, Terresa.
Quer vecchietto che stava sempre in chiesa
inginocchione avanti ar Zagramento?!
Un quartino,
2
a una scatola che ppesa
quattr’onc’e mmezz’e ppiú dde sol argento!
Ggnente de meno ch’er mille pe ccento!
Oh questa mó è la prima che ss’è intesa.
Fregheli, che assassini che sse danno!
Fà ste lusúre,
3
e ppoi maggnasse
4
er peggno
l’istesso ggiorno che ffinissce l’anno!
Uh ffuss’io
5
Papa! a st’animacce porche
je vorebbe imparà ssi dde
6
che lleggno
se frabbica
7
la scala de le forche.
10 gennaio 1834
1
Gesù.
2
Il quartino era moneta d’oro del valore di cinque paoli, e si chiamava così pel suo rappresentare la quarta
parte di uno zecchino romano. In oggi non n’è restato che il nome nel volgo, il quale ignorandone pure l’antica reale
esistenza, intende di esprimere con esso puramente un valor convenzionale di baj. 50.
3
Fare queste usure.
4
Mangiarsi.
5
Fossi io.
6
Gli vorrei insegnare se di che, ecc.
7
Si fabbrica.
1050. La Cassa der lotto
Sotto dell’antri
1
Papi, er rimanente
c’avanzava a sta lupa de l’Impresa,
2
lo fasceva serví la Santa Cchiesa
pe llemosine a nnoi povera ggente.
Ma, a ggiorni nostri, un Papa ppiú ccremente,
3
discenno
4
c’a la Cammera je pesa
d’avé da seguità ttutta sta spesa,
serra le porte e nnun vò ddà ppiú ggnente.
Ecco la carità de sto Governo.
Eccola la ggiustizia che ss’inzeggna
da sti diavoli esscíti da l’inferno.
Tutto se scola
5
sta fajola
6
indeggna.
Tutto cqua sse
7
priscípita in eterno
ner pozzo de la gola e dde la freggna.
10 gennaio 1834
1
Degli altri.
2
Per Impresa, assolutamente, s’intende sempre la Impresa pontificia de’ Lotti.
3
S. S. Gregorio XVI.
4
Dicendo.
5
Si scola: si sorbisce.
6
La Fajola è una gran foresta del nostro Stato, la quale per essere stata altre volte nido
famoso di ladri, ha dato il nome ad ogni ceto di amici della roba altrui.
7
Si.
1051. Quattro tribbunali in dua
Bartolomeo, tu pparli a la carlona.
De sti ggiri che cqui
1
ssei poco pratico.
Pari vienuto cor grobbo-arrostatico
2
dar paese dell’ícchese in perzona.
3
Cosa sce trovi d’arimane statico
4
s’hanno unita la Grasscia co l’Annona?
È sseggno che sta ggente bbuggiarona
vò mmaggnattese
5
er pane e ’r companatico.
L’istessa cosa incircuncirco accade
de le Strade e dell’Acque. Abbi ggiudizzio
d’arifrette,
6
e tte
7
vojjo perzuade.
8
S’è mmess’inzieme l’un e ll’antro uffizzio,
perché er Guverno pe scopà le strade
ha ppijjato er diluvio ar zu’ servizzio.
11 gennaio 1834
1
Di questi maneggi qui.
2
Sembri venuto col globo-aerostatico.
3
Dal paese stesso dell’X. Dall’altro mondo.
4
Cosa ci
trovi da rimanere estatico.
5
Vuol mangiartisi.
6
Di riflettere.
7
Ti.
8
Persuadere.
1052. L’Ottobbre der 31
Come! e in un tempo de tanto fraggello,
che, ssi rridemo noi,
1
puro
2
è ddilitto,
er Papa che sse stampa
3
accusí affritto
se ne va intanto a vvilleggià a Ccastello!
4
Mentr’er tesorierato è ttanto guitto
che nnun c’è in cassa manco un quadrinello,
5
là sse spenne mijjara
6
a rrifà bbello
tutto er palazzo,
7
e ’r Monno ha da stà zzitto!
Dove scime de Papi
8
hanno passate
tante staggione cor mobbijjo vecchio,
nun pò sta cchi pper dio jjeri era frate!
9
Romani mii,
10
specchiateve in sto specchio
e ccapite che ttutte le sscimmiate
11
che ffa llui, sò bbuscíe
12
da mozzorecchio.
13
12 gennaio 1834
1
Se ridiamo noi.
2
Pure.
3
Si stampa. Ne’ molti editti che si stamparono durante le vicende politiche del 1831, non si
leggevano che espressioni di cordoglio e di pianto delle paterne viscere di Sua Beatitudine.
4
Castel-Gandolfo, luogo
di villeggiatura ordinaria de’ Papi sul Lago Albano.
5
Nemmeno un quattrinello: centesimo romano.
6
Si spende
migliaia.
7
A rifar bello tutto il palazzo. Malgrado la trista condizione dell’erario in quel tempo, si spesero vistose
somme per rimodernare il palazzo, cosí che meglio che ad un Papa potesse dar ricetto ad una sposa regina.
8
Cime di
Papi.
9
Gregorio XVI in brevi istanti passato dal chiostro al trono.
10
Miei.
11
Scimmiate: leziosità sceniche.
12
Bugie.
13
Mozzorecchi sono detti i cavillosi e bugiardi legulèi del romano foro.
1053. La promozzione nova
Che mmutino oggni mese un Tesoriere,
questa, pse,
1
ttant’e ttanto je se passa,
2
perché er zegreto de spojjà la cassa
lo sanno tutti e in tutte le maggnere.
3
Per un modo de dí, cquello è un mestiere
fratèr-carnale
4
de la nebbia bbassa,
ché, cquanno arriva, come trova lassa,
5
e lo pò ffa cqualunque cammeriere.
Quer che dde tante teste entra in ggnisuna
6
è cch’er Governatòre
7
a sto paese
s’abbi
8
d’arinnovà ccome la luna.
Nun lo vedete chiaro, ggente mie,
che nun je pò rriusscí
9
ddrent’in un mese
nemmanco de contà ttutte le spie?
12 gennaio 1834
1
Voce, insignificante per se stessa, che si adopera nel colloquio famigliare per indicare l’animo propenso alle
concessioni.
2
Gli si passa, gli si ammette.
3
Maniere.
4
Fratel-carnale: identico.
5
Come trova, lascia. La intiera frase è
un proverbio.
6
Quel che fra tanti niuno sa intendere.
7
È che il Governatore, ecc. Profferendo queste parole, si deve
battere e inalzare il tuono della voce sulla o, per esprimere che su quella carica e non sulle altre cade la difficoltà.
8
Si
abbia.
9
Non gli può riuscire.
1054. L’ammalato a la cassetta
1
Oh gguarda mó cche ttirannia tiranna
de nun portamme
2
er brodo a mmodo mio!
Io vojjo er brodo com’Iddio commanna,
3
ché dder mi’ corpo sò
4
er padrone io.
Doppo tutto sto po’ dde bbuggerío
5
de sta diarella
6
de sscialapp’e mmanna,
vonno ruzzacce,
7
corpo d’un giudio!,
cor
8
un brodo ch’è llongo mezza canna.
Bbe’? mme la vôti, o nnò, la sputarola?...
Eh ttira un po’ ppiú in zú cquer capezzale...
Cazzo! t’ho ddetto una cuperta
9
sola.
E mmó indove me ficchi l’urinale?
Ah! un’antra vorta ch’Iddio me conzola,
10
bbuggiarà cchi nun more a lo spedale.
12 gennaio 1834
1
Al cesso.
2
Di non portarmi.
3
Come Iddio comanda: come dev’essere al suo punto, ecc.
4
Del mio corpo sono.
5
Di
rovina.
6
Diarrea.
7
Vogliono ruzzarci, scherzarci.
8
Con.
9
Coperta, coltre.
10
Mi consola, ironia di affligge.
1055. Er governo der temporale
1
Ôh,
2
ppenzateve
3
un po’ ccome volete
ch’er reggno ar Papa je l’ha ddato Iddio,
io sto cco le parole de don Pio:
«Sete cojjoni assai si cce
4
credete».
E Ggesucristo ar popolo ggiudio
sapete che jje disse? eh? lo sapete?
«Io sò vvienuto in terra a ffà da prete,
e nnun è dde sto Monno er reggno mio».
Che bbella cosa saría
5
stata ar Monno
de vede
6
er Nazzareno a ffà la guerra
e a scrive
7
editti fra vviggijja e ssonno!
E, dde ppiú, mmannà ll’ommini in galerra,
e mmette
8
er dazzio a le sarache e ar tonno
a Rripa-granne
9
e a la Dogàn-de-terra.
10
13 gennaio 1834
1
Il governo temporale.
2
Ôh, interiezione d’impazienza, o conclusione di discorso.
3
Pensatevi.
4
Se ci.
5
Sarebbe.
6
Di
vedere.
7
Scrivere.
8
Mettere.
9
Ripa-grande, porto e dogana sul Tevere, per le merci provenienti dalla via di mare.
10
Dogana di terra. L’apocope della parola Dogana non si attribuisca a licenza poetica. Così il popolo dice come noi
abbiamo scritto.
1056. La regazza cor muso
1
Sora sposa,
2
che! avete er pidiscello,
3
che mme
4
state color de terroriana?
5
Ve s’è ssciorto er bellicolo
6
in funtana?
7
Dite eh? vve s’arivòrtica er budello?
8
La volete sapé, ccore mio bbello?
A vvoi v’amanca quarche ssittimana.
9
Lo sapete ch’edè? Voi, sora Sciana,
10
sete matta in ner mezzo de ciarvello.
Come sarebb’a ddí? ccosa ve dôle?
11
Animo, fora, fàteve usscí er fiato.
12
Forte: nun masticamo le parole.
L’avete detto a mmé cche ssi’ impiccato?
E io ve dico ste du’ cose sole:
fate per voi, perch’io, fijja, ho spallato.
13
14 gennaio 1834
1
La amante in collera.
2
Sposa si dice per titolo di cortesia a tutte le donne, delle quali non si sappia il nome. Talora è
anche una ironia usata con quelle che si conoscono.
3
Siete trista? come i polli quando diconsi avere il male del
pedicello.
4
Mi.
5
Del colore di terroriana: del color terreo che l’ira.
6
Vi si è disciolto l’umbillico? Vale: «siete
stranita?».
7
Cioè: «stando in fontana».
8
Rivoltarsi il budello, equivale al senso espresso nella nota 6.
9
Mancare altrui
qualche giorno, qualche settimana dell’anno, vuol dire: «esser pazzo».
10
Ciana, donna dedita all’adornarsi con
caricatura.
11
Cosa avete?
12
Parlate.
13
Espressione tolta dal giuoco di carte chiamato la bazzica, e significa: «Prendete
per voi le vostre parole, poiché io son fuori di questo giuoco a cui mi chiamate».
1057. Er madrimonio sicuro
Tu nun capisco indov’abbi la testa.
Hai tanta fernesia
1
de fatte
2
sposa,
e nun zai che cqui a Rroma nun c’è ccosa
che ssii cosa piú ffascile de questa.
Vòi marito? E tu àrzete
3
la vesta,
pijjete in corpo una zeppa-bbrodosa,
4
eppoi va’ ddar Curato, e ddijje,
5
Rosa:
«Padre, ajjutate una zitella onesta».
Er prete te dirà: «Cche ccos’è stato?».
Tu allora piaggne,
6
e ddijje: «Un traditore
de l’innoscenza mia m’ha ingravidato».
E cqui accusa qualunque che tte cricca;
7
ma abbada,
8
pe rriusscínne
9
con onore,
d’accusà ssempre una perzona ricca.
14 gennaio 1834
1
Frenesia.
2
Di farti.
3
Alzati.
4
Vedine il significato nel Son…
5
Digli.
6
Piagni.
7
Qualunque ti cricca: qualunque tu
voglia.
8
Bada.
9
Riescirne.
1058. Le faccenne
1
der Papa
Fra ttanti sturbi, er Papa s’è anniscosto
ner Palazzo-der-Papa, e llà in giardino
spasseggia, fischia, e ppoi ruzza
2
un tantino
cor un prelato suo garbàt’e ttosto.
3
Lo porta a un gioco-d’acqua accost’accosto
e tte lo fà abbaggnà ccome un purcino;
e arriva ar punto de mettéjje
4
infino
drent’in zaccoccia li pollastri arrosto.
De le vorte
4a
lo pijja sott’ar braccio,
poi je fa la scianchetta,
5
e, ppoverello,
je leva er piommo
6
e jje fa ddà un bottaccio.
7
Accusí er Papa se
8
diverte; e cquello
s’ammaschera da tonto
9
e ffa er pajjaccio
pe mmerità l’onore der cappello.
15 gennaio 1834
1
Faccende.
2
Scherza.
3
Garbato e tosto: modo schernitivo o di celia. Questo prelato garbato e tosto è monsignor
Soglia, Elemosiniere SS.mo.
4
Di mettergli.
4a
Alle volte: talvolta.
5
Gli fa la cianchetta: la gambetta. Far la gambetta è
«interporre una propria gamba fra le altrui nel momento del moto, onde farlo inciampare».
6
Gli leva l’appiombo.
7
Gli
fa dare (fare) una caduta.
8
Si.
9
Affetta il semplice.
1059. Li pericoli der Papato
Jeri Su’ Santità ccor zu’ bbuffone
1
ggiucanno
2
in ner giardino
3
a la pilaccia
4
(vedi er diavolo mó ddove se caccia!),
je successe sto caso bbuggiarone.
In ner mentre ggià aveva arte
5
le bbraccia
la gattasceca
6
pe ccalà er bastone,
er Papa s’inchinò ggiú a ppecorone
7
pe llevajje
8
la pila de llí in faccia.
Ghitanino
9
che vvedde
10
er zor don Màvero
11
in quell’atto, ffu llesto a strillà: «Ffoco»,
12
ma er tortóre
13
era ggià ssopr’ar camàvero.
14
Ecco come finischeno ste ruzze:
15
che la ggente in nell’ímpito
16
der gioco,
tira a le pile e ccojje a le cucuzze.
15 gennaio 1834
1
Monsignor Soglia, grand’Elemosiniere di Corte.
2
Giuocando.
3
Nel giardino domestico del Vaticano.
4
Il giuoco della
gattacieca alla pilaccia si fa bendando una persona, la quale deve in quello stato avanzarsi verso il posto dove prima
le si era mostrata in terra una pignatta, e, giunta ove la pignatta si trova, percuoter questa con un bastone.
5
Alte.
6
La
gatta cieca: la persona bendata.
7
Colle ginocchia e le mani in terra.
8
Per levargli.
9
Gaetanino Montani, primo
cameriere e confidente di S. S. Gregorio XVI.
10
Vide.
11
Il signor don Mauro: nome del Papa, prima della sua
esaltazione.
12
Foco: cosí gridasi alla gatta-cieca, quando, smarrita la traccia, va a percuotere in falso od in luogo
pericoloso.
13
Tortore, con entrambe le o chiuse: rozzo bastone e pesante.
14
Al camauro.
15
Questi scherzi.
16
Nell’impeto.
1060. L’arberone
1
Immezzo all’orto mio sc’è un arberone,
solo ar Monno,
2
e oramai tutto tarlato:
eppuro
3
fa er zu’
4
frutto oggni staggione
bbello a vvede,
5
ma ascerbo e avvelenato.
Ricconta un libbro che dda quanno è nnato
è vvienuta a ppotallo
6
oggni nazzione;
ma er frutto c’ari
7
ddoppo potato
pizzica che nemmanco un peperone.
Quarchiduno
8
me disce d’inzitallo,
9
perché accusì er zu’ frutto a ppoc’a ppoco
diventerebbe bbono da maggnallo.
Ma un Carbonaro amico mio me disce
10
che nnun c’è antro
11
che ll’accetta
12
e ’r foco,
perché er canchero sta in ne la radisce.
15 gennaio 1834
1
L’alberone. Questa è un’allegoria da cercarne il senso nella Vigna del Signore.
2
Unico al Mondo.
3
Eppure.
4
Il suo.
5
A vedere.
6
È venuta a potarlo.
7
Che rifà.
8
Qualcuno.
9
Mi dice d’insitarlo, innestarlo.
10
Mi dice.
11
Altro.
12
La scure.
1061. Er proscessato
Sor avocato mio, er punto forte
c’ariccomanno
1
a vvoi quanto so e pposso,
è de spuntà
2
cche nun me vienghi addosso
quella puttana de condanna a mmorte.
Perché, ppotenno
3
avé lla bbella sorte
d’annà in galerra e dde sartà cquer fosso,
4
c’è ssempre poi quarche zzucchetto rosso
5
che in galerra che ssei t’opri
6
le porte.
E ssi mmai
7
pe ffà spalla
8
a la difesa
bbisognassi
9
er zoccorzo d’una vesta,
spennete puro
10
la mi’ mojje Aggnesa.
Ch’io sò ssicuro ggià cch’er zu’
11
demonio
nun je vojji
12
caccià scrupoli in testa
de nun difenne
13
er zanto madrimonio.
16 gennaio 1834
1
Che raccomando.
2
Di ottenere con ogni sforzo.
3
Potendo.
4
Saltare quel fosso: superare quel pericolo.
5
Qualche
cardinale.
6
Ti apra.
7
E se mai.
8
Per aiutare la, ecc.
9
Bisognasse.
10
Spendete pure, impiegate pure.
11
Che il suo.
12
Non
(gli) le voglia.
13
Di non difendere.
1062. Er quadraro
1
Ecco quello ch’edè:
2
nne li contratti
quarche vvorta io patisco d’estrazzione;
3
e llei
4
lo sa cche li scervelli estratti
5
spesso in ner contrattà vvanno a ttastone.
Ccusí ssuccesse a mmé: nner fà li patti
nun ce messe
6
abbastanza irrifressione;
7
e nnun stiede
8
a bbadà cche li ritratti
somijjanti hanno un prezzo d’affrizzione.
9
Vennenno
10
er quadro mio, nun me penzavo
11
che cquer quadro potessi èsse d’utore,
12
e, cquer ch’è ppeggio, d’un utore bbravo.
Se figuri
13
s’io davo per un pavolo
du’ ritratti dipinti da un pittore,
de San Micchel’arcangelo e dder diavolo.
14
17 gennaio 1834
1
Il nostro quadraio è uno di que’ mercatanti di quadri che trovansi a Roma col loro fondaco sulle pubbliche vie, anche
di notte a lume di candele di sevo piantate sulle selci della strada. Questo lume artificiale serve molto bene a dare ai
loro dipinti quella stessa appariscenza ingannevole, che fece nascere il proverbio ammonitivo: donna, tela a
lume di candela. Eglino vendono la loro merce a prezzo fisso, secondo la grandezza dei pezzi: di modo che in distinti
cartelli, per quante sono le classi di quelle grandezze, leggesi spesso: a un grosso il pezzo e capate: a un paolo il
pezzo e capate (scegliete), ecc.
2
Che è.
3
Estrazione, per «astrazione».
4
Ella.
5
Astratti.
6
Non ci misi.
7
Irriflessione, per
«riflessione».
8
E non stetti.
9
Afflizione, per « affezione».
10
Vendendo.
11
Non pensava.
12
Potesse essere d’autore.
13
Si
figuri.
14
E certo, due ritratti somiglianti di S. Michele arcangelo e del diavolo, e piú dipinti da un pittore, non hanno
prezzo.
1063. Li guai de li paesi
Cqua ’ggni du’ ggiorni o ttre ppe ssittimana
c’ar padrone j’arriva la gazzetta,
nun ze sent’antro a ddí
1
cche la Fajetta
scombussola la Francia sana sana.
Pussibbile,
2
per dio, c’a sta puttana
nun j’abbi da pijjà mmai ’na saetta!
Nu l’impiccheno mai sta mmaledetta,
che vvò atterrà la riliggion cristiana?
L’istesso è dde l’Ingresi co cquer Billo:
ché sto ladro futtuto l’arrovina
e ancora nun arriveno a ccapillo.
3
Bbenedetta la Corte papalina,
che ar meno questo cqui bbisoggna díllo
4
dà ppane ar boja e sse mantiè rreggina!
17 gennaio 1834
1
Non si sente altro a dire.
2
Possibile.
3
A capirlo. Se è compatibile un plebeo di aver preso il Generale Lafayette per
una donna, che dovrà dirsi dell’Eminentissimo Capelletti (già Governatore di Roma, vice Camarlingo di Santa Chiesa
e Direttore generale di Polizia) il quale si scagliò con veementi parole contro quel rivoluzionario di Monzù Bill
d’Inghilterra, al tempo della riforma parlamentaria?
4
Dirlo.
1064. Le Moniche
Che mme
1
parlate a mmé dde vocazzione
e dde voti perpètuvi
2
e ssinceri!
Bbisoggnería
3
ch’Iddio fussi un buffone
pe ddisdí
4
oggi quer che ddisse jjeri.
Quann’er Papa ariuprí li Monisteri
che l’aveva serrati Napujjone,
5
quante Moniche annorno
6
volentieri
a ffasse riammurà?
7
Cquattro bbabbione.
8
Tutte l’antre
9
che ppréseno la scorza
10
poc’anni prima, er Papa in ner Convento
ce le dovette aricaccià ppe fforza.
Tutto questo perché? Pperch’è un strapazzo
de volé ddà
11
a la donna er giuramento
in quel’età cche nnun capissce un cazzo.
18 gennaio 1834
1
Mi.
2
Perpetui.
3
Bisognerebbe.
4
Per disdire.
5
Napoleone.
6
Andarono.
7
A farsi rimurare.
8
Vecchione.
9
Le altre.
10
Presero l’abito.
11
Di voler dare.
1065. La Ronza
1
Ohé! Mmaria! dichi
2
davero o bburli?!
bbirba cojjona, pe nnun ditte
3
ssciocca.
Nun piascé
4
la Foresta de Minzurli,
5
quanno la fa
6
cquer pezzo de pasciocca!
7
Te dico che cquell’argheno
8
de bbocca
sce
9
tirava su er core co li curli:
10
e hai mai visto la neve quanno fiocca?
Fioccaveno accusí ll’apprausi e ll’urli.
La gran furia-de-popolo era tanta
che ppropio la pratea de Tordinona
11
se moveva e ttremava tutta-quanta.
Bbenedetta, per dio, st’Angiolonona!
12
bbenedetta sta strega che cc’incanta!
bbenedetto quer fischio
13
che la sona!
14
19 gennaio 1834
1
Giuseppina Ronzi, una di quelle odierne virtuose di musica che locano la loro opera a serate, contentandosi di
ricevere una serale mercede sufficiente al sostentamento annuale di una famiglia. La signora Ronzi fu discreta: non
volle che 24 mila franchi per 24 recite. Giova pertanto meglio il rivolgersi all’altra virtuosa signora... Malibran, onde
conoscere quale trascendental merito le abbia già assicurati sul Sancarlo di Napoli pel venturo carnovale 80 mila
franchi e due nette serate di beneficio. Fra tutti gl’impieghi possibili dell’umano talento, oltre quello di questo canto
miracoloso, altro non n’è capace di retribuir tanto premio ad ogni ripetizione di azione momentanea, fuor che quello
del ladro.
2
Dici.
3
Dirti.
4
Piacere (verbo).
5
La Foresta d’Irminzul (titolo sostituito dalla Censura politica al dramma di
Romani La Norma con musica del Bellini) andò in iscena a Roma nei teatro Torre-di-Nona la sera del 18 gennaio
1834.
6
Il verbo fare, come i nomi coso e cosa, ha nel discorso volgare un impiego estesissimo. Qui sta per «eseguire,
cantare».
7
Paciocca: donna giovane, bella e grassetta. Una donna pacifica è una pacioccona.
8
Argano.
9
Ci.
10
Curri
(cilindri).
11
Vedi la nota 5.
12
Doppio accrescitivo di Angiola. Il popolo di Roma, di mente fervida e portato
naturalmente alla meraviglia e all’entusiasmo, si vale sovente di simili espressioni a significare il grado delle
sensazioni dalle quali sono colpiti. Angiolona era poi ben da dirsi la Ronzi, per l’arte sua angelica e pel bello e
maestoso suo aspetto.
13
Il significato di questo fischio si cerchi nel Son...
14
Vedi il Sonetto intitolato Le Cantarine.
1066. Li quadrini pubbrichi
1
Ggià sse
2
sa, ppe nnoi poveri affamati
a sta macchia che cqua
3
nnun ce se
4
penza:
e cchi aricurre
5
a la Bbonifiscenza
6
sempre se sente a ddí:
7
«Ssò
8
tterminati».
Vedo intanto però ttutti li frati,
c’ortre
9
la loro bbrava possidenza,
pe inzeppà
10
la cantina e la dispenza
hanno sempre bbon’ordini pagati.
11
Disce: «Quest’è un compenzo de quer tanto
che cquanno se levorno
12
li conventi
monzú Jannette
13
je venné
14
a l’incanto».
E accusí, mmentre er zecolaro
15
abbozza,
16
er fratiscello, co li su’
17
fetenti
voti de povertà, mmarcia in carrozza.
20 gennaio 1834
1
Pubblici.
2
Si.
3
A questa macchia qua (intendi: macchia, foresta di ladri).
4
Non ci si.
5
Ricorre.
6
Commissione di
beneficenza.
7
Dire.
8
Sono.
9
Che oltre.
10
Per ricolmare.
11
Ordini sul pubblico erario.
12
Si levarono, abolirono.
13
Monsieur Janet, già Intendente del tesoro imperiale, sotto il dominio di Napoleone.
14
Gli vendette. Gli per «loro».
15
Il
secolare.
16
Abbozzare: soffrir tacendo.
17
Co’ suoi.
1067. La scuffiara francesa
No, a mmé cquer che mme tufa,
1
sor Luviggi,
è de sentí una scorfena bbacocca
2
de scuffiaretta, che nun za uprí bbocca
senza métteve
3
in culo er zu’ Pariggi.
Che ssarà sto paese de prodiggi
c’a le scuffiare guai chi jje lo tocca?
Io sce scommetteria
4
ch’è una bbicocca,
5
da entrà in cortile der Palazzo Ghiggi.
6
Ma ccazzo! a Ffrancia indove sc’è una Ronzi
7
com’a Rroma? E ppe ccristo, a li romani
tutto je se pò ddí, ffora che ggonzi.
8
Eppuro,
9
oh bbona! st’anima sconfusa
10
nun va ddiscenno
11
co li su’ ruffiani
che a vvedella cantà llei sce s’ammusa?!
12
23 gennaio 1834
1
Tufare, per «noiare, dar disgusto».
2
Questi due vocaboli indicano entrambi una donnetta piccola e difettosa.
3
Mettervi.
4
Ci scommetterei.
5
Il senso di questo vocabolo si discosta alquanto da ciò che suona nel dire illustre, nel
quale significa «castelluzzo» o simile. Nell’accezione romana, vale piuttosto «casupola».
6
Chigi, casa principesca di
Roma, nel cui palazzo vedesi un bel cortile.
7
Celebre cantante che nel carnovale 1833-34 faceva la delizia dei
Romani. Vedine il Son…
8
Zimbelli.
9
Eppure, or bene.
10
Anima stravagante.
11
Dicendo.
12
Oh io mi ci amuso (je m’y
amuse), disse in quella circostanza una signora tornata di Francia. Avvertasi qui che ammusarsi, nei linguaggio del
popolo, vale fare il muso, comporre il volto a noia e mal umore.
1068. Er 28 Settembre
1
Bbe’, mmettémo
2
che ssia; dimo,
3
Vincenza,
che li Francesi avessino
4
raggione.
Fàmo caso,
5
si vvòi, che Nnapujjone
cqua cce potessi addomminà
6
in cusscenza.
Che ccosa ne viería
7
pe cconzeguenza?
C’oggi nun ze faría
8
Papa Leone,
e a li sordati pe sparà er cannone,
nun je daría
9
ggnisuno l’indurgenza.
Poi, che disse a l’apostolo er Messia?
«Voi sete Pietro, e ssu sta pietra sola
ce vojjo dificà
10
la Cchiesa mia».
11
E nnun ce vò che ’na testa de leggno
pe nnun capí cche ssotto la parola
de quella Cchiesa s’ha da intenne
12
er Reggno.
26 gennaio 1834
1
1823.
2
Mettiamo.
3
Diciamo.
4
Avessero.
5
Facciamo caso: supponiamo.
6
Dominare.
7
Verrebbe.
8
Farebbe.
9
Darebbe.
10
Edificare.
11
Queste memorabili parole, scritte nell’interno della cupola di S. Pietro sono rivocate in dubbio da
qualche incredulo, sul nudo e solo motivo che nella lingua ebraica, o altra (fuori della latina o italiana) che avesse
parlato Gesù Cristo, manca il fondamento anfibologico della omofonia tra Petrus e petra. Ma forse Gesù Cristo parlò
a San Pietro in latino, poiché intendeva fondare una Chiesa latina. In questo caso però la Chiesa greca non fu fondata
da Cristo.
12
Intendere.
1069. La partoriente
1
Sí, ccommare: pe ggrazzia der Ziggnore
e de sant’Anna mó ttutt’è ffinito.
Si ssapessi
2
però cquanto ho ppatito!...
Vergine! e cche ssarà cquanno se more?
3
E cco ttutto sto tibbi
4
de dolore
c’è ttanta rabbia de pij mmarito?!
E ammalappena
5
avemo partorito
ce la famo arifà?!
6
Cce vò un gran core.
Ricconta la Mammana, che cc’è stata
’na Santa, che li Papi la mettérno
7
drent’ar Martirologgio pe Bbeata,
che ppe ddà a le su’ Moniche arto arto
8
un essempio der cruscio
9
de l’inferno,
l’assomijjava a li dolor der parto.
4 marzo 1834
1
La puerpera. Questi versi debbono esser detti con voce languida, affannosa e interrotta.
2
Se tu sapessi.
3
Quando si
muore.
4
Tibi: flagello, disgrazia, quantità di male. Per esempio: Gli è venuto addosso un tibi, che non so come farà.
Come salvarsi con quel tibi d’acqua?
5
Appena appena.
6
Ce la facciamo rifare? Che poi?
7
La misero.
8
Alto alto:
sommariamente.
9
Crucio, per «cruciato, tormento».
1070. La funzione der Zabbito-santo
Oh! io dico pe mmé cch’er giudïolo
che ssiconno
1
lo stile de l’antr’anni
sabbito battezzorno a Ssan Giuvanni,
2
nun abbi avuto un battesimo solo.
Saría ggiudizzio de tené un fijjolo
drent’a li Cacatummeni
3
a li danni
de tutta la caterba
4
de malanni
che vve lo ponno fà mmorí ebbreolo?
Un accidente
5
solo, Iddio ne guardi,
che ppijjassi
6
a quer povero allevímo,
7
faría pentí dde bbattezzallo tardi.
Pe cquesto io ve discevo, Sor’Antonia,
ch’er battesimo vero è cquello primo,
e in ner Zabbito-santo è ccirimonia.
4 marzo 1834
1
Secondo.
2
Il sabato-santo nella Basilica Lateranense si amministrano tutti e sette i sagramenti della Chiesa, si
consagrano l’acqua e l’olio, e si praticano molte e lunghissime altre belle cerimonie.
3
I Catecumeni: ospizio
d’istruzione de’ neofiti, in S. Maria a’ Monti.
4
Caterva.
5
Accidente, nel senso di apoplessia, vocaboletto che occupa la
quarta parte del discorso de’ popolani di Roma.
6
Pigliasse.
7
Allevìme, termine buccolico della campagna di Roma:
«allievo».
1071. La casa scummunicata
1
No, nno, cce n’ho d’avanzo de le pene
de sta bbrutta casaccia mmaledetta,
che da sí
2
cche ce sto, ccredeme,
3
Bbetta,
4
io nun ho avuto ppiú un’ora de bbene.
Cqua cciò
5
abbortito: cqua cciò perzo
6
Irene:
cqua cciò impeggnato inzino la cassetta:
7
cqua mmi’ marito pe un fraudo
8
a Rripetta
9
me l’hanno messo a spasseggià in catene.
Cqua inzomma te so ddí, ccommare mia,
credessi d’annà ssotto ar Colonnato
de San Pietro, tant’è, vvojjo annà vvia.
10
Ché ar meno llà nnun ce sarà un curato,
c’a ’ggni pelo che ffate d’alegria
ve viè a mmette
11
in ner culo ch’è ppeccato.
5 marzo 1834
1
Disgraziata.
2
Da quando.
3
Credimi.
4
Elisabetta.
5
Ci ho.
6
Perduto.
7
Il cesso, con riverenza parlando.
8
Frodo.
9
Porto
del Tevere.
10
Il genio della sintassi di questo terzetto va bene osservato.
11
Mettere.
1072. La rosa-d’oro
La rosa-d’oro che cqui er Papa oggn’anno
bbenedisce in ner giorno de dimani,
1
lui la manna
2
a li prencipi cristiani,
che ssempre quarche ccosa j’aridanno.
3
Bben inteso però cche ssi
4
nnun fanno
le cose da cattolichi romani,
la rosa nun je va: ché sti sovrani
nun z’hanno mai d’arigalà,
5
nun z’hanno.
Er portà cquella rosa è un grann’onore;
e ppe cquesto se sscejje un principino
c’ha ffinito li studi, o un Monziggnore.
E cce s’abbada
6
tanto, che pperzìno
7
nell’anno trentadua Nostro Siggnore
ce mannò er zu’ bbarbiere Ghitanino.
8
8 marzo 1834
1
La domenica quarta di Quaresima, detta Laetare.
2
Egli la manda.
3
Gli rendono.
4
Se.
5
Da regalare.
6
Ci si bada.
7
Che
per sino: sino al punto che.
8
Il cameriere di Papa Gregorio XVI, già barbiere, ed oggi cavalier Gaetano Montani. Vedi
su lui il Son…
1073. Er decane
1
der cardinale
A infirzà
2
cquattro sciarle pe ffà un laggno
contr’a cchi è ppiú de noi, nun ce vò ggnente.
Se disce presto: lui maggna, io nun maggno:
sò ccanzoncine che sse sanno a mmente.
Nun dubbità, ffarebbe un ber guadaggno
Su’ Eminenza a ssentí ttutta la ggente,
che, cchi bbatte pe ssé cchi pp’er compaggno,
tutti sciànno
3
da dí cquarc’accidente.
4
Leva l’ora der pranzo e dde la scena,
5
l’ora de la trottata e dde la messa,
la predica, l’uffizzio, la novena,
concistori, cappelle, pinitenze,
e cquarche vvisituccia a la bbadessa;
che ttempo ha da restà ppe ddà l’udienze?
8 marzo 1834
1
Il decano, de’ servitori.
2
Infilzare.
3
Ci hanno.
4
Si è detto altrove il vocabolo accidente suonare, in bocca romanesca,
sinonimo di molti e molti vocaboli, non senza compartecipazione della idea di apoplessia, che è sempre ed ovunque
ed a tutti augurata dai nostri buoni popolani con la massima cordialità.
5
Cena.
1074. Li sciarvelli
1
de li Siggnori
Disce er padrone mio che cce sò
2
ingresi
c’oggni tantino attaccheno la posta,
e a le du’ a le tré
3
vviengheno apposta
da quer cùlibbus-munni
4
de paesi,
nun antro
5
che ppe vvede
6
in certi mesi
la Cascata der Màrmoro,
7
discosta
sei mîa
8
da Terni, indove sc’è anniscosta
9
’na grotta
10
che
11
cce vò li lumi accesi.
Guarda mó ss’io volesse
12
tiené ppronte
oggnisempre le gubbie ar carrozzino
pe un po’ d’acquaccia che vviè ggiú dda un monte!
O ssai che cce voría?
13
Che l’Avellino
14
(ché cquesto è er nome che jje dà er zor Conte)
in cammio
15
d’acqua scaricassi
16
vino.
9 marzo 1834
1
I cervelli.
2
Ci sono.
3
Di tempo in tempo: ogni due o tre volte una.
4
Una persona dimorante assai lungi dicesi stare in
Culibus mundi.
5
Non per altro.
6
Per vedere.
7
Delle Marmore. Notisi qui che marmoro è detto da alcuni per «marmo».
Per esempio: Una bella statua tutta de marmoro.
8
Sei miglia.
9
Ci è nascosta.
10
Grotta di stalattite.
11
Per cui, o in cui.
12
Volessi.
13
Ci vorrebbe.
14
Il fiume Velino, che forma la cateratta sul punto di confluenza con la Nera.
15
In cambio.
16
Scaricasse.
1075. Li miracoli de li quadrini
Chi ha cquadrini è una scima de dottore,
senza manco sapé scrive né llègge:
1
pò sparà indove vò rròtti e scorregge,
e ggnisuno da lui sente er rimore.
2
Pò avé in culo li ggiudisci, la Lègge,
l’occhio der Monno, la vertú, e l’onore:
pò ffà mmagaraddio,
3
lo sgrassatore,
e ’r Governo sta zzitto e lo protegge.
Pò ingravidà oggni donna a-la-sicura,
perché er Papa a l’udienza der Giardino
4
je bbenedisce poi panza e ccratura.
Nun c’è ssoverchiaria, nun c’è rripicco,
che nun passi coll’arma der zecchino.
Viva la faccia de quann’-uno-è-rricco!
11 marzo 1834
1
Scrivere né leggere.
2
Romore.
3
Magari.
4
Il Papa riceve le donne in giardino.
1076. Una dimanna
1
lescit’e onesta
Tra la mandra de tanti alletterati
io nun ho ancora trovo
2
chi mme dichi
3
si a li tempi che cc’ereno l’antichi
l’ommini se vistiveno d’abbati.
Io so cc’Adamo, pe li su’ peccati,
se vistí cco le fronne de li fichi;
e Ccristo, Erode, e ll’antri su’ nimmichi
nun vistirno da preti né da frati.
Poi venne a Rroma Romolo e Mmaometto,
ma ggnisun de li dua cor collarino,
co la chirica e ccor farajoletto.
Dunque chi ll’ha inventato sto lumino?
4
A vvoi, sori dottori de l’ajjetto,
5
fateve avanti a stroligà
6
un tantino.
11 marzo 1834
1
Dimanda.
2
Trovato.
3
Mi dica.
4
Il cappello triangolare de’ preti, consimile a certe lucernette di terra.
5
Aglietto.
6
Speculare, almanaccare, ecc.
1077. Li guai
1
Oh cche jjoja!
2
A cquest’ora è un tre o quattr’anni
che ppe ttutte le cchiese e ll’ostarie
io nun zent’antro
3
co st’orecchie mie
che ppiaggn’er morto
4
e ppredicà
5
mmalanni.
Bbe’? cch’è ssuccesso? Indove sò sti danni,
ste ruvine, sti guai, ste caristie?
Tutte maliggnità, ttutte bbuscíe,
6
tutte invenzione, spavuracchi e inganni.
Sino ch’er Papa va in villeggiatura,
e sta (Ddio je l’accreschi) alegramente,
se pò ppuro dormí
7
ssenza pavura.
Caso contrario, lui ch’è un omo-fatto,
timorato de Ddio, dotto e pprudente,
sparaggnerebbe e nnun farebbe er matto.
12 marzo 1834
1
Guai, nel senso di «sventure».
2
Joia: petulante e noiosa cantilena.
3
Non sento altro.
4
Querelarsi.
5
Predire.
6
Bugie.
7
Si può pure dormire, ecc.
1078. Li du’quadri
Io e Mmoma,
1
in du’ artari a la Ritonna,
2
che bbelli quadri avemo visto, tata!
3
Uno era Ggesucristo a la colonna,
e ll’antro
4
la Madonna addolorata.
Tata mia, quela povera Madonna
che spada ha in de lo stommico infirzata!
E ’r Gesucristo gronna
5
sangue, gronna
che ppare propio una vasca sturata.
Ve dico, tata, ch’io nun ho mmai visto
fra cquanti Ggesucristi sce
6
a Rroma,
chi ppòzzi
7
assuperà
8
cquer Gesucristo.
Ma la Madonna poi!... È vvero, Moma?
Tiè un par de calamari
9
e un gruggno pisto,
10
che sse
11
strilla addrittura: «È un’ecce-oma».
12
13 marzo 1834
1
Girolama.
2
La Rotonda: il Pantheon.
3
Vocabolo col quale i figli chiamano il padre.
4
L’altro.
5
Gronda.
6
Ci sono.
7
Chi possa.
8
Superare.
9
Occhiaje.
10
Volto pesto.
11
Si.
12
Ecce homo significa qui «persona mal ridotta» (Egli è un ecce
homo), alcuni trasportano l’espressione anche al femminile.
1079. Li mariggnani
1
Ve lo diremo noi chi ssò
2
sti zzeri
che mmarceno
3
in strozzino
4
pavonazzo,
e in carzettacce
5
nere de
6
strapazzo
pe ffodera a cquer par de cannejjeri.
7
Quelli sò ttutti-quanti cammerieri,
cammerieri segreti de Palazzo;
8
e a Rroma, grazziaddio, sce n’è uno sguazzo
9
da ingravidà un mijjón de monisteri.
Ve lo diremo noi chi ssò ste turbe
a mmezz’abbate e mmezzo monziggnore:
sò pprelati de titolo estra-urbe.
10
C’oggni tantino, pe mmutà er colore
de le carzette, da ggentacce furbe
vanno a la viggna e llí sse fanno onore.
11
13 marzo 1834
1
Marignani: melanzane, o petronciane. Chiamansi cosí i prelati di mantellone, per distinguerli da quelli di
mantelletto, che sono di prim’ordine, e Prelati domestici del Papa. Il colore della melanzana simile a quello dell’abito
prelatizio ha dato origine al burlesco soprannome.
2
Chi sono.
3
Marciano, per semplicemente «camminano, vanno».
4
Strozzino: capestro. Qui sta per «collarino ecclesiastico».
5
Calzettacce. I Prelati domestici portano calze di color
violaceo: i Marignani le hanno nere.
6
De, per «da».
7
Candelieri: gambe sottili.
8
Comunemente i cosí detti Marignani
hanno il titolo di Camerier-segreto di Sua Santità. Sono talora Protonotarii apostolici, ecc. Ma tutto si rimane al
titolo, e non fan nulla.
9
Ce n’è un’abbondanza.
10
Son detti anche prelati extraurbem.
11
Pel privilegio extra-urbem,
usciti dalle porte di Roma possono assumere calze violacee, ciò che non mancan di fare il più spesso che sanno.
1080. L’incerti de Palazzo
Ggià cche ssete
1
ar proposito, sor Marco,
de tutte le storzione
2
e mmaggnerie
che cqui sse
3
fanno in delle sagrestie
a ttitolo de cortra e ccatafarco;
sentitene mó un’antra
4
de le mie.
Jeri un Conte, ch’è pprimo Maniscarco
5
in de la Corte d’un gran Re Mmonarco,
annò
6
ddar Papa co ddu’ bbrutte zzie.
Come v’ho ddetto, sto sor Conte aggnede,
7
e llui co le su’ zzie sazziorno l’occhi
addoss’ar Papa e jje bbasciorno er piede.
Tornato a ccasa, un scopator zegreto
8
je portò un conto de sei bbelli ggnocchi
9
a ttitolo de logro
10
de tappeto.
11
13 marzo 1834
1
Siete.
2
Estorsioni.
3
Si.
4
Altra.
5
Maniscalco, invece di «scalco».
6
Andò.
7
Andò.
8
Gli scopatori-segreti sono i servi
del papa.
9
Scudi.
10
Consumo.
11
Questa tariffa esiste realmente fra le propine delle cosí-dette Cinque famiglie.
L’attuale pontefice Gregorio XVI dicesi che ne mediti l’abolizione e cosí dar gratis il Piede SS.mo alla divozione de’
baciatori. Le cinque famiglie dianzi nominate sono distinte in: 1
a
. Anticamera e sala pontificia. 2
a
. Sala di M.r
Maggior duomo. 3
a
. Sala di M.r Uditore SS.mo. 4
a
. Sala di M.r Maestro di Camera. 5
a
. Sala del Segretario de’ Brevi.
Nell’inverno 1833-1834, le mance delle cinque famiglie superarono gli scudi 15.000. Interessante articolo di romana
statistica!
1081. L’udienze der Papa novo
1
Io sò
2
ppalaferniere,
3
e in conseguenza
credo de stà a Ppalazzo in certo sceto
4
da èsse
5
ar caso de sapé oggni peto
6
de quanto s’ha da fà ppe avé l’udienza.
Nun volenno
7
èsse arimannati arreto
8
bbisoggna abbino tutti l’avertenza
de scrive
9
a Mmonziggnore in confidenza
quello ch’er Papa ha da sentí in zegreto.
Dette c’ha oggnuno le bbudella sua,
stenne
10
er Mastro-de-Cammera un quinterno
de nomi, e ’r Papa ce ne sscejje dua.
A ttutti l’antri
11
nun je tocca un corno;
perché er Papa ggià ssa cche in un governo
nun ce ponn’èsse che ddu’ affari ar giorno.
13 marzo 1834
1
Gregorio XVI, felicemente regnante.
2
Sono.
3
Palafreniere.
4
Ceto.
5
Essere.
6
Peto, per «minuzia».
7
Volendo.
8
Addietro.
9
Scrivere.
10
Stende.
11
Altri.
1082. Er ginocchiatterra
È ggiusto, dichi tu? ggiusto la luna!
1
Ma ccome! ar Papa tre ggenufressione,
e ar Zagramento poi, ch’è er zu’ padrone,
su l’artâre sí e nno jje ne fann’una!
Sai tu er Papa qual è la su’ furtuna?
c’a sto Monno io sò un povero cojjone;
ché stassi
2
a mmé a ddà er zanto
3
a le perzone,
lui de le tre nnun n’avería ggnisuna.
Disce: «Nun è ppe mmé, mma pp’er carattere».
Ah, ll’antr’ommini dunque e ll’antre donne
sò ttutti appett’a llui sguatteri e sguattere?
Quanno porta sta scusa bbuggiarossa,
4
forzi nun za cche jje se pò arisponne
5
che un Papa è ccom’e nnoi de carn’e dd’ossa.
14 marzo 1834
1
Giusto niente affatto.
2
Stasse.
3
Dare il santo: le mot d’ordre.
4
Buggerona (con perdono): ridicola.
5
Forse non sa che
gli si può rispondere.
1083. Er Papa Micchelaccio
1
Sai che ddisce
2
sta perzica-durasce?
3
«Ho fatto tanto pe arrivà ar Papato,
che mmó a la fine che cce sò arrivato
io me lo vojjo gode
4
in zanta pasce.
Vojjo bbeve
5
e mmaggnà ssino c’ho ffato:
vojjo dormí cquanto me pare e ppiasce;
e ar Governo sce penzi chi è ccapasce,
perch’io nun ce n’ho spicci
6
e ssò Ppilato».
7
Lui nun l’ha un cazzo
8
er maledetto vizzio
de crede
9
che cquer bon Spiritossanto
j’abbi dato le chiave pe un zupprizzio.
E le cose accusí vvanno d’incanto.
10
Mó la pacchia
11
è la sua: poi chi ha ggiudizzio
quanno ch’è ppapa lui facci antrettanto.
12
14 marzo 1834
1
Maggnà, bbeve e annà a spasso: Ecco l’arte der Micchelaccio. Questi sono due versi rimati che rinchiudono una
sentenza romanesca.
2
Dice.
3
Pèsca-duràcina: dicesi di coloro che hanno robusta complessione. Tale è infatti quella
del nostro sommo Pontefice Gregorio XVI, che Iddio guardi nella sua santa custodia.
4
Voglio godere.
5
Bere.
6
Non
averne spicci (spicciolati) è metafora presa dalla moneta, quasi volesse dirsi: «io non ne ho per questo mercato».
7
Sono Pilato, cioè: «me ne lavo le mani».
8
Non l’ha affatto.
9
Di credere.
10
Vanno a maraviglia bene.
11
Pacchia è «tutto
ciò che di comodo ed utile ci derivi dalla fortuna». Potrebbe servir di sinonimo a cuccagna.
12
Faccia altrettanto.
1084. Le miffe
1
de li Ggiacubbini
Perzuasi oramai che ar Papa novo
2
nun je ponno dí bbirbo e nné ssomaro,
sai c’antra iniquità jj’hanno aritrovo?
3
Che, essenno stato frate, è un Papa avaro.
A sta ggente che ccerca er pel nell’ovo
io je vojjo vvéde
4
chiaro chiaro
com’un quattr’e cquattr’otto, e jje l’approvo,
5
che ssò ttutte carote da notaro.
E cqueste che ddich’io sò storie vere,
perché abbasta a gguardà, tteste de cazzo,
come paga le bbarbe ar Cammeriere.
6
Je le paga accusí, cche cquer regazzo
da quarche mmese in qua cch’era un barbiere,
ggià ha ccrompato
7
tre vviggne e un ber palazzo.
14 marzo 1834
1
Menzogne.
2
La Santità di Gregorio XVI.
3
Ritrovato, per «ritrovata».
4
Vedere.
5
Glielo provo.
6
Il cavaliere Gaetano
Montani.
7
Comperato.
1085. Er Padre Suprïore
Tre nnotte fa, un Patrasso francescano
ariccontava a una su’ grann’amica
ch’è ppiú mmejjo avé er culo in zu l’ortica
che de stà in un Convento a ffà er guardiano.
Questi dicheno pragras
1
der Zovrano:
quelli sò ddisperati pe la fica:...
inzomma disce lui ch’è una fatica
d’arinegacce
2
er nome de cristiano.
Disce che ppe sti frati farabbutti
3
lo stà
4
bboni la notte in dormitorio,
er zilenzio, er cantà, ssò affari bbrutti.
La ppiú ppena perantro, er piú mmartorio,
er piú ssudore, è aridunalli
5
tutti
la matina e la sera ar rifettorio.
14 marzo 1834
1
Plagas.
2
Rinegarci.
3
Farabutti, per «ribaldi».
4
Stare.
5
Radunarli.
1086. Li Vescovi viaggiatori
Avete visto mai ne la staggione
tra er fin d’aprile e ’r principià dde maggio
come le rondinelle faccennone
ricominceno a nnuvoli er passaggio?
Ccusí appena ch’er Papa ha er ber coraggio
de fà a Rroma quarc’antra
1
promozzione,
se vedeno
2
cqua e llà mmettese
3
in viaggio
li Vescovi scordati in d’un cantone.
E ttutti co la faccia piaggnolosa
vanno a Ppalazzo pe ttentà la sorte
de ruspà
4
lloro puro
5
quarche ccosa.
Presto però ss’accòrgeno a la Corte
che la Cchiesa che ppreseno
6
pe sposa
7
li vò a lletto co llei sino a la morte.
14 marzo 1834
1
Qualche altra.
2
Si vedono.
3
Mettersi.
4
Ruspare, per «buscare». È
un traslato del raspare che fanno i polli la terra per
trovarvi qualche alimento, ciò che a Roma dicesi ruspare (razzolare).
5
Eglino pure.
6
Presero.
7
Questo vocabolo si
pronunzia colla o chiusa.
1087. L’età dell’omo
Sarà ppoi tutto vero, eh sor Giuvanni
quello che cciaricconteno
1
li preti
c’un giorno li padriarchi e li profeti
sapeveno campà nnovescent’anni?
Dunque, o allora nun c’ereno malanni,
o cqueli vecchi aveveno segreti
pe rrestà ssempre ggioveni. Ma cquieti,
2
perc’oggi st’arte faría
3
troppi danni.
Dàmme
4
de fatti un fijjo a la ssediola
5
de scinquant’anni, e ppe ddí un tempo corto,
mànnelo
6
de scent’anni ancora a scòla;
va’ a sperà, cco st’esempi, in ner conforto
che ccrepi un papa che tte pijja in gola,
va’ a ffà ddebbiti allora a-ttata-morto!
7
14 marzo 1834
1
Ci raccontano.
2
Ma silenzio.
3
Farebbe.
4
Dammi.
5
Il comodo de’ fanciulli.
6
Mandalo.
7
Si costuma da figli viziosi di
contrarre dei debiti da soddisfarsi alla morte de’ padri: ciò dicesi «far debiti a-tata-morto».
1088. Le variazzion de tempi
Ohé, Ggiachimantonio! oh scicoriaro!
come te tratta Marzo? Nu lo senti
si cche rrazza de buggera de venti?
Semo tornati ar mese de ggennaro.
Come potemo
1
poi èsse
2
contenti?
Stam’
3
alegri, ch’è ppropio un gusto raro!
Un giorno bbulli
4
che ppari un callaro,
5
l’antro
6
ggiorno che vviè sbatti li denti.
Ha rraggione er Ziggnore ch’è ppeccato
de dí a llui, ch’è er padrone, bbuggiarallo;
ché ssi nnò
7
ggià cce l’avería
8
mannato.
9
Quanno er Monno voleva frabbicallo,
10
nun era mejjo avello
11
frabbricato
da fàcce
12
o ssempre freddo o ssempre callo?
13
14 marzo 1834
1
Possiamo.
2
Essere.
3
Stiamo.
4
Bolli.
5
Caldaio.
6
Altro.
7
Ché altrimenti.
8
Avrei.
9
Mandato.
10
Fabbricarlo.
11
Averlo.
12
Farci.
13
Caldo.
1089. Er Monno sottosopra
Dunque, quer che ffascéveno una vorta
pe ffiume un venti e ppiú bbufole in fila,
adesso lo fa er fume d’una pila,
e ll’arte mó dder bufolaro è mmorta.
Disce anzi che la ggente oggi s’è accorta
che cquer fume, un mill’ommini e un du’ mila,
co un par de rôte a uso de trafila,
pe cche
1
mmare se sia, lui li straporta.
Pegg’è cche mmó ppe le carrozze vonno
nun ce sii ppiú bbisoggno de cavalli,
e ’r fume le strascini in cap’ar monno.
Eppuro un tempo aveveno er custume
li nostri bboni vecchi, bbuggiaralli,
de dí cch’er ggnente s’assomijja ar fume.
14 marzo 1834
1
Per quale.
1090. Un ber
1
ritratto
Chi è cquer brutto llà cco un zazzerino
lisscio, per dio, che ffa vvergoggna a un cardo
che cciabbino
2
impiccato pe ccudino
un filetto de codica
3
de lardo?
Vergine Santa mia! ppiú mme lo guardo
e ppiú lo pijjo p’er Mago Sabbino,
o er Burfecane, o er gran Pietro Bbailardo
4
che vvienghi
5
a ffà l’incanti a Ccassandrino.
6
Guarda che ssorbettiere
7
in quelle scianche!
8
guarda che ssottocoppa
9
de cappello!
guarda che inchiostri de camísce bbianche!
Currete, ggente, currete a vvedello:
po’ attaccatelo a un fico pe le bbranche,
e nnun ce vierà ppiú mmanco un uscello.
10
14 marzo 1834
1
Bel.
2
Che ci abbiano: su cui abbiano.
3
Cótica: cotenna.
4
Sabino, Bulfecàn, e il teologo Pietro Abailardo (o
Abelardo) sono tre portentosi maghi da marionette. Il secondo è derivato forse dal Dulfecàr, nome della famosa spada
bilingue di Maometto. Chi avesse gola di etimologie, ne cerchi una origine più soddisfaciente.
5
Venga.
6
Attuale
maschera del teatro di Marionette, la quale perirà coll’uomo che l’anima. Consiste in un vecchietto vestito alla moda
de’ nostri avi, alquanto ignorante, ma arguto molto e fecondo di popolari facezie, che esprime con una sua voce
veramente atta a mover le risa.
7
Cosí diconsi per celia gli stivali assai larghi in gamba.
8
Gambe.
9
Cappello di larga
falda, in forma di sottocoppa rovesciata.
10
Allorché una veste è molto invecchiata e indecente, si dice: «Attaccatela a
un albero di fichi, per ispauracchio agli uccelli».
1091. Le còllere
Nò... Tte dico de nò... Ggnente... Sò
1
ssorda...
Nun te credo... Cuccú
2
... Ssò ttutt’inganni...
Oh sfiatete
3
... E cche sserve che tt’affanni?...
Me fai ride
4
... De che?!
5
... Scusa bbalorda...
Ve l’ho ppromessa? E cchi sse n’aricorda?
Passò cquer temp’Enea,
6
siggnor Giuvanni.
Me sce sò sbattezzata
7
pe ttant’anni...
Ma cche tte credi? de damme la corda?
8
...
Bbravo! propio accusí: mme fa la luna...
Vadi:
9
e cchi lo trattiè?
10
La porta è uperta.
Vadi puro a ttrovà
11
st’antra
12
furtuna.
Anzi, sa cc’ha da fà?
13
Nne li carzoni,
pe ppassà ppresto una furtuna
14
scerta,
sce se metti
15
una nosce-a-ttre-ccantoni.
16
14 marzo 1834
1
Sono.
2
Nel pronunziare questa parola, si deve imitare il suono che manda il cuculo; e vale negativa.
3
Oh! sfiatati.
4
Mi fai ridere.
5
Come sarebbe a dire?!
6
Questo emistichio di un verso di Metastasio è passato in proverbio per indicare
non essere più tempo da tale o tal cosa.
7
Sbattezzarsi appresso ad una cosa significa: «perdervi attorno invano il
tempo e la pazienza».
8
Dar la corda: frase regalataci dal bell’uso dei tormenti nei giudizi criminali. L’uso è caduto,
ma il vestigio della frase rimarrà chi sa quanto nella bocca del popolo, e sopravvive forse ancora alla più tarda
memoria di quelle barbarie. Qui vale: «dar tormento, tenere in orgasmo, in sospensione».
9
Vada.
10
E chi lo trattiene?
11
Vada pure a cercare.
12
Quest’altra.
13
Sa che deve fare? cioè: «faccia così».
14
Passar fortuna: farla.
15
Ci si metta.
16
La noce col guscio trivalve è riputata prodigioso amuleto per incontrar buona sorte.
1092. Compatìmose
1
È mmatta? E ttu cche jje faressi?
2
Ar Monno
tante
3
teste sce sò ttanti scervelli.
E gguai si, bella mia, tutti l’uscelli
conosscessino er grano,
4
io t’arisponno.
5
Er bell’e ’r brutto sai qual’è? ssiconno
6
che vvedémo li gruggni
7
o bbrutti o bbelli.
Pe sta raggione, quer che vonno quelli
tu pportelo a cquell’antri, e nnu lo vonno.
Mettemose
8
una mano sopr’ar petto
9
e vvederemo poi che de quell’arbero
chi ppiú cchi mmeno oggnuno ha er zu’ rametto.
10
E nun ze danno
11
mojje accusí storte,
12
c’hanno, in zeggno d’amore, er gusto bbarbero
d’èsse
13
accoppate e bbastonate a mmorte?!
14 marzo 1834
1
Compatiamoci.
2
Che le faresti?
3
Tante in luogo di quante.
4
«Guai se tutti gli uccelli conoscessero il grano!»:
proverbio.
5
Ti rispondo.
6
Secondo.
7
L’uomo non ha mai volto: raramente viso: sempre faccia, grugno e muso.
8
Mettiamoci.
9
Cioè «esaminiamo noi stessi».
10
Intendi della pazzia.
11
E non si dànno? ecc.
12
Stravaganti, originali.
13
Di essere.
1093. La mojje fedele
E aricacchia!
1
Dall’antra
2
sittimana
ch’è rriannato
3
in campaggna mi’ marito,
viè
4
cquer brutto pivetto
5
intirrizzito
tutte le notte a bbatteme
6
la diana.
Oh ccazzo! e cche ssarò? cquarche pputtana
che ttira er zalissceggne
7
per invito?
Nò, cojjone, sta’ llí, mmore
8
ingriggnito,
9
sin c’aritorni a scòla a la campana.
10
Ôh, sserra la finestra, Ggiuvacchino,
ch’io mommó
11
ddo de piccio
12
ar pitaletto
e l’ammollo per dio come un purcino.
Che sse vadi a ffà fotte sto pivetto;
e nnoi, tratanto che llui fa er zordino,
13
spojjamosce de presscia
14
e annàmo
15
a lletto.
14 marzo 1834
1
Ricacchiare: «rigermogliare»; qui per «ritornare».
2
Dall’altra.
3
Riandato.
4
Viene.
5
Pivetto, nome di scherno che si dà
ai garzoni, specialmente a quelli che affettano modi virili.
6
Battermi.
7
Il saliscendo.
8
Muori.
9
Ingrignito esprime
quella certa contrazione di muscoli e tendini, che si osserva negli assiderati.
10
Cioè: «al suono della campana».
11
Or
ora.
12
Do di mano.
13
Fare il sordino: chiamare con un sottilissimo sibilo, siccome usano fra loro gli amanti.
14
Spogliamoci di fretta.
15
Andiamo.
1094. La priscission der Corpus-Dommine
Perché ll’antr’anno in certa priscissione
1
sce successe un tantin d’ammazzamento,
2
mo ar tronco
3
e a lo stennardo
4
sto scontento
de Papa j’ha da dà l’inibbizzione!
5
Leva tronco e stennardo, e in un momento
nun ce resta ppiú un cazzo divozzione.
Sarebbe meno male in cuncrusione
de levà dda la coda
6
er Zagramento.
Ner portà bbene lo stennardo e ’r tronco
llì sse vedeva l’omo, eh sor Diopisto?
7
e ssi uno era svertro
8
oppuro scionco.
9
Ma mmó cche nnun c’è ppiú ttronco e stennardo
e nun ce resta che cquer po’ de Cristo,
10
le priscissione io?! manco le guardo.
15 marzo 1834
1
Della Confraternita di...
2
La destinazione dello stendardo e del tronco, ambita ardentemente da tutti i confratelli,
specialmente dai più giovani che amano far pompa di destrezza innanzi alle case delle loro belle, è stata sempre un
soggetto d’impegni, alterchi, e non di rado, accoltellamenti.
3
Enorme croce di carta-pesta, foggiata in due grossi
tronchi d’albero nella loro rozzezza naturale.
4
Gran gonfalone della Compagnia, portato a due aste.
5
Corse voce che
per causa della rissa accaduta fra i confratelli nominati alla nota 2, il Papa avesse abolito l’uso di dette due insegne.
6
Dal fine.
7
Teopisto.
8
Svelto.
9
Cionco.
10
Gran crocifisso, addobbato, per solito da monache, di bende e di frangie.
1095. San Giuvan-de-ggiuggno
Domani è Ssan Giuvanni? Ebbè ffío
1
mio,
cqua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e ffattucchiere
pe la quale
2
er demonio è er loro ddio,
3
se straformeno
4
in bestie; e tte dich’io
c’a la finosomia
5
de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi riffigurà
6
ppiú dd’un giudio.
7
E accusì vvanno tutti a Ssan Giuvanni,
che llui è er loro Santo protettore,
pe la meno che ssia, da un zeimilanni.
8
Ma a mmé, cco ’no scopijjo
9
ar giustacore
e un capo-d’ajjo
10
o ddua sott’a li panni,
m’hanno da rispettà ccome un Ziggnore.
15 marzo 1834
1
Figlio.
2
Di questo pronome relativo il romanesco non usa che il femminino singolare, e di questo i soli casi la quale e
per la quale.
3
I due versi antecedenti sono tratti quasi letteralmente dalla Dottrina del Cardinal Bellarmino.
4
Si
trasformano.
5
Fisonomia.
6
Ci puoi raffigurare.
7
I giudei passano per abilissimi maliardi.
8
Da un seimil’anni.
9-10
Scopiglio: aglio. Alla scopa e all’aglio è attribuito l’onore di predominare le streghe e renderne innocue le malie.
1096. Li Carnacciari
1
Nun ciannassi
2
a cquest’ora ar Monistero,
ché cquesta è ppe le Madre ora canonica
de curre
3
a ddà l’assarto
4
a la bbucconica
5
con una lanca
6
da lupo-scerviero.
Figúrete che jjeri quela Monica
che jje premeva tanto un gatto nero,
7
ar zentí
8
la campana, è ppropio vero,
se sgarrò
9
ppe scappà ttutta la tonica.
Si
10
ttu jje porti adesso la carnaccia,
nun ze’ arrivato e ggià la portinara
pijja la porta e tte la sbatte in faccia.
Piú ppresto,
11
quanno mai,
12
vacce magara
13
a or
14
de Coro, e ggnisuno te caccia.
Impara, fijjo, a stà in ner Monno, impara.
16 marzo 1834
1
Girovaghi mercatanti di carne di carogna, per cibo di gatti.
2
Non ci andassi: non ci andare.
3
Di correre.
4
A dar
l’assalto.
5
Al cibo. Questa voce burlesca usata anche dalle classi superiori, vanta derivazione nientemeno che classica:
viene cioè dal vocabolo Buccolica di Virgilio Marone, per la affinità del suono con quello di bucca, bocca.
6
Bramosia.
7
I carnacciai rubano e vendono gatti: e le monache hanno anch’esse le loro innocenti predilezioni pe’ vari
pelami di quelle bestiuole.
8
Sentire per «udire».
9
Si lacerò.
10
Se.
11
Più presto, per «piuttosto».
12
Quando mai: al
piuppiù.
13
Vacci magari.
14
Ad ora, ecc.
1097. La chiacchierona
Ma io voría
1
sapé sta sciarlatana
che
2
ppormoni se tiè ddrent’ar budello,
e cchi è stata la porca de mammana
che cquanno nacque je tajjò er filello.
3
Nun è ita a ddí in pubbrica funtana
c’a mmé nnun me s’addrizza ppiú l’uscello?!
che mm’imbrïaca una fujjetta sana?!
ch’io nun zò bbono a mmaneggià er cortello?!
Lassela capità sott’a cquest’uggne,
4
e lo sentirà llei, per dio sagrato,
che cce s’abbusca
5
a ffrabbicà
6
ccaluggne.
No,
7
la rabbiaccia che mme passa er core
ecco qual è: cche llei m’abbi toccato
in ner debbole mio ch’è ssu l’onore.
16 marzo 1834
1
Vorrei.
2
Che razza di, ecc.
3
Il «filetto» o «Scilinguagnolo».
4
Ugne ed ogne, per «unghie».
5
Cosa ci si busca.
6
Fabbricare.
7
No, cioè «null’altro».
1098. La scuperta
1
Quant’ecchete
2
a l’usscí,
3
mme fa
4
Nnicola:
«Peppe», disce «e ttu vvienghi?». Io j’arisponno:
5
«No», ddico, «nun ce viengo, perc’ho ssonno».
E llui: «Oh vvia, pe mmezz’oretta sola».
Bbasta, accusí da parola in parola
un po’ uno e un po’ ll’antro m’imbrojjonno.
6
Entramo er Colonnato,
7
e in fonn’in fonno
8
travedémo
9
er Picchietto e Cchicchiggnola.
Eppoi dereto
10
a lloro a la lontana
er fratello de lei, che jje se maggna
la mità
11
dder negozzio de puttana.
Come je sem’addosso,
12
lui se svortica.
13
Io allora je faccio:
14
«Eh? cche ccuccagna!
Tanto pela chi ttiè cquanto chi scortica».
15
16 marzo 1834
1
La scoperta.
2
Eccoti.
3
In sull’uscire.
4
Mi dice.
5
Gli rispondo.
6
M’imbrogliarono su.
7
S’intende il colonnato di S.
Pietro.
8
In fondo in fondo.
9
Travediamo.
10
Di dietro.
11
Metà.
12
Appena gli siam presso.
13
Si rivolge.
14
Gli dico.
15
Proverbio.
1099. La regazza schizziggnosa
1
Adàscio:
2
adàscio!: ehéi, nun v’inquietate:
via, nu lo farò ppiú, bbona zitella.
Che sso!
3
Ffussivo
4
mai la tarantella,
5
che ssartate
6
sull’occhi e ppuncicate!
7
Nun ve vienivo a ddà
8
mmica sassate:
ve volevo appoggià
9
una smicciatella,
10
e ppoi, si ccaso
11
ve trovavo bbella,
le cose ereno mezz’e accommidate.
12
E vv’annate a pij ttutta sta furia?!
Ggèssummaria! nun me credevo mai
che mmó a Rroma er guardà ffussi un’ingiuria.
Ôh, ffinímolo
13
un po’ sto tatanai.
14
Cqua dde regazze nun ce n’è ppenuria.
La puzzolana
15
è a bbommercato assai.
16 marzo 1834
1
Schizzinosa. Questi versi vanno pronunziati lentamente, appoggiando assai sulle vocali, e con accento sardonico.
2
Adagio.
3
Che so io mai!
4
Foste.
5
Famosa è l’opinione che il morso della tarantola (pugliese specialmente) fosse nei
secoli XV e XVI cagione di uno strano malore che guarivasi con la musica, ai suoni della quale l’infermo era da
involontario moto costretto a ballare, e cadeva quindi spossato e guarito.
6
Saltate.
7
Pungete.
8
Non vi venivo a dare.
9
Appoggiare, per «dare».
10
Smicciare: guardare con curiosità e ad occhi socchiusi.
11
Se caso mai: se mai.
12
Accomodate.
13
Finiamola.
14
Questa tiritera, questo chiasso.
15
Pozzolana, terra vulcanica da murare. Chiamata a Roma
volgarmente puzzolana, si torce spesso a senso d’ingiuria verso donne di malodore.
1100. La mojje disperata
1
Di’, animaccia de turco: di’, vvassallo:
di’, ccoraccio d’arpía, testa de matto:
nun t’abbasta no er male che mm’hai fatto,
che mme vòi strascinà ppropio a lo spallo?!
2
Arzà le mano a mmé!?
3
ddiavolo fàllo!
4
pròvesce un po’, cche ddo de mano a un piatto
e ccom’è vvero Cristo te lo sbatto
su cquela fronte che cciài fatto er callo.
5
Nun vòi dà ppane a mmé, bbrutto caroggno?
Portelo ar meno a st’anime innoscente
che spireno de freddo e dde bbisoggno.
Tira avanti accusí: ffalle ppiú bbrutte.
Dio nun paga oggni sabbito,
6
Cremente;
ma ppoi viè cquella che le sconta tutte.
16 marzo 1834
1
I seguenti versi debbono declamarsi con veemenza d’ira e di pianto.
2
Metafora presa dal giuoco delle carte, e vale:
trapassare il giusto segno.
3
Alzare le mani su me!
4
Diavol che tu il faccia!
5
Che ci hai fatto il callo: che hai incallita
nella impudenza.
6
Dio non paga ogni sabato. Proverbio.
1101. Er negozziante fallito
Scusi, siggnore: lei ch’è ttanto ricco,
sappi
1
ch’io
2
un mercante de salume,
che ttutto er mio se n’è sparito in fume
pe un naviscello che mm’è annato a ppicco.
Ho una fame, ho, cche nun ce vedo lume;
e ttanto ha da finí ggià cche mme ficco
quarc’arma in gola, e, bbugiarà,
3
mm’impicco,
ch’io sò in proscinto de bbuttamme
4
a ffiume.
Speravo in Dio che cquarche ccreditore
ar meno me mettessi
5
carcerato:
ggnente: nun c’è ppiú ccarità, ssiggnore.
Ma ddunque un omo ha da morí affamato
a ’ggni modo, o ppe fforza o pper amore,
senz’avecce
6
né ccorpa
7
né ppeccato?
16 marzo 1834
1
Sappia.
2
Sono.
3
Alla malora.
4
Buttarmi.
5
Mi mettesse.
6
Averci.
7
Colpa.
1102. Er parlà cchiaro
Ôh, vvolete sentilla
1
a la bbadiale,
2
e cche vv’uprimo
3
er core schietto schietto?
Che vvoi fussivo un brutto capitale
4
ggià l’avémio maggnato
5
da un pezzetto.
Quer che ppo’ adesso masticamo male
6
è cc’una scerta mmaschera
7
scià
8
ddetto
che vv’ingeggnate puro cor zoffietto
9
pe ffà un giorno la fin de le scecale.
10
O ssii caluggna o nnò, cquesto
11
io nun c’entro.
Er cert’è cc’un brigante
12
com’e vvoi
quanno che vva a ssoffià
13
sta in ner zu’ scentro.
14
O ssii caluggna o nnò, vvisscere mie,
questo ve pòzzo
15
assicurà, cche a nnoi
nun ce va a ssangue er zangue de le spie.
16 marzo 1834
1
Sentirla.
2
Alla badiale: qui, per «chiara».
3
Apriamo.
4
Brutto capitale: cattivo suggetto.
5
L’avevamo mangiato:
l’avevamo compreso.
6
Masticar male: patire a mal-in-cuore.
7
Maschera, per «persona occulta».
8
Ci ha.
9
Ingegnarsi
col soffietto: fare la spia.
10
La fin delle cicale, che cantano cantano e poi crepano. Proverbio.
11
Intendi: in questo.
12
I
nomi di liberale e di brigante equivalgono oggi presso a poco alle distinzioni de’ Guelfi e Ghibellini de’ nostri atavi.
13
Soffiare: vedi la nota 9.
14
Nel suo centro.
15
Vi posso.
1103. Er Rugantino
1
Ecco llí er fumantino
2
ammazzasette:
lui sce faría scappà
3
ssubbito er morto.
A oggn’ette,
4
eccolo llí, llui tajja corto,
5
e aló,
6
mmano a li tòni e a le saette!
E pperc’hai la raggione te vòi mette
7
da la parte der torto?! ggià,
8
dder torto,
der torto, sissiggnora.
9
E cche cconforto
sce trovi a rruminà ttante vvennette?
10
Queste sò mmattità
11
dda regazzoni.
Via, bbutta ggiú cquer zercio:
12
animo, dico,
o tt’appoggio du’ carci
13
a li cojjoni.
Eh, cqua nun ze fa ll’omo.
14
Co mmé, amico,
sc’è ppoco da rugà.
15
Dde li bbruttoni
16
sai che cconto ne fo? Mmeno d’un fico.
17 marzo 1834
1
Maschera del teatro di fantoccini, la quale presenta un linguacciuto attaccabrighe che finisce poi sempre per toccarne
da tutti, e di numerare a debito altrui le busse del proprio conto: carattere non reperibile fra i soli uomini di legno.
2
Fummantino: permaloso orgogliosetto.
3
Egli ci farebbe uscire.
4
A ogni et, ad ogni nonnulla.
5
Taglia corto, va per le
brevi.
6
Alò, per allons. Vedi nota al Son
7
Ti vuoi mettere.
8
Si certamente.
9
Ad ogni uomo o donna si del
sissignora.
10
Vendette.
11
Mattità: mattezze.
12
Quel selcio, cioè: quella selce.
13
O ti applico due calci.
14
Non si fa
l’uomo, non ci si danno arie da uomo fatto.
15
Rugare. Il verbo da cui nasce il nome di Rugantino.
16
Delli bravacci.
1104. Er torto e la raggione
Aibbò,
1
nun zò
2
le ssciabbole e le spade
che ddistingueno er torto e la raggione.
Te l’inzeggnerò io quello c’accade,
fijjo, in ner liticà ttra ddu’ perzone.
Chi nun ha ttorto, pò pparé un leone,
ma ppuro in de l’urlà ccerca le strade
de viení ar dunque, e, mmó cco un paragone
mó cco un antro,
3
de fàtte perzuade.
4
Quer c’ha ttorto però strilla ppiú fforte:
tajja a mmità
5
er discorzo e scappa via,
e in de lo scappà vvia sbatte le porte.
In quanto all’arme poi, sò una pazzia
per rrimette
6
ar crapiccio
7
de la sorte
tanto la verità cche la bbuscía.
8
17 marzo 1834
1
Oibò.
2
Sono.
3
Altro.
4
Di farti persuadere: di persuaderti.
5
Taglia a metà.
6
Per rimettere.
7
Al capriccio.
8
Bugia.
1105. Er portoncino
Caso
1
volessi uprí cquarc’ostaria
bbisoggna sempre procurà, Ffichella,
che llí accosto ce sii ’na portiscella,
pe n’essempio, ecco llà, ccome la mia.
Questa te serve ggià per annà via:
però la ppiú
2
rraggione de tienella
3
è ppe ffà entrà la ggente in ciampanella
4
la festa, e ccojjonà la Pulizzia.
Chi ccià
5
sta porta, se po’ ddí a ccavallo.
6
Si ppo’
7
er fruss’e rrifrusso de la ggente
dàssi
8
a sull’occhi e tte cojjessi
9
in fallo,
tu nun te stà
10
a smarrí: nun ce vò ggnente.
Bbast’a ttoccà la mano
11
ar maresciallo
12
e mmannà
13
un bariletto ar Presidente.
14
17 marzo 1834
1
Caso-mai: se mai.
2
La maggior.
3
Tenerla.
4
In fraude. Imperocché è legge che alla mattina de’ giorni festivi, niuna
bottega (e Dio guardi le osterie ed i caffe!) possa tenersi aperta durante le ore degli uffici divini. Multe, carcerazioni
ed altre pene ad arbitrio, seguono subito il fallo, sin minus, ecc.
5
Ci ha.
6
Essere a cavallo, vale: «aver conseguito
l’intento».
7
Se poi.
8
Dasse.
9
Cogliesse.
10
Non ti stare.
11
Toccar la mano, cioè: «fargli sdrucciolare una moneta».
12
Al
maresciallo de’ carabinieri, succeduti, mutato nomine, agli antichi gendarmi.
13
Mandare.
14
Al Presidente regionano di
polizia. Anche questi quattordici magistrati sono gli eredi, mutato nomine, delle attribuzioni dei già Commissarii.
Vedi il Sonetto... Così i Ricevitori son divenuti Preposti, ecc., e l’odio della cosa si è estinto sotto la mutazione del
nome.
1106. Trist’a cchì ccasca
1
Specchiamose
2
in ner povero Marchese,
e imparamo
3
chi ssei, monno mazzato.
4
Ddà ddà, nnun ce n’ha ppiú. Bbe’, cchi ha sscialato
j’arimprovera mó lle troppe spese.
E allora avess’inteso
5
p’er paese...
Chi, er rifresco era scarzo e sscellerato:
chi, er palazzo era male ammobbijjato:
chi, cce voleva ppiú ccannele accese!...
Quanno dài da maggnà, ddài sempre poco.
Casca in miseria, e ttutti: «Eh nnaturale:
accusí aveva da finì er ber gioco».
Sí, ppovero padrone, hai fatto male
a mmannà
6
la tu’ robba a ffiamm’e ffoco
per chi inzino
7
t’inzurta
8
a lo spedale.
17 marzo 1834
1
Tristo chi casca.
2
Specchiamoci.
3
Impariamo.
4
Mondo iniquo.
5
Avessi tu udito. Il verbo udire è a’ Romaneschi
affatto ignoto, e cosí l’ascoltare. Senti (sentire) esprime sempre la sensazione venuta per gli orecchi. Del verbo
intendere poi, servonsi in tutti i tempi e i modi nel suo vero senso; al participio però, inteso, cambia subito
significazione, non esprimendo mai che una sinonimia perfetta di sentito per udito.
6
Mandare.
7
Sino.
8
T’insulta.
1107. La bbona mojje
Bbe’, ssò
1
ccontenta, sí: vva’, Ssarvatore:
fa’ ccome vòi e cquer ch’Iddio t’ispira.
Anzi, io direbbe de portà Ddiomira,
ch’è in d’un’età da intenerijje
2
er core.
Bútteteje
3
a li piedi a l’esattore:
prega, marito mio, piaggne,
4
sospira:
bbada però cche nun te vinchi l’ira...
Lassamo fà: cce penzerà er Ziggnore.
Si tte
5
caccia, nun famme la siconna.
6
Ricordete
7
in quer caso c’hai famijja:
soffrilo pe l’amor de la Madonna.
Ce semo intesi eh Sarvatore mio?
Va’, cch’Iddio t’accompagni. Un bascio, fijja.
Addio: fa’ ppiano pe le scale: addio.
17 marzo 1834
1
Sono.
2
Intenerirgli.
3
Buttatigli. Il verbo gettare è a questa plebe affatto sconosciuto.
4
Piangi.
5
Se ti.
6
Non farmi la
seconda di quella che già. ecc.
7
Ricordati.
1108. L’ajjuto-de-costa
1
Uhm, de llà ha da viení!
2
Cco cquer cornuto
3
de mi’ marito, ch’è da San Martino
4
che nun m’ha ddato ppiú mmezzo quadrino,
5
starebbe grassa io
6
senza un ajjuto!
E cciaringrazzio
7
Iddio cor capo-chino,
e cce faccio le crosce co lo sputo,
8
c’a ppasqua-bbefanía
9
me sii vienuto
sto po’ de stacco
10
d’abbituccio fino.
Nun credessi
11
però, ccommare mia,
che... mme spiego? che sso!... Ddio me ne guardi
e la bbeata Vergine Mmaria!
È vvero che llui viè
12
cquanno sò
13
ssola,
ma cce viè cco li debbiti ariguardi,
14
e nnun c’è mmai da dí mmezza parola.
15
17 marzo 1834
1
L’aiuto di costa: soccorso indiretto.
2
Di ha da venire: simbolo degli Apostoli volgarizzato, per indicare
ironicamente tardità e dubbio di un avvenimento.
3
Con quel cornuto.
4
Il San Martino è in Roma riguardato per la festa
di coloro de’ quali qui parlasi alla nota 3.
5
Quattrino: centesimo romano.
6
Starei grassa io! Sarei a mal partito.
7
E ci
ringrazio.
8
Molti divoti inginocchiati e colla bocca in terra segnano con la lingua larghe e lunghe croci.
9
Pasqua
Epifania. La corruzione del nome ha creata la Befana, larva con la quale si spaventano o si premiano i fanciulli.
10
Stacco, per «taglio»: misura di roba necessaria a un vestito.
11
Non credessi, per «non creder mai».
12
Viene.
13
Sono.
14
Co’ dovuti riguardi.
15
Non insorge mai la più piccola differenza.
1109. Er marito assoverchiato
Gode, gode,
1
caroggna bbuggiarona.
Bbrava! strilla un po’ ppiú, strilla ppiú fforte.
Troja, fàtte
2
sentí: vva’, pputtanona,
spalanca le finestre, opre
3
le porte.
Mó è ttempo tuo: oggi vò a tté
4
la sorte.
Scrofa, lassela fà
5
ssin che tte sona.
’Na vorta ride er ladro, una la corte;
e la cattiva poi sconta la bbona.
Te n’ho ppassate troppe, foconaccia:
6
ecco perché mm’hai rotta la capezza,
vacca miggnotta, e mme le metti in faccia.
Ma schiatterà er tu’ porco de prelato,
e allora imparerai, bbrutta monnezza
7
cosa vò ddí un marito assoverchiato.
18 marzo 1834
1
Godi, godi.
2
Fàtti.
3
Apri.
4
Vuol te.
5
Lasciala fare.
6
Questo nome corrisponde nel senso a tutti gli altri titoli, de’ quali
questo povero marito onora la sua buona moglie.
7
Immondezza.
1110. Er Cavajjere
La mi’ difficortà nnun sta ssur detto
«Omo a ccavallo sepportura uperta».
1
Questo ar monno lo sa ppuro
2
Ciscetto
3
che pproverbio vò ddí rregola-scerta.
4
Intennevo
5
sortanto ch’er giacchetto
6
diede seggno de mente poco asperta
7
ner riccontà che cquer polletro
8
in Ghetto
bbuttò ggiú lo scozzone de Caserta.
9
Ecco le su’ parole vere vere:
«Er polletro llí ar Ghetto de la Rua
10
fesce dà un crist’in terra
11
ar cavajjere».
S’ha da ingozzà sta bbuggiarata sua?
Cavajjere a un scozzone de mestiere?
Che ccavajjere? er cavajjer dell’ua?
12
18 marzo 1834
1
Proverbio.
2
Pure.
3
Cicetto. Vedi per la spiegazione il Son…
4
Regola certa.
5
Intendevo.
6
Questo vocabolo
corrisponde al jockey degl’inglesi, colla sola differenza che presso di noi il giacchetto è per lo più impiegato in soli
servizi domestici.
7
Esperta.
8
Puledro.
9
Del Principe di Caserta.
10
Il Ghetto della Rua. La porta principale del Ghetto
degli Ebrei.
11
Dare un cristo in terra: cadere di tutto peso.
12
Ua: uva. Qui sta per «zero, nulla».
1111. Le Cantarine
Una vorta pe ssempre: In certi guai
1
co mmé nun z’aripete una saetta.
2
Io sò
3
amico e ccompare de Carletta,
4
e ddiscenno
5
Carletta, ho detto assai.
Le vertüose lui? si ccasomai
6
pò ccommannalle
7
se pò ddí a bbacchetta,
8
perché jje fa da mmaschera e staffetta,
e dda quarc’antra cosa che nun zai.
9
Me disce dunque lui che le Cantante,
che vviaggeno p’er Monno oggni momento,
vanno co un zonatore tutte quante.
10
Perché, indove che sò,
11
vvonno avé ttutte,
o de notte o de ggiorno, uno strumento
che jje dii cor bemollo
12
e ’r zorfautte.
13
18 marzo 1834
1
Guai, per «subbietti».
2
Non si ripete affatto.
La saetta è spesso un vezzo di ripiego, o una sinonimia, presso a poco
come l’accidente, di cui vedi la nota... del Sonetto...
3
Sono.
4
Carlo..., detto Carletta, è un vecchio servo e avvisatore
del Teatro della Valle, uomo anzi sfacciatello che no, famoso rubator di cani, che talora por sventuratamente a
vendere agli stessi padroni.
5
Dicendo.
6
Se caso mai, cioè: «quando siamo a questo discorso a un bisogno», ecc.
7
Può
comandarle.
8
Altrove abbiamo scritto battecca, secondo la pronunzia dei più, ma bisogna far luogo anche agli errori
dei pochi i quali dicono meglio.
9
Che non sai. Qui il nostro romanesco pare inclinato a qualche sospetto di lenocinio.
10
Per esempio, la signora Ronzi col signor... Sebastiani, professor di clarino, la signora Malibran col signor Carlo
Bériot, professor di violino ecc. ecc., suonatori che le accompagnavano a Roma.
11
Dovunque sono.
12
Dar col bimolle:
assestare alcunché a tempo e luogo.
13
Termine generale, esprimente il suono e la battuta del suono.
1112. La prelatura de ggiustizzia
Nun ve la venno
1
mica pe ssicura,
ma ccome io puro l’ho ccrompata
2
adesso;
perché cciò
3
er mi’ gran dubbio c’a un dipresso
fussi ’na cojjonella
4
o un’impostura.
Dicheno
5
c’uno che vojji èsse
6
ammesso
pe mmano de ggiustizzia in prelatura,
avanti d’annà in opera e in figura
è cchiamato, e jj’incarteno un proscesso.
7
Io l’oppiggnone mia ggià vve l’ho ddetta:
chi vvolete che ssii tanto cojjone
da fasse
8
appiccicà cquela pescetta?
9
Co sto proscesso sai quante perzone
invesce d’abbuscà
10
la mantelletta
saríeno asposte
11
a tterminà in priggione.
19 marzo 1834
1
Vendo, ma qui sta per «dico».
2
Comperata, per «udita».
3
Ci ho.
4
Una beffa.
5
Dicono.
6
Essere.
7
Allude al processo
che sostengono coloro che aspirano ad una prelatura non di grazia. In questo processo su esaminano i meriti personali,
il sangue della progenie, la condizione, e più di tutto il censo del candidato. Ma poi tutto va come può.
8
Farsi.
9
Appiccicare una pecetta sarebbe come «applicare un cataplasma di dubbia azione».
10
Buscare.
11
Sarebbero esposte.
1113. Er Prelato de bbona grazzia
Ciò
1
er momoriale che mme fu arimesso
dar Zanto-Padre a mmonziggnor Ciafrella?
2
Bbe’, jjeri m’incontrai propio in lui stesso
sott’a la casa de Maria Fichella.
Subbito curro e mme je faccio appresso.
Dico: «Eccellenza, io sò
3
cquer tar Panzella
che vorebbe sapé ccos’è ssuccesso
de quela grazzia si ppotessi avella».
4
Lui prima me squadrò cco l’occhialino;
eppoi co ccerti termini sguajati
m’arispose: «Lei vadi ar zu’ cammino».
E io: «Saette a ttutti li prelati,
monziggnore mio caro, e mme j’inchino:
mejjo soli che mmal accompaggnati».
22 marzo 1834
1
Ci ho: ho.
2
Ciabatta.
3
Sono.
4
Se potessi averla.
1114. Er Curato e ’r Medico
E ha rraggione er curato. Ar zor dottore
je sta bbene de dí cche l’accidente
1
c’ammazzò cquer prelato su’ criente
j’è arincressciuto e jj’ha ttrafitto er core.
La cosa va da sé. Ssi
2
Mmonziggnore
nun aveva sta su’ presscia fetente
3
poteva in vita avé ccommodamente
venti o ttrent’antre
4
mmalatie mijjore.
Er discorzo, pe un medico, cammina:
ma un Curato è ddiverza;
5
e llui vorebbe
che mmanco
6
se trovassi
7
mediscina.
Perché, mmettemo
8
nun ze dassi
9
frebbe
10
da morí, bbona sera Caterina:
11
un Curato, per dio, che
12
mmaggnerebbe?
18 marzo 1834
1
Apoplessia.
2
Se.
3
Fetente, aggiunto che si usa ad esprimere qualunque qualità riprovevole.
4
Altre.
5
Intendi come
dicesse: «Ma la circostanza di un curato è diversa».
6
Manco, un senso di «né manco, anche».
7
Si trovasse.
8
Supponiamo.
9
Non si dasse.
10
Febbre.
11
Frase risolutiva di una quistione.
12
Cosa.
1115. Li bbeccamorti
E cc’affari vòi fà? ggnisuno more:
sto po’ d’aria cattiva è ggià ffinita:
tutti attaccati a sta mazzata vita...
Oh vva’ a ffà er beccamorto con amore!
Povera cortra
1
mia! sta llí ammuffita.
E ssi
2
vva de sto passo, e cqua er Ziggnore
nun allúmina un po’ cquarche ddottore,
la profession der beccamorto è ita.
L’annata bbona fu in ner disciassette.
3
Allora sí, in sta piazza, era un ber vive,
4
ché li morti fioccaveno a ccarrette.
Bbasta...; chi ssa! Mmatteo disse jjerzera
c’un beccamorto amico suo je
5
scrive
che cc’è cquarche speranza in sto Collèra.
18 marzo 1834
1
Coltre.
2
E se.
3
Nel 1817, anno del tifo petecchiale.
4
Era un bel vivere.
5
Gli.
1116. Er boja
Er guajo
1
nun è mmica che cqui oggn’anno
ar Governo
2
nun fiocchino
3
proscessi:
li delitti, ppiú o mmeno, sò l’istessi,
4
e, ppe ggrazzia de Ddio, sempre se
5
fanno.
Ecchelo
6
er punto indove sta er malanno:
che mmó li ggiacubbini se sò
7
mmessi
drent’a li loro scervellacci fessi
8
ch’er giustizzià la ggente è da tiranno.
Nò cc’abbino
9
li preti st’oppiggnone:
10
sempre però una massima cattiva,
dàjje, dàjje,
11
la fa cquarch’impressione.
E accusí, ppe llas
12
la ggente viva
s’innimmicheno er boja, ch’è er bastone
de la vecchiaja de li Stati. Evviva!
18 marzo 1834
1
Il guaio: la sventura.
2
Il Governo è qui inteso pel «Palazzo della Giustizia», chiamato con quel nome.
3
Non
abondino.
4
Sono nello stesso numero.
5
Si.
6
Eccolo.
7
Si sono.
8
Stravaganti.
9
Non già che abbiano, ecc.
10
Questa
opinione.
11
Dàgli dàgli: a forza di operare col ripetersi frequente.
12
E così, per lasciare.
1117. Li muratori
Vedi quann’
1
er demonio nun ha ggnente
da penzà a ccasa sua, si cche
2
ffervori
pe rruvinà nnoantri
3
muratori
fa vviení ne la testa de la ggente!
S’ha da inventà un Oremus propiamente
p’er terremoto! ch’è un po’ de vapori
che sse
4
vònno fà strada pe usscì ffori,
cosa siggnoriddio tant’innoscente!
E ccome fussi
5
poco, s’ha da mette
6
sti filacci de ferro in oggn’artura,
7
pe rroppe li cojjoni
8
a le saette!
Cristo! lo capirebbe una cratura:
9
co tutte st’invenzione mmaledette
nun ze
10
chiama un peccà ccontro natura?
19 marzo 1834
1
Quando.
2
Se quali.
3
Noi altri.
4
Che si.
5
Fosse.
6
Da mettere.
7
Ogni altura.
8
Per rompere i coglioni alle, ecc.: per
infastidire le, ecc.
9
Creatura.
10
Non si.
1118. Er matarazzaro
Ciamancàvio
1
mó vvoi, sori cazzacci,
co sti vostri segreti e cciafrujjetti
2
pe distrugge
3
le scímisce
4
e ll’inzetti
drent’a li matarazzi e a li pajjacci.
5
Pe vvoantri
6
saranno animalacci,
ma ppe cchi ccampa cor rifà li letti
le scimisce pe llui sò animaletti
che Ddio l’accreschi e cche bbon pro jje facci.
Nun è nné er primo caso né er ziconno,
che un letto pe ddu’ vorte in un’annata
s’è avuto d’arifà
7
dda cap’a ffonno.
Pe cquesto la bbon’anima de Tata
8
rifascenno
9
li letti co mmi’ Nonno,
sce lassava
10
una scímiscia agguattata.
11
19 marzo 1834
1
Ci mancavate.
2
Ciafruglietti: imbroglietti, cianciafruscole.
3
Per distruggere.
4
Cimici.
5
Pagliericci, sacconi.
6
Voi
altri.
7
Si è avuto a rifare.
8
Mio padre.
9
Rifacendo.
10
Ci lasciava.
11
Nascosta.
1119. L’Ombrellari
Che bbelli tempi, sí! cquanti
1
ccari!
More
2
de fonghi tu e li tempi bbelli.
Cristo! nun piove mai! Dílli fraggelli
sti mesi assciutti, e nnu li dí ggennari.
Se discorre
3
che nnoi in tre ffratelli
che ttenemo bbottega d’ombrellari,
drent’a ddu’ mesi cqui a li Bbaullari,
4
nun z’è aggiustato c’ott’o nnove ombrelli.
Sto novembre, ar vedé ll’arco-bbaleno
5
je lo disse
6
a mmi’ mojje tal’e cquale:
«Accidenti, Mitirda!
7
ecco er zereno!».
E mm’arispose lei: «Bbrutto seggnale!
ché ppe nnoi sce vorebbe armén’arméno
rivienissi
8
er diluvio univerzale».
19 marzo 1834
1
Quanto sono.
2
Mori.
3
Si discorre, nel senso di «si tratta».
4
Contrada quasi esclusivamente popolata da fabbricatori e
racconciatori di bauli, valigie ed ombrelle. Si sa che anticamente i corpi d’arte usavano di stabilirsi presso che tutti in
comunione di residenza, come erano uniti in sodalizi, fonte d’intolleranze, di privilegi esclusivi e di nocumento alla
società.
5
L’apparizione dell’iride è sempre un miracolo promettitore di serenità, episodio storico della gran tregua
fatta da Dio con Noè dopo a’ cento giorni, ai quali successe la prima restaurazione, diversa alquanto da quella venuta
poi dietro ai cento giorni di Bonaparte.
6
Dissi.
7
Matilde.
8
Rivenisse.
1120. Er zonetto pe le frittelle
Se vede bbe’
1
cche ssei poveta, e vvivi
co la testa in ner zacco. Er friggitore
che cquest’anno ha er concorzo er piú mmaggiore
e nnun c’è ffrittellaro che l’arrivi,
è Ppadron Cucchiarella. Ôh, ddunque, scrivi
un zonetto pe llui, tutt’in onore
de quer gran Zan Giuseppe confessore,
protettor de li padri putativi.
2
Cerchelo longo,
3
e nun compone
4
quello
che ffascessi
5
l’antr’anno
6
a Bbariletto
e ttrovassi
7
in zaccoccia a ttu’ fratello.
Ner caso nostro sce voría
8
un zonetto
a uso de lunario, da potello
9
stampà in fojjo, e, cchi vvò, ppuro a llibbretto.
10
19 marzo 1834
1
Si vede bene.
2
Nel giorno di San Giuseppe sposo della Vergine, i cosí detti friggitori sfoggiano gran pompa ed
appendono alle loro adobbate trabacche sonetti e anacreontiche, in onore di San Giuseppe e delle loro frittelle. Non è
raro il veder queste paragonate fino alle stelle del firmamento. come può credersi il poeta vi manca pur mai alle
lodi del frittellaio che gliene fa gustare in onorata mercede di ascrei sudori. Attalc di un tal friggitare Gnaccherino
ebbesi una volta ad udire non esservi che «Un Sole in cielo e un Gnaccherino in terra».
3
Cercalo lungo.
4
Comporre.
5
Facesti.
6
L’altr’anno.
7
Trovasti.
8
Ci vorrebbe.
9
Poterlo.
10
Lunarj in foglio e lunarj a libretto: è il grido de’ venditori
de’ lunari, chiamati i Bugiardelli.
1121. Er mercato de piazza Navona
Ch’er mercordí a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini,
1
bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìe
da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu ppijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano,
dimme
2
s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
«Li libbri nun zò rrobba da cristiano:
fijji, pe ccarità, nnu li leggete».
20 marzo 1834
1
Venditori di minuti oggetti, per lo più pertinenti al vestiario muliebre, od a’ loro lavori.
2
Dimmi.
1122. Li studi
Cipicchio, er Correttor
1
der Zeminario,
’ggniquarvorta me trova, m’aripete:
«Fijjo, in qualunque stato che vvoi sete
l’imparà cquarche ccosa è nnescessario».
Pe ste raggione io mó studio er lunario,
e cciò
2
imparato ggià cche le pianete
c’ha ssu la panza e ssu la schina er prete,
nun ze pò dîlle
3
un zemprisce
4
vestiario.
Trovo a bbon conto in ner lunario mio
scerti
5
pianeti: e nnun zaranno fiaschi
c’abbi abbottati in paradiso Iddio.
Quann’è accusí, da sti pianeti maschi
e ste pianete femmine, dich’io,
quarche ccosa bbisoggna che ne naschi.
21 marzo 1834
1
Colui che amministra le sferzate agli scuolai.
2
Ci ho.
3
Non si può dirle.
4
Un semplice.
5
Certi.
1123. Er carzolaro
Antro
1
che nnobbirtà! Cchiunque guitto
cqui ha mmess’a pparte un po’ de bbajocchella,
2
subbito, aló, carrozz’e ccarrettella,
e a la ppiú ppeggio la pijja in affitto.
Tre ggiorni Papa io, dio serenella!
3
te je vorrebbe appiccicà un editto
che in ner papato mio fussi dilitto
reo de morte l’annà ppuro in barella.
Cristo le scianche
4
ve l’ha ffatte rotte?
Marceno
5
in grabbiolè
6
ll’antr’animali?
Camminate da voi, bbrutte marmotte.
L’ommini, o ricchi o nnò, ssò ttutti uguali:
dunque a ppiede, fijjacci de miggnotte,
7
e llograte le scarpe e li stivali.
21 marzo 1834
1
Altro.
2
Denari.
3
Esclamazione insignificante.
4
Cianche, per gambe.
5
Marciano.
6
Cabriolet.
7
Bagasce.
1124. Lo stracciarolo
Lo stracciarolo a vvoi ve pare un’arte
da fàlla
1
bbene oggnuno che la facci?
Eppuro ve so ddí, ssori cazzacci,
che vierebbe in zaccoccia
2
a Bbonaparte.
La fate accusí ffranca er mett’a pparte
co un’occhiata li vetri e li ferracci,
a nnun confonne
3
mai carte co stracci,
e a ddivide
4
li stracci da le carte?
Nun arrivo a ccapí ccom’a sto Monno
s’ha da sputà ssentenze in tuttequante
le cose, senza scannajjalle a ffonno.
Prima de dí: cquer tar Papa è un zomaro,
o cquer tar stracciarolo è un iggnorante,
guardateli a Ssampietro e ar monnezzaro.
5
22 marzo 1834
1
Farla.
2
Venire in saccorcia è fratel carnale di «entrare in tasca».
3
Confondere.
4
Dividere.
5
Chacun à sa place,
direbbe il francese. Monnezzaro, per «immondezzaio»: come monnezza, per «immondezza».
1125. Er zervitor de piazza
Quer fijjo mio ch’è sservitor de piazza
e ss’ingeggna un tantin de Sciscerone,
fa una vita in sti mesi che ss’ammazza,
e mmanco ha ttempo de maggnà un boccone.
E l’Ingresi d’adesso sò una razza
ma una razza de lappe bbuggiarone,
che ppe un scudaccio ar giorno ve strapazza
come le case che ppò avé a ppiggione.
E a Ssampietro! e a Ssampavolo! e ar Museo!
mó a Ccampidojjo! mó a la Fernesina!
1
e ccurre
2
ar Pincio! e ccurre a Culiseo!...
Cominceno, pe ccristo, la matina
a la punta dell’arba, sor Matteo,
e vviè nnotte c’ancóra se cammina.
22 marzo 1834
1
La Farnesina: piccola villetta con palazzetto dirimpetto al Palazzo Farnese, al di però del Tevere, sopra il quale
quella ricca famiglia meditava di gettare un ponte, onde unire cosí i due corpi di fabbrica. In questa cosí-detta
Farnesina si vede la famosa Galatea, la favola di Psiche, ed altri freschi di Raffaello.
2
Corri.
1126. La serva der Cerusico
Nun c’è er padrone: ha avuta una chiamata
pe ccurre
1
a ffà ar momento ’na sanguiggna,
a Ppasquino
2
a ’na pover’ammalata,
c’ho intes’a ddí cche ssii frebbe
3
maliggna.
Eppoi pijja un straporto
4
e vva a ’na viggna
for de ’na scerta
5
porta ch’è sserrata,
6
a ccurà ’na cratura co la tiggna,
che da un mese nun l’ha ppiú vvisitata.
A pproposito!... oggi entra carnovale!
Ebbè, vvoi lo trovate a or de
7
Corza
8
drento da Scesanelli
9
lo spezziale.
Ché oggn’anno in quer frufrú
10
dde la ripresa
quarche ddisgrazzia ha d’accadé ppe fforza,
e ppe ggrazzia de ddio s’è ssempre intesa.
11
22 marzo 1834
1
Correre.
2
Sulla Piazza di Pasquino.
3
Febbre.
4
Trasporto.
5
Certa.
6
Le porte disusate di Roma sono la Pinciana, la
Fabbrica e la Castello, la prima sotto il Pincio, la seconda presso la Fabbrica di S. Pietro in Vaticano, e la terza
accanto alle fosse del Castello, già Mausoleo di Adriano.
7
A or de’: ad ora di, ecc.
8
Corsa.
9
Questo farmacista
Cesanelli, notissimo per le sue prugne purgative (chiamate volgarmente le bbruggne de’ Scesanelli), ha il suo
laboratorio al punto della ripresa de’ barberi.
10
Frufrù: tumulto, confusione.
11
Udita, vedi la nota 5 del Sonetto…
1127. Er fico fresco
Ggirava un viggnarolo oggi a mmercato
co un fico fresco in mano. «Ohé», jj’ho ddetto,
dico: «quanto ne vòi?». Disce: «Un papetto».
1
Dico: «Un papetto solo?! È arigalato».
2
Quattro lustrini
3
un fico, si’ bbrusciato!
du’ ggiuli un fico, ladro mmaledetto!
Eh cquanno abbi lui vojja d’un fichetto,
4
je lo do auffa
5
io ppiú a bbommercato.
Eppuro
6
sce s’è ttrovo
7
llí un zomaro
che mme sfrusciava:
8
«Oh, nnun è ccaro mica:
uh, in sta staggione nun è ggnente caro».
Io lo capisco che cce vò ffatica
pe ttrovà un fico fresco de ggennaro;
ma cco un papetto ciài puro una fica.
22 marzo 1834
1
Papetto: moneta d’argento da due paoli.
2
È regalato.
3
Quattro lustrini: quattro grossi: due paoli.
4
Fichetto: scherzo
che si fa altrui prendendogli il mento fra il pollice e il medio, e premendogli intanto le labbra con l’indice.
5
A ufo.
Vedi la nota... del Sonetto...
6
Eppure.
7
Ci si è trovato.
8
Mi annoiava.
1128. Er ver’amore
Dio nun vojji, ma er birbo me cojjona.
Se chiama modo er zuo de fà l’amore?
Se conossce a li seggni de bbon core
er bene che vve porta una perzona.
Specchiateve in quer bravo Monziggnore
che vvò bbene davero a la padrona:
guasi nun passa vorta che llui sona
che nnun porti un rigalo de valore.
Ce vò antro
1
che smorfie de la monna!
Fatti, e nnò cciarle, fatti hanno da èsse
2
pe mmette
3
in quiete er core d’una donna.
Un omo che vv’abbòtta de promesse
che ffinischeno in zero, è cchiar’e ttonna
che ttutto er zu’ finaccio è ll’interresse.
21 marzo 1834
1
Ci vuol altro.
2
Essere.
3
Mettere.
1129. Li rimedi simpatichi
1
[Sonetti 4]
S’io nun càpito llí a la vemmaria,
2
era antro male er zuo che de sciamorro!
3
E llei te posso dí cche ss’io nun corro
l’aveva fatta la cojjoneria.
Io parlo de la su’ iggnoranteria:
de la su’ imprudentezza io te discorro.
T’hai da penzà
4
cche sse
5
legava un porro
co la seta color-come-se-sia!
6
Subbito je strillai: «Fermete, Nena:
7
cosa te vai scercanno
8
co st’acciaccia
9
de seta, un tantinel de cancherena?
10
Nun zentissi
11
er Cerusico d’Artèmis
12
come ridenno
13
te lo disse in faccia?
Pe li porri sce
14
la seta cremis».
15
22 marzo 1834
1
Fra gl’innumerevoli rimedii, di virtù simpatica, i quali esercitano la fede popolaresca, sonosi scelti i pochi seguenti,
per darne un breve saggio anche in ciò del grado cui sono tuttora discese le umane cognizioni.
2
All’Ave Maria.
3
Cimurro.
4
Hai da riflettere.
5
Si.
6
Di colore qualunque: indeterminato.
7
Fermati, Maddalena.
8
Ti vai cercando.
9
Acciaccia, peggiorativo di accia, che in Roma è una gugliata di filo o simile.
10
Cancrena.
11
Non sentisti, per udisti.
12
Altemps, casa ducale di Roma.
13
Ridendo.
14
Ci vuole.
15
La seta di color chermisi o cremisi.
1130. Li rimedi simpatichi
E ppe cquattro moroide,
1
Caterina,
ce sudi da la pena a ggocci’a ggoccia?!
E tte vòi rotolà ssera e mmatina
sopr’a sto letto tuo com’una bboccia?!
Ecchete
2
cqua ’na castaggna porcina:
3
tu pportela
4
co tté ssempr’in zaccoccia:
ma nun t’hai da straccà: ttieccela, Nina,
5
e tte dich’io ch’er male te se scoccia.
6
Tu ppropio vederai che tte l’incanta,
e jj’averai d’accenne le cannele
7
peggio che ffussi
8
er quadro d’una Santa.
Io cor zegreto mio de ste castaggne
ner tempo che ssò stata a Ssammicchele
9
ciò arifiatato
10
un monno
11
de compaggne.
22 marzo 1834
1
Emoroidi.
2
Eccoti.
3
Castagna...
4
Portala.
5
Tiencila, Caterina.
6
Scocciare, vale: «cavare altrui il ruzzo: «domare».
Qui, «il male ti si fa docile».
7
Accendere le candele.
8
Fosse.
9
La casa di correzione.
10
Ci ho ricreate, sollevate.
11
Un
mondo.
1131. Li rimedi simpatichi
Lei bbene; ma a la pupa,
1
poverella,
su la muscola propio der nasino
je s’è scuperta una vojja de vino
che ppare usscito mó dda la cupella.
2
Ma ggià ho ddetto che ppijji una padella
c’abbi
3
fritto un bon anno sur cammino,
e cce la facci
4
strufinà un tantino
oggni sera pe mman d’una zitella.
E ll’ho ppuro avvisata che nun giova
quela strufinatura, si oggni vorta
nun ce s’addopra una zitella nova.
Però sta cosa a llei nun je n’importa,
pe vvia che
5
de zitelle se ne trova
da fanne
6
quer che vvòi drent’oggni porta.
22 marzo 1834
1
Bambina.
2
Coppella: è a Roma piccolo vaso di legno della figura del barile.
3
Che abbia.
4
Faccia.
5
Per via che:
imperocché.
6
Da farne.
1132. Li rimedi simpatichi
L’occhio è un coso de carne che cce vede,
quanno sc’è er lume, e sta ddrent’a ’na fossa.
Ecco spiegato quer che tte succede
pe sta frussione tua che tte s’è smossa.
1
Mó vvenímo ar rimedio ch’è dde fede.
Tu appiccíchete
2
un pezzo d’ostia rossa
sopr’a le tempia; e cquesto nun pòi crede
3
come tira l’umore ch’è in dell’ossa.
Si ppoi fussi
4
orzarolo
5
e nnò ffrussione,
se cusce l’occhio: ciovè,
6
nun ze cusce,
ma sse disce pe un modo d’aspressione.
7
Abbasta de pijjà ll’aco infilato
e ffiggne
8
de cuscí, tte s’aridusce
9
l’orzarolo
10
che ssubbito è ppassato.
23 marzo 1834
1
Ti si è suscitata.
2
Appíccicati.
3
Non puoi credere.
4
Se poi fosse.
5
Orzaiuolo, detto anche orzuolo.
6
Cioè.
7
Espressione.
8
Fingere.
9
Ti si riduce.
10
Sottintendi qui: ad un punto: ad un punto che, ecc.
1133. L’invetrïata de carta
Era du’ ora, e stavo ar mi’ bbanchetto
a ccuscí un tacco a una sciavatta
1
fina,
quanto... bbún! ssento un botto a la vetrina,
2
eppoi: «Se pò appiccià
3
sto moccoletto?».
Io do un zarto
4
e cch’edè?!
5
vvedo un pivetto
6
tutto-quanto impiastrato de farina,
che sse
7
sporge co un pezzo de fasscina
tra li fojji
8
stracciati, inzino ar petto.
M’arzo,
9
agguanto
10
una forma, apro, esco fora,
vedo una cosa bbianca, e, incecalito,
11
do una formata in testa a una siggnora.
Lei fa uno strillo: io scappo; ma er marito
m’arriva, e mme ne dà, cristo!, c’ancora
me sce sento er groppone indormentito.
27 marzo 1834
1
Ciabatta.
2
Bussola della bottega.
3
Accendere.
4
Salto.
5
Che è? cosè?
6
Un fraschetta.
7
Si.
8
Fogli.
9
M’alzo.
10
Afferro.
11
Abbacinato.
1134. Er Re e la Reggina
1
Li Romani, nun feta
2
una gallina,
nun pisscia un cane, e nnun ze move un pelo,
che jje pare che ssii la marmottina
tutta legat’a ggiorno in d’un camelo.
3
Chi è sta patanfrana
4
de Reggina!
la sora Pocalissa der Vangelo?!
Chi è sto Re! cquarche bbestia turchina?!
quarche ffetta de Ddio sscesa dar celo?!
Currete, sí, ccurrete, pettirossi,
5
che ttroverete du’ cosette rare:
che vvederete un par de pezzi grossi.
L’avete visti? Ebbè? cche vve ne pare?
Chi
6
antro
7
mostro sc’è cche cce la possi
pe le chiappe
8
der monno e in cul’ar mare?
23 marzo 1834
1
Il Re e la Regina vergine di Napoli.
2
Fetare, colla prima e stretta, viene dal vocabolo «féto». La lingua illustre manca
di questa verbo, che corrisponde perfettamente al pondre dei Francesi.
3
Cammeo.
4
Patanflana: grossa donna: benché
la povera regina vergine non abbia carne da vendere.
5
Il pettirosso, uccello la cui curiosità proverbiale lo mette nelle
insidie del cacciatore.
6
Quale.
7
Altro.
8
È lepidezza del volgo il divider la terra nelle quattro chiappe del mondo.
1135. Er re Ffiordinanno
1
È aritornato a Rroma sto malanno
der re der reggno de le du’ Sscescijje,
2
nipote de quel’antro Fiordinanno
che ccottivava
3
li merluzzi e ttrijje.
4
E ccià
5
cco llui
6
la mojje sua, quer panno
lavato,
7
che nun fa ffijji, ffijje,
perché er marito j’arigàla
8
oggn’anno
trescenzessantascinqu’o ssei viggijje.
9
Tu me dimannerai pe cche mmotivo
lui la tiè ttrenta e ttrentun giorno ar mese
senza métteje
10
in corpo er zemprevivo.
11
A sta dimanna io t’arisponno, Antonia,
quer c’hanno scritto ar Palazzo Fernese:
12
CASA DER BABBILANO
13
IN BABBILONIA.
14
18 maggio 1834
1
Ferdinando. Passò in Roma la settimana santa del 1834.
2
Cecilie, per «Sicilie», molto vicino vocabolo all’antico
Cicilie.
3
Di questo verbo vedi la nota... del Sonetto...
4
Si narra che Ferdinando, IV, III e I, avo del Re attuale, si
dilettasse di fare pubblicamente il pesciaiuolo, e che una volta, nel calore simulato di un certo contratto con un suo
cortegiano, si prendesse un pesce sul muso.
5
Ci ha.
6
Con sé.
7
Panno lavato, dicesi di persona assai pallida.
8
Gli (le)
regala.
9
Come narra Boccaccio di ser Ricciardo da Chinzica alla sua bella pisana.
10
Mettergli, per «metterle».
11
Semprevivo. Vedine il senso fra i nomi del sonetto...
12
Palazzo Farnese in Roma, appartenente alla casa di Napoli.
13
Babilano: uomo impotente a generare.
14
Si vuole che realmente si trovasse questa satira alla porta del palazzo.
Babilonia prendesi per «confusione», come Babel. Si vuole che Roma sia significata nell’Apocalisse sotto questa
allegoria: e quindi molti scrittori così la chiamarono.
1136. Rom’antich’e mmoderna
Rom’antich’e mmoderna! E a li libbrari
cqua jj’è lléscito un libbro de sto nome?
Eh ccamminate via, bbestie da some,
pe nnun dàvve
1
er diproma de somari.
Rom’antich’e mmoderna! Propio cari!
Ma in che ccervello ha da sartà! mma ccome!
drent’ar monno sce só ddunque du’ Rome?!
Oh ddatela pe ggionta a li lunari.
Rom’antich’e mmoderna! oh cquest’è bbella!
Mó adesso Roma s’è ffatt’un’amica!
Ma ss’una è cquesta cqua, l’antra indov’ella?
2
Bbravi! Roma moderna, e Rrom’antica!
Sarebbe com’a ddí: «Vostra sorella
lo pijja ne la freggna e nne la fica».
23 marzo 1834
1
Darvi.
2
L’altra dov’è ella?
1137. Er Tesoriere bbon’anima
1
Monziggnor Tesoriere ch’è ccrepato,
quanno stava a la stanga der timone
2
e mmaggnava su ttutte le penzione,
3
le gabbelle, l’apparti e ’r mascinato;
4
volenno
5
fà una bbona confessione
(ché da un pezzo nun z’era confessato)
se n’aggnede
6
da un prete sganganato
7
drent’in ne l’Oratorio a la Missione.
8
Mentre sputava li su’ rospi, in chiesa
sce se trovava un povero cristiano
c’aveva avuto un torto in ne l’Impresa.
9
Come st’omo che cqua
10
vvedde
11
er gabbiano
12
der confessore co la mano stesa,
«Nu l’assorve»,
13
strillò: «fferma la mano!».
24 marzo 1834
1
Il Tesoriere morto. Fu realmente monsignor Belisanio Cristaldi, e l’altro suggetto di cui qui sotto si parla, un tal
Baracchini.
2
Alla direzione degli affari.
3
Pare che l’egregio prelato, a sentimento del nostro Romanesco, volesse far
rivivere il Date obolum Belisario. Noi non siamo del suo maligno avviso. Crediamo però che se veramente l’antico
Belisario andò orbato degli occhi del corpo, il nuovo non godesse di que’ della mente.
4
E il macinato: dazio sulla
macinatura del frumento.
5
Volendo.
6
Se ne andò.
7
Sgangherato, per «decrepito».
8
Nell’oratorio de’ Signori della
Missione.
9
Quando si nomina assolutamente l’Impresa, s’intende a Roma sempre quella de’ Lotti.
10
Semplicemente
quest’uomo. Il che qua, che qui, sono pleonasmi usatissimi da Romaneschi.
11
Vide.
12
«Gabbiano», per «balordo,
gocciolone»: la dupe de’ Francesi.
13
Non l’assolvere.
1138. Er nome de li Cardinali
C’è cchi intiggna
1
che cqua li Cardinali
anticamente se chiamorno
2
Cardi,
e cche ddoppo, li Papa un po’ ppiú ttardi
j’aggiontorno quer termine de Nali.
Ar contrario se
3
troveno antri
4
tali
che incòcceno che quelli sò bbusciardi;
5
e sto nome nun vonno che sse guardi
come scriveno mó li scritturali.
Dicheno c’ar principio li Cristiani,
nun ze sa ppe cche ssorte de raggione
li chiamorno accusí: li Ladri-cani.
6
Ma ppoi co l’imbrojjà la riliggione,
quelle lettre, un po’ oggi e un po’ ddomani,
s’impicciorno, e nne viè sta cunfusione.
24 marzo 1834
1
I verbi romaneschi intignare e intignarsi, incocciare e incocciarsi corrispondono al toscano «incaponire» e
«incaparbire», imperoccoltre al medesimo significato di «ostinarsi» ritengono un sé anche della parola materiale, la
coccia equivalendo al capo, e la tigna essendo una pertinenza di questo, anche’ssa molto bene ostinata nel suo
domicilio.
2
Si chiamarono.
3
Si.
4
Altri.
5
Bugiardi.
6
Anagramma purissimo di Cardinali.
1139. Le parte der Monno
Pippo,
1
Nicola, Gaspero, Rimonno,
2
Giammatista,
3
Grigorio, Furtunato,
currete a ssentí ttutti si sse ponno
4
spaccià ccojjonerie ppiú a bbommercato.
Er monno, ggente mie, nun è ppiú ttonno:
nun è ppiú ffatto in quattro parte. È stato
scuperto adesso ch’è vvienuto ar monno
’n antro
5
pezzo de monno appiccicato!
Va
6
cche sto quinto quarto c’hanno trovo,
7
o sse lo sò inzoggnato,
8
o ll’hanno visto
coll’occhio ar búscio
9
in quarche Mmonno-novo?
10
E ha da èsse
11
accusí: pperché, ppe ttristo,
12
si ppurcini sce
13
ddrent’a st’antr’
14
ovo,
dovería
15
rincarnasse
16
Ggesucristo.
25 marzo 1834
1
Filippo.
2
Raimondo.
3
Giambattista.
4
Se si possono.
5
Un altro.
6
Va: formula delle scommesse: Va, vada, ecc. Qui sta
per «Volete scommettere che questo quinto quarto», ecc.
7
Trovato.
8
Lo hanno sognato.
9
Buco.
10
Nota Camera-ottica.
11
E dev’essere.
12
Per tristo, modificazione di giuramento usata dai più scrupolosi.
13
Se pulcini ci sono.
14
Quest’altro.
15
Dovrebbe.
16
Rincarnarsi.
1140. Er fornaro
Er lacchè dder ministro San-Tullera,
1
pe ddà a vvedé cch’è una perzona dotta,
disce c’a Ffrancia accant’a ’na paggnotta
ce nassce un omo
2
e cche sta cosa è vvera.
Mettétela addrittura in zorbettiera
3
sta cazzata,
4
e soffiatesce ché scotta.
Dunque un omo ch’edè?
5
’na melacotta,
un fico, ’na bbriccocola,
6
’na pera?!
Pe cquant’anni sò scritti in ner lunario
da sí cc’Adamo se strozzò
7
cquer pomo,
nun z’è vvisto accadé tutt’er contrario?
Lui nun parli co mmé cche ffo er fornaro.
Che nnaschi una paggnotta accant’a un omo
sò cco llui,
8
ma cquell’antra è da somaro.
25 marzo 1834
1
Sainte-Aulaire.
2
A côté d’un pain il naît un homme. Proverbio francese, allusivo all’aumento di popolazione
proporzionata a quella delle sussistenze.
3
Allorché si ascolta un fatto incredibile si dice: Mettetela al fresco:
soffiateci.
4
Questa stoltezza.
5
Che è? cosè?
6
Albicocca.
7
S’ingollò.
8
Son con lui, cioè: «del suo avviso».
1141. La fanga
1
de Roma
Questa? eh nnemmanco è ffanga. Pe vvedella
s’ha d’annà
2
a li sterrati a ppiazza Poli
indov’abbito io; ché ssi
3
nun voli
ce trapassi in barchetta o in carrettella.
Ce fussi armeno un po’ de serciatella
attorn’attorno, quattro serci soli,
da mette er piede e annà ssott’a li scoli
de le gronnàre!
4
ma nemmanco quella.
Pe rricrami
5
ne fàmo
6
oggni tantino;
e allora ècchete
7
dua cor un treppiede
un cannello coll’acqua e un occhialino.
E a sti scannajji
8
tu cce pijji fede:
ebbè, sò
9
ggià ddiescianni cor cudino
10
e la serciata ancora nun ze vede.
28 marzo 1834
1
Fango.
2
Andare.
3
Se.
4
Grondaie.
5
Reclami.
6
Facciamo.
7
Eccoti.
8
Scandagli.
9
Sono.
10
Dieci anni con una appendice.
1142. Li Croscifissi der venardí-ssanto
Seggna:
1
uno er Croscifisso a Ssan Marcello,
2
dua quello de li Padri Passionisti,
tre er Cristo der Gesú:
3
poi doppo ho vvisti
li dua der Pianto
4
e dder Zarvatorello,
5
che ffanno scinque: eppoi la Morte,
6
e cquello
der Culiseo.
7
Dunqu’io, tra bboni e ttristi,
ho vvisitato sette Ggesucristi:
8
er conto è cchiaro pe cchi ttiè ccervello.
Eppoi, guarda: io sò usscito co un carlino:
9
a oggni Croscifisso j’ho bbuttato
un bajocco in ner zòlito piattino:
e mmó ddrent’in zaccoccia m’è arrestato
mezzo bbajocco,... ebbè, ssor chiacchierino,
quanti Nostrisiggnori ho vvisitato?
28 marzo 1834
1
Conta.
2
Chiesa de’ Servi di Maria, chiamati per altro i PP. Serviti, che è alquanto diverso da servi.
3
Chiesa-madre
della Compagnia abolita da Clemente XIV.
4
Chiesa quasi a contatto col Ghetto degli Ebrei, dove accade annualmente
la famosa disputa della dottrinella del Bellarmino, e si elegge l’Imperatore della dottrina cristiana. Questo Monarca
chiede per lo più al suo cugino il Papa pane e vino per tutta la vita.
5
Chiesuola aderente al Palazzo della Polizia.
6
Chiesa di S. Maria dell’orazione e morte di Roma (Dio guardi). È uficiata dalla Archiconfraternita che cerca i morti
per le campagne, e loro sepoltura onde possano passare la barca dell’altro mondo.
7
Nel Colosseo esiste una Via-
Crucis e un gran Cristo-in-croce, venerato un una cappelletta a cui è addetto un romito, che talora non passa pel
miglior galantuomo di questo mondo. Fu detto a un buon computista: «Madamigella Garnerin medita un volo
aerostatica dal Colosseo, che ristaurerà se ne ottiene licenza. «Non è questa la difficoltà», rispose il ragioniere; «ma la
licenza non gliela daranno per rispetto della Santa Via-Crucis.
8
Dopo sette viene l’Indulgenza plenaria.
9
Baiocchi
sette e mezzo.
1143. Er copre-e-scopre
Sor don Tobbía, ma cche vvor dí che cquanno
entra la sittimana de Passione
voantri
1
preti fate sta funzione
d’aricoprí le crosce cor un panno?
Tenete Ggesucristo tutto l’anno
sopr’a cquer zanto leggno a ppennolone,
2
e mmó che ssaría frutto de staggione
ve sciannate
3
a ppijjà ttutto st’affanno?
Si Ggesucristo more, poverello,
che cc’entra quelo straccio pavonazzo
che jje sce fate fà a nnisconnarello?
Zitto, nun ho bbisoggno de sapello.
Questo vor dí cche nun avete un cazzo
da penzà, ppreti mii, for c’ar budello.
29 marzo 1834
1
Voi altri.
2
A pendolone: penzoloni.
3
Vi ci andate.
Giuseppe Gioachino Belli
Tutti i Sonetti romaneschi
Vol. 2°
Indice
1144. Le funzione de la sittimana-santa
1145. Er Mestiere faticoso
1146. L’indurgenze liticate
1147. Er Ziggnore e Ccaino
1148. Er ziconno peccato
1149. L’impeggni de le carrozze
1150. Er Cardinale de pasto
1151. Er canonicato bbuffo
1152. La visita der Papa
1153. La lavanna
1154. L’ova e ’r zalame
1155. L’illuminazzion de la cuppola
1156. La ggirànnola der 34
1157. Li fochetti
1158. La lezzione de lo scortico
1159. L’impusturerie
1160. La donna fregàle
1161. La straportazzione
1162. Er governo de li ggiacubbini
1163. Le scramazzione de li ggiacubbini
1164. Li Vicarj
1165. La risposta de Monziggnore
1166. La scéna de Bbardassarre
1167. ’Na resìa bbell’e bbona
1168. Er testamento der pasqualino
1169. L’amico de Muccio
1170. Li du’ ggener’umani
1171. Er Maestro de l’urione
1172. La lezzione der padroncino
1173. Li quadri de pittura
1174. Li nuvoli
1175. Io
1176. Er madrimonio de Scefoletto
1177. Lo straporto der burrò
1178. La lègge
1179. La ggiustizzia ingiusta
1180. Er leggno privileggiato
1181. Le catture
1182. Papa Sisto
1183. La stampijja der Zantàro
1184. Le furtune
1185. La fatica
1186. La fijja dormijjona
1187. Er Castoro
1188. Li vini d’una vorta
1189. Li tempi diverzi
1190. Li teatri de primavera
1191. Angeletto de la Madalena
1192. Er Corzo arifatto
1193. Lo stroligo
1194. L’onore
1195. La gratella der Confessionario
1196. L’iggnoranza de Mastr’Andrea
1197. Lo sposalizzio de la Madonna
1198. Le fijje ozziose
1199. La visita de la Sor’Anna
1200. Er Contino
1201. La caggnola de Lei
1712. Una fettina de Roma
1713. La riliggione der tempo nostro
1714. La pietra de carne
1715. Er prete de la Contessa
1716. Er principio
1717. Er parto de la mojje de Mastro Filisce
1718. La donna gravida
1719. L’incoronazzione de Bbonaparte
1720. Cattive massime
1721. La matta che nun è mmatta
1722. La vedova dell’ammazzato
1723. La vedova dell’ammazzato
1724. Villa Bborghese
1725. Er caval de bbronzo
1726. Er mejjo e er peggio
1727. Le smammate
1728. La colómma de mamma sua
1729. L’urtimo bbicchiere
1730. Chi era?
1731. Er pranzo da nozze
1732. Er pilàro
1733. L’Avocato Cola
1734. Li conti co la cusscenza
1735. Lo spiazzetto de la corda ar Corzo
1736. La lettrícia
1737. Semo da capo
1738. Er padre de Ghitanino
1739. La mano reggia
1740. Li troppi ariguardi
1741. L’amore de le donne
1742. Lo strufinamento de la Madonna
1743. Ch’edèra?
1744. Le funzione de Palazzo
1745. L’assaggio de le carote
1746. Le cuncrusione de la Rescèli
1747. Nino e Ppeppe a le Logge
1748. Li ggeloni
1749. [Er còllera mòribbus]
1750. [Er còllera mòribbus]
1751. [Er còllera mòribbus]
1752. [Er còllera mòribbus]
1753. [Er còllera mòribbus]
1754. [Er còllera mòribbus]
1755. [Er còllera mòribbus]
1756. [Er còllera mòribbus]
1757. [Er còllera mòribbus]
1758. [Er còllera mòribbus]
1759. [Er còllera mòribbus]
1760. [Er còllera mòribbus]
1761. [Er còllera mòribbus]
1762. [Er còllera mòribbus]
1763. [Er còllera mòribbus]
1764. [Er còllera mòribbus]
1765. [Er còllera mòribbus]
1766. [Er còllera mòribbus]
1767. [Er còllera mòribbus]
1768. [Er còllera mòribbus]
1769. [Er còllera mòribbus]
1144. Le funzione de la sittimana-santa
Io sempre avevo inteso predi
cch’er Ziggnore era morto un venardí,
e cche ddoppo tre ggiorni che mmo
vorze
1
a ccommido suo risusscità.
Com’è st’istoria? E adesso vedo cqua
schiaffallo
2
in zepportura er giuveddí,
e ’r giorn’appresso lo vedo ariarzà
3
sopr’a la crosce e aripiantallo
4
llí!
E ’r zabbit’
5
a mmatina, animo, sú:
s’arileva
6
a l’artari er zabbijjè,
7
se canta er Grolia,
8
e nnun ze piaggne ppiú.
Queste sò ttutte bbuggere c’a mmé
me pareno resíe,
9
perché o nun fu
ccome se disce, o ss’ha da fà ccom’è.
29 marzo 1834
1
Volle.
2
Cacciarlo.
3
Rialzare.
4
Ripiantarlo.
5
Sabato.
6
Si rileva.
7
Il déshabillé.
8
Gloria.
9
Eresie.
1145. Er Mestiere faticoso
Arivienghi
1
mo a ddí cquer framasone
che, ffra ttutti li prencipi cristiani
cattolichi postolichi romani,
er Zantopadre nostro è er piú pportrone.
Ggià jjeri ha ddato ’na bbonidizzione:
2
un antra n’ha da dà ddoppo domani:
3
eppoi lavanne
4
a ttredisci villani,
5
e mmisereri, e ppranzi, e ppriscissione!
6
Io nun zo ssi
7
dda quanno s’è inventata
l’arte de faticà, se sii mai trova
una vita, per dio, ppiú strapazzata.
Povero Papa mio! manco te ggiova
lo sscervellatte
8
co sta ggente ingrata
pe ffà oggni ggiorno un’indurgenza nova.
31 marzo 1834
1
Rivenga.
2
Nella mattina del giovedí-santo.
3
Nel giorno di Pasqua.
4
Lavande.
5
Vedi su questo numero tredici il
Sonetto...
6
Processioni. I Romaneschi conservano nel plurale la medesima escita dei nomi femminili, che nel singolare
finiscono in one. La processione: le processione, ecc.
7
Non so se.
8
Scervellarti.
1146. L’indurgenze liticate
Quanto a le carte poi de l’indurgenza
ch’er Papa fa bbuttà ggiú ddar loggione,
1
trattannose d’affar de riliggione
nun ce vò un cazzo tanta conveggnenza.
Saría bbella che ddoppo la pascenza
2
d’aspettà un’or’e ppiú ssu lo scalone,
3
quanno poi viè
4
vvolanno er cedolone
s’avessi d’acchiappà cco la prudenza!
Chi ppijja pijja: e llí vvedi er cristiano:
lí sse scopre chi ha ffede e cchi ha rrispetto
pe le sante indurgenze der zovrano.
Io so cc’a fforza de cazzott’in petto
e dd’èsse,
5
grazziaddio, lesto de mano,
sempre ne porto via quarche ppezzetto.
1° aprile 1834
1
Dopo la benedizione papale.
2
Pazienza.
3
Lo scalone di S. Pietro o di S. Giovanni.
4
Viene.
5
Essere.
1147. Er Ziggnore e Ccaino
«CAINO! indov’è Abbele?». E cquello muto.
«CAINO! indov’è Abbele?». Allora quello:
«Sete curioso voi! chi ll’ha veduto?
Che! ssò
1
er pedante io de mi’ fratello?»
«Te lo dirò ddunqu’io, bbaron futtuto:
sta a ffà tterra pe ccesci:
2
ecco indov’èllo.
3
L’hai cuscinato
4
tú ccor tu’ cortello
quann’io nun c’ero che jje dassi ajjuto.
Lèvemete
5
davanti ar mi’ cospetto:
curre p’er grobbo
6
quant’è llargo e ttonno,
pozz’èsse
7
mille vorte mmaledetto!
E ddoppo avé ggirato a una a una
tutte le strade e le scit dder monno,
va’, ccristianaccio, a ppiaggne
8
in de la luna».
9
2 aprile 1834
1
Sono.
2
Andare a far terra per ceci: stare a far terra per ceci: morire; esser morto.
3
Dove egli è.
4
Cucinato:
spacciato.
5
Lèvamiti.
6
Globo.
7
Possa tu essere.
8
Piagnere.
9
Non v’ha buona madre, che non mostri a’ figliuoli la luna
piena, dicendo loro: «Vedi, figlio, quella faccia? È Caino che piange».
1148. Er ziconno
1
peccato
Ch’er zor Caino doppo er fatto d’Eva
ammazzassi
2
quer povero innoscente,
fin qui nnun c’è dda repricacce
3
ggnente:
questo è un quattr’e cquattr’otto, e sse sapeva.
La gran difficortà cch’io tiengo in mente
e cche ggnisuno ancora me la leva,
è ccome mai Caino conossceva
che le bbòtte ammazzassino
4
la ggente.
Prima de quella su’ bbricconeria
gnissun omo era mai morto ammazzato,
e mmanco morto mai d’ammalatia.
Volemo dunque dí cche ddar peccato
de maggnà un fico pe jjottoneria
er genio d’ammazzà nnaschi imparato?
3 aprile 1834
1
Secondo.
2
Ammazzasse.
3
Replicarci.
4
Ammazzassero.
1149. L’impeggni de le carrozze
Eh sor banchiere,
1
e mmó in che ddà sto chiasso?
Poveraccio! ve pijjeno le dojje?
Vienite a llavorà de paste sfojje
2
propio in ner zito
3
che cciamanca
4
er passo?
C’ho da sterzà,
5
ll’anima tua?! pe cojje
6
ne le vetrine
7
e ffà cquarche sconquasso?!
Come ho da passà avanti? indove passo?
su la freggnaccia sporca de tu’ mojje?
Da’ addietro tú, ccornuto bbuggiarone:
tiè cquela frusta a tté, ddico: va’ ppiano:
vòi sfonnamme
8
la cassa cor timone?
Nun me fà ssceggne
9
ggiú, lladro ruffiano,
ché, ppe ccristo de ddio, t’arzo un pormone
10
da imparatte
11
a ttiené lle bbrijje in mano.
3 aprile 1834
1
Termine di spregio contro i cocchieri mal’esperti.
2
Lavorare di paste sfoglie, significa: «dare in bravure, in
difficoltà».
3
Sito.
4
Ci manca.
5
Sterzare, voce dell’arte, vale: «dare indietro, dirigendo alquanto il legno alla diagonale,
mentre il timone coi cavalli descrivono una linea contraria».
6
Cogliere.
7
Vetrine. O le bussole delle botteghe, o quelle
cassette vetriate dentro le quali si espongono alla vista le merci o manifatture.
8
Sfondarmi.
9
Scendere.
10
Alzare un
polmone, fare un polmoncello: entrare con percosse una tal parte di corpo.
11
Impararti, per «insegnarti».
1150. Er Cardinale de pasto
1
Cristo, che ddivorà! Ccome ssciroppa
2
quer Cardinale mio, Dio l’abbi in pasce!
E la bbumba?
3
Cojjoni si jje piasce!
Come ssciúria,
4
per dio! come galoppa!
Quello? è ccorpo da fà bbarba de stoppa
5
a un zei
6
conventi: ché ssaría capasce
de maggnajjese er forno, la fornasce,
er zacco, er mulo, e ’r mulinaro in groppa.
Lui se sfonna
7
tre llibbre de merluzzo,
quann’è vviggijja,
8
a ccolazzione sola:
capite si cche stommichi de struzzo?
9
Oh a lui davero er don
10
de l’appitito
lo sarva dar peccato de la gola,
perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito.
11
3 aprile 1834
1
Di buono appetito.
2
Come ingolla!
3
Il bere.
4
Sciuriare, per «bevere con avidità».
5
Fare altrui bara di stoppa, vale:
«lasciarlo al secco di tutto».
6
Sei.
7
Si sfonda, si divora.
8
Vigilia.
9
È nota la credenza popolare intorno allo stomaco
dello struzzo, capace di digerire il ferro come un marzapane o un berlingozzo.
10
Dono, per «prerogativa».
11
Smaltito.
1151. Er canonicato bbuffo
Azzecca
1
un po’ Ssanta Maria Maggiore
a chi oggnisempre dà un canonicato?
Ar re de Spaggna, cazzo!, omo ammojjato,
cosa che ttanto dispiasce ar Ziggnore!
E ar passà dde la bbanca
2
averà ccore
sto sor canonichetto incoronato,
senz’esse
3
stat’in coro e avé ccantato,
de scibbasse
4
la paga de cantore?
Io je diría:
5
vienite in de la stalla
6
com’e ll’antri voi puro,
7
a ddí l’uffizio
co la bbarretta e la pelliccia in spalla.
Che! cciamancheno
8
preti, a sto paese,
da pijjasse
9
qualunque bbonifizzio
per la raggione de quer tant’-ar-mese?
4 aprile 1834
1
Indovina.
2
Il passar de la banca significa il «pagare gli emolumenti».
3
Senza essere.
4
Di cibarsi.
5
Gli direi.
6
Stallo
canonicale.
7
Come gli altri voi pure.
8
Ci mancano.
9
Pigliarsi.
1152. La visita der Papa
Io ve dico ch’er Papa stammatina
s’è ffatto roppe
1
un po’ ppiú ppresto er zonno
e cco ddu’ leggni sui, prim’e ssiconno,
è vvorzuto annà a ttrova
2
la Reggina.
3
Epperò ss’ha da fà ttanta marina?
4
Perch’er Papa è er prim’omo de sto Monno,
dunque li Papi, a ssentí a vvoi, nun ponno
nemmanco visità la ggente fina?
Spalancate l’orecchie: uprite l’occhi:
li sentite llaggiú li campanelli?
Quella ch’edè?
5
la cummuggnon’in fiocchi.
6
Ah, un Dio pò vvisità li poverelli,
e nnò un Papa li re? Ppezzi de ggnocchi!
Li sovrani nun zò
7
ttutti fratelli?
4 aprile 1834
1
Rompere.
2
Ha voluto andare a trovare.
3
Era la regina Maria Isabella, vedova di Francesco di Napoli, figlio del IV, III e
I Ferdinando di Borbone. Vedi Sonetto...
4
Far marina: fare strepito di maldicenza, persecuzione, ecc.
5
Che è? cosa è?
Vedi la nota... del Sonetto...
6
Nelle maggiori solennità dell’anno, cioè nelle due Pasque, di Resurrezione e di
Pentecoste si porta agl’infermi l’eucaristia in gala: e dicesi Comunione in fiocchi.
7
Non sono, ecc.
1153. La lavanna
St’anno che la lavanna
1
è stata in Chiesa
de san Pietro, all’artar de san Proscesso,
2
sò vvorzuto annà
3
a vvede
4
da mestesso
s’era in ner modo che ss’è ssempre intesa.
Oh bbe’, Fficona, te saressi cresa
5
che li Papi arrivassino
6
a st’accesso
7
de fà ttredisci Apostoli? E ’r permesso
chi jje l’ha ddato de fà a Ddio st’offesa?
L’Apostoli de Cristo in ner Cenacolo
nun hanno mai passato la duzzina,
e mmó er Papa vò ffà st’antro miracolo!
Tredisci! oh gguarda llí! ttredisci un cavolo!
Nun z’aricorda
8
er Papa che, pper dina,
quer zu’ tredisci è er nummero der diavolo?
9
4 aprile 1834
1
Lavanda.
2
In questo anno 1834, il sommo Pontefice ha per la prima volta fatto la lavanda a’ pellegrini, preti, nella
Chiesa del Vaticano, per dare piú sfogo alla divozione degli Inglesi ed altri fedeli accorsi a Roma con istraordinaria
affluenza. La funzione ebbe luogo presso l’altare dei SS. Processo e Martiniano. Il primo è veramente il santo del
secolo.
3
Sono voluto, per «ho voluto».
4
Andare a vedere.
5
Ti saresti creduta: avresti creduto.
6
Arrivassero.
7
Eccesso.
8
Non si ricorda.
9
È tanto vero che il numero tredici appartiene di diritto al gran Nimico, che niuno saprebbe indurre i
nostri popolani a porsi a tavola in tanti. Circa poi al rito dei tredici Apostoli, è da sapere che sotto Gregorio X, al
principiare della funzione, si trovò un pellegrino di più. Era un Angelo viaggiatore, che fattisi lavare i piedi, pranzò
coi compagni di carne e d’ossa e poi andò pel suo viaggio.
1154. L’ova e ’r zalame
A oggni pasqua che vviè,
1
ppropio st’usanza
pare, che sso... cche mm’arieschi
2
nova.
Non ze fa ccolazzione e nnun ze pranza
si mmanca er piatto de salame e dd’ova.
Mica parlo per odio a sta pietanza,
ché, ssi
3
vvolete, un gusto sce se
4
prova;
e, cquanno nun fuss’antro,
5
la freganza
6
c’un zalame pò ddà, ddove se trova?
Io dico de l’usanza der custume
de mannà ssempr’a ccoppia ov’e ssalame:
questo è cch’io scerco chi mme dassi
7
un lume.
Uhm, quarche giro sc’è:
8
ssi nnò
9
ste Dame
l’averebbeno ggià mmannat’
10
in fume
11
mentre a l’incontro n’hanno sempre fame.
4 aprile 1834
1
Viene.
2
Mi riesca.
3
Se.
4
Ci si.
5
Quando non fosse altro.
6
Fragranza.
7
Costruzione: Di questo cerco chi mi dasse, ecc.
8
Qualche intrigo c’è.
9
Se no: altrimenti.
10
L’avrebbero già mandato, ecc.
11
Fumo.
1155. L’illuminazzion de la cuppola
Tutti li forestieri, oggni nazzione
de qualunque paese che sse sia,
dicheno tutti-quanti: «A ccasa mia
sce se fa ggran bellissime funzione».
E nun dico che ddichino bbuscía:
forzi,
1
chi ppiú, chi mmeno, hanno raggione.
Ma cchiunque viè a Rroma, in cuncrusione,
mette la coda fra le gamme, e vvia.
Chi
2
ppopolo pò èsse,
3
e cchi ssovrano,
che cciàbbi
4
a ccasa sua ’na cuppoletta
com’er nostro San Pietr’in Vaticano?
In qual antra scittà, in qual antro stato
c’è st’illuminazzione bbenedetta,
che tt’intontissce
5
e tte fa pperde
6
er fiato?
4 aprile 1834
1
Forse.
2
Quale.
3
Puo essere.
4
Ci abbia.
5
Ti instupidisce.
6
Ti fa perdere.
1156. La ggirànnola der 34
1
Ce fussi
2
a la ggirànnola jjerzera?
Ma eh? cche ffuntanoni! eh? cche scappate!
quante bbattajjerie!
3
che ccannonate!
cristo, er monno de razzi che nun c’era!
E la vedessi
4
quela lusce nera
c’ussciva da le fiamme illuminate?
Nun paréveno furie scatenate
che vvienissin’
5
a ffà nnas’e pprimiera?
6
E ll’Angelo
7
che stava in de l’interno
de quer fume co ttutto er zu’ palosso,
8
nun pareva un demonio de l’inferno?
E ’r foco bbianco? e ’r foco verde? e ’r rosso?
Disce
9
che inzino a cquelli der Governo
je parze
10
avé sti tre ccolori addosso!
11
4 aprile 1834
1
La girandola fu incendiata la sera di lunedi 31 marzo 1834, seconda festa di Pasqua, al cospetto delle LL. MM. del
Regno delle due Sicilie.
2
Ci fosti.
3
Le batterie sono qui dette dal popolo battaglierie.
4
Vedesti.
5
Venissero.
6
Giuoco
di carte, che si eseguisce in molti con gara di scommesse.
7
La statua di S. Michele Arcangiolo. Vedine il Sonetto...
8
Spada.
9
Dicono.
10
Parve.
11
Pretendono alcuni male informati che il Governo in quell’adunataccia di popolo
sospettasse di alcun fastidio politico.
1157. Li fochetti
1
Ner Musoleo d’Ugusto
2
de Corea
3
sce se
4
fanno fochetti tanti bbelli
5
co razzi, co ffuntane e cco ggirelli,
che cchi nun vede nun pò avenne
6
idea.
Bboccetto
7
mio, bbisoggna vede quelli
che ccosa
8
co la porvere
9
se crea.
Antro
10
ch’er foco tuo de la Chinea
11
ch’era robba da fà rride
12
l’uscelli.
13
Sapete si cch’edè,
14
ssor brutto mostro?
Voantri
15
vecchi avete sempre in bocca
le maravijje der tempaccio vostro.
Ma mmó vve tocca d’abbozzà,
16
vve tocca;
e cquelle maravijje ar tempo nostro
le mettémo a ccovà sott’a la bbiocca.
4 aprile 1834
1
Fuochi d’artifizio che s’incendiano nell’anfiteatro fabbricato sulle sostruzioni del Mausoleo di Augusto, ed è il
divertimento delle domeniche estive.
2
Augusto.
3
Nome della famiglia, alla quale appartennero l’anfiteatro e l’annesso
palazzo.
4
Ci si.
5
Tanto belli.
6
Averne.
7
Vecchietto.
8
Prima di queste due parole, sottintendi: per conoscere; sintassi
frequentissima presso il popolo.
9
Polvere.
10
Altro.
11
Alla presentazione del tributo annuo a S. Pietro per l’investitura
del Regno di Napoli, il Contestabile Colonna faceva incendiare un fuoco innalzato su macchine, delle quali corrono
ancora disegni. Oggi però che il Re delle Due Sicilie si è cambiato in Re del Regno delle Due Sicilie, il fuoco si è
estinto, ed il Papa protesta chiamando però nelle carte pubbliche i monarchi siculi col nuovo lor titolo. Della Chinea
vedi il Sonetto…
12
Ridere.
13
Uccelli.
14
Cosa è. Vedi il Sonetto…, nota…
15
Voi altri.
16
Abbozzare: abbassare il capo e
tacere.
1158. La lezzione de lo scortico
Mojje mia, le notizzie c’hai da prenne
1
quanno te manna Iddio quarche ppollastro
2
è dde sapé dda quelli der Catastro
cosa abbi ar zole,
3
e ssi sta bbene a ppenne.
Com’è ingroppato
4
e ttiè ccore de spenne,
5
tu sséggnelo addrittura ar libbro-mastro:
poi scappo fora io, e tte lo castro
sin c’abbi un vaso da potesse venne.
6
Sto latino er Marchese mi’ padrone
l’aripete oggni ggiorno a la Marchesa;
e le cose cammìneno bbenone.
E vvanno tutt’e ddua tanto d’intesa,
c’a un pollastro che cqui ffanno cappone
nun je rest’antro
7
che pportallo
8
in chiesa.
4 aprile 1834
1
Prendere.
2
Sempliciotto.
3
Cosa abbia al sole: cosa possegga.
4
Ben carico di averi.
5
Spendere.
6
Da potersi vendere.
7
Non gli resta altro.
8
Portarlo.
1159. L’impusturerie
Io l’ho inzurtato?!
1
io j’ho bbevuto er vino?!
io j’ho ddato er coggnome de caroggna?!
Pò pparlà Ffrancatrippa e Ffrittellino
si
2
st’impusturerie lui se l’inzoggna.
3
E llui vò ammazzà a mmé? propio la roggna
te j’ha ddato de vorta in ner boccino.
4
M’ammazzerà ssu la piazza dell’oggna
dov’ammazza li fii der re Ppipino.
5
Diteje ar zor abbate Tuttibbozzi
6
che sse tienghi la lingua tra li denti
e ste sciarle che cqui sse l’aringozzi.
7
Perché sse ponno dà ccert’accidenti
c’abbi trovo er zu’ bboja che lo strozzi
lui e le mmerde de li su’ parenti.
5 aprile 1834
1
Insultato.
2
Se.
3
Se le sogna.
4
Ti gli ha dato volta nel capo.
5
Pipino, capo della dinastia terza di Francia, appartiene
talora in Roma ad un’altra dinastia entomologica, che riconosce per capo e per capitale la testa dell’uomo. In breve
Pipino è un pidocchio bell’e buono; e per ciò dice il nostro romanesco essere di lui figli ammazzati sulla piazza
dell’unghia. E a Roma, ne’ luoghi assolatíi, se ne fa orrida strage.
6
Il soprannome di Tuttibbozzi appartiene a chi sia di
struttura deforme e tutta a risalti, o a chi ne abbia toccate tante che ne mostri per la vita le protuberanze. Il sor abate è
una applicazione ironica del più bel distintivo del paese.
7
Se le ingozzi di nuovo.
1160. La donna fregàle
1
Io la matina stò ssempre a ddiggiuna:
sortanto pijjo ammalappena usscita
un par de bicchierini d’acquavita
lí accant’a l’Ostaria de la Furtuna.
Oh, ar piú, ssi
2
all’ostaria sc’è cquarchiduna
oppuro quarchiduno che mm’invita,
entro, e ppe nnun sgradí
3
bbevo du’ dita;
ma cch’io maggni, ah, nnu lo pò ddí ggnisuna.
Me predicava sempre mamma mia
che cquer cibbo ccusí a stommico vòto
pò ffà vviení una bbona ammalatia.
Oh a ppranzo sí, er mi’ piatto me lo voto
che cce pare passata la lesscía:
4
a ppranzo sò davero un terremoto.
5 aprile 1834
1
Frugale.
2
Se.
3
Disgradire.
4
Liscìa.
1161. La straportazzione
1
Ventiscinqu’anni fa, cche li Francesi
fesceno
2
la scalata a Ppapa Pio,
Tata
3
piaggneva perché Ttoto
4
e io,
siconno lui
5
nun ce n’erimo presi.
6
«Lo so», ddisceva lui, «che dda sei mesi
io nun ho ppane da dà ar zangue mio;
ma nun sta ppeggio quer zervo de Ddio
in man de quela razza de paesi?».
E cch’edèreno
7
poi sti patimenti?
Nun aveva er zu’ pranzo e la su’ scena,
servitori, carrozze e appartamenti?
Ce vorrebbe èsse io
8
ccusí strazziato,
da fà oggni ggiorno la trippaccia piena,
e la sera trovà ttutto pagato.
5 aprile 1834
1
Trasportazione.
2
Fecero.
3
Mio padre.
4
Antonio.
5
Secondo lui.
6
Non ce n’eravamo afflitti.
7
Che erano: cosa erano,
ecc. Vedi la nota del Sonetto...
8
Ci vorrei essere io.
1162. Er governo de li ggiacubbini
Iddio ne guardi, Iddio ne guardi, Checca,
toccassi
1
a ccommannà a li ggiacubbini:
vederessi
2
una razza d’assassini
peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe aringrassasse
3
la panzaccia secca
assetata e affamata de quadrini,
vederessi mannà cco li facchini
li càlisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta manica de ladri
raschià ddrent’a le cchiese der Ziggnore
l’oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi strappà ssenza rosore
4
li fijji da le bbraccia de li padri,
che ssaría mejjo de strappajje er core.
5 aprile 1834
1
Toccasse.
2
Vedresti.
3
Ringrassarsi.
4
Rossore.
1163. Le scramazzione
1
de li ggiacubbini
Nun ze sent’antro
2
da li ggiacubbini
(che o rromani de Roma, o fforestieri,
tielli
3
tutti una macchia d’assassini,
carne da bboja e ggaleotti veri);
nun ze sente dí antro a sti paini
c’oggi li Papa sò ttiranni neri
che sse n’escheno for da li confini
cor gastigà inzinenta
4
li penzieri.
Si jje piasce l’ajjetto:
5
tanto bbene:
s’ha da puní inzinenta l’intenzione,
e accusí
6
nnun faranno tante sscene.
Un Papa è un visce-ddio; e dde raggione
ha da tené nne l’accordà le pene
tutte quante l’usanze der padrone.
6 aprile 1834
1
Le esclamazioni.
2
Non si sente altro.
3
Tienli.
4
Insino.
5
Se gli piace l’aglietto (Gli sta per «loro»). Questa è una frase,
a cui difficilmente potrebbe trovarsene una equivalente. Le si è perciò posta appresso l’altra tanto bene, che ne rende
il senso meglio di ogni altra.
6
Così.
1164. Li Vicarj
Cqua cc’è un vicario de Ddio nipotente:
1
c’è un Vicario,
2
vicario der vicario:
e pper urtimo c’è un Vicereggente
3
vicario der vicario der vicario.
Ste distinzione cqui ttiettel’a mmente
pe nnun sbajjà vvicario co vvicario:
ché una cosa è vvicario solamente,
antra cosa è vvicario de vicario.
Ccusí er primo commanna sur ziconno,
4
er ziconno sur terzo, e ttutti poi
commanneno su ttutto er Mappamonno.
Tira adesso le somme come vòi,
smovi er pancotto, e ttroverai ner fonno
che cchi ubbidissce semo sempre noi.
6 aprile 1834
1
Onnipotente.
2
Il Cardinal Vicario.
3
Monsignor Vicegerente.
4
Secondo.
1165. La risposta de Monziggnore
Io je disse
1
accusí: «Ccellenza mia,
2
ito a cchiede
3
pane a ttanta ggente,
che, ccreda in Gesucristo, propiamente
sò ar punto de cascà in ne l’angonia».
4
E llui, quel’animaccia de Turchia,
sai cosa fesce pe nnun damme
5
ggnente?
Pijjò, ccane, er bellissimo spediente
de fàcce
6
l’inquietato e curre
7
via.
Eh, Cchecco mio? te la saressi cresa
8
una bbarbaria uguale de sta sorte?
Da un Prelato! A la porta d’una Cchiesa!
Semo arrivati a un tempo, che la Corte
der Vicario de Ddio se chiama offesa
dar libberà un fratello da la morte!
6 aprile 1834
1
Dissi.
2
Sono.
3
Chiedere.
4
Agonia.
5
Darmi.
6
Farci.
7
Correre.
8
Saresti creduta.
1166. La scéna
1
de Bbardassarre
Me maravijjo assai de Bbardassarre,
che vvedenno er manone affumicato
ciannò a cchiama
2
Danielle! un disperato
che ne sapeva men de Putifarre.
Fussi stat’io! in du’ parole marre
3
je l’averebbe
4
subbito spiegato.
Com’era scritto? Mane Tescer Fiarre?
Ce vvò ttanto? Domani t’essce er fiato.
Che! fforzi
5
è una bbuscía? ma ccatterina,
6
me pare ch’er zor re dde Bbabbilonia
nun arrivassi
7
manco a la matina.
Un profeta ha d’annà ssubbito ar quonia,
8
e nnò mméttese
9
a ffà ’na sciarlatina,
che ppo’ ar fin de li conti è una fandonia.
10
6 aprile 1834
1
Cena.
2
Ci andò a chiamare.
3
Le parole marre, il parlar marro è il volgare della plebe.
4
Glielo avrei.
5
Forse.
6
Esclamazione. Cattera, catterina! Deriva dal desiderio di dire una sozza parola che principia per Ca..., e insieme dalla
pudicizia che vuol farla abortire.
7
Non arrivasse.
8
Al quoniam: alla conclusione.
9
Mettersi.
10
Fanfaluca.
1167. ’Na resìa
1
bbell’e bbona
Quarche vvorta la ggente de talento
spaccia cojjonerie ccusí llampante,
mastro Pio mio, che nnoi ggente iggnorante
manco nu le diressimo
2
a le scento.
3
Nun piú cche jjeri a la Rescèli,
4
drento
la portaría, fra Ccommido
5
er cercante
ne seppe tirà ggiú ttant’e ppoi tante,
da fà scannalizzà ttutt’er convento.
Tra ll’antre fotte
6
aggnede
7
a ddicce,
8
aggnede,
che sta canajja che nun crede in Dio
è un’Apostola
9
vera de la fede.
Dunque chi ha ffatto er Credo, mastro Pio,
sarà adesso quer ch’è cchi nun ce crede!
Poterebbe parlà ppeggio un giudìo?
6 aprile 1834
1
Una eresia.
2
Diremmo.
3
Cento.
4
Ara-coeli: chiesa e convento di zoccolanti.
5
Fra Comodo.
6
Bestialità.
7
Andò.
8
Dirci.
9
Apostata.
1168. Er testamento der pasqualino
1
Torzetto l’ortolano a li Serpenti
2
prometteva oggni sempre ar zu’ curato
c’a la su’ morte j’avería lassato
cinquanta scudi e ccert’antri
3
ingredienti.
Quanto, un ber giorno, lui casc’ammalato
e ccurreveno ggià cquinisci
4
o vventi
tra pparenti e pparenti de parenti
a mmostrajje
5
un amore indemoniato.
6
Ecchete
7
che sse venne all’ojjo-santo;
e ’r curato je disse in ne l’ontallo:
8
«Ricordateve, fijjo, de quer tanto... »
Torzetto allora uprí ddu’ lanternoni,
9
e jj’arispose vispo com’un gallo:
«Oggne oggne,
10
e nnu mme roppe
11
li cojjoni».
6 aprile 1834
1
Pasqualino è chi si comunica la sola Pasqua.
2
Contrada di Roma nel Rione Monti.
3
Altri.
4
Quindici.
5
Mostrargli.
6
Ardentissimo.
7
Eccoti.
8
Nell’ontarlo: nell’ugnerlo.
9
Lanternoni, per «occhi spalancati».
10
Ungi, ungi.
11
Non mi
rompere.
1169. L’amico de Muccio
1
Eh, Mmuccio mio, si
2
nun ce provi mai,
come vòi fà ffurtuna in ne l’amore?
Te l’ha da chiede
3
lei?! Tu ffàtte
4
core,
pròvesce
5
co ffranchezza, e vvederai.
Ecco, Muccio, er conzijjo ppiú mmijjore
che tte pò ddà un amico che ttu hai.
Pròvesce: e cche ssarà? Ggià ttu lo sai
che ffra Mmodesto nun fu mmai priore.
6
Queste sò
7
ccose che cce vò ttalento.
In ste sorte d’affari èssi
8
contrito
che tutto nassce da capí er momento.
La donna? Un zartarello,
9
una bbevuta,
un crapiccio, una stizza cor marito,
pìjjel’allora, e tte la do ffuttuta.
6 aprile 1834
1
Giacomuccio.
2
Se.
3
Chiedere.
4
Fàtti.
5
Provaci.
6
Proverbio.
7
Sono.
9
Sii.
10
Saltarello: cognitissimo ballo romano, che
riscalda assai.
1170. Li du’ ggener’umani
Noi, se sa,
1
ar Monno
2
semo ussciti fori
impastati de mmerda e dde monnezza.
3
Er merito, er decoro e la grannezza
sò ttutta marcanzia
4
de li Siggnori.
A su’ Eccellenza, a ssu’ Maestà, a ssu’ Artezza
fumi, patacche, titoli e sprennori;
e a nnoantri
5
artiggiani e sservitori
er bastone, l’imbasto e la capezza.
Cristo creò le case e li palazzi
p’er prencipe, er marchese e ’r cavajjere,
e la terra pe nnoi facce de cazzi.
E cquanno morze
6
in crosce, ebbe er penziere
de sparge,
7
bbontà ssua, fra ttanti strazzi,
8
pe cquelli er zangue e ppe nnoantri
5
er ziere.
9
7 aprile 1834
1
Si sa.
2
Mondo.
3
Immondezza.
4
Mercanzia.
5
Noi altri.
6
Morì.
7
Spargere.
8
Strazi.
9
Siero.
1171. Er Maestro de l’urione
1
Dimme
2
cojjone a mmannà
3
ppiú Ffilisce
4
da quer zomaro llà dde don Nicola,
che mme l’ha ffatto addiventà un’alisce,
5
e intanto m’arimane una bbestiola.
V’abbasti mó sta bbuggiarata sola
der zor maestro, che mmi’ fijjo disce
che ccert’antri
6
regazzi de la scòla
lui l’ha mmessi a studià ssu le radisce.
7
Ma cche ddiavolo, cristo!, sce s’impara
da ’na radisce, o rrossa, o nnera, o bbianca?
che ppizzica e ffa ffà
8
la pisscia chiara.
Io me fo mmaravijja der Zovrano,
che mmanna
9
a ffà la scòla un faccia-franca
nat’e ccreato pe mmorí ortolano.
7 aprile 1834
1
Rione. Ogni rione ha il suo maestro regionario, nominato dal Governo.
2
Dimmi.
3
Mandare.
4
Felice.
5
Me lo ha
consumato.
6
Altri.
7
Radici. Vedi la nota al Sonetto... (Circa alla desinenza del plurale).
8
Fa fare.
9
Manda.
1172. La lezzione der padroncino
Mó hanno messo er piú fijjo granniscello
1
a la lingua itajjana. Oh ddi’, Bbastiano,
si
2
nun ze chiama avé pperzo er cervello
d’imparà l’itajjano a un itajjano.
Lo sento sempre co un libbraccio in mano
dí: er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,
der zovrano, er zovrano, dar zovrano:
e ’ggnisempre
3
sta storia, poverello!
Sarà una bella cosa, e cquer che vvòi;
ma a mmé me pare a mmé cche ste parole
sò cquell’istesse che ddiscémo
4
noi.
Si ffussino indiffiscile
5
uguarmente
come che ll’antri
6
studi de le scòle,
io nu ne capirebbe
7
un accidente.
8
8 aprile 1834
1
Il figlio più grandicello.
2
Se.
3
Ogni sempre: sempre.
4
Diciamo.
5
Se fossero difficili. E qui notisi che nomi femminili
che nel singolare escono in e, ritengono la medesima desinenza nel plurale, quasi che la naturale ideologia de’
Romaneschi temesse di cambiar sesso alle cose, dove accettasse la desinenza in i.
6
Gli altri.
7
Capirei.
8
Un accidente:
equivale a «nulla».
1173. Li quadri de pittura
Dunque, pe ddíttela
1
a l’usanza nova,
all’unnisci
2
3
ito cor padrone
a vvéde
4
addietr’a llui l’asposizzione
de li quadri a lo studio de Canova.
5
Crédeme,
6
Scricchio mio, che cce se trova
robba da fà vviení le convurzione.
Ma er piú cche mm’è ppiasciuto era un Cristone,
che ppoterebbe empí ttutta st’arcova.
Disce c’arippresenta un mezzo bbusto
che l’ha ddipinto tutto cor pennello
un regazzotto che sse chiama Ugusto.
7
Er padrone scramava: oh bbravo! oh bbello!
E io te ggiuro che cciò
8
avuto un gusto
piú cc’avessi aritrovo
9
mi’ fratello.
8 aprile 1834
1
Per dirtela.
2
Alle undici.
3
Sono.
4
Vedere.
5
Nello studio dell’immortale Canova si espongono adesso annualmente
lavori d’arte da una società che tiene sempre un fondo per comperarne i più belli.
6
Credimi.
7
Il signor Augusto Pratti,
il cui valore nella pittura eccede di molto il potere dell’età.
8
Ci ho.
9
Ritrovato.
1174. Li nuvoli
Stateme bben’attente, che vve vojjo
spiegà cche ssò
1
li nuvoli, sorelle.
Sò ttante pelle
2
gonfie, ugual’a cquelle
che cqui a Rripetta
3
sce se
4
mette l’ojjo.
5
Me sò ffatto capí? Ddunque ste pelle
s’empieno d’acqua e de tutto l’imbrojjo
de grandine e dde neve. Oh, mmó vve ssciojjo
6
er come Iddio pò ffà ppe sostenelle.
Iddio manna
7
li spiriti folletti,
8
che soffiannoje sotto co la bbocca,
li vanno a ssollevà ssopr’a li tetti.
Si in questo
9
quarche nnuvolo se tocca,
sce se fanno cqua e llà ttanti bbuscetti,
10
e allora piove ggiú, ggrandina e ffiocca.
8 aprile 1834
1
Che sono, cosa sono.
2
Pelli.
3
Ripetta: il minore de’ due porti del Tevere in Roma.
4
Ci si.
5
Da oglio, corruzione di
olio.
6
Vi sciolgo: vi dichiaro.
7
Manda.
8
Niun credente ignora di quanta moltitudine di folletti sia l’atmosfera rimasta
popolata sin dalla famosa caduta degli angioli ribelli, anteriore alla fondazione del mondo.
9
Se in questo momento,
ecc.
10
Buchetti.
1175. Io
E io? Nun t’aricordi che rrisposta
che jje seppe
1
fà io? Sí ttu, ma io
j’aridisse tratanto er fatto mio,
come fussi una lettra de la posta.
Bbe’, arrotavi:
2
ma ccorpo d’un giudio;
nu la fesce po’ io la faccia tosta?
3
Chi jje lo diede er puggno in d’una costa?
nu je lo diede io, sangue de ddio?
Ah, ttu ssolo nun sformi?
4
e fforz’
5
io sformo?
E ssi
6
ttu nner giucà stai a la lerta,
7
io me pozzo
8
avvantà
9
che mmanch’io dormo.
Io so cche ïo co sta manina uperta
io pijjo er deto
10
che mme pare, e ll’ormo
11
io nu lo tiengo mai pe ccosa scerta.
8 aprile 1834
1
Seppi.
2
Arruotare: fremere.
3
Far la faccia tosta: metter giù i riguardi.
4
Sformare: prorompere in isdegno.
5
Forse.
6
Se.
7
All’erta.
8
Posso.
9
Vantare.
10
Prendere il dito: indovinare il punto al giuoco della morra.
11
Tener l’olmo, è al
gioco delle passatèlle «esser condannato a non bere mai».
1176. Er madrimonio de Scefoletto
Ha ppreso mojje, sí, una bbella donna!
nò storta, ggnente guercia, ggnente gobba...
propio, in cusscenza mia, ’na bbona robba,
un fioretto in zur fà
1
dde la Ghironna.
2
È cquella che nun maggna antro che bbobba
3
perch’ha ddato li denti a la Madonna:
quella che nnoi chiamàmio
4
a la Rotonna,
5
pe li cancheri sui, la ggnora Ggiobba.
Quella in perzona: quella in carn’e in ossa.
E vve pare mó a vvoi che Ccefoletto
nun abbi trovo una furtuna grossa?
Oggnuno ar monno tiè li fini sui:
e llui tiè cquello de godesse a letto
un fraggello che ssii tutto pe llui.
8 aprile 1834
1
In sul fare.
2
La Ghironda era una schifenzuola di vecchietta, cosí soprannomata dal popolaccio, che per le vie di
Roma ne menava strazio, al che dava anche incentivo il carattere di lei burbanzosetto e riottoso.
3
«Bobba», minestra,
per lo più di pane con miscuglio di altre sostanze, come suole essere dispensata a’ poveri alle porta de’ conventi, dopo
la santa ora del refettorio.
4
Chiamavamo.
5
Alla Rotonda: sulla Piazza del Pantheon, rinomata per frequenza di
vassallotti, chiamati panze-nere, ed anche canonici della Rotonda.
1177. Lo straporto der burrò
1
Com’è? ddite davero, o ccojjonate?
2
Sete annata
3
de casa a li Leutari?!
4
Nun tienete ppiú ll’antra
5
a li Ssediari
che
6
vve pagava la piggione er frate?!
Nun abbitate piú ccome st’istate
7
in quelli stanziolini tanti cari,
dove fascévio
8
tanti bboni affari
a un testone
9
pe vvisita e sscialate?
Prima credo però dd’èsseven’
10
ita,
da st’antra donna che cc’è entrata adesso
ve siate fatta dà lla bbon’usscita.
11
Perché, a ddí poco, ar meno un zei pe ccento
voi ve lo meritate, sora Ghita,
12
a ttitolo de posto e d’avviamento.
8 aprile 1834
1
Prima la voce burò non indicava altro a Roma, se non che un mobile da riporre panni, detto anche comò, canterano,
un’arca insomma. Ed abbiamo anzi due stradelline chiamate burò, appunto per la bizzarra forma delle case fra le
quali sono aperte, case foggiate a modo di armadi centinati per fare fronte e ornamento alla chiesa gesuitica di S.
Ignazio. Dalla venuta poi de’ Francesi è restata la parola burò nel senso proprio di uficio, tale quale suona il loro
bureau.
2
Scherzate?
3
Siete andata.
4
I liutari, contrada romana.
5
L’altra.
6
Di cui.
7
Estate.
8
Facevate.
9
Moneta di tre
paoli.
10
Esservene.
11
Dare il buon uscito, o il ben uscito: pagare un inquilino perché ceda il fondo del suo affitto.
12
Signora Margherita.
1178. La lègge
1
La lègge a Rroma sc’è,
2
ssori stivali:
io nun ho ddetto mai che nun ce sia:
ché er Governo ha ttrescent’una scanzia
tutte zeppe de bbanni-ggenerali.
3
E mmanco vederete caristia
d’abbati, monziggnori e ccardinali
giudisci de li sagri
4
tribbunali,
da impiccavve
5
sur detto d’una spia.
La mi’ proposizzione è stata questa,
c’un ladro che ttiè a mmezzo chi ccommanna
e ccià
6
donne che ss’arzino la vesta,
rubbassi
7
er palazzon de Propaganda,
8
troverete er cazzaccio
9
che l’arresta,
ma nun trovate mai chi lo condanna.
8 aprile 1834
1
Pronunziata colla e larga, come leggo da leggere.
2
Ci è: c’è.
3
Co’ bandi-generali, leggi effimere e di circostanza,
consistenti in una farragine di fogli affissi in varii secoli e sotto varii costumi, si è sino ad ora giudicato in materia
criminale. L’arbitrio vi si trovava come nel suo proprio regno. Oggi però è stato pubblicato un cosí-detto Codice
criminale, i di cui beneficii si potranno riconoscere dal tempo e dalle correzioni.
4
Qui tutto è sagro, anche il tribunale
che condanna a morte.
5
Impiccarvi.
6
Ci ha, per semplicemente «ha».
7
Se rubasse anche.
8
La decana delle Propagande
europee.
9
Lo stolido, il semplice.
1179. La ggiustizzia ingiusta
Nonziggnora: sta vorta,
1
sora Nina,
2
fate quivico
3
voi. Sentite er fatto,
e vvederete poi ch’è un cazzo-matto
che mmerita d’annà a la Palazzina.
4
La cosa sta accusí: jjer’a mmatina
monziggnore me fesce ammazzà er gatto,
perch’era ladro, e annava quatto quatto
a rrubbajje la carne de cuscina.
Nu lo sapeva lui ch’er gatto mio
pativa de quer debbole, com’hanno
tutti li gatti c’ha ccreat’Iddio?
Mentre de ladri cqua cce n’è un riduno
5
che rrubbeno quadrini tutto l’anno,
e nnun je disce mai ggnente ggnisuno.
8 aprile 1834
1
Questa volta.
2
Signora Caterina.
3
Equivoco.
4
Lo spedale, o, meglio, la carcere de’ pazzi.
5
Radunamento.
1180. Er leggno privileggiato
1
Largo, sor militare cacarella:
2
uprimo
3
er passo, aló,
4
ssor tajja-calli:
ché sti nostri colori ner’e ggialli
nun conoschen’un cazzo
5
sentinella.
Sò Ccasa-d’Austria,
6
sò, ddio serenella!
7
Dich’e abbadat’a vvoi,
8
bbrutti vassalli,
perch’io co sta carrozza e sti cavalli
pozzo entrà, ccasomai, puro in Cappella.
9
E ddoman’a mmatina, sor dottore,
ciariparlamo
10
poi co Ssu’ Eccellenza
davant’a Monziggnor Governatore.
Guardate llí ssi
11
cche cquajja-lommarda
12
da soverchià er cucchier
13
d’una Potenza,
e nun portà rrispetto a la cuccarda!
14
9 aprile 1834
1
I cocchi degli ambasciadori, ed alcuni altri, godono a Roma il privilegio di passare in ogni momento e per ogni verso
dove tutti gli altri debbono osservare delle regole.
2
Nome di sprezzo, per dare ad alcuno del fanciullo.
3
Apriamo.
4
Voce storpiata dal francese allons, che udivasi in Roma anche prima della ultima invasione gallicana.
5
Non
conoscono affatto, ecc.
6
Sono casa-d’Austria. I cocchieri e servitori dei grandi si attribuiscono, senza complimenti, i
nomi de’ loro padroni: di che vedi il Sonetto... Siccome poi a Roma è uso di indicare i diversi diplomatici col nome
della potenza che rappresentano, dicendosi: Sono stato da Francia, c’era Russia; è venuto Austria, ecco il perché un
cocchiere può divenire addirittura Casa d’Austria.
7
Esclamazione.
8
E, dico, badate a voi.
9
S’intende la Cappella
papale.
10
Ci riparliamo.
11
Se.
12
Quaglia-lombarda: escremento umano.
13
Cocchiere.
14
Coccarda, o, come direbbe un
purista, nappa.
1181. Le catture
M’arrivò inzino a ddí
1
un cherubbiggnere
2
che mmó lloro
3
li ladri, anche a ttrovalli
4
magaraddio sull’atto der mestiere,
nun ze
5
danno ppiú ppena d’acchiappalli,
perch’er Governo se pijja er piascere,
carcerati che ssò,
6
dd’arilassalli;
7
e un ladro er giorn’appresso è un cavajjere,
che ffischia bbrigadieri e mmaresscialli.
Dimola
8
fra de noi, for de passione,
ner rissciojje
9
li ladri e ll’assassini
me pare ch’er Governo abbi raggione.
Li locali sò
10
ppochi e ppiccinini,
e ssenz’ariservà cquarche ppriggione
dov’ha da mette
11
poi li ggiacubbini?
9 aprile 1834
1
Sino a dire.
2
Carabiniere: milizia di polizia corrispondente ai Gendarmi.
3
Che ora eglino.
4
Trovarli.
5
Non si.
6
Sono.
7
Rilasciarli.
8
Diciamola.
9
Risciogliere.
10
Sono.
11
Mettere.
1182. Papa Sisto
Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Ddio, nun z’è mmai visto
un papa rugantino, un papa tosto,
1
un papa matto, uguale a Ppapa Sisto.
2
E nun zolo è dda dí cche ddassi er pisto
3
a cchiunqu’omo che jj’annava accosto,
ma nnu la perdonò nneppur’a Ccristo,
e nnemmanco lo roppe
4
d’anniscosto.
5
Aringrazziam’Iddio c’adesso er guasto
nun pò ssuccede
6
ppiù cche vvienghi un fusto
7
d’arimette
8
la Cchiesa in quel’incrasto.
9
Perché nun ce pò èsse
10
tanto presto
un antro
11
papa che jje pijji
12
er gusto
de méttese
13
pe nnome Sisto Sesto.
9 aprile 1834
1
Tosto, per «duro, bravaccio».
2
Per Papa Sisto assolutamente, s’intende sempre «Sisto Quinto».
3
E non solamente è
da dire che dasse il «pisto». Dare il pisto: farne toccare ad alcuno.
4
Ruppe.
5
Di nascosto.
6
Non può succedere.
7
Che
venga un fusto: persona. Che bel fusto! che bel mobile! ecc.
8
Da rimettere.
9
Incastro.
10
Non ci si può essere.
11
Un
altro.
12
Che gli pigli: al quale prenda, ecc.
13
Di mettersi.
1183. La stampijja der Zantàro
1
Stammatina, a Ssampietro, a ssedisciora,
2
sc’è
3
nnata una bbellissima bbaruffa,
perché un zantaro strillava de fora:
«Scinque Santi a bbaiocco, e ’r Papa auffa».
4
Defatti,
5
cazzo, è una gran cosa bbuffa
quella che ss’abbi
6
da permette
7
ancora
una bbusciarderia che ssa dde muffa,
dove er Zovrano maggna e nnun lavora.
Va auffa er Papa? Auffa un par de palle.
So cch’er Concrave de Papa Grigorio
ce costò bbone bbajocchelle ggialle.
Pe cquesto la stampijja der zantaro
era un bravo limbello inframmatorio,
8
d’abbruscialla
9
pe mmano de notaro.
9 aprile 1834
1
La stampiglia del santaro.
2
A sedici ore.
3
Ci è: c’è.
4
A ufo: gratis. Vedi il Son…
5
Difatti.
6
Si abbia.
7
Permettere.
8
Libello infamatorio.
9
Da bruciarla.
1184. Le furtune
Ne l’usscí dda la cchiesa, appena ho ttocco
1
co sto piede una sojja de scalino
vedo un coso
2
che lluccica: m’inchino...,
e ssapete ch’edèra?
3
era un majocco.
4
Io, de raggione, nun fui tanto ggnocco
de lassallo
5
stà llí, nnò ssor Fillino?
Ma mmentre ero a rriccòjjelo,
6
un paíno
7
disse: «Furtuna e ddorme»:
8
e entrò a Ssarrocco.
9
Furtuna e ddorme! io fesce:
10
eh nnun c’è mmale.
La furtuna l’ho pprova,
11
e ssarà mmejjo
che mmó pprovi er dormí cqui ppe le scale.
Oh azzeccàtesce
12
un po’ cche cc’è de bbello
de sta furtuna mia? che mm’arisvejjo,
e mm’aritrovo llí ssenza cappello.
9 aprile 1834
1
Toccato.
2
Il coso e la cosa sono comodissimi nomi di disimpegno che si dànno a tutti gli oggetti.
3
Che era, cos’era.
Le voci è ed era, se vanno precedute da una che nel senso di cosa, si cambiano nella bocca del Romanesco in edè ed
edèra.
4
Baiocco.
5
Lasciarlo.
6
Raccoglierlo.
7
Le persone ben vestite son tutte paìni e paìne.
8
Fortuna e dormi:
proverbio.
9
San Rocco.
10
Dissi.
11
Provata.
12
Indovinateci.
1185. La fatica
Nun te senti a ssonà cche st’angonia
1
da l’abbati cor furmin’a ttre ppizzi:
2
«Fijji, trovate a ffaticà, ppe vvia
3
che ll’ozzio è ’r padre de tutti li vizzi.
Loro
4
penzino a ssé: ppe pparte mia
io l’aringrazzio de sti bboni uffizzi.
Io er giorno accatto,
5
e ppo’ a la vemmaria
pe ddormí, a Rroma, sce sò bboni ospizzi.
6
Jeri anzi un prete ch’è ssempr’imbriaco
7
me fesce:
8
«Ar manco,
9
fijjo mio, lavora
pe ammazzà er tempo». Ma io me ne caco.
E jj’arispose:
10
«Sor don Fabbio Sponga
11
ammazzatelo voi, perch’io finora
vojjo la vita che mme pari
12
longa».
9 aprile 1834
1
Agonia. «Non ti senti che a ripetere questo mal suono», ecc.
2
Fulmine a tre pizzi: il cappello triangolare de’ preti.
3
Poiché.
4
Eglino.
5
Accattare, per semplicemente questuare.
6
Ci sono buoni ospizi. V’è quella fondato dalla matrona
romana S. Galla, della famiglia degli Odescalchi, il nome della qual santa difficilmente giungerà a farsi assumere da
alcun’altra matrona. Galla qui equivalendo a «civetta, pettegola».
7
Ubbriaco.
8
Mi disse.
9
Almeno.
10
Gli risposi.
11
Sponga (spugna): colui che succia assai vino; ubbriacone.
12
Mi paia.
1186. La fijja dormijjona
Alegría, sú
1
cch’è ttardi: animo, fora.
T’arincressce d’arzatte
2
eh? tt’arincressce?
Vojjo propio vedé ssi tt’ariessce
de stà a lletto inzinent
3
a vventun’ora.
Nun zei tu er gruggno de fà la siggnora
chi ddorme, bbella mia, nnun pijja pessce.
4
Portronaccia, essce
5
da quer letto essce:
di’ l’orazzione,
6
vèstete,
7
e llavora.
Guardate llí! nnemmanco la vergoggna!
stà
8
a ccovà tuttaquanta la matina,
senz’arifrette
9
a cquer che ciabbisoggna.
10
Ma attacchetel’ar deto,
11
Caterina;
ché ssi cce
12
provi ppiú, bbrutta caroggna,
te fotto
13
a ppan’e acqua ggiú in cantina.
9 aprile 1834
1
Sveltezza, su!
2
Alzarti.
3
Insino.
4
Proverbio.
5
Esci.
6
Orazioni.
7
Vèstiti.
8
Stare.
9
Riflettere.
10
Ci bisogna: a quel che
bisogna.
11
Attàccatela al dito, vale: «sia questa l’ultima».
12
Ché se ci.
13
Ti caccio, ecc. È una delle consuete minacce
delle buone madri alle loro cattive figliuole, che vogliono bene educare.
1187. Er Castoro
L’animali lí ssotto a cquer tettino
immezz’a la piazzett’a Mmonte-d’oro
1
fasceveno vedé ppuro
2
er castoro,
che cce se fa
3
ccor pelo er castorino.
4
E ddisceva un custode cchiacchierino
che st’animali in ner paese loro
frabbicheno le case co un lavoro
che mmanco l’archidetto Bborronino.
5
Dunque, siconno lui,
6
bbestie e archidetti
mo ssò
7
ttutt’uno, e cchi vvò ffà un palazzo
bbasta che cchiami un par d’animaletti.
Discessi
8
muratori, via, magara,
9
je lo perdonería:
10
quantunque, cazzo,
chi jje stampa lo schifo e la cucchiara?
10 aprile 1834
1
Sulla Piazza di Monte-d’oro, si mostrava di recente un serraglio di bestie.
2
Pure.
3
Di cui si fa.
4
Nome di un
cognitissimo panno di lana.
5
Borromino.
6
Secondo.
7
Sono.
8
Dicesse.
9
Magari.
10
Perdonerei.
1188. Li vini d’una vorta
A ttempi ch’ero regazzotto, allora
ereno l’anni de ruzzà ccor vino:
ché sse fasceva er còttimo, ar Grottino,
1
de bbeve
2
a ssette e a ssei cuadrini l’ora.
E mm’aricorderò ssempr’a Mmarino,
3
indove tutti l’anni annàmio
4
fora
d’ottobre a vvilleggià cco la Siggnora,
5
e cce stàmio
6
inzinent’
7
a Ssammartino.
Llí nnun c’ereno vini misturati
co cciammelle de sorfo,
8
e cquadrinacci,
9
e mmunizzione,
10
e ttant’arti
11
peccati.
Bevevio
12
un quartarolo,
13
e ddiscevio:
14
essci:
e er vino essciva: e vvoi, bbon prò vve facci,
15
’na pissciata, e ssinceri com’e ppessci.
10 aprile 1834
1
Nome di celebre bettola.
2
Di bere.
3
Castello distante undici miglia da Roma, rinomato pe’ vini, dando ancora
l’aleatico del gusto di quel di Firenze.
4
Andavamo.
5
Cioè «la padrona».
6
Stavamo.
7
Insino, sino.
8
Chiamasi far la
ciambella al vino una certa cura che gli si pratica con lo zolfo.
9
Quattrinacci: moneta di rame. Gli osti infondono del
rame nel vino per fargli acquistare un gusto forte e piccante.
10
Munizione da fucile. Il piomba al vino un sapor
dolce.
11
Altri.
12
Bevevate.
13
Misura di capacità della quarta parte di un barile.
14
Dicevate.
15
Buon pro vi faccia.
1189. Li tempi diverzi
Nò, Zzinforiano mio, nun è ll’istesso.
Er vive
1
allora sarà stato bbello;
ma a sti tempi che cqui nnun è ppiú cquello,
una vorta c’arriveno a st’accesso.
2
Eh Zzinforiano, un pover’omo adesso
è l’affare medemo
3
d’un aggnello
tra le granfie
4
der lupo: e ppe un capello
5
v’attarfieno
6
e vv’ammolleno
7
un proscesso.
Er pane, è ccaro: er vino, un tant’a ggoccia:
la carne, Iddio ne guardi! e le gabbelle
ve tiengheno
8
pulita la saccoccia.
Co sto bber
9
governà dde nova stampa
che ne vonno de noi sino la pelle,
è un miracolo cqua ccome se campa.
10 aprile 1834
1
Il vivere.
2
Eccesso.
3
È la cosa medesima.
4
Artigli.
5
Per un nonnulla.
6
Vi prendono.
7
Vi appiccano. Ammollare:
lasciar lento, lasciare andar giú.
8
Vi tengano.
9
Bel.
1190. Li teatri de primavera *
Li teatri de Roma sò ariuperti,
ciovè
1
la Valle
2
e ’r Teatrino Fiani.
3
In quanto a Ccassandrino
4
li Romani
dicheno a cchi cce va: «Llei se diverti».
5
Ma ppe la Valle state puro
6
scerti
7
che mmanco se farebbe a li villani.
Madonna, che ccantà! ccristo, che ccani!
8
peggio assai de li gatti de Libberti.
9
Disce: la terza sera nun fischiorno.
Chi aveva da fischià? li chiavettari?
Si
10
er teatro era vòto com’un corno!
Bbast’a ddí cch’er Governo ha ssopportate
quattro sere de rajji
11
de somari,
eppo’ ha ddetto a Ppaterni:
12
Oh ariserrate.
13
10 aprile 1834
* Appresso a questo sonetto va l’altro sonetto intitolato: «Angeletto de la Madalena».
1
Cioè.
2
Il teatro de’ signori Capranica, che prende il nome dalla sua vicinanza col palazzo della famiglia Della-Valle.
3
Teatrino di marionette nel Palazzo Ottoboni dei Duchi di Fiano.
4
Maschera romana delle marionette, di cui vedi il
Sonetto...
5
Ella si diverta.
6
Pure.
7
Certi.
8
Opera: L’Elixir d’Amore, dramma di Felice Romani, musica di Gaetano
Donizetti. Tutto bello. Virtuosi: signora Teresa Melas, prima donna; signor Domenico Furlani, primo tenore; signor
Pietro Gianni, primo basso; signor Antonio Desirò, primo buffo. Ed altri virtuosi inferiori!
9
Il teatro delle Dame, ossia
di Alibert. Per l’allusione, vedi il Sonetto...
10
Se.
11
Ragli.
12
Il signor Giovanni Paterni da Narni, benemerito
impresario.
13
Oh riserrate. Ciò veramente accadde il 9 aprile 1834, e ne fu avvertito il pubblico con apposito editto.
1191. Angeletto de la Madalena
1
Stante quer terremoto de ruvina,
ch’er popolo li poveri cantanti
un po’ ppiú ll’ammazzava tutti quanti
co l’impressario appresso e la Reggina,
2
er Governo ha mmannato
3
stammatina
li maestri Grazzioli e Ffioravanti
4
pe vvedé ssi ll’antr’
5
Opera cammina
e ssi er teatro pò ttirasse
6
avanti.
Stiino dunque contenti li romani,
ché cco ddu’ antri concertini soli
l’opera nova pò annà ssú ddomani.
St’antri cantanti poi, disce Grazzioli
che ssi nun zò addrittura cani cani,
manco sò rrosiggnoli rosiggnoli.
27 aprile 1834
Questo sonetto va appresso all’altro intitolato: «Li teatri de primavera ».
1
Primo chiavettaio e bagherino del teatro Valle.
2
Il popolo nella sera di cui parla il sonetto precedente era già così mal
disposto alla tolleranza, che essendosi dalla Deputazione degli spettacoli ritardato di mezz’ora il principiare
dell’Opera onde attendere l’arrivo della Regina Vedova di Napoli, che di que’ giorni era in Roma, questa al suo primo
apparire in teatro fu accolta con non equivoci segni di disgusto.
3
Mandato.
4
I due maestri di cappella veramente a ciò
deputati dal Governo.
5
Se l’altra, ecc.
6
Può andar.
1192. Er Corzo arifatto
Ggià cche ssemo cascati in sto discorzo,
chi dde li nostri vecchi s’aricorda
che ssii vienuta mai l’idea bbalorda
de scirconnà dde chiavichette er Corzo?
1
Tratanto, pe sto sfasscio, uno c’abborda
a le bbotteghe, ha da strillà ssoccorzo
s’un pontiscello ppiú stretto d’un torzo,
come che ffussi
2
un ballerin’in corda.
Nun c’era prima er chiavicon de Fiano?
nun c’era er chiavicon de l’Incurabbili,
e ’r chiavicon der Colleggio Romano?
3
Nun bastaveno ppiú ttre cchiaviconi,
bbellissimi, grannissimi e pparpabbili
peggio de tre ttrapassi de portoni?
11 aprile 1834
1
Si allude alla attuale nuova livellazione della Via del Corso, fiancheggiata di due uniformi marciapiedi a gradino,
lungo i quali ricorrono a brevissime distanze due linee di bocchette destinate a ricevere gli scoli della strada.
2
Come
se fosse, ecc.
3
Le due rimosse chiaviche, una incontro al Palazzo Ottoboni de’ Duchi di Fiano e l’altra presso la
principale entrata dell’Ospedale di S. Giacomo, de’ così detti Incurabili, e la terza conservata ad un angolo della
Fabbrica del Collegio-Romano, contigua al Corso verso la Ripresa de’ Barberi. In queste tre sole chiaviche si
scaricavano prima torrenti che lungo il Corso scorrevano in tempo di pioggia, e spesso cosí gonfi da impedirne
l’accesso.
1193. Lo stroligo
Va’ in d’una strada, indove sce se fa
cquarche gran scavo in de la terra, e ttu
vederai che ggnisuno sa ppassà
si nun z’affaccia e ssi nun guarda ggiú.
Che conziste
1
sta gran curiosità?
Nun è la terra ggiú ccome che ssú?
Cosa spera la ggente in quer guardà?
che sse scopri
2
er burrò dde Bberzebbú?
Ma cquest’è ’r peggio ch’io nun zo ccapí,
che ssibbè
3
nnun c’è un cazzo da vedé,
invetrischeno l’occhi, e stanno llí.
Er monno dunque è ppiú cojjon de mé
che mme ne sto su sta loggetta, e cqui
gguardo in celo le stelle e cquer che cc’è.
11 aprile 1834
1
In che consiste.
2
Si scopra.
3
Sebbene.
1194. L’onore
Nun te pòi fà un’idea si cquanto, Rosa,
io rido a l’incontrà cquarche ccazzaccio,
che pportanno un ziggnore sott’ar braccio
je pare èsse lui puro quarche ccosa.
E nnun za cch’er ziggnore s’ariposa
sopr’a la vita sua com’uno straccio;
e ssi jje ficca llí cquer catenaccio,
è ppe la su’ portronaria fecciosa.
L’onori, chi li vò bben’acquistati,
se l’ha da fà da lui; e nnun bisoggna
gonfiasse
1
de st’onori appiccicati.
Ché l’onore nun è ccome la roggna
che ss’attacca ar toccà. Lli strufinati
nun ve dànno né onore né vvergoggna.
11 aprile 1834
1
Gonfiarsi
1195. La gratella der Confessionario
Un confessore vecchio e ttabbaccone,
che sse chiamava er padre Semmolella,
aveva fatto fà la su’ gratella
da oprí e cchiude siconno l’intenzione.
E cquanno capitava in confessione
’na pinitente ggiuvenotta e bbella,
l’upriva adasciadascio,
1
e intanto quella
fasceva l’atto suo de contrizzione.
Quer ch’imbrojjassi co ste donne er tristo
e ste donne imbrojjassino cor frate,
pe ddí la verità nnun z’è mmai visto.
Se sa ssolo che ddoppo confessate
annaveno a l’artare a ppijjà Ccristo
co le labbra e le guance stabbaccate.
11 aprile 1834
1
Adagio-adagio.
1196. L’iggnoranza de Mastr’Andrea
Quanto sete curiale
1
mastr’Andrea!
Ma ppropio ve dich’io cche mme n’avete.
2
Una scittà
3
che cce commanna
4
un Prete
pò cconfettà
5
la nazzionaccia ebbrea?
Nu lo sapete voi de cos’è rrea?
Nu ne sete ar currente, nu ne sete?
Si ccert’antichità nnu le sapete,
metteteve a sserví ll’abbate Fea.
6
Nun ve sovviè dd’un certo tar
7
Carvario,
e dde scert’antri
8
fatti c’aricconteno
9
li quinisci misteri der rosario?
Studiate, mastr’Andrea: fate da omo;
e imparerete che l’Ebbrei mó sconteno
quello c’aveva d’accadé pp’er pomo.
11 aprile 1834
1
Curioso: modo di scherzo.
2
Me ne avete, cioè dello stolido.
3
Città.
4
Che ci comanda: dove comanda.
5
Può blandire.
6
Presidente delle Antichità di Roma.
7
Tal.
8
Cert’altri.
9
Che raccontano.
1197. Lo sposalizzio de la Madonna
La santissima Vergin’Annunziata,
inteso c’averebbe partorito,
se diede moto de pij mmarito
pe ffà ar meno quer fijjo maritata.
E nun stiede
1
a bbadà ttanto ar partito,
perché ggià la panzetta era gonfiata:
ma a la prima occasione capitata
stese la mano, e ffu ttutto finito.
Su cquesto viè a cciarlà la ggente ssciocca.
Disce: «Poteva ar meno sposà cquello
che nun fascessi
2
bbava da la bbocca».
Nun dicheno
3
però cch’er vecchiarello
accant’a cquer pezzetto de pasciocca
j’arifiorí la punta ar bastoncello.
14 aprile 1834
1
E non istette.
2
Facesse.
3
Dicono.
1198. Le fijje ozziose
Ecchele!
1
sempre co le man’in mano!
Se le maggna l’accidia: le vedete?
Nun ze pò llavorà? ddunque leggete
quarche ccosa struttiva da cristiano.
Ciavéte tante favole! ciavete
l’istorie che vv’ha ddato don Ghitano
de le vergine doppie, che cquer prete
disce che ppropio è un libbro da Surtano.
2
Vergine doppie, sí: cche cc’è da ride?
vò ddí cch’è un libbro cc’ha ggran robba drento,
sore bbrutte crestose
3
cacanide.
4
Ma ggià, vvojantre
5
nun capite un zero.
Sbeffate tutto, sore teste ar vento,
e ste cose se troveno davero.
14 aprile 1834
1
Eccole.
2
Un libro prezioso.
3
Pettegolette.
4
Figlio caca-nido è l’ultimo nato. La nostra buona mamma ha qui tutte
figlie ultime.
5
Voi altre.
1199. La visita de la Sor’Anna
Sor’Anna! e cche mmiracoli? E cchi è stato
che vve scià
1
spinta? l’Angelo Custode?
Nun ze ne sa ppiú ppuzza!
2
Eh, ggià, bbeato
chi vve vede e ffilisce chi vve gode.
Guardela! mejj’assai de l’an passato.
Tutte le sciafrerie... tutte le mode...
Oh vvoi potete dí dd’avé ppescato
quela luscertoletta de du’ code.
3
Vecchia?! eh cche vecchia: vecchi sò li panni,
e nnò vvoi, che cchi ssa... cquarche bbamboccio
ggià a cquest’ora... Ch’edè?
4
vvoi scinquant’anni?!
Bbe’, e cquesto che vvor dí? vvò ddí cc’ar monno
ggià vv’è ariusscito de votà un cartoccio,
5
e mmó da bbravi pe vvotà er ziconno.
6
14 aprile 1834
1
Vi ci ha.
2
Non se ne sa più nuova.
3
È costante credenza del popolo che il possessore di una lucerta di due code
debba andar favorito da tutti i doni della sorte.
4
Cos’è?
5
Metafora tolta dalla numerazione delle monete, che soglionsi
dividere in cartocci di 50 per cadauno.
6
Secondo.
1200. Er Contino
Chi? er zor Contino? Chi? l’amico novo
de la padrona, ossia de li padroni?
È una bborza co ttanti de cojjoni
1
piena d’oro e dd’argento come un ovo.
Mica ggnente si è nnobbile!
2
Lu’ ha ttrovo
3
certe cartacce in certi credenzoni,
che ccanteno che vviè dda li bbaroni
effeccettera; e ggià cquesto l’ha pprovo.
4
Lui le lingue der monno? le sa ttutte.
Parlà dd’asscenza
5
a llui?! Sete imbriache?
V’arisponne inzinenta ar zorreutte.
Lui viaggi?! È stato all’Indie-pastinache,
ne la Rabbia-petrella
6
e in Galigutte,
7
a rrimette le corna a le lumache.
14 aprile 1834
1
Una borsa forte.
2
Capperi se è nobile!
3
Lui (egli) ha trovato.
4
L’ha provato.
5
Di scienza.
6
Nell’Arabia Petrea.
7
In
Calcutta.
1201. La caggnola de Lei
1
La mi’ padrona? eh! cchi nun j’arispetta
2
la su’ caggnola de razza martesa,
3
sia puro chi sse sia,
4
pò ffà la spesa
de quattro torce e dd’una cassa stretta.
Lei? la caggnola? ce va a la toletta,
se la tiè a lletto, se la porta in chiesa...
inzomma, via, chi incontra la Marchesa
è ccerto d’incontrà la caggnoletta.
Bbisogna vede
5
li bbasci, bbisoggna
sentí le parolette che jje disce:
e la ladra, e la bbirba, e la caroggna...
Dove se pò ttrovà un amore come
quel’amor che cce porta, sor Filisce,
a mmette
6
a una bbestiola er nostro nome?
14 aprile 1834
1
Lei, assolutamente, è la Padrona.
2
Non le rispetta.
3
Maltese.
4
Sia pure chi si voglia.
5
Vedere.
6
Mettere.
1202. Er Dottore somaro
Córpa
1
sua. E pperché llui nun ze
2
spiega?
Pe cche rraggione l’antra sittimana
rispose ar mi’ discorzo in lingu’indiana
quanno me venne a vvisità in bottega?
Dico: «Diteme un po’, ssor dottor Bréga,
pò ffà mmale er cenà, cco la terzana?».
Disce: «Abbasta sii robba tutta sana,
tu ppòi puro
3
scenà; cchi tte lo nega?».
Me maggnai dunque sano
4
un paggnottone
casareccio, un zalame, ’na gallina,
’na casciotta, un cocommero e un melone.
Lui, cazzo, aveva da parlà itajjano,
e rrisponneme
5
a mmé cquela matina:
maggna robba inzalubbra,
6
e vvàcce
7
piano.
15 aprile 1834
1
Colpa.
2
Si.
3
Pure.
4
La parola sano non può mai essere intesa dai Romaneschi che nel significato di «intiero».
5
Rispondermi.
6
Salubre.
7
Vàcci.
1203. Er bijjetto d’invito
C-a-cà, r-i-rí, ccarí, n-a-nà, ccarina,
v-e-vè, n-i-ní, vení t-e-tè, venite
d-o-dò, m-a-mà, domà, n-i-ni...
1
ssentite?
me disce
2
c’ho dd’annacce
3
domatina.
4
S-o-sò, l-a-là, sola. Capite?
Monziggnore me vò,
5
zzi’
6
Caterina,
sola, come sciannava
7
la spazzina
8
prima c’avess’er posto a le Pentite.
9
Lui m’averà dda dì cquarche pparola
che nun avete da sentilla
10
voi,
epperò scrive che cce vadi
11
sola.
Lassàtemesce
12
annà,
13
zzia mia, ché ppoi
si mm’arigala
14
ar ritornà dda scòla
15
ce spartimo
16
er rigalo tra de noi.
16 aprile 1834
1
Vedesi a colpo d’occhio che alcuni fra’ primi versi di questo sonetto esprimono il metodo romano col quale si fa
compitare le parole ai fanciulli, modo elementare di lettura adottato sovente per proprio disimpegno da persone di età
più adulta, spezialmente del sesso gentile, non tutto versato assai addentro ne’ misteri del sillabario. Io però parlo del
ceto, se non infimo affatto, neppur tuttavia primaio secondario, ne’ quali due trovasi qualche coltura, almeno
almeno dell’alfabeto e delle sue pertinenze. Parendomi dunque opportuno il dir qualche parola sulla pronunzia di
que’ versi, che ne risulti una connessione di suoni capaci di dar forma ad un verso, ecco qui appresso quel che ho
immaginato di stabilire:
Misure
Quantità
Versi
scanditi
Sillabe
JAMBO
ˇ ¯
cecà er
vuevè en
deodò em
1. 2.
JAMBO
ˇ ¯
rirì
ninì
mamà
3. 4.
JAMBO
ˇ ¯
carì en
venì
doma en
5. 6.
JAMBO
ˇ ¯
nanà
teetè
ninì
7. 8.
JAMBO
ˇ ¯
cari
veni
doma
9. 10.
CESURA
+
na,
te
ni.
11.
v. 1
v. 2
v. 3
N.B. Le sillabe non soprassegnate di quantità si elidono colle precedenti, permettendolo ampiamente la musica che
nasce dal contatto delle misure dissillabi, che sono sempre jambliche.
Misure
Quantità
Verso scandito
Sillabe
ANFIMACRO
¯ ˇ ¯
essosò
1. 2. 3.
ANFIMACRO
¯ ˇ ¯
ellalà
4. 5. 6.
DATTILO
¯ ˇ ˇ
sola. Ca
7. 8. 9.
SPONDEO
- +
pite?
10. 11.
v. 5
N.B. In questo verso non abbiamo fra le due prime misure fatto nascere elisione, non troppo bene confacendosi
all’indole delle combinazioni di misure trissillabi. Non si è al postutto preteso che il valore di quantità, attribuito a
cadauna delle notate sillabe, sia quello a rigore che prosodiacamente dovesse lor convenire sempre ed ovunque: ma
come nella poesia italiana il ritmo nasce spontaneo dalla potenza accentuale, cioè dalla varia collocazione degli
accenti nella pronunzia delle parole, così abbiamo qui voluto cavare una norma peculiare di quantità prosodiache, le
quali in altre circostanze potrebbero variare anche sulle stesse parole diversamente combinate.
2
Mi dice.
3
D’andarci.
4
Domattina.
5
Mi vuole.
6
Zia.
7
Ci andava.
8
Mercantessa di cianfrusaglie.
9
Reclusorio di donne di ex-mercato, o simili.
10
Sentirla, per «udirla».
11
Ci vada.
12
Lasciatemici.
13
Andare.
14
Se mi regala.
15
Le crestaie, sartrici, ecc., che stanno a
lavoro presso maestre, dicono: «andare a scuola».
16
Spartiamo: dividiamo, ci partiamo, ecc.
1204. La povera Nunziata
1
Nun te fa ccompassione eh? cciorcinata!
2
Ma ssi
3
ssapessi tutte le su’ pene...
che a fforza de dà vvia,
4
nun j’è arrestata
5
una goccia de sangue in de le vene!...
Chi ssciala
6
sai chi è? Ssai chi sta bbene?
La zia scèca
7
e la sòscera
8
ammalata.
Quelle davero hanno le case piene;
ma nnò llei, no la povera Nunziata.
Lei, poverella, da sí cch’er marito
9
fesce pe ccausa de le su’ puttane
l’accessione
10
de bbeni e annò ffallito,
nun ce se vorta
11
a cconzolalla un cane!
E cce sò
12
ggiorni che mmanco
13
ammuffito
14
pò ddí
15
la sera com’è ffatto er pane.
16 aprile 1834
1
Annunziata.
2
Sventurata.
3
Se.
4
A forza di vendere.
5
Restata.
6
Scialare: menar vita sfoggiata.
7
Cieca.
8
Suocera.
9
Da
quando il marito.
10
La cessione.
11
Non ci si volta.
12
Ci sono.
13
Né anche.
14
Muffato.
15
Può dire.
1205. Le bbestie der Paradiso Terrestre
Prima d’Adamo, senza dubbio arcuno
er ceto de le bbestie de llà ffori
fascéveno
1
una vita da siggnori
senza dipenne un cazzo
2
da ggnisuno.
Ggnente cucchieri,
3
ggnente cacciatori,
nò mmascelli,
4
nò bbòtte, nò ddiggiuno...
E rriguardo ar parlà, pparlava oggnuno
come parleno adesso li dottori.
Venuto però Adamo a ffà er padrone,
ecchete
5
l’archibbusci e la mazzola,
le carrozze e ’r zughillo
6
der bastone.
E cquello è stato er primo tempo in cui
l’omo levò a le bbestie la parola
pe pparlà ssolo e avé rraggione lui.
19 dicembre 1834
1
Facevano.
2
Senza per nulla dipendere.
3
Niente cocchieri.
4
Macelli.
5
Eccoti.
6
Il sugo.
1206. Chi la tira, la strappa
Fatto Adamo padron de l’animali,
incominciò addrittura a arzà l’ariaccia.
1
Nun zalutava, nun guardava in faccia...
come fussino
2
llà ttutti stivali.
Nun c’er’antro
3
pe llui che ccan
4
da caccia,
caval
5
da sella, scampaggnate,
6
ssciali,
7
priscissione
8
coll’archi trionfali,
musiche, e ccianerie
9
pe la mojjaccia.
10
E l’animali, a ttutte ste molestie,
de la nescessità, ccome noi dimo,
11
fasceveno vertú, ppovere bbestie.
Nun ce fu cch’er Zerpente, che, vvedute
tante tiranneríe, disse p’er primo:
«Mó vve bbuggero io, creste futtute».
16 aprile 1834
1
Alzare l’ariaccia: levarsi in superbia.
2
Fossero.
3
Non c’era altro.
4
Cani.
5
Cavalli.
6
Diporti in campagna.
7
Gozzoviglie.
8
Processioni.
9
Foggie eleganti.
10
Mogliaccia.
11
Diciamo.
1207. Li frati de Grottaferrata
Er Padr’Abbate de Grottaferrata,
1
fratozzo bbianch’e rrosso e bbadialone,
in circa un anno fa ppe ccolazzione
j’appoggiorno una bbona archibbusciata.
De quella nun morí, cché ssan Nilone
2
stornò la bbotta e nnun je fu azzeccata:
ma ppo’ invesce schiattò ppe ’na bbirbata
3
che jje seppe fà er Papa in d’un cantone.
E adesso er Zantopadre in quer convento
fa ffà un bravo proscesso a la sordina
4
a cquanti frati che cce stanno drento.
Va’ a indovinà cche ddiavolo d’intrecci
5
se saranno imbrojjati, eh Crementina?
Io, pe mmé, ddico: affari fregarecci.
16 aprile 1834
1
Il P. Abate...
2
Fondatori di quel monistero furono i santi Nilo e Bartolommeo, monaci greci Basiliani, che nel secolo
X vi si ripararono dalla Calabria infestata dai Saraceni.
3
Forte rabbuffo.
4
Un processo sordo, arcano.
5
Garbugli.
1208. Er monnezzaro provìbbito
1
Pagà ddièsci scudacci de penale
io pover’omo che nun ciò
2
un quadrino!
io che nemmanco posso bbeve vino
antro
3
che cquanno vado a lo spedale!
Eppuro
4
me toccò a bbuttà un lustrino
5
pe ffamme stenne
6
drent’ar momoriale
le raggione da disse
7
ar tribbunale
de le Strade, indov’è cquell’assassino.
Je sce discevo: «Monziggnore mio,
quanno Lei trova er reo, voi gastigatelo:
ma er monnezzaro nun ce l’ho ffatt’io».
E ssai che mm’arispose quer Nerone?
«Questo nun me confínfera:
8
arifàtelo:
9
ch’io nun vojjo sentí ttante raggione».
10
18 aprile 1834
1
L’immondezzaio proibìto. In molti e molti luoghi della Città veggonsi incastrate per le mura delle case lapidi
marmoree di uno o due secoli di data, colle quali d’ordine dell’Ill.mo Tribbunale delle Strade resta inibbìto che non
si possi fare il mondezzaro, né tampoco sia gettare immondezze (in que’ luoghi) sotto pena a chi v’incorrerà di scudi
dieci, et altre ad arbitrio. Questo n’è il sunto, e il tutto insieme simiglia a capello le famose gride citate da Alessandro
Manzoni. Per questi editti di sasso, divenuto più nero della scrittura che vi fu incisa, può ancora accadere che qualche
fantesca maledica chi non le insegnò l’alfabeto.
2
Non ci ho: non ho.
3
Altro che: fuorché.
4
Eppure.
5
Un grosso di
argento.
6
Per farmi stendere.
7
Da dirsi.
8
Non mi gamba.
9
Rifatelo.
10
Realmente questo fatto è accaduto non ha guari,
non già nel tribunale delle Strade, ma nella prefettura degli Archivii. L’egregio Prefetto, Monsignor Bargagnati, così
rispose ad un notaio che reclamava contro una ingiusta multa impostagli per non sussistenti contravvenzioni.
1209. Avviso
1
«Bramando il Revdo Venle Monastero de Santi Cosma, e Damiano vendere, o affittare un
piano d’una sua casa, e l’intiero orto, il quale giace a mano manca, e al numero 30 del
Vicolo Sterrato al cimitero di San Spirito, con vano per stalla; si avvisa tutti, e singoli
aspiranti, che domani alla precisa ora d’ore 17 resta ingiunto al Notaro del Loco Sig.
Briganti...».
Bra-man-do — il — Rev-do — Ven-le
2
— Mo-na-ste-ro
de — San-ti — Cos-ma virgola e — Da-mi-a-no
ven-de-re virgola o — af-fit-ta-re — un — pi-a-no
d’u-na — su-a — ca-sa virgola e — l’in-ti-e-ro
or-to virgola il — qua-le — gi-a-ce — a — ma-no
man-ca virgola e — al — nu-me-ro — tre-zero
3
del — Vi-co-lo — Ster-ra-to — al — ci-mi-te-ro
di — San — Spi-ri-to virgola con — va-no
per — stal-la punt’e vvirgola si — av-vi-sa
tut-ti virgola e — sin-go-li — as-pi-ran-ti
virgola che — do-ma-ni — al-la — pre-ci-sa
o-ra — d’o-re — uno — sette
4
— re-sta — in-gi-un-to
al — No-ta-ro — del — Lo-co — Sig.
5
— Bri-gan-ti...
6
Che sse vadi a ffà fotte, e mmetto er punto.
19 aprile 1834
1
I seguenti versi sono stati composti allo scopo di mostrare il modo di lettura di alcuni iniziati in quest’arte, quali,
oltre al profferire alquanto isolate da piccole pause le sillabe delle parole, distinguono oralmente tutti gl’incontri della
punteggiatura che loro passa sott’occhio. Vi si scorgerà altresí il vizioso sistema di comporre e di punteggiare
osservato generalmente e in ispezialità nelle carte governative.
2
Rev.do Ven.le: abbreviature di Reverendo Venerabile,
le quali il nostro buon romano legge come le vede, senza curarsi del niun senso che ne risulta.
3
Tre-zero. Lettura
bonaria del numero 30. Bisogna credere che il nostro lettore fosse istruito nella conoscenza de’ numeri, ma non ancora
avanzato sino alla scienza delle loro combinazioni.
4
Uno-sette: 17. Vedi la nota 3.
5
Sig.: abbreviatura di Signor. Vedi
la nota 2.
6
A questo luogo il nostro letterato perde la pazienza, e conchiude coll’ultimo verso col quale ritorna in se
stesso.
1210. La sarvazzion dell’anima
Pe ssapé er pezzo de ggener’umano
potútose
1
sarvà ssenza bbattesimo,
guardate sur lunario in che mmillesimo
er Redentore entrò ddrent’ar Giordano.
L’istess’anno, in ner giorno medemesimo
2
che Ggesucristo se fesce cristiano,
finí ar monno er Decaccolo
3
pagano,
e ccominciò a ddà ffora er Cristianesimo.
Tutt’er gener’umano ch’era morto
sin’a cquer punto senza crede
4
in Cristo,
s’era sarvato e sse trovava in porto.
Ma dde li morti da quer giorn’impoi,
o Ebbrei, o Turchi, o Fframmasoni, tristo
chi nun ha ll’acqua com’avemo noi.
19 aprile 1834
1
Potutosi.
2
Medemésimo: parola ricercata di un buon parlatore, composta di medemo che è la voce d’uso popolare, e
medesimo, lezione de’ nostri cattivi lessici.
3
Decalogo.
4
Credere.
1211. L’Arbanista
No, ssor Luca mio caro: du’ cassette
tutta-nosce, imbrunite e ffilettate,
nun ve le posso fà ssi
1
nun me date
la granne unisci scudi e ll’antra sette.
2
Men d’accusí nnun ve le posso mette;
3
e ccredeteme a mmé cche ssò arrubbate.
4
Maa,
5
averete du’ cose arissettate
6
com’e ddu’ orloggi de Sacchesorette.
7
Voi vedete er lavore; e ppoi sur resto,
ggiulio
8
ppiú, ggiulio meno, tra de noi
nun ce sarà cche ddí: nnun parlo onesto?
Dunque accusí arrestamo.
9
Quella sciuca
10
l’averete oggi a otto, e ll’antra poi
pe ppasqua. Oh, arivedendosce
11
sor Luca.
19 aprile 1834
1
Se.
2
Intendi: per la grande, ecc., e per l’altra, ecc.
3
Mettere: apprezzare.
4
Credetemi che le avete gratis.
5
Ma. Si è
scritto con due a allo scopo di far prolungare quella vocale in suono solenne: e intanto devesi alzar la mano tutta
aperta, col pollice e l’indice congiunti per l’estremità.
6
Rassettate: esatte, accurate.
7
La celebrità della perfezzion degli
oriuoli d’Isaac Soret non si è mai estinta presso il volgo, che li reputa la più mirabile opera della meccanica.
8
Giulio,
Paolo: moneta di dieci baiocchi.
9
Così restiamo d’accordo.
10
Ciura: piccola.
11
I volgari, e varii altri non volgari, non
dicono nel lasciarsi fra loro a rivederci, ma a rivedendoci.
1212. Er capo de casa
Presto, a ccena, per dio, bbrutte marmotte,
ché ddomani è la Santa Concezzione.
Nu lo sapete, vacche bbuggiarone,
ch’entra er diggiuno e cc’è la mezzanotte?
1
Ch’edè sto lavorà? Cche mme ne fotte
2
si nun ze sarda
3
er mese de piggione!
4
Quer che mme preme a mmé è la riliggione,
e nnò un cazzo
5
er pagà, ssore miggnotte.
6
E ttu, ccaroggna, allevi le tu’ fijje,
Cristo sagrato, senza dajje mano
7
a cconossce
8
le feste e le viggijje?
Quanno che ssenti mentovà Mmaria,
disce la Santa Cchiesa a cchi è ccristiano,
nun dimannà ssi cche vviggijja sia.
9
19 aprile 1834
1
Lo stesso scrupolo della mezzanotte sente in Roma il curiale che in quel giorno abbia tradito il suo cliente, l’usuraio
che mediti la rovina di una famiglia, e il ladro che si disponga a forzar dopo la mezzanotte l’uscio del suo vicino.
2
Che
importa a me, ecc.
3
Se non si salda.
4
La plebe suol pagare il fitto delle case a mesate, di modo che le corrisposte
annue sono loro al tutto sconosciute.
5
E non affatto.
6
Signore bagasce.
7
Senza dar loro aiuto.
8
Conoscere.
9
Modo
proverbiale della romana devozione.
1213. Lo spóso
1
de Checca
Sonetti due
Senti, senti lo sposo che ppia
2
Checca
3
si
4
ccome se la gode e sse la canta.
Nun dubbità cc’azzecca bbene,
5
azzecca!
Lui canta, e cquella sona, eh sora Santa?
Bbisoggna che l’acconcio,
6
e tutta-quanta
la bbiancheria c’ha llei, nova de zecca,
7
e ttant’artra su’ robba-de-l’ottanta
8
lui la credi piovuta da la Mecca.
9
Ma ggià, un cardèo
10
che sposa una puttana,
che ha da capí?
11
Llui trova la paggnotta
bell’e ccotta e sfornata, e sse la sgrana.
12
Bada però co sta sfornat’e ccotta,
sposino mio der tinche,
13
ché cchi spana
14
scerte grazzie de ddio
15
spesso se
16
scotta.
19 aprile 1834
1
Pronunz. con entrambe le o chiuse.
2
Piglia: sposa.
3
Francesca.
4
Se.
5
Capita bene.
6
Corredo di nozze.
7
Nuovissima,
non mai tocca.
8
Roba dell’ottanta: roba magnifica.
9
La creda venuta dall’altro mondo, dal cielo.
10
Caldeo: baccellone.
11
Cosa.
12
Se la mangia.
13
Sposino mio da nulla.
14
Spana: mangia.
15
Certe specie di, ecc.
16
Si.
1214. Lo spóso de Checca
Che tte discevo io de quello sposo
ch’er giorn’avanti de pij una galla
1
se credeva er piú omo furtunoso
pe la raggion de la paggnotta calla?
Bbe’, ll’hanno fatto ggià ttonno-de-palla;
2
e affamato com’è, sporco e ccencioso,
si
3
nnun dorme la notte a Ssanta Galla,
4
manco ha una cuccia da pijjà rriposo.
La mojje intanto, quella porca zozza,
5
co le mijjara de padron Cammillo
ride a le su’ miserie, e vva in carrozza.
E er Curato che ffa? Bbisoggna dillo:
6
o è ’r re de li cojjoni, oppuro strozza;
7
perché oggn’anno bbattezza un codiscillo.
8
19 aprile 1834
1
Civetta.
2
Lo han conciato pel dì delle feste.
3
Se.
4
Ospizio, di cui vedi il Sonetto...
5
Sozza.
6
Dirlo.
7
Strozza, in senso
neutro: «lucra e tace».
8
Allorché parlasi di amori illeciti e fecondi si suoi dire che ci è nato il codicillo.
1215. Er rompicollo
1
de mi’ sorella
Pijjà mmojje! e cche ccià?
2
ccià un par de monghi.
3
Co cquer tanto c’abbusca
4
in stamperia
in cammio de sazzialla
5
all’osteria
la pò abbot de virgole e dditonghi.
Io je l’ho ddetto a llei, che sse disponghi
a ccampà de sbavijji
6
e ccarestia,
e cche sse pò attaccà a ssanta Maria,
7
ma ffaranno le nozze co li fonghi.
8
E llei? ggnente: cocciuta
9
com’un corno.
Lo vò,
10
ccredessi
11
de morí affamata.
Dunque, schiavo: se pijjino,
12
e bbon giorno.
E ssai cosa je canta Mamma e Ttata,
e ttutti li viscini de cqua intorno?
«Servo, sora cucuzza-maritata».
13
20 aprile 1834
1
Il matrimonio malauguroso.
2
Che ci ha? cos’ha? cosa possiede?
3
Niente affatto. Dicono ancora un par de ciufoli
(zufoli).
4
Busca: guadagna.
5
In cambio, invece di saziarla.
6
Di sbadigli.
7
Attaccarsi a Santa Maria: fare ogni sua
possa.
8
Proverbio indicante la pover delle nozze.
9
Ostinata, dura.
10
Lo vuole.
11
Quando anche credesse, ecc.
12
Si
piglino, si sposino.
13
Minestra di zucche ed uovi. Qui ciascuna delle due parole deve avere il suo significato distinto:
«stolta» che «va a marito».
1216. La prima gravidanza
Arifretti,
1
Costanza, che ssei mojje,
e, avenno
2
avuta ggià cquarche mmancanza,
si er bonificio
3
tuo nun z’arissciojje
4
è ssegno, fijja mia, de gravidanza.
Dunque, abbada
5
a nnun stríggnete
6
la panza,
e nnu stàtte
7
a smarrí ppe un po’ de dojje.
E ccasomai te vieníssino vojje,
nun te toccà la faccia,
8
sai Costanza?
E ssi
9
vvai a Ssan Pietro, io te conzijjo
de díjje a la scappona
10
un paternostro
a la lontana ar men de mezzo mijjo.
E nun guardàllo
11
mai quer brutto mostro,
c’avessi
12
Iddio ne guardi da fà un fijjo
moro come che llui ppiú de l’inchiostro.
13
20 aprile 1834
1
Rifletti.
2
Avendo.
3
Beneficio.
4
Non si riscioglie.
5
Bada.
6
Stringerti.
7
Non istarti.
8
È generale e costante opinione che
se una donna gravida tocchi qualche parte del suo corpo nel momento che appetisca un oggetto, il feto ne contrae
subito l’immagine sulla parte corrispondente a quella toccata.
9
Se.
10
Di dirgli in fretta.
11
Non lo guardare.
12
Cosicché
avessi, ecc.
13
La statua di S. Pietro è nera.
1217. Se more
1
Nun zapete
2
chi è mmorto stammatina?
È mmorto Repisscitto,
3
er mi’ somaro.
Povera bbestia, ch’era tanto caro
da potecce
4
annà in groppa una reggina.
L’ariportavo via dar mulinaro
co ttre sacchi-da-rubbio de farina,
e ggià mm’aveva fatte una diescina
de cascate, perch’era scipollaro.
5
J’avevo detto: nun me fa
6
la sesta;
ma llui la vorze fà,
7
pporco futtuto;
e io je diede
8
una stangata in testa.
Lui fesce allora come uno stranuto,
9
stirò le scianche,
10
e tterminò la festa.
Poverello! m’è ppropio dispiasciuto.
20 aprile 1834
1
Si muore.
2
Non sapete.
3
Repiscitto, o ripiscitto, è l’ordinario soprannome che si ai villanelli.
4
Da poterci.
5
Cipollaro: aggiunto di cavallo o di asino che abbia vizio d’inciampare.
6
Non mi fare.
7
La volle fare.
8
Gli diedi.
9
Starnuto.
10
Le gambe.
1218. Un zegreto miracoloso
Sor Eluterio
1
mio, tutti st’inferni
c’ardeno
2
le scittà dda cap’a ffonno,
succedeno pe vvia
3
che li Governi
ciànno
4
gusto, e ssò lloro
5
che li vonno.
E accusí ddopp’er primo viè er ziconno,
e oggni ggiorno diventeno ppiú eterni:
quanno,
6
senza spregà ttanti quinterni
de carta scritta, pò aggiustasse
7
er monno.
Lo saperebbe
8
io, sor Eluterio,
er rimedio sicuro che ssan-brutto
9
rissetterebbe
10
l’ossi ar cimiterio.
Eccolo in du’ parole assciutt’assciutto.
11
Bbisoggnerebbe penzà un po’ ssur zerio
12
a cquer che sse pò ffà ppe aggiustà ttutto.
20 aprile 1834
1
Eleuterio.
2
Che ardono.
3
Pel motivo.
4
Ci hanno.
5
Sono essi.
6
Quandoché.
7
Può assestarsi.
8
Saprei.
9
Ex abrupto.
10
Rassetterebbe.
11
Netto e presto.
12
Sul serio.
1219. La canonica
1
Oggi a ppiazza-colonna verzo sera
passava in biga cor giacchetto
2
addietro
er fratel de quel’antro
3
c’a Ssan Pietro
porta er Papa p’er naso, e ffa pprimiera.
4
Quanto
5
je se fa avanti tetro tetro
un pezzo d’omo
6
co una faccia nera,
e jj’intona: «Ah, avanzaccio de galera,
te vojjo sfraggne
7
er muso com’un vetro».
Eppoi cià aggionti
8
tant’antri
9
malanni
de sto calibbro, che, ffuss’io
10
quer tale,
nun me voría
11
trovà nne li su’ panni.
Perch’è mmejjo a ssoffrí cqualunque male,
è mmejjo a mmannà ggiú
12
ttutti l’inganni,
che inzurtà in piazza un cammerier papale.
13
20 aprile 1834
1
La bravata, gridata. Fatto storico del giorno 20 aprile 1834.
2
Valletto.
3
Di quell’altro, cioè «di Gaetano Montani,
detto Gaetanino, primo cameriere di Sua Santità».
4
Fa primiera: vince il giuoco. Il naso-e-primiera è noto giuoco di
carte per invito.
5
All’improvviso.
6
Un uomo di gran presenza.
7
Ti voglio frangere.
8
Ci ha aggiunti.
9
Altri.
10
Se
foss’io.
11
Non mi vorrei.
12
Ingoiar pazientemente.
13
Anche lo sgridato è aiutante-di-camera del Papa.
1220. La cantonata
1
der forestiere
Lei crederà, mmilordo, che la ggente
che ggià ha pijjato pasqua, o cche la pijja,
sii tutta ggente che ss’ariconcijja
de core co Ddio padre onipotente.
Eppuro la faccenna va artrimente,
e ne stamo lontani mille mijja.
Cqua, appena li bbijjetti
2
sò in famijja,
servo, sor Dio; nun ze ne fa ppiú ggnente.
La fia
3
fotte, la madre je tiè mmano,
la serva rubba, l’usuraglio strozza,
e l’impiegato bbuggera er zovrano.
La medema onestà, ll’istessa stima,
4
le solit’arte pe mmarcià in carrozza:
tutto inzomma arimane com’e pprima.
20 aprile 1834
1
Prendere una cantonata: ingannarsi a partito.
2
I biglietti che si ricevono nell’atto della comunione di pasqua, i quali
poi il parroco torna a raccogliere per conoscere chi abbia o no soddisfatto al precetto.
3
Fia: figlia.
4
Stima, nel
significato intransitivo di «onoratezza».
1221. Er viaggio der Papa
’Ggni momento una nova,
1
padron Diego!
’ggni ggiorno je se smoveno
2
antre vojje.
Facci un po’ cquer che vvò, cch’io me ne frego
acquasi ppiú de lui che dde mi’ mojje.
Mó adesso a l’improviso je se ssciojje
3
de trottà a Ttivoli, e ffà ppoi lo sprego
4
d’annà a Ssubbiaco
5
e ccurrese a rriccojje
6
pe ccinque ggiorni o ssei ner zagro spego.
7
E accusí ppe ste su’ villeggiature,
pe st’esercizzi sui,
8
lassa
9
er governo
in man de scerte sorte de figure.
Forzi
10
lui spererà ddrent’a l’interno
de quela grotta e in quele sante mure
d’arrubbà cquarche llume
11
ar Padr’Eterno.
21 aprile 1834
1
Cioè: «ne accade una nuova».
2
Gli si suscitano.
3
Gli salta il capriccio.
4
Far lo spreco (sprecamento): abondare in
checchessia.
5
Subiaco: l’antico Sublaquem, così detto dagli Stagni che vi si incontrano, chiamati un tempo Lacus
Simbruini. È fabbricata sulle rovine di una villa di Nerone.
6
Corrersi a raccogliere: correre a raccogliersi.
7
Il sacro
speco, l’Ibsamboul di Subiaco, è una spelonca, incavata ad arte in un monte, nella quale narrasi che si ritirasse san
Benedetto, allorché fondò in que’ luoghi il suo ordine. Oggi vien riguardata come un santuario, non povero di molte e
varie storiette.
8
Per questi esercizi. Gli spirituali son maschi, e i militari femmine, poiché diconsi l’esercizzie.
9
Lascia.
10
Forse.
11
Rubar qualche lume: togliere altrui porzione dell’arte sua.
1222. Li Cavajjeri
E a vvoi da bbravi!
1
Cavajjeri jjeri,
cavajjer oggi, e ccavajjer domani!
E ssempre cavajjeri: e li sovrani
nun zanno antro che ffà cche ccavajjeri.
Preti, ladri, uffizziali, cammerieri,
tutti co le croscette a li pastrani.
2
E oramai si
3
le chiedeno li cani,
dico che jje le danno volentieri.
S’incavajjèra mó cqualunque vizzio:
vojjo ride però, cco ttanto sguazzo
4
de cavajjeri, ar giorno der giudizzio.
Quanno che Ggesucristo, arzanno
5
er braccio,
dirà: «Ssiggnori cavajjer der cazzo,
ricacàte
6
ste crosce,
7
e a l’infernaccio».
21 aprile 1834
1
E tiriamo innanzi così.
2
Agli abiti, alle vesti.
3
Se.
4
Guazzo, profluvio.
5
Alzando.
6
Restituite.
7
Queste croci.
1223. La bbona spesa
Ma eh? cche spesa! appena me l’ideo!
1
Tre ppiastre un sciallo ch’è una tel-de-raggno!
2
Ggnentedemeno
3
c’ha ppreso el còmpaggno
la governante del zor don Matteo!
E mme lo confessò ppuro
4
l’ebbreo
che llui nun cià
5
un bajocco de guadaggno.
Pe ffortezza poi... disce ch’è fustaggno,
6
e cche ppe mmoda, se pò ddà al museo.
Me lo capisco inzin da mé, cc’a spenne
7
ciò ppropio la paggnotta
8
e ffo pprodiggi:
e la robbaccia a mmé nnun me se venne.
9
Eh, ss’io fussi una donna de quadrini!
M’abbasterebb’er core a li luviggi
fàjje fà la figura de zecchini.
10
21 aprile 1834
1
Posso appena appena concepirla.
2
Ogni cosa sottile pare subito una tela di ragno. L’autore di questi versi ha udito
applicare un simile paragone anche all’ostia eucaristica.
3
Basti solo il dire, ecc.
4
Pure.
5
Non ci ha.
6
Fustagno,
frustagno.
7
Spendere.
8
Ci ho proprio la pagnotta: ci sono attagliata, adatta.
9
Non mi si vende.
10
Ci siamo serviti del
confronto di queste due monete, perché il luigi è noto alla plebe solo di nome pe’ varii contratti ne’ quali s’impiega
cogli stranieri onde illuderli meglio colla minor cifra numerica, che non si farebbe per avventura col calcolo a scudi: e
lo zecchino d’altronde rappresenta agli occhi del volgare l’eccellenza della moneta e il non plus ultra della ricchezza.
Quindi nella mente del popolo può uno zecchino rappresentare un numero indefinito di luigi, come di altri pezzi
monetati.
1224. I vasi di porcellana
1
Sonetti 3
Firenze, Signor Giacomo Ginori.
Le due casse, condotta Pietro Vico,
porcellane mi giunsero; ma, amico,
enormi prezzi e pessimi lavori.
Tanto in genere. In specie poi vi dico
quanto ai campioni due, vasi da fiori,
mal dorati, bruttissimi colori,
poca solidità, disegno antico.
Ricevuta la lettera
2
vi scrivo,
ponetene sei scudi a mio dovere
diffalcando in fattura l’eccessivo!
E accusandovi ben condizionati
i colli, sono al vostro buon piacere,
Roma 6 Luglio 32. Cagiati.
21 aprile 1834
1
In questo e nel seguente sonetto ho creduto discostarmi dal solito vernacolo romanesco, onde introdurre due esempi
di commerciali contrattazioni, e compier quindi l’idea col 3° sonetto, nel quale tornandosi allo stil consueto si offre un
giudizio sulla fede di que’ traffichi.
2
Sottintendi: che. È superfluo già l’avvertire che questi versi imitano il mercantile
epistolare.
1225. I vasi di porcellana
1
Ma llei gli osservi se cche vvasi! Costa
piú il porto a mmé, cche a llei tutto il campione.
Non si lasci sfuggir quest’occasione,
ch’io glieli do pper acquistar la posta.
2
Colori a ffuoco, ggiàa,
3
smalto di crosta:
4
glieli mantengo io, siggnor Barone,
per porcellana vera del Giappone,
fabbrica di Pariggi e ffatti apposta.
Venti scudi, dio mio!, valgono a ppeso.
Che bbei due capi! Lei, caro siggnore,
bbenedirà il danaro che ccià
5
speso.
Mi maraviglio. Io glieli mando a ccasa,
e llei dopo a ssuo comodo... Ho l’onore:
servitor suo: mi favorisca spesso.
21 aprile 1834
1
A differenza del sonetto 1°, si è in questo adottata la ortografia usata pel dir romanesco. Quello però non era che una
rappresentanza di una lettera scritta: ma dovendo il presente porre sott’occhio la pronunzia romana (che di pochissimo
diversifica dalla romanesca; malgrado la miglior correzione del dire), abbiamo stimato di non abbandonare il nuovo
nostro sistema ortografico.
2
L’avventore.
3
Già. Lo abbiamo scritto con due a, onde esprimere il suono prolungato di
questa vocale nella parola già; allorché serve essa di approvazione a ciò che si ascolta obiettarsi da alcuna persona.
4
Smalto profondo, spesso.
5
Ci ha: che si pronunziano in una sola emissione di voce.
1226. Li vasi de porcellana
1
Jjeri er padrone mio crompò
2
ddu’ vasi
dipinti a ttinta verde e oro ggiallo,
che ssenza le campane de cristallo
je sò ccostati venti scudi o gguasi.
3
Anzi li chiama lui rari sti casi,
ché vventi scudi vale uno a bbuttallo:
quantunque er conte Rubbi e ’r dottor Gallo
4
nu ne pareno troppo perzuasi.
Tu ssai si
5
ppe ccontratti sce
6
ometti
da mett’appetto
7
a cquelli du’ siggnori,
che rraschieríeno
8
er lustro a li papetti.
9
Dicheno dunque che sti vasi iggnudi,
ciovè
10
ssenza campane e ssenza fiori,
ponno ar giusto valé ttredisci scudi.
21 aprile 1834
1
Vedi la nota 1 del sonetto primo.
2
Comperò.
3
Quasi.
4
Personaggio famoso in Roma, che da servente di ospedale è
passato a forza d’ingegno ad avere titolo, e sostanza di marchese. A nessuno meglio che a lui può addirsi il romano
termine di lesto-fante.
5
Se.
6
Ci sono.
7
Da mettere appetto.
8
Raschierebbero.
9
Moneta papale di argento, da due paoli.
La lira romana.
10
Cioè.
1227. Le stimite
1
de San Francesco
Appena san Francesco se
2
fu accorto,
avenno
3
inteso scircolà una vosce,
der
4
come Ggesucristo morí mmorto
tutt’inchiodato e ccroscifisso in crosce,
penzò un tantino e sse n’aggnéde
5
all’orto;
e llí sse messe
6
a ddí ssott’a una nosce:
7
«Oh ttoccassi
8
a mmé ppuro
9
er ber
10
conforto
de sopportà un dolore accusí atrosce!»
Era mejjo pe llui, co ste volate,
11
che ffascessi
12
li conti senza l’oste;
13
ma ll’oste sc’era, e ddiede gusto ar frate.
E llui ccusí dda scert’arme anniscoste
14
ciabbuscò
15
ccinque bbelle stillettate,
a le mano, a li piedi, e in de le coste.
21 aprile 1834
1
Le stimate, ma anche stimite.
2
Si.
3
Avendo.
4
Del.
5
Se n’andò.
6
Si mise.
7
Noce.
8
Toccasse.
9
Pure.
10
Bel.
11
Iattanze.
12
Facesse.
13
Proverbio.
14
Nascoste.
15
Ci buscò.
1228. Santa Filomena
1
È ariscappata fòra un’antra santa,
bbattezzata pe ssanta Filomena:
che de miracoloni è ttanta piena,
che in men d’un crèdo
2
ve ne squajja
3
ottanta.
Quello poi ch’è una bbuggera ch’incanta
è cche li fa ppe bburla, ch’è una sscèna!
A cchi annisconne
4
er pranzo, a cchi la scéna...
5
e ttant’antri
6
accusí, nnòvi de pianta.
Mó la senti viení, mmó ttorna vvia:
mó tte se mette a rride
7
accap’al letto:
mó tte fa cquarcun’antra mattería.
Dicheno ch’è una santa, e ll’hanno detto
puro
8
li Preti; ma ppe pparte mia
io la direbbe
9
un spirito folletto.
21 aprile 1834
1
Questa è una recente santa di Catacombe. Tutto quello che se ne conosce è lo scheletro. La vita poi (accuratamente
scritta e circostanziata) e sino il nome di lei, sono tutta scienza di rivelazione.
2
In meno che non si reciti un credo.
3
Ve
ne squaglia: ve ne sciorina.
4
Nasconde.
5
Cena.
6
Tanti altri.
7
A ridere.
8
Pure.
9
La direi.
1229. Er linnesto
1
Sia bbenedetto li Papa Leoni,
e ssin che cce ne sò,
2
Ddio li conzoli;
c’ha llibberato li nostri fijjoli
da st’innoccolerie
3
de vormijjoni.
4
Vedi che bell’idee da framasoni
d’attaccajje
5
pe fforza li vaglioli
pe ffajje arisvejjà
6
ll’infantijjoli
7
e stroppiàcceli
8
poi, come scroppioni!
9
Iddio scià
10
mmessa la Madre Natura
su st’affari, coll’obbrigo prisciso
de mannà
11
cchi jje pare in zepportura.
12
Guarda mó, ccazzo!, pe ssarvajje
13
er viso
da du’ tarme,
14
se
15
leva a una cratura
16
la sorte d’arrobbasse
17
er paradiso.
18
21 aprile 1834
1
L’innesto.
2
Ce ne sono.
3
Queste inoculazioni.
4
Il vajuolo arabo. Si allude all’abolizione fatta da Leone XII
dell’istituto di vaccinazione ecc., ed allo scioglimento de’ sudditi della Chiesa dall’obbligo di esibirgli i loro figliuoli.
5
Di attaccargli: attaccar loro.
6
Per far loro risvegliare.
7
Convulsioni infantili.
8
Storpiarceli.
9
Scorpioni.
10
Ci ha.
11
Mandare.
12
Sepoltura.
13
Salvar loro.
14
Tarme: le vestigie del vajuolo.
15
Si.
16
Creatura.
17
Di rubarsi.
18
Massima
favorita della Ch. M. del Cardinale Severoli, tenuto da Leone XII per l’oracolo dello Spirito Santo.
1230. Le Campane
Le campàn
1
de le cchiese, sor Grigorio,
2
dde metall’infuso
3
e bbattezzate,
e vve fanno bbellissime sonate
a cchi ha cquadrini da pagà er mortorio.
Nun c’è ddiasilla, o pprego, o rrisponzorio
4
che, ar modo che le cose sò aggiustate,
pozzi mejjo d’un par de scampanate
delibberà cchi ppena in purgatorio.
Da la condanna ch’er bon Dio je diede
je se ne scala un anno pe oggni tocco,
e ggiacubbino sia chi nnun ce crede.
E ppe cquesto quassú, cchi nnun è ssciocco,
ner morí llassa l’obbrigo a l’erede
che jje ne facci dà ttanti a bbajocco.
21 aprile 1834
1
Campane. Questa apocope non si creda già qui usata per servire al verso. Niuna mai di queste riprovevoli figure, o
licenze poetiche abbiam noi adoperata, ma tutto sempre e ingenuamente espresso secondoché purgato suole uscire
dalla bocca dei nostri modelli. Di tanto ci rendemmo responsabili nella prefazione, e tanto abbiamo scrupolosamente
eseguito.
2
Sono.
3
Metallo fuso.
4
La diessilla, il devoto prego e il responsorio sono la merce che vendono i ciechi alle
porte delle chiese, in suffragio delle anime sante del purgatorio.
1231. Le serpe
È ppropio vero, è ppropio vero, Santa,
ch’er monno s’è svortato. E nnu lo senti
che llui tira le bbòtte a li serpenti,
e l’archibbuscio suo nun je s’incanta?
Cent’anni fa... ma cche ccent’anni!, ottanta...
dínne meno: quaranta, trenta, venti,
diescianni addietro, st’ommini imprudenti
staveno freschi! e mmó llui se n’avvanta.
1
Una serpa, una lipera, un cerviotto,
2
c’ammiravi o ppe tterra o ddrent’a un búscio,
3
t’inciarmava
4
la porvere de bbotto.
5
E nnun c’er’antro
6
pe vvieninne
7
a ffine
che ccari lo schioppo o ll’archibbuscio
cor nome de Ggesú ssu le palline.
22 aprile 1834
1
Se ne vanta.
2
Serpe non venefica.
3
Buco.
4
Inciarmare: ammaliare. Lo charmer de’ Francesi.
5
Subito.
6
Non c’era
altro.
7
Per venirne.
1232. La morte de Stramonni
1
È mmorto er gran cerusico Stramonni:
e lo Spedàr de la Conzolazzione
2
nun ze pò cconzolà dda la passione
che jje scià
3
ffatto ggià perde li sonni.
Oh cquello era davero un omminone
de studi profonnissimi e pprofonni!,
che ssi
4
ar monno vieniveno du’ monni,
guariva a ttutt’e ddua la scolazzione.
Nun ze trovava a Rroma antro cerusico
che conoscessi
5
mejjo la maggnèra
6
de crastà
7
un galantomo e ffàllo
8
musico.
Tiggne, roggne, sassate, cortellate...
annàvio
9
da Stramonni, e bbona sera:
v’ereno in quattro zompi
10
arimediate.
21 aprile 1834
1
Il chirurgo Antonio Trasmondi, degno veramente della sua fama, godeva in Roma di una straordinaria popolarità. La
ragione di ciò si troverà nella nota seguente.
2
L’ospedale di S. Maria della Consolazione, posto presso il Foro
Romano, è destinato precipuamente a curare le ferite. Ivi affluiscono tutto il giorno i moderni gladiatori, o
accoltellatori romani, per le conseguenze dei loro sanguinosi litigi.
3
Gli ci ha.
4
Se.
5
Conoscesse.
6
Maniera.
7
Di
castrare.
8
Farlo.
9
Andavate.
10
In quattro zompi (salti): all’istante.
1233. Li canterini nottetempi
1
Si
2
dda du’ ora inzino a ssei d’istate,
e in ne l’inverno inzin’a ssett’e a otto,
voi sentite pe strada un giuvenotto
sorfeggià mmille ariette sfiorettate,
tramezzo a ttanti trilli e sgorgheggiate
potete puro
3
dí: «Cquer musicotto
ha una pavura che sse
4
caca sotto»;
e er grancio, ve dich’io, nu lo pijjate.
5
Jerzera uno cantava a la Missione:
6
«Alesandro che ffai?»,
7
e all’aria bbujja
se sentí rrepricà: «Ccaco un boccone».
Avete visto mai ladro e ppatujja?
accusí llui: pijjò, ccristo, un fugone,
che annò a sbatte le corna in de la gujja.
8
22 aprile 1834
1
Notturni.
2
Se.
3
Pure.
4
Si.
5
Non lo pigliate.
6
Chiesa e cenobio sulla piazza di Monte Citorio.
7
Emistichio di
Metastasio, che a tempo de’ nostri padri si udiva spessissimo a notte risuonare nel buio per Roma.
8
Aguglia.
L’obelisco eretto in mezzo alla piazza.
1234. Er cedolone der Vicario
Chi ttiè la robba de quer prete morto,
d’adess’impoi, cor cedolone àscido
c’ha attaccato pe Rroma er zor don Prascido,
1
sta ffresco come la scicoria d’orto.
Ché scórto
2
l’asso
3
d’otto ggiorni, scórto,
er Papa cor zu’ santo bbeneprascido
4
lo condanna addrittura a mmorí ffrascido,
5
senza che pprima se ne fussi accorto.
La scummunica è uguale ar marfrancese,
che tte penetra l’osse a la sordina,
e tte manna a fà fotte
6
in men d’un mese.
Chi ssarà ll’animaccia ggiacubbina,
che nnun ridii
7
le cose che ss’è pprese
doppo der cedolon de stammatina?
8
22 aprile 1834
1
Cardinale don Placido Zurla, già confrate ed oggi Vicario di Gregorio XVI.
2
Scórto, colla prima o chiusa: «finito».
3
L’asso: il lasso.
4
«Beneplacido». Moltissimi dicono anche beneprascito e boniprascito.
5
La massima parte del più
basso volgo dice frascico.
6
Ti spaccia.
7
Non ridía: non restituisca.
8
Questo cedolone fu difatti affisso il 22 aprile 1834
per lo scopo indicato dai nostri versi. Simili cedoloni sono lunghi fogli stampati già anticipatamente come locazioni
per l’occorrenza, venuta la quale si riempiono a penna certe lacune col nome del morto i di cui effetti o mancano
affatto, o non sembrano all’erede della quantità ed importanza che supponeva. Il detentore, spirato un cento indugio, è
condannato alla scomunica e a tutti gli effetti di quella, con espressioni e formule degne del secolo di Gregorio VII.
1235. La Scittà eterna
Gusto sce l’averebbe io,
1
sor Topaj,
2
che Rroma tra cqualunque priscipizzio
campassi
3
inzino ar giorno der giudizzio
e ppuro
4
un po’ ppiú in là ssi ccasomai.
5
Ma ssempre ha ttorto marcio er zor don Tizzio,
che la preposizzione
6
c’avanzai
ner dí cche sta scittà ppò ppassà gguai,
sii dilitto d’annàcce
7
a Ssant’Uffizzio.
Dunque, pe llui, la riliggione e Rroma
sò ddistinate inzieme a una cascata
come cascheno l’asino e la soma?!
Dunque la riliggione a st’abbatino
nun je pò arregge si nun è affonnata
8
sopr’a Ppiazza-Navona e ar Babbuino?!
9
22 aprile 1834
1
Ce lo avrei.
2
Topaj, nome di famiglia romana, dalla quale dev’essere discesa l’altra de’ Topi, che mangia nello stesso
granaio.
3
Campasse.
4
Pure.
5
Quand’anche si voglia.
6
Proposizione.
7
Andarci.
8
Se non è fondata.
9
Due luoghi di
Roma: la parte pel tutto.
1236. La Compaggnia de Santi-petti
«Mattia! chi bbestie sciai
1
nell’Osteria
che sse senteno
2
urlà ccome li cani?»
«Sciò
3
l’Arcàdichi
4
e Argòlighi
5
romani,
che un po’ ppiaggneno e un po’ ffanno alegria».
6
«E cche vvò ddì Arzigoghili, Mattia?»
«Vò ddì: ggente che ssa; bboni cristiani,
che ssull’arco dell’Arco-de-Pantani
te sce ponno stampà una libbraria».
«Ma cqui cche cce sta a ffà ttutta sta soma
de Cacàrdichi o dd’antro
7
che jje dichi
«Fa una maggnata perch’è nnata Roma».
8
«Ahà,
9
ho ccapito: sò li SANTI-PETTI,
che ttra lloro se gratteno,
10
e l’Antichi
li suffragheno a ffuria de fiaschetti».
11
23 aprile 1834
1
Ci hai.
2
Si sentono.
3
Ci ho.
4
Gli Arcàdici.
5
Archeologi.
6
Che ora piangono, ed ora, ecc.
7
O d’altro.
8
Pranzo di
Arcadi ed Archeologi per l’anniversario del Natale di Roma.
9
Ahà, vale «sì, sì, bene, bene».
10
Si grattano.
11
Agli
indizii dati dall’oste al nostro romanesco pare aver lui associata la notizia che doveva avere di un sonetto del di lui
padrone sulla morte di Geronimo nostro, uno della Compagnia de’ Santi-petti, avvenuta nel giorno quindici di aprile
1834, cioè pochi dì prima del banchetto genetliaco, del quale si parla. Il sonetto necrologico è il seguente, che noi qui
diamo in forma d’illustrazione con appresso l’aggiunta di alcuni schiarimenti:
In morte di Geronimo nostro
O Santi-petti, o primi arcadi eroi,
d’ogni savere e gentilezza ostello,
in cui lodiam quanto di raro e bello
formar seppe Natura e prima e poi:
spenta è la luce che mostrava a noi
carità benedetta di fratello
sulla omerica fronte ove il suggello
fu di spregio d’ognun fuor che di voi.
Levate alto gli omèi, le genitali
blandizie vostre, e i modi lusinghieri
onde fra voi vi divolgate uguali.
E come già rendeste allo Alighieri,
date suffragio a lui di Parentali
fra il pianto, rosolacci ed i bicchieri.
È celebre il Symposium seculare celebrato il 14 settembre 1821, all’osteria del Ponte-Milvio, dalla romana compagnia
dei Santi-petti, in commemorazione della morte di Dante, accaduta in quel giorno, cinque secoli prima. Essendo, fra le
libazioni molte e gli onesti parlari, scomparso d’improvviso Geronimo nostro, e da tutti i Simposiasti chiedendosi:
«Ov’è elli? Ov’è elli?», indi a poco ei ritornò, pieno il grembo di fiori da orticheto, gridando quanto piú alto sapeva
con quella soavissima voce: «Manibus date lilia plenis». E cosí ne gittò contro un busto del poeta: mentre gli inteneriti
fratelli, colle braccia al petto incrocicchiate e colli torti, lagrimavano di quella inspirazione del santopetto Geronimo,
facendo i meglio pietosi visacci che ad occhio umano sia dato vedere su questa misera terra. Quindi, per la differenza
di colore fra i gigli e i rosolacci si fermò la famosa distinzione del purpureo e del porporino, di che molto onore ebbe
a venire a questo dolce nido della patria e allo italo nome. (Vedi la Lettera di Luigi Biondi a Salvador Betti suo:
Roma, 1821). Veramente però il pranzo pel Natale di Roma non seguí all’ostetia come quello de’ Parentali di Dante,
ma nel luogo di cui parlerà il sonetto seguente.
1237. Er pranzo a Ssant’Alèsio
1
Ricconta l’ortolano de li Frati
de Sant’Alèsio sur Monte Ventino,
che ll’Argògoli
2
c’oggi
3
sce sò
4
stati
a esartà
5
Rroma co ppietanze e vvino,
cerconno
6
tutto jjeri affaccennati
da qualunque scurtore o scarpellino
una Lupa da espone
7
a l’invitati
ner posto che sse
8
pianta er trïonfino.
Ma ppe cquanto ggirassino,
9
fratello,
sto ritratto de Roma (nescessario
dove se maggna) nun poterno avéllo.
10
Però, in zu’ vesce
11
e cco ggnisun divario,
j’ha sservito bbenissimo er budello
de Su’ Eminenza er Cardinal-Vicario.
12
25 aprile 1834
1
Sant’Alessio, chiesa posta sul Monte Aventino, e credesi precisamente nel luogo ove sorgeva anticamente
l’Armilustro. Quivi Plutarco pone il sepolcro di Tazio. (Vedi Plutarco...). Ne’ fianchi di questo monte si apriva la
spelonca del famoso ladrone Caco: circostanza non ispregievole ai dotti che in quelle vicinanze mangiarono.
2
Vedi la
nota 5 del Sonetto...
3
Il 21 aprile 1834.
4
Ci sono.
5
A esaltare.
6
Cercarono. Ciò che in questo sonetto si dice è storia
fedele.
7
Esporre.
8
Si.
9
Girassero.
10
Non poterono averlo.
11
In sua vece.
12
Si vuole da testimoni oculari che
l’Eminentissimo Zurla, promotore amplissimo de’ politici vantaggi delle consumazioni, desse a quel banchetto una
impanciata degna veramente di un porporato.
1238. La nasscita de Roma
Oh Farzacappa, oh Gazzoli, oh Dandini,
1
vedéssivo
2
li nostri Cardinali
come staveno attenti co l’occhiali
a gguardà l’improvisi
3
a li Sabbini?
4
E cquanno inciafrujjorno
5
scerti tali
quelli lòro ingergacci
6
de latini,
li vedévio
7
a ddà ssotto co l’inchini
pe nun fàsse conossce
8
pe stivali?
E cquanno quer povèta scarzacane
9
strillava evviva Roma, eh? ccome allora
s’ammazzaveno a sbàtteje le mane!
10
Pe llòro infatti bbenedetta l’ora
ch’è nnata Roma a rrigalajje
11
un pane
arrubbato a cchi ppena e a cchi llavora.
25 aprile 1834
1
Nomi di tre Eminentissimi de’ non più addottrinati del Sacro Collegio. Qui è da notarsi che i servitori sogliono
chiamarsi fra loro co’ nomi de’ cardinali che servono.
2
Vedeste.
3
Gl’improvvisi. La lettura di qualunque
componimento poetico è per la plebe un sonetto improvvisato, dappoiché i nostri popolani non conoscono in se stessi
altra poesia che la estemporanea. In quell’errore però cade ordinariamente più di una donna del ceto medio.
4
Nel
Collegio Sabino, detto comunemente i Sabini. Vi si suole celebrare l’anniversario del Natale di Roma. Questa
celebrazione, accaduta nell’anno corrente 1834 nelle sere de’ 20 e 21 aprile, ha notato l’anno di Roma 2585. Bella
età!
5
Inciafrugliarono: acciabattarono.
6
Gergacci.
7
Vedevate.
8
Per non farsi conoscere.
9
Poeta gretto, mal calzato.
10
A battergli le mani.
11
A regalargli, per «regalar loro».
1239. La colazzione nova
S’io vojjo fà una bbona colazzione,
empio la notte un bicchier d’acqua pieno,
opro li vetri,
1
lo metto ar zereno,
2
eppoi vado a rronfà ccome un portrone.
La matina che vviè, ppijjo un cantone
de paggnotta arifatta
3
(che ppiú o mmeno
fo avanzamme
4
la sera quanno sceno),
5
l’inzuppo, lo pasteggio,
6
e sto bbenone.
Che vvòi sentí! caffè, ggramola,
7
panna,
8
zabbujjone,
9
spongato, rossi-d’ova?
te sa dd’oggni sapor come la manna.
Domani, Nanna mia, tu vviemme a ttrova,
10
e ssenza tanti comprimenti, Nanna,
tu ssentirai ’na colazzione nova.
11
23 aprile 1834
1
La finestra.
2
Mettere al sereno una cosa, è semplicemente «esporla all’aria notturna, benché nuvolosa».
3
Stantìa.
4
Avanzarmi.
5
Ceno.
6
Pasteggiare, vale: «mangiare assaporando».
7
Gramola e gramolata: sciloppato di frutta ristretto
a ghiaccio.
8
Fior di latte.
9
Zabaglione: sustanziosa e spiritosa bevanda moderna.
10
Vienmi a trovare.
11
A questa
colezione da carcerati, veramente un ricco prete conosciuto dall’autore invitò due gentili donne, sorella l’una e moglie
l’altra di due amici dell’autore medesimo.
1240. Er tumurto
Ch’è stato? uh quanta ggente! E cch’è ssuccesso?
Guarda, guarda che ffolla ar Conzolato!
1
Volémo dí cche cc’è cquarc’ammazzato?
Nò, ssarà un ladro co li sbirri appresso.
Pò èsse forzi
2
che sse sii incenniato...
ma nnun ze vede fume. O ssii ’n ossesso?
Ah, nnemmanco, pe vvia c’ar temp’istesso
tutti guarden’in zú.
3
Dunque ch’è stato?
S’arivòrteno
4
mó ttutti a mman destra...
Vedi, arzeno le mane.
5
Oh! ffussi un matto
che sse vojji bbuttà da la finestra!
Rideno!... Oh ccristo! je vienghi la rabbia!
nu lo vedi ch’edè?
6
Ttutto er gran fatto
è un canario scappato da ’na gabbia.
24 aprile 1834
1
Via del Consolato.
2
Può essere forse.
3
Guardano in su.
4
Si rivoltano.
5
Alzano le mani.
6
Che è: cosa è.
1241. Er pesscivénnolo
1
Un lustrino
2
li scèfoli?! Un grossetto
2
li merluzzi in ste razze
3
de ggiornate?!
Attaccàtesc’er voto,
4
sor pivetto,
5
che vvoi, questi che cqui, nnu li cacate.
Oh ffàteme er zervizzio, annate in ghetto
a ccontrat cco li par vostri, annate;
6
e cquanno avete er borzellino agretto,
scerte grazzie-de-ddio nu le guardate.
Puzza?! Ve puzzerà un tantino er culo.
Lo sapete pe vvoi quello c’odora?
Un frittarello de cojjon de mulo.
Guardate si
7
cche stommichi da pessce!
Maggnate la pulenta; e ccusí allora
vederete ch’er pranzo v’arïessce.
8
25 aprile 1834
1
Il pescivende.
2
Lustrino, grossetto, grosso: moneta d’argento da cinque baiocchi.
3
In queste specie.
4
Attaccateci il
voto. Attaccare il voto per checchessia, vale: «avere avuto alcunché una volta come per miracolo, da non più potersi
ottenere».
5
Pivetto: nome di scherno che si dà a’ garzonetti.
6
Andate.
7
Se.
8
Vi riesce.
1242. Er primo peccato contro lo Spiritossanto
Cari cristiani mii, de le tre mmute
1
de peccati mortali cor pistello,
2
er piú ppeccato prencipale è cquello
de la disperazzion de la salute.
Spesso, in punto de morte, io ho vvidute
animacce ppiú nnere d’un cappello
aritirate su pper un capello
ar momento llí llí dd’èsse futtute.
3
Nun c’è peggio assassino o sgrassatore,
che nun possi abbrillà
4
ccom’una stella
pe la misericordia der Ziggnore.
E un Beato Leonardo, p’er zu’ tanto
disperà nne l’affar de Gammardella,
nun ze poté ssarvà, bbello che ssanto.
5
25 aprile 1834
1
Le tre mute o classi de’ peccati attuali, che dan morte all’anima, cioè i peccati propriamente detti mortali, numero 7;
quelli contro lo Spirito Santo, numero 6; quelli gridanti vendetta al cospetto di Dio, numero 4. In tutto: numero 17.
2
Il
mortaio dicendosi comunemente a Roma mortale, fa che spesso prendasi per vezzo l’una per l’altra significazione;
e così per aumento di leggiadria vi si aggiunge talora la voce pestello, come quella che al mortaio da pestare
appartiene.
3
D’essere rovinate.
4
Non possa brillare.
5
Benché santo. Vedi il sonetto Li peccati mortali.
1243. L’udienza de li du’ Scozzesi
1
O ssiino du’ Scozzesi, o ddu’ Scozzoni,
in tutte le maggnère
2
èssi
3
contento
ch’è un gran piccolo
4
seggno de talento
quer méttese
5
a ggirà ssenza carzoni.
Dunque ar paese de sti du’ porconi
bbisoggna dí cche nun ce tiri vento;
perché, ssi cce tirassi,
6
oggni momento
j’annerebbeno in mostra li cojjoni.
E un Papa che cconossce le creanze
s’è ppotuto arisorve
7
a ddà l’udienza
a sta sorte de manichi-de-panze?
8
A rrisico,
9
per dio!, ch’in zu’ presenza,
ne l’inchinasse
10
o in antre scircostanze,
j’avessino da fà cquarche schifenza!
25 aprile 1834
1
Nel mese di aprile 1834 il Papa ricevé due capi di Clan-alpini scozzesi, nel loro abito di costume.
2
Maniere.
3
Sii.
4
Matematica esattezza di dire + —, = —.
5
Quel mettersi.
6
Se ci tirasse.
7
Risolvere.
8
Pel senso di questa perifrasi vedi il
Sonetto...
9
A rischio.
10
Nell’inchinarsi.
1244. Li reggni der Papa
È ttanto vero ch’er Papa è Mmonarca
fin de Ggerusalemme e cce commanna,
ch’io co st’orecchie ho inteso a Ppropaganna
1
che llui sempre sce
2
nomina er Padriarca.
«Dunque», disce,
3
«perché nnun ce lo manna
4
come manna li vescovi a la Marca?».
Perché cce sò li turchi e nnun cià
5
bbarca
da fàllo straportà,
6
ssora Susanna.
Anzi er Papa, sentitesce
7
Don Zisto,
è ccapo urbisi e ttòrbisi,
8
inzin dove
sò ccapi er Padr’Eterno e Ggesucristo.
V’abbasta, o vv’abbisoggneno antre
9
prove?
Tristo cului che sserra l’occhi! Tristo
chi nun capissce mai scinqu’e ttre nove!
26 aprile 1834
1
Propaganda-fide.
2
Ci.
3
Dice: «dicesi, alcuno dirà», e simili.
4
Non ce lo manda.
5
Non ci ha: non ha.
6
Da farlo
trasportare.
7
Sentiteci.
8
Urbis et orbis.
9
Altre.
1245. Er zervitor de Conzurta
1
Voi, sor abbate,
2
sti duscento scudi
l’avete da caccià ccome un ziggnore.
Chi vve scià
3
ffatto fà ggovernatore
senza manco la fede
4
de li studi?
Nun fui io ch’inventai a Mmonziggnore
5
c’avévio
6
mojje e cquattro fijji iggnudi?
Io bbisoggna er campà cche mme lo sudi
io povero cristian de servitore.
A mmé er padrone nun me dà ssalario;
e li rigali de le grazzie poi
l’ho ppuro
7
da spartí ccor zegretario.
8
Voi che ddiscévio?
9
«A ccose terminate
Duscento piastre, Checco,
10
11
pper voi».
La nomina sta cqui? ddunque pagate.
26 aprile 1834
1
La Consulta è il supremo Tribunal Criminale dello Stato, e il dicastero di giurisdizione sopra i governi delle terre:
questa seconda ingerenza è stata oggi modificata da uno de’ soliti moti-proprii del Papa. Il Sagro Tribunale si
compone di... prelati votanti.
2
Abate non si dice soltanto a chi lo è, ma serve anche d’ironia con chi non lo è.
3
Chi vi
ci ha. ecc.
4
Il certificato, la pagella. ecc.
5
Monsignor Segretario di Consulta, posto che prossimo adito al
conseguimento della porpora cardinalizia.
6
Che avevate.
7
Pure.
8
Il segretario di Monsignor Segretario.
9
Dicevate.
10
Francesco.
11
Sono.
1246. La scala de li strozzi
1
Caro lei, va a ttentà li capoccioni,
2
e ffiotta
3
poi si jj’arïessce
4
male?!
Cqua ppe sti ggiri
5
sce sò
6
le su’ scale
come da le suffitte a li portoni.
Offerenno
7
zecchini e ddobboloni
addrittura ar zoggetto prencipale
che ttiè in mano la penna ar Cardinale,
c’è dd’abbuscasse un carcio
8
a li cojjoni.
Er Zegretàr-de-Stato
9
ha er zu’ mezzano:
questo ha er zuo: l’antro un antro; e la strozzata
s’ha da spiggne
10
a l’inzú dde mano in mano.
Er piú ggrosso, se sa, nnaturarmente
se vò ssempre tené a la riparata
11
de poté ddí cche nnun ha avuto ggnente.
26 aprile 1834
1
Strozzo: prezzo di corruttela o prevaricazione.
2
Capoccioni: le persone ppotenti.
3
Si lamenta.
4
Se gli (le) riesce,
ecc.
5
Per questi giri: intrighi, maneggi.
6
Ci sono.
7
Offerendo.
8
C’è da buscarsi un calcio, ecc.
9
Il Segretario di Stato.
Questa apocope, sul vocabolo segretario, non si creda già una licenza poetica, ché noi non ne abbiamo mai prese.
10
Da spingere.
11
Si vuol sempre tenere al coperto, in guardia.
1247. Er frate
Che ccos’è un frate? Un frate è un ciarafano
1
morto ar Monno, a la carne, a le ricchezze,
ar commanno, a li spassi, a le grannezze,
e oggnantra spesce
2
de conzorzi’umano.
E un omo de sta sorte ste capezze
de Cardinali lo fanno sovrano,
padron de tutti, co le casse in mano,
e cco ttanti cannoni a le fortezze?!
E avete temp’a ddí vvoi che a l’asscenza
3
de governà la bbarca de lo Stato
sc’è lo Spiritossanto che cce penza.
Ché lo Spiritossanto, sor ciufèco,
4
da uniscianni
5
a sta parte è ddiventato
tutt’er ritratto d’un franguello sceco.
6
26 aprile 1834
1
Un uom da nulla.
2
Ogni altra specie.
3
Alla scienza.
4
Ciufèco: uomo semplice.
5
Undici anni. Queste cose si
scrivevano nel 1834.
6
Fringuello cieco, ad uso di richiamo nelle caccie autunnali.
1248. La Messa de San Lorenzo
1
Sonetti 2
Un giorno, a Ssan Lorenzo, entrò un ziggnore
e aggnéde
2
in zagristia co un colonnato,
3
acciò un prete sciavessi
4
scelebbrato
una messa d’un scudo de valore.
Er prete in ner momento fu ttrovato:
la messa se
5
cantò a l’artar-maggiore;
e un’anima purgante ebbe l’onore
de volà in paradiso a bbommercato.
Ma appena er prete se cacciò la vesta,
accortose la piastra ch’era farza,
6
attaccò un Cristo,
7
e ffesce una protesta.
E ll’anima sarvata ebbe er martorio,
stante la messa che nnun j’era varza,
8
de tornassene
9
addietro in purgatorio.
26 aprile 1834
1
La basilica di S. Lorenzo fuori delle mura, la chiesa di S. Gregorio al Monte Celio, e quella di S. Maria Liberatrice al
Foro Romano, hanno il privilegio di liberare illico et immediate un’anima dal purgatorio per ogni messa di uno scudo
di elemosina. Alcuni altari pe di altre chiese sono privilegiati ad instar.
2
Andò.
3
Intendi la moneta spagnuola, detta
«colonnato» o «pezzoduro».
4
Ci avesse.
5
Si.
6
Costruzione: accortosi che la piastra era falsa.
7
Cioè «una bestemmia»,
o, come in Roma dicesi, «un moccolo».
8
Costruzione. Stanteché la messa non gli aveva valuto.
9
Tornarsene.
1249. La Messa de San Lorenzo
Dico: «Vorebbe fàvve dì
1
una messa
pell’anima de tata
2
poverello:
ma un scudo sano nun ce ll’ho, e ppe cquello
’na mezza-piastra nun ve viè ll’istessa?»
«Mezza-piastra?!», risponne Don Marcello:
«Ma ccome vòi che un’anima sii messa
in paradiso pe ’na callalessa?
3
Nò, ppropio nun ze pò,
4
ccore mio bbello».
Dico: «Andiamo, la pago du’ testoni».
5
Disce: «Fijjo, assicurete ch’è ppoco,
e nnemmanco j’uprimo
6
li portoni».
«Via», dico, «un antro ggiulio».
7
Lui allora
me concruse cor dí
8
cche dda quer foco
pe mmen d’un scudo nun ze scappa fora.
26 aprile 1834
1
Vorrei farvi dire.
2
Mio padre.
3
Per un nonnulla.
4
Non si può.
5
Il testone è moneta d’argento da tre paoli.
6
Gli (le)
apriamo.
7
Giulio, paolo.
8
Col dire.
1250. L’assciutta
1
der 34
C’è antro
2
da penzà cche a ffà li pianti
perché nnun piove in nell’Agro-romano,
perché la secca manna
3
a mmale er grano,
e pperché mmoriremo tutti quanti.
Questi sò ttutti guai pe l’iggnoranti.
Quello che ddeve affrigge
4
oggni cristiano
è cch’er Zagro Colleggio nun è ssano
5
e ccià ttredisci Titoli vacanti.
6
Su’ Santità vorebbe provedelli,
ma, ffra ttanti prelati, indove azzecchi
pe ddà le teste a ttredisci cappelli?
Però, cquanno de mejjo nun ze trovi,
in ner pesà li cardinali vecchi
sc’è
7
da pij ccoraggio pe li novi.
27 aprile 1834
1
La siccità.
2
C’è altro.
3
Manda.
4
Affliggere.
5
Non è intiero.
6
Nessuno ignora ogni cardinale essere incardinato ad una
chiesa, donde trae il suo Titolo.
7
Ci è.
1251. La festa de San Nabborre
1
Fatta ’na spizzicata
2
de bbaruffa
3
co li sordàti, pe ppassà le porte,
potetti io puro
4
avé la bbella sorte
de sentí in chiesa quattro soni auffa.
5
La musica era un merangolo-forte
da dílla
6
co raggione Opera-bbuffa:
e ccantò mmessa monziggnor Camuffa,
7
uno de quelli che ccondanna a mmorte.
Da Diacono sce fesce Don Ortica,
quello che quarche vorta se
8
conzagra
una libbra de grosta e de mollica.
9
E ’r zudiacono fu cquella faccia agra
de Don Pio Scamonèa, che ttiè la fica
10
pe mmediscina ar mal de la polagra.
27 aprile 1834
1
Al 12 di luglio.
2
Alquanto di, ecc.
3
Lite.
4
Io pure, anch’io.
5
Vedi la nota... del Sonetto...
6
Dirla.
7
Nome finto, sotto il
quale si vela il celebrante, che fu uno de’ prelati votanti del Supremo Tribunal criminale della Sagra Consulta.
8
Si.
9
Una libra di pane. Ciò dicesi praticato da qualche sacerdote di scrupolosa coscienza per reficiarsi avanti la messa,
senza frangere il digiuno naturale.
10
Vedi il son. La madre, ecc.
1252. Er rispetto a li suprïori
1
Chi mmette sú
2
er padrone? Uno è cquer zozzo
3
bbrutto vecchio bbavoso cataletto
der zor Mastro-de-Stalla: e a llui ggià ho ddetto
che ttant’ha da finí cch’io me lo strozzo.
L’antro poi che l’inzòrfora
4
è un pivetto
5
c’un mes’addietro j’amancava er tozzo,
6
e mmó cch’è entrato in scuderia pe mmozzo,
tiè una ruganza
7
da Cacàmme-in-ghetto.
8
E nnu lo vò ccapí cch’io sò ccucchiere,
9
e cc’ho ppiú età de lui, e cche ppe cquesto
lui m’ha da rispettà ccom’è ddovere.
Lo soo,
10
ttutta farina
11
der vecchiaccio.
Ma io te ggiuro, da quell’omo onesto
che mme posso avvantà,
12
cch’io je la faccio.
13
28 aprile 1834
1
Superiori.
2
Metter su: indisporre l’animo di chicchessia.
3
Sozzo.
4
Insolfa: accende.
5
Ragazzotto.
6
Gli mancava il
tozzo.
7
Tiene una arroganza.
8
Cacàm o cacan del Ghetto degli Ebrei.
9
Sono cocchiere.
10
Lo so. In segno di perfetta
persuasione si pronunzia colla o prolungata, quasi fosse doppia.
11
Tutto maneggio.
12
Vantare.
13
Lo uccido.
1253. Er bùscio
1
de la chiave *
Gran nove! La padrona e cquer Contino
scopa de la scittà, spia der Governo,
ar zòlito a ttre ora se chiuderno
a ddí er zanto rosario in cammerino.
«Ebbè», cominciò llei cor zu’ voscino,
«sta vorta sola, e ppoi mai ppiú in eterno».
«E cche! avete pavura de l’inferno?»,
j’arisponneva lui pianin pianino.
«L’inferno è un’invenzion de preti e ffrati
pe ttirà nne la rete li merlotti,
ma nnò cquelli che ssò
2
spreggiudicati».
Fin qui intesi parlà: poi laggni, fiotti,
mezze-vosce, sospiri soffogati...
Cos’averanno fatto, eh ggiuvenotti?
3
29 aprile 1834
* Dopo questo va subito il seguente.
1
Buco.
2
Sono.
3
Giovanotti.
1254. La bbona nova *
Dunque nun c’è ppiú inferno! alegramente.
Ecco er tempo oramai de fasse
1
ricchi.
Dunque er dellà
2
è un inzoggno
3
de la ggente,
e nnun resta ch’er boja che cc’impicchi.
Sgabbellato
4
l’inferno, ar rimanente
se saperà ttrovà chi jje la ficchi.
Li ggiudisci nun zò
5
Ddio nipotente,
e cqui abbasta a spartí bbene li spicchi.
6
La lègge, è vvero, è una gran bestia porca;
ma l’inferno era peggio de la lègge,
e ffasceva ggelà ppiú dde la forca.
L’onor der monno? e cche ccos’è st’onore?
Foco de pajja, vento de scorregge.
7
Er tutto è nnun tremà cquanno se
8
more.
29 aprile 1834
* Va subito appresso al precedente.
1
Di farsi.
2
Il di-là.
3
Sogno.
4
Evitato.
5
Non sono.
6
Basta a far bene le porzioni.
7
Peti (con riverenza parlando).
8
Si.
1255. Li dannati
Fijji, a ccasa der diavolo se
1
vede,
tutt’in un mucchio, facce, culi e ppanze,
e ggnisuno llaggiú ppò stacce a ssede
2
co le duvute
3
e ddebbite distanze.
Figurateve mó ccosa succede
fra cquelle ggente llà ssenza creanze!
carci
4
spinte, cazzotti: e ss’ha da crede
5
scànnoli
6
d’oggni sorte e ggravidanze.
Sí, ggravidanze: e cchi ppò ddí er contrario?
quanno se sa cc’ar giorno der giudizzio
ce s’annerà cco ttutto er nescessario?
Ommini e ddonne! oh ddio che ppriscipizzio!
Come a l’inferno er Cardinal Vicario
troverà mmodo da levajje
7
er vizzio?
29 aprile 1834
1
Si.
2
Starci a sedere.
3
Dovute.
4
Calci.
5
Da credere.
6
Scandali.
7
Levargli, levar loro.
1256. Le du’ sentenze
Er tribbunale der Governo,
1
Arbina,
2
aveva data ar genero de Rosa
la condanna de morte ggnominiosa
co la fuscilazzione in de la schina.
3
Ma la Sagra Conzurta,
4
ppiú ppietosa,
ne la congregazzion de stammatina
j’ha mmutata la pena in quajjottina,
5
morte che ppe l’onore è un’antra
6
cosa.
E ttant’è vvero che la grazzia è ffatta,
ch’io mentre stavo cor lacchè de Francia
7
sott’a la Madonnella de la gatta,
8
ho vvisto er servitore der Ponente
9
entrà ccurrenno
10
pe ppijjà la mancia
11
ner porton de la mojje der pazziente.
12
29 aprile 1834
1
Così chiamasi il tribunale ordinario criminale, composto di...
2
Albina.
3
Schiena.
4
Tribunal criminale supremo. Vedi
il Sonetto...
5
Ghigliottina.
6
Altra.
7
Dell’ambasciador di Francia.
8
Cioè del «vicolo della gatta». Si sa Roma essere
gremita d’immagini della Vergine su tutti i muri delle case, o sopra un gran numero.
9
Il «Ponente» è il «giudice
relatore» della causa.
10
Correndo.
11
Da tutto si cava in Roma un soggetto di mance.
12
Del paziente.
1257. Er Ziggnor farzàrio
Un pasta-de-cojjoni, un scopa-cchiese,
che, ppe ccerta raggion de l’ottoscento,
1
seppe a ffuria d’apparti
2
in un momento
da copista viení cconte o mmarchese,
3
avenno
4
impasticciato un istrumento,
5
tre ssittimane fa stava a le prese
co la giannarmeria.
6
Ma a sto paese
ricchezza e nnobbirtà nnun va mmai drento.
Rimediò ttutt’er guasto un cardinale
7
(confessor de la mojje che jje piasce)
scrivenno
8
sto bbijetto ar Tribbunale:
«Ir
9
ziggnor Conte mio nun è ccapasce
di fà cquello c’ha ffatto in criminale;
e lo lassino
10
vive
11
in zanta pasce».
29 aprile 1834
1
Nel 1800 fu eletto papa Pio VII amico e protettore di questo Signore.
2
Appalti.
3
Il Signor Conte Luigi Marconi, di
Monte Melone o Milone, già copista del Curiale abate Flaviani.
4
Avendo.
5
Onde guadagnare una lite contro il Conte...
Negroni.
6
Gendarmeria. Nome che talvolta si al Corpo de’ Carabinieri succeduto a quella milizia d’invenzione
francese, dopo la ristaurazione del 1814.
7
L’E.mo Vicario Placido Zurla.
8
Scrivendo.
9
Il.
10
Lascino.
11
Vivere.
1258. Li sparaggni
1
L’omo de colomía
2
le provisione
se le fà cco ggiudizzio a ttemp’e lloco,
e sta ssempre a la lerta
3
all’occasione
che le ccose che vvò, ccostino poco.
Tu gguarda, pe pportatte
4
un paragone,
padron Intrujjo Sbrodolini er coco:
come viè istate, lui crompa
5
er carbone
pe l’invernata ch’è ppiú ccaro er foco.
E cquanno annò ffallita la drughiera,
6
e li su’ creditori, ar tribbunale,
je fésceno
7
incantà ttutta la scera,
tu tt’aricorderai c’un cardinale
se la prese pe ssé quanta sce n’era
pe ffàsse
8
a bbommercato er funerale.
9
29 aprile 1834
1
Risparmi.
2
Economia.
3
All’erta.
4
Portarti.
5
Compera.
6
Droghiera.
7
Gli (le) fecero.
8
Farsi.
9
Il cardinale de Maury,
arcivescovo di Parigi sotto l’Impero, avarissimo uomo, pensò a questa economia per dopo la sua morte.
1259. L’essempio
Conzideranno
1
come sò accidiosi
2
sti pretacci maliggni e ttraditori:
esaminanno
3
quanto sò rrabbiosi,
jotti,
4
avari, superbi, e fottitori;
ripijji un po’ de fiato, t’arincori,
t’addormi ppiú ttranquillo e tt’ariposi:
perché li loro vizzi
5
piú ppeggiori
serveno a illuminà lli scrupolosi.
È er Crero
6
che cc’impara
7
a ffà ll’istesso,
er Crero, c’ha scordato er gran proscetto
d’amà er prossimo suo com’e ssestesso.
Mentre li preti offènneno
8
er decoro
e la lègge de Ddio j’è mmorta in petto,
chi vvorà rrispettà la lègge lòro?
30 aprile 1834
1
Considerando.
2
Sono.
3
Esaminando.
4
Ghiotti.
5
Vizi.
6
Il Clero.
7
Impara, per «insegna».
8
Offendono.
1260. L’omo e la donna
«Sí», strillava, «è ggiustizzia da galerra
1
che nnoi povere donne disgrazziate
sempre avemo da èsse soverchiate
come fússimo statüe de terra.
Voiantri purcinelli de la Scerra
date fora l’editti, predicate,
dite messa, assorvete, ggiustizziate,
e, ppe gionta de ppiú, ffate la guerra.
Cos’ha, ppiú de la donna, un galeotto
d’omaccio, pe pprotenne
2
in oggni caso
de stà llui sopra e dde tiené
3
llei sotto?
Cos’ha dde ppiú? una mano, un piede, un stinco,
una bbocca, un’orecchia, un occhio, un naso?».
Allora io: «Nu lo sapete? un pinco».
4
30 aprile 1834
1
Dalla massima parte del popolo galera è pronunziata galerra.
2
Pretendere.
3
Di tenere.
4
Vedi il Sonetto..., al quale
questo vocabolo può servire di appendice.
1261. Lo scummunicato
Nun prenno
1
pasqua: ebbè? scummunicato
ho ppiú ffed’io,
2
che un Giuda che la prenne;
3
perché un bijjetto se crompa e sse venne,
4
e er chirico
5
ne sa ppiú der curato.
E nnun ce vò
6
ggran testa per intenne
7
ch’er corpo de Ggesú Ssagramentato
tanti vanno a mmaggnasselo
8
in peccato
come le colazzione e le merenne.
9
E ss’io pe nnun commette
10
un zagrileggio,
nun essenno indisposto
11
a cconfessamme,
12
soffro l’infamia, er tabbellone,
13
e ppeggio,
credo d’èsse
14
ppiú ffijjo de la Cchiesa,
che cquelli che sse crompeno
15
le fiamme
co un boccone
16
o ttre ppavoli de spesa.
17
11 maggio 1834
1
Non prendo.
2
Ho più fede io.
3
Prende.
4
Si compera e si vende.
5
E il chierico, ecc. Vedi il sonetto intitolato Li
Chirichi, alla nota...
6
E non ci vuole.
7
Intendere.
8
A mangiarselo.
9
Le colezioni e le merende.
10
Per non commettere.
11
Non essendo disposto.
12
A confessarmi.
13
Il tabellone, o il cartellone, è la lista degli scomunicati per non
soddisfatto precetto pasquale, e si appende alla porta maggiore di S. Bartolommeo all’isola Tiberina il giorno 25 di
agosto. Vi figurano sempre nomi oscurissimi della feccia del popolo, perché o gli altri sono prudenti, o per essi sono
prudenti i curati.
14
Credo d’essere.
15
Che si comperano.
16
«Qui manducat et bibit indigne, iudicium sibi manducat et
bibit».
17
Vedi la nota citata già qui sopra alla nota 5.
1262. La prudenza der prete
Ssceso er Bambin de la Resceli,
1
e appena
fattoje
2
er lavativo d’ojjo
3
e mmèle,
cominciò a ppeggiorà, ppovera Nena,
4
e a vvení ggialla com’è ggiallo er fele.
5
Che ffo allora! esco e ccrompo du’ cannele:
6
e ssudanno a ffuntane
7
da la pena,
curro
8
in chiesa a pportalle a Ddon Micchele
per accènnele
9
a Ssanta Filomena.
10
Lui se l’acchiappa,
11
e ddoppo, «Fijjol mio»,
me disce, «vostra mojje a cche sse
12
trova?».
Dico: «Llí llí ppe ddà ll’anima a Ddio».
E llui: «De cazzi ch’io la fò sta prova!
Rïeccheve
13
li moccoli, perch’io
nun vojjo scredità una Santa nova».
14 maggio 1834
1
Disceso il Bambino dell’Aracoeli. Vedi la nota... del Sonetto…
2
Fattogli, per «fattole».
3
D’olio.
4
Maddalena.
5
Il
fiele.
6
Compero due candele.
7
Sudando a fontane.
8
Corro.
9
Per accenderle.
10
Vedi il Sonetto...
11
Egli se le ghermisce.
12
Si.
13
Rieccovi: eccovi indietro, ecc.
1263. L’Olivetani
Io, er mi’ fijjo granne e mmi’ fratello
erimo
1
tutt’e e ttre ccapi-ortolani
dell’orto de li Padri Olivetani
che nnun c’è ar Monno un orto accusí bbello.
Ma vvenuto a rreggnà sto gran cervello
de Don Mauro,
2
noi poveri cristiani
semo stati cacciati com’e ccani,
propio come caggnacci de mascello.
E pperché? pperché er Papa ha avuto vojja
de sopprime
3
sti Monichi, e mmó adesso
fa l’inventario, e, bbontà ssua, li spojja.
E pperché ll’ha ssoppressi e ll’ha spojjati?
Pe ffà a spese dell’Ordine soppresso
piú rricchi li su’ antichi cammerati.
4
15 maggio 1834
1
Eravamo.
2
Mauro Cappellari, poi Papa Gregorio XVI.
3
Di sopprimere.
4
I beni dell’Ordine Olivetano sono stati donati
da Gregorio a’ suoi confratelli Camaldolesi: e per ciò tanto più gli Olivetani risguardano la loro soppressione come un
fatto di personalità, in quanto che dentro il solo Stato pontificio si è quella circoscritta, dove solamente si poteva dal
Papa disporre a suo talento di proprietà altrui, comunque ecclesiastiche.
1264. Li Monichi Mmaledettini
1
Novanta Padr’Abbati sascerdoti,
sedenno tutti quanti in ordinanza
siconno
2
la misura de la panza,
hanno fatto Capitolo. E sse
3
noti
ch’er motivo de tanta aridunanza
è stato pe ddiscide
4
e mannà a vvoti
si
5
ar pranzo de sta Regola de sscioti
6
sce se
7
dovessi
8
cressce
9
una pietanza.
Cristo! che bbattibbujjo
10
bbuggiarone!
Chi pparlava de carne, e cchi de pessce;
e ggnisuno capiva la raggione.
Puro
11
a la fine s’è vvenuto in chiaro
che la pietanza nun ze possi
12
cressce,
ma in logo d’una se ne creschi
13
un paro.
15 maggio 1834
1
Benedettini.
2
Secondo.
3
Si.
4
Per decidere.
5
Se.
6
Sciòti: ironia di sciocchi.
7
Ci si.
8
Dovesse.
9
Crescere.
10
Conflitto.
11
Pure.
12
Non si possa.
13
Cresca.
1265. L’ore canoniche
Lo so cche sta
1
canajja bbuggiarona
va in coro ar matutino, Sora Teta,
2
e cce
3
va a pprima, a tterza, a ssest’e a nnona,
e ’r doppo-pranzo a vvesper’e a ccompieta.
Ma vve
4
credete voi che, cquanno sona
quela campana, ggnisuno
5
s’inquieta
pe sscéggne a ddí
6
l’uffizzio o la corona,
o a mmettese
7
la cotta o la pianeta?
Oggni frate va in Coro, perché llui,
(sii vergoggna, o ppulitica, o ppavura)
nun vò ddí all’antri
8
li penzieri sui.
Che ssi
9
Ffra Ppio, Fra Mmarco o Ffra Grigorio
fussi
10
er primo a strillà: Cche sseccatura!,
currerebbeno
11
tutti ar rifettorio.
15 maggio 1834
1
Questa.
2
Signora Teresa.
3
Ci.
4
Vi.
5
Nessuno.
6
Per scéggne. ecc. Con la prima e chiusa: «per discendere a dire».
7
Mettersi.
8
Non vuol dire agli altri.
9
Che se.
10
Fosse.
11
Correrebbero.
1266. Er miracolo de San Gennaro
Come però er miracolo c’ho vvisto
cor mi’ padrone a Nnapoli, di’ ppuro
1
che cquant’è ggranne er Monno, Mastro Sisto,
nun ne ponno succede
2
de sicuro.
Usscí un pretone da de-dietro un muro
3
co un coso
4
pieno de sanguaccio pisto,
e strillò fforte a ttante donne: «È dduro».
E cquelle: «Sia laudato Ggesucristo».
E ddoppo, in ner frattempo ch’er pretone
se smaneggiava
5
er zangue in quer tar
6
coso,
le donne bbiastimaveno orazzione.
7
Finché cco sto smaneggio e nninna-nanna
8
er zangue diventò vvivo e bbrodoso
9
com’er zangue d’un porco che sse
10
scanna.
18 maggio 1834
1
Di’ pure.
2
Succedere: accadere.
3
Il prete col reliquario in forma di lanterna di carrozza, entro cui sono le due
ampolle di sangue, esce di dietro l’altare che è isolato. Dalla parte opposta esce altro prete col teschio del santo
vescovo rinchiuso nel capo di un busto d’argento ornato come una mammana in giorno di battesimo. All’incontrarsi di
queste due reliquie, or più presto e or più tardi accade il miracolo della fusione, il quale accadeva anticamente nella
grotta di Posilipo, prima che la divozione de’ Napolitani rubasse violentemente quel teschio alla città di Pozzuoli.
4
Con un coso, ecc. Coso è voce generica che rappresenta tutto ciò che si vuole. Qui sta pel «reliquario» nominato alla
nota precedente.
5
Si maneggiava. Tardando il miracolo, il prete si ravvolge tra le mani il reliquario, e lo frega e lo
accarezza.
6
In quel tal.
7
Bestemmiavano orazioni. E realmente le sono piú bestemmie che altro. Fra i credi e le salve-
regine, ecc., recitate o gridate con una specie di furon baccante, e storpiate Iddio sa come, è sempre interpolata la
orazione seguente: Benedetto lo Padre, benedetto lo Fijjo, benedetto lo Spiritossanto, che cià ddato chisso Santo
nuosto; e fede a chi nun crede.
8
La «ninna-nanna», tanto esprime quelle cantilene con le quali le nutrici provocano il
sonno de’ bambini, quanto il tentennamento delle culle, da quelle cantilene accompagnato.
9
Liquido.
10
Si.
1267. Er battesimo der fijjo maschio
Cosa sò
1
sti fibbioni sbrillantati,
2
sto bber cappello novo e sto vistito?
Sta carrozza ch’edè?
3
cch’edè st’invito
de confetti, de vino e dde ggelati?
E li sparaggni tui
4
l’hai massagrati,
cazzo-matto somaro sscimunito,
perché jjeri tu’ mojje ha ppartorito
un zervitore ar Papa e a li su’ frati?!
Se
5
fa ttant’alegria, tanta bbardoria,
6
pe bbattezzà cchi fforzi
7
è ccondannato,
prima de nassce,
8
a cojje
9
la scicoria!
Poveri scechi!
10
E nnun ve sete accorti
ch’er libbro de bbattesimi in sto Stato
se potería
11
chiamà llibbro de morti?
22 maggio 1834
1
Sono.
2
Brillantati, non già adorni di brillanti, ma lavorati a faccette forbite e rilucenti.
3
Che è?, cosa è?
4
I risparmi
tuoi.
5
Si.
6
Baldoria: esultanza strepitosa.
7
Forse.
8
Di nascere.
9
A raccogliere.
10
Ciechi.
11
Si potrebbe.
1268. Li sordati bboni
Subbito c’un Zovrano de la terra
crede c’un antro
1
j’abbi tocco
2
un fico,
3
disce ar popolo suo: «Tu sei nimmico
der tale o dder tar
4
re: ffàjje
5
la guerra».
E er popolo, pe sfugge
6
la galerra
o cquarc’antra grazzietta che nnun dico,
pijja lo schioppo, e vviaggia com’un prico
7
che spedischino in Francia o in Inghirterra.
Ccusí, pe li crapicci
8
d’una corte
ste pecore aritorneno a la stalla
co mmezza testa e cco le gamme storte.
E cco le vite sce se ggiuca
9
a ppalla,
come quela puttana
10
de la morte
nun vienissi da lei
11
senza scercalla.
12
23 maggio 1834
1
Altro.
2
Gli abbia toccato.
3
Fico: qui sta per un «nonnulla».
4
Tal.
5
Fagli.
6
Per isfuggire.
7
Plico.
8
Capricci.
9
Ci si
giuoca.
10
Per bene pronunziare le due antecedenti parole, si deve considerarle quasi fossero unite, di modo che
l’accentuazione non cada che sulla prima a di puttana.
11
Non venisse da sé.
12
Cercarla.
1269. L’arme provìbbite
Je
1
sta bbene a st’infami framasoni,
e ’r Governo è un gran omo de punilli.
2
Impareranno a rriportà
3
li stilli
e li verdúchi drento a li bbastoni.
E ha rraggione de
4
Ppadre Perilli
5
che ddu’ anelli da piede a li carzoni
6
sò,
7
ddoppo de la forca, lli ppiú bboni
medicamenti pe gguarí li grilli.
8
E ggià cch’er Papa storce
9
de curalli
drento in ne lo spedàr
10
der cimiterio,
vadino a scopà Rroma,
11
e bbuggiaralli.
Chi pporta l’arme ha da morí in catene,
eccett’a nnoi
12
che in tanto diavolèrio
13
si pportamo
14
er cortello, è a ffin de bbene.
23 maggio 1834
1
Gli.
2
È da riputarsi grand’uomo, quante volte li punisce.
3
Riportare, nel senso di «portar nuovamente».
4
Di dire.
5
Frate conventuale, intrigante, istigatore e spia del Governo.
6
Due anelli appiè dei calzoni.
7
Sono.
8
Grilli: idee esaltate.
9
Storce: non consente.
10
Spedal.
11
Allude alle opere pubbliche, alle quali i condannati s’impiegano.
12
Eccetto noi.
13
In
tanto sconvolgimento di cose.
14
Se portiamo.
1270. Li Prelati e li Cardinali
Pìjjete gusto: guarda a uno a uno
tutti li Cardinali e li Prelati;
e vvederai che de romani nati
sce ne
1
ppochi, o nnun ce n’è ggnisuno.
2
Nun ze
3
sente che Nnapoli, Bbelluno,
Fermo, Fiorenza, Ggenova, Frascati...
e cqualunque scit lli ppiú affamati
li manna
4
a Rroma a ccojjonà er diggiuno.
Ma ssaría poco male lo sfamalli
er pegg’è cche de tanti che cce trotteno
5
li somari sò ppiú de li cavalli.
E Rroma, indove viengheno
6
a ddà ffonno,
e rrinnegheno Iddio, rubben’e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der Monno.
27 maggio 1834
1
Ce ne sono.
2
Nessuno.
3
Non si.
4
Manda.
5
Ci trottano. Trottare, per «accorrere».
6
Vengono.
1271. La difesa de Roma
Co ttutto che a Ssan Pietro sc’è un Papaggno
1
che cce tratta da passeri e cce pela,
e dda settantadua torzi de mela
un antro ne viería sempre compaggno,
puro
2
abbasso la testa e nnun me laggno
quann’essce quarch’editto che tte ggela;
e cqui a Rroma sce sto pperché oggni raggno
è attaccato e vvò bbene a la su’ tela.
E io nun faccio com’e vvoi, nun faccio,
c’ar piú mménomo assarto de gabbella
ve se sente strillà: Cche ppaesaccio!
Che ccorpa
3
sce n’ha Rroma poverella
si un governo affamato allonga er braccio
e vve se viè a vvotà ppila e scudella?
27 maggio 1834
1
Papagno, qui sta per «Papa», ma in romanesco vuol dire: «pugno, percossa».
2
Pure.
3
Colpa.
1272. Li parafurmini
Tenételi da conto sti puntali
de ferro inarberati a ’ggni cantone!
Come si
1
anticamente, sor cojjone,
nun usassino
2
ar monno temporali.
Avete tempo d’inventà invenzione:
li fraggelli de Ddio sò ssempre uguali.
E lo sperà cche un furmine nun cali
pe uno spido,
3
è un mancà dde riliggione.
Li veri parafurmini cristiani
pe trattené pper aria le saette
e ccaccià vvia li furmini lontani,
nun zò
4
mmica sti ferri da carzette,
ma ssò li campanelli loretani,
5
le campane, e le parme
6
bbenedette.
28 maggio 1834
1
Se.
2
Non usassero.
3
Per uno spiedo.
4
Non sono.
5
Nel maggior furore delle tempeste sogliono le pie donne cavare un
braccio fuori della finestra, agitando nell’aria un campanelluzzo stropicciato già sulla sacra scodella della Santa Casa
di Loreto. La procella allora, dopo fatto il suo corso, cessa e ridà luogo alla serenità.
6
Palme. Sono per lo più
ramuscelli di ulivo.
1273. Le mmaledizzione
Monziggnor nostro cor messale in mano
du’ schizzi d’acqua-santa e cquattro strilli,
è annato fora a mmaledí li grilli
e a pproibbijje
1
de maggnasse
2
er grano.
Circ’a l’inibbizzione de lo spano
3
nun je se pò
4
impuggnà ssenza cavilli;
ma, ar mi’ poco ggiudizzio, er maledilli
nun me pare un’azzione da cristiano.
Grilli, tiggnòle, bbagarozzi e rruche
5
sò ccrature
6
de Ddio come che nnoi:
sola diverzità cche ssò ppiú cciuche.
7
Eh ccome dunque Monziggnor Croscifero
pò mmaledilli, e ppredicacce
8
poi
ch’è inzin peccato a mmaledí Lluscifero?
29 maggio 1834
1
Proibirgli, per «proibir loro».
2
Di mangiarsi.
3
Del mangiare.
4
Non gli si può.
5
Ed eruche.
6
Sono creature.
7
Piccole.
8
Predicarci.
1274. Lo spunto de cassa
«Santo Padre», disceva er Tesoriere,
«è vvòto
1
er piatto p’er Zagro Colleggio».
E cqui er Papa annò in bestia, e strillò ppeggio
che nnun strilla un garzon de caffettiere.
E sformava
2
a rraggione. Un gabbeggliere
3
nun ha dd’avé mmai vòti in ner conteggio,
tanto ppiú ppe cchi ggode er privileggio
che jje s’abbi
4
da empí ppiatto e bbicchiere.
Co cquella sarza poi de San Bennardo
5
c’un cardinale se tiè
6
ssempre addosso,
voi fà cch’er piatto suo soffri
7
ritardo?
Va’ a ccercà adesso quer ch’è ggiusto! Ggiusto
fu impiccato a la Storta;
8
e un Pettorosso
pò ffà ssantificà ppuro
9
l’ingiusto.
31 maggio 1834
1
Vedi il Sonetto...
2
Sformare: sformar cappello: prorompere in collera.
3
Gabbelliere.
4
Gli si abbia.
5
Salsa di S.
Bernardo: fame. E dicesi qualunque cibo il più grossolano riuscire squisito, allorché è condito con la salsa di S.
Bernardo.
6
Si tiene.
7
Soffra.
8
Proverbio romano. La Storta è la prima posta de’ cavalli uscendo di Roma per la parte
settentrionale d’Italia.
9
Pure.
1275. L’Uditor de la Cammera
1
L’A. C. nnovo, in ner ceto de prelati
è un de quelli de li tajji
2
vecchi,
e sse pò ddí
3
lo specchio de li specchi
de li galantomoni inciprïati.
Vedi come lo tratteno l’abbati
scortichini, attacchini e mmozzorecchi?
4
Tutti je
5
vanno a ffà ssalamelecchi
6
e averàbbili,
7
a sconto de peccati.
«Co ttante spremiture de limoni»,
8
me disceva un copista de Notaro,
«pare che sta canajja lo cojjoni.
E llui nun ze n’accorge: anzi l’ha a ccaro,
perché, ffra ll’antri
9
su’ nummeri
10
bboni,
a ccervello sta peggio d’un zomaro».
3 giugno 1834
1
L’Uditore della Camera, cioè il capo del Tribunale Innocenziano, s’indica nelle scritture colle sole iniziali A. C.,
cosicché poi dicesi il Tribunale dell’A. C., o semplicemente l’A. C. (Auditor Camerae).
2
Tagli.
3
Si può dire.
4
I
curiali.
5
Gli.
6
Salamelèch deriva da salam alaik, parole che profferiscono i Turchi nell’inchinarsi con riverenza.
7
Ave
rabbi: frase evangelica.
8
Spremere i limoni è quel congiungere delle mani inserendo i diti dell’una in quelli dell’altra,
che si fa in atto di preghiera o di ossequio.
9
Altri.
10
Requisiti, qualità. Numeri di sommario: frase forense: cioè
documenti in aiuto della propria causa.
1276. Li dilitti d’oggiggiorno
Don Marco fu cconvinto d’adurterio,
e er Papa l’assorvé ccome innoscente.
Diede in culo a li fijji de Saverio,
e er Papa disse: «Nun è vvero ggnente».
Ha ffatto stocchi,
1
furti, e un diavolèrio
de fede farze contro tante ggente,
e er Papa se n’e usscito
2
serio serio:
«Nun ci vojjamo crede un accidente».
Arfine jjeri pe vvoler divino
una spia je soffiò ste du’ parole:
«Santo Padre, don Marco è ggiacubbino».
E er zanto Padre, in ner momento istesso,
sentennose
3
toccà ddove je dole,
lo condannò da lui
4
senza proscesso.
4 giugno 1834
1
Trufferie di danano.
2
Se n’è uscito: se n’è disimpegnato col dire, ecc.
3
Sentendosi.
4
Da sé medesimo.
1277. Li studi de li regazzi
Su a Ttermini,
1
un regazzo de talento
avenno visto quarc’antro regazzo
esercitasse a ddà llezzione ar cazzo,
provò llui puro, e sse trovò ccontento.
E nnun volenno ar primo spirimento
lassà in terra li segni de lo sguazzo,
scolò ttre vvorte er zugo der rampazzo
in un bicchiere, e lo lassò llí ddrento.
Du’ ggiorni doppo che sse fu istruito,
tornò a vvede quer brodo de sostanza,
e lo trovò ffetente e inverminito.
Allora er bravo regazzin de Termini
disce: «E sta robba io sciò ddrent’a la panza?!
A tté, a tté, mmano mia: fora sti vermini».
4 giugno 1834
1
Termini. Cosí chiamasi il luogo, dov’erano le magnifiche Terme di Diocleziano. Uno de’ vasti granai che vi aveva,
sotto i passati Papi, l’Annona, è stato da Pio VII convertito in un reclusorio di poveri, i quali vi si alimentano, vestono
ed istruiscono nelle arti. Il fine pe di estirpare in Roma il mestiere dell’accattonaggio non è stato con ciò affatto
conseguito.
1278. Er motivo prencipale
A gguardà bbene, er Papa, appress’a ppoco,
è un omo fatto d’ossa, carne e ppelle,
co la bbocca, li denti e le bbudelle,
e li membrucci sui tutti ar zu’ loco.
Èccheve
1
la raggion de le gabbelle:
pe vvia che
2
li quadrini che ddà ar coco
acciò jje metti
3
un po’ de pila ar foco,
nun je ponno fioccà ggiú dda le stelle.
Paga poi lavatura e stiratura,
lumi, vestiario, spie, preti d’ajjuto,
stalla, e ddu’ fronne
4
de villeggiatura;
com’ha da vive
5
er povero Siggnore?
Manna
6
un editto, e ddisce: «Ho rrisoluto,
popolo mio, de rosicatte
7
er core».
5 giugno 1834
1
Eccovi.
2
Imperocché.
3
Gli metta.
4
Due fronde: un tantino.
5
Vivere.
6
Manda.
7
Rosicarti.
1279. Er Confessore mio
La viggijja der nome de Maria,
viscino a mezzoggiorno, un de li frati
francescani minori ariformati
me portò a cconfessamme
1
in zagristia.
Dico er confideor, raschio, e ppoi via via
j’incomincio a sfilà li mi’ peccati:
e er frate co li gommiti appoggiati
stava a ssentí la confessione mia.
Quann’ecco, incirca a la mità
2
de quella,
den den dèn, den den dèn, for de la porta
se
3
sente sbatoccà
4
una campanella.
Hai visto er frate? S’arza sú addrittura,
strillanno: «Un’antra
5
vorta, un’antra vorta,
perché adesso ho un affare de premura».
5 giugno 1834
1
Confessarmi.
2
Metà.
3
Si.
4
Sbatoccare, verbo derivato da batocchio (battaglio), che il popolo dice batocco.
5
Altra.
1280. Le lemosine p’er terremoto
1
Terminata la quèstuva,
2
e indivisi
3
tutti quanti li fonni aridunati,
sei mijjara de bbravi colonnati
furno spidite ar Vescovo d’Assisi.
4
Figurateve lui! Visti e ccontati,
je pàrzeno
5
sei mila paradisi:
eppuro,
6
a ddílla in termini priscisi
7
li danni nun zò ancora arimediati.
Ma annatesce
8
a pparlà! «Ssori cojjoni»,
v’arisponne, «l’ho spesi mejjo assai
ner fà una compaggnia de Scenturioni».
9
Bbasta, o sii vero o ’na bbuscía
10
ggiocosa,
er terremoto come ll’antri guai
pe li vescovi è bbono a cquarche ccosa.
11
6 giugno 1834
1
Il tremoto che nel... affllisse Fuligno e buona parte dell’Umbria.
2
In Roma fu fatta una questuazione per soccorrere ai
danni di quel flagello.
3
Divisi.
4
Monsignor Zelli, viterbese.
5
Gli parvero.
6
Eppure.
7
Precisi.
8
Andateci.
9
I Centurioni
sono una specie di Santa Hermandad, armata specialmente dai vescovi dello Stato, per rinnovare al bisogno una Saint-
Barthélemy contro i liberali, dichiarati felloni ed eretici.
10
Bugia.
11
A ragione dicono i Francesi: A quelque chose
malheur est bon.
1281. La carità ccristiana
È arrivato a l’orecchie der Governo
quarmente er zotto-coco der Farcone,
1
che pprima ha vvinto un ambo e ddoppo un terno,
j’abbi dato li nummeri un stregone.
Su sta vosce la Santa Inquisizzione,
ch’è nnimmica ggiurata de l’inferno,
j’ha mmannato sei ottime perzone
pe vvisitallo con amor fraterno.
Entrata a ccasa sua sta bbrava ggente,
j’ha ccominciato a ddí: «Fijjolo, zitto:
se
2
fa ppe bbene tuo: nun temé ggnente».
Defatti er capo, sibbè
3
aveva er dritto
de manettallo, ha ppresi solamente
li quadrini der corpo der dilitto.
6 giugno 1834
1
Osteria in Roma.
2
Si.
3
Sebbene.
1282. La ggiustizzia pe li frati
In primo logo, un frate, anche a vvolello
pien de dilitti e ccarico de fijji,
un governo eccresiastico è ppe cquello
senz’occhi, senz’orecchie e ssenz’artijji.
Inortre li Conventi hanno un fraggello
1
d’arberinti
2
e dde tanti annisconnijji,
3
che mmànnesce
4
qualunque bbariscello
5
e mme tajjo la testa si
6
lo pijji.
Finarmente, te vojjo anche concede
ch’er frataccio sii trovo e ccarcerato
quer ch’imbrojjeno poi come se
7
vede?
Malappena er bisbijjo s’è acquietato,
je muteno convento, e cche ssuccede?
Chi ha aúto ha aúto,
8
e cquer ch’è stato è stato.
7 giugno 1834
1
Una infinità.
2
Di laberinti.
3
Nascondigli.
4
Mandaci.
5
Bargello.
6
Se.
7
Si.
8
Chi ha avuto ha avuto.
1283. Monte-scitorio
1
Fra ttutti li ppiú mmejjo palazzoni
Monte-scitorio è un pezzo siggnorile.
Tiè bbannerola, orloggio e ccampanile,
co un grossissimo par de campanoni:
ventiscinque finestre, e ttre pportoni
fra cquattro colonnette incise
2
a ppile,
3
du’ cancelli de fianco, un ber cortile,
funtana, scala-reggia e ggran zaloni.
L’unica cosa sola che ffa ttorto
ar Papa che cciarzò
4
li tribbunali,
è cche nun ciàbbi
5
fatto aggiuggne un orto.
Nun zapeva quer zommo Sascerdote
quant’abbino bbisoggno li curiali
d’un zito pe ppiantacce
6
le carote?
7 giugno 1834
1
Monte Citorio: palazzo della Curia Innocenziana, così detta dal Pontefice Innocenzo XII che ve la stabilì. Vedi pel di
più la nota... del Sonetto...
2
Scolpite.
3
Le tre pignatte, arme della famiglia Pignatelli, donde uscì il detto Pontefice.
4
Ci
alzò.
5
Ci abbia.
6
Di un sito per piantarci, ecc.
1284. Er modo de provisione
Nnò, nnò, er Papa è un bon diavolo, Bbibbiana:
è un’animella, è un angiolo, è una sposa;
1
e ssi
2
in oggi a nnoi pecore sce
3
tosa,
è sseggno c’ha bbisoggno de la lana.
Ma ha pprudenza, ha ppulitica, e ’ggni cosa
la stronzidera
4
bbene a la lontana;
e cquello che pprincipia a la Bbefana
5
se lo rumina ancora a Ppasqua-rosa.
6
Heeh, l’amico scerasa
7
ha ggran pavura
de ste pressce der cazzo, perché er furbo
sa cch’er trotto dell’asino nun dura.
Lui tratanto fa er male; e doppo, er bene
vierà ccor tempo. E nnun zaría
8
ppiú sturbo
d’avé pprima li gaudi e ppoi le pene?
7 giugno 1834
1
Colla o chiusa.
2
Se.
3
Ci.
4
Sarcasmo di considera.
5
Pasqua Epifania.
6
La Pentecoste.
7
Amico cerasa, vale
semplicemente: «amico».
8
Sarebbe.
1285. Un’opera de misericordia
Frall’opere chiamate da l’abbati
de le misericordie corporale
che ar giorno der giudizzio univerzale
n’averemo da èsse
1
esaminati,
c’è: Ssesto visità li carcerati;
ma cquer proscetto
2
nun è ssempre uguale,
ggiacché ppe ccerti carcerati vale
e ccert’antri
3
sò invesce accettuati.
4
Semprigrazzia,
5
er Governo è dd’oppiggnone
6
che pp’er povero ladro e ll’assassino
s’abbi
7
d’avé ariguardi e ccompassione.
Ma in quanto ar carbonaro e ar giacubbino
s’hanno d’abbandonà ddrent’in priggione
senza dà rretta un cazzo ar Belarmino.
8 giugno 1834
1
Essere.
2
Precetto.
3
Altri.
4
Eccettuati.
5
Exempli gratia. Roma ridonda di modi latini, che precipitano sino alla plebe.
6
Di opinione.
7
Si abbia.
1286. La bbonifisciata
1
L’introito de stasera è a bbonifizzio
tutto der capo-comico Avarino
2
che ppe li bball’in corda è un ballerino
da mettesce le mane er Zant’Uffizzio.
Chi nun vede la carca ar butteghino!...
Propio è un ammazzamento e un priscipizzio:
perché sta ggente ha cquer mazzato vizzio
de volé cche sse crompi
3
er bullettino.
Hanno attaccato un cartellone ggiallo
piú sbillongo
4
d’un telo de lenzolo,
da lèggese
5
un po’ a ppiede e un po’ a ccavallo.
E ddicheno che ddisce che cc’è er giro
der Zole attorn’ar grobbo, e in fine er volo
de Mercurio, de Frora e dde Zzaffiro.
6
8 giugno 1834
1
Beneficiata. A Napoli corre un simile vocabolo, ma significa il pubblico lotto.
2
Averino, capo di una compagnia di
saltatori, atleti e funamboli.
3
Si comperi.
4
Bislungo.
5
Leggersi.
6
Zeffiro.
1287. Er negroscopio solaro andromatico
1
Mettémo da ’na parte, mastro Bbiascio,
l’ascéto che cce noteno
2
l’inguille:
lassamo stà la porvere der cascio
piena d’animalacci a mmill’a mmille.
Dove a ggiudizzio mio merita un bascio
quer negroscopio è ar vede
3
in certe stille
d’acqua ppiú cciuche
4
de capi de spille,
cressceve
5
tanti mostri adasciadascio.
Questa è la cosa a mmé cche mm’ha incantato,
e bbenedico sempre e in oggni loco
er francesce
6
e ’r papetto
7
che jj’ho ddato.
Questo è cc’ho ggusto assai d’avé scuperto,
perché ggià ll’acqua me piasceva poco,
ma dd’or impoi nun me la fa ppiú ccerto.
9 giugno 1834
1
Il microscopio solare acromatico. Il vocabolo andromatico è quello di cui si vale un certo occhialaio romano per
indicare quella tale specie di lenti.
2
Ci nuotano.
3
Al vedere.
4
Piccole.
5
Crescervi. Il vi non particella di luogo, ma
pronominale.
6
Mr. Lagarrigue, proprietario del miscroscopio che si mostrava a Piazza di Spagna.
7
Il prezzo
d’ingresso era di due paoli.
1288. Er Cardinale caluggnato
Nun j’abbasta a l’arètico scontento
1
de mormorà cch’er Cardinàr Vicario
2
maggna otto vorte ppiú dder nescessario,
e ccirca ar beve
3
poi bbeve pe ccento.
Se va ppuro
4
inventanno er temerario
che l’Eminenza Sua tiè uno strumento
che indovina er zereno, l’acqua, er vento,
la grandina, la neve e ’r tempo vario.
Anzi, arriva a l’accesso
5
de scommette
6
che cco cquello strumento Su’ Eminenza
sce
7
regola l’ingergo
8
a le collètte.
Ché ssi
9
er búggero
10
suo disce: diluvia,
er Cardinale subbito dispenza
una collètta d’appetènna-impruvia.
11
10 giugno 1834
1
Maligno.
2
L’Eminentissimo Placido Zurla.
3
Al bere. Il secondo beve è regolare.
4
Si va pure, ecc.
5
All’eccesso.
6
Di
scommettere.
7
Ce, per «ci».
8
Il gergo.
9
Se.
10
Vocabolo che adopera spesso il popolo per dinotare oggetti de’ quali
ignora il nome.
11
Di ad petendam pluviam.
1289. La carta bbollata
Pe cquer rospo carissimo der bollo
che ffanno in cima a la carta bbollata,
un fojjo ha da costà una pavolata!
1
Arrabbieli, per dio! rotta de collo!
Mezzo fojjetto solo io l’ho ppagata
quanto du’ llibbre de merluzz’a mmollo.
Vedi come te succhieno er merollo!
2
E ssò ppreti? e ssò ggente conzagrata?
Ar zaggio de sei pavoli er quinterno,
pe ccrompanne
3
una risma che nn’ha ottanta,
4
nun t’abbasta la vincita d’un terno.
Co ttutto questo, va’ a rriscòde
5
ar Monte,
e nnemmanco sce trovi l’acqua-santa!
Cosa, pe ccristo, da bbollalli in fronte.
10 giugno 1834
1
Un paolo.
2
Midollo.
3
Per comperarne.
4
Qui il romanesco segue la divisione delle risme di carta comune.
5
Riscuotere.
1290. Er rilasscio
Pe avé ssorte bbisoggna èsse bbirbanti
pe cquelli soli nun ce sò mmai pene;
ma ariveriti e cco le mano piene
se ne vanno groriosi e ttrïonfanti.
Specchiamose
1
in st’arètichi
2
furfanti:
l’aveveno ingabbiati
3
tanto bbene,
e mmo invesce de metteli
4
in catene
l’arimanneno
5
a casa tutti quanti.
6
Io noto er Papa, io. Doppo avé ttanto
fatto er foco dall’occhi, all’atto pratico
s’è ccalato le braghe come un zanto.
Come se
7
spiega mò er cavajjeratico
8
dato a la sbirraría che pportò er vanto
d’arrestalli? Fu un estro mattamatico.
11 giugno 1834
1
Specchiamoci.
2
In questi eretici. Sono i liberali, perché avversi a un sistema sostenuto da un Re-Papa.
3
Imprigionati.
4
Di metterli.
5
Li rimandano.
6
Il nostro popolano va per le generali, e secondoché una confusa fama lo istruisce de’
fatti correnti. Noi però, facendoci a comentarlo, diciamo quegli eretici rilasciati in difetto di colpa dopo un rigido
processo e una più rigida prigionia di un anno, essere un Guardabassi, un Cesarei de Leoni, un Menicucci e un
Bartolucci, imputati di aver suscitato la sommossa popolare perugina del giorno... maggio 1833, quandoché non fu
quella originata che dalla imprudenza del Governo che ordi e fece eseguire sul bel meriggio una perquisizione
politica nella farmacia di Giuseppe Tei, vecchio onestissimo e adorato dal popolo per la sua carità. Le armi, onde il
popolo irritato si valse in quella occasione, furono le sedie delle erbaiuole di piazza, ciocché esclude qualunque idea
di premeditazione, quando ancora non la escludesse il repentino cenno del Governo.
7
Si.
8
Una croce cavalleresca fu
decretata al birro Rossi, che prese in Ancona Guardabassi, andato colà per condurre al battello-a-vapore di Corfú il
figlio di un inglese, che il padre aveva già lasciato in di lui casa a Perugia.
1291. L’invito der Papa
Hanno mille raggione li Cristiani
a nun crédesce
1
ppiú ’na mmaledetta,
2
quanno Papi, che ssò Ppapi e Ssovrani,
danno in cojjonerie
3
ggiú cco l’accetta.
4
Du’ rivortósi peruggini cani,
5
capasci a ffà mai mai
6
puro
7
l’acquetta,
8
eschen’oggi de carcere, e ddimani
er zor Papa l’avvisa che l’aspetta.
Uno lo so de scerto che cciaggnede;
9
e ’r Papa, doppo avello bbenedetto,
sce se deggnò cche jje bbasciassi
10
er piede.
Si
11
cquer piede era mio, Checco, te ggiuro,
je sonavo pe ccristo un carc’in petto,
12
c’uno je ne dav’io e un antro
13
er muro.
16 giugno 1834
1
Crederci.
2
Nulla.
3
Sbagli.
4
Alla cieca.
5
Vedi il Sonetto...
6
A un bisogno.
7
Pure.
8
La famosa acquetta-di-Perugia,
della quale oggi più non si parla.
9
Ci andò. Fu il Guardabassi.
10
Gli baciasse.
11
Se.
12
Gli davo un calcio in petto.
13
Un
altro.
1292. Le cacciate de sangue
E appress’a la sanguiggna, Giammatista,
fai la cojjoneria d’appennicatte?
1
Bbada, ché mmó a ddormí ssoffre la vista
e tte ponno cascà le cataratte.
Epperò ddisce un medico culista
2
che in certi casi è mmejjo le miggnatte,
perché, cquer zangue... me capischi?... acquista...
Ma ggià, cche vòi discorre
3
a ccose fatte?
Pe mmé, er toccà la vena, io sò un minchione,
ma nnun m’è mmai piasciuto, ché la bbotta
spesso spesso te va a ssuperazione.
4
E ammalappena entra in ner mese
5
Imperia,
vojjo dí a cquer cerusico marmotta
ch’er zangue je lo cacci da l’alteria.
6
11 giugno 1834
1
Appennicarti. Appennicarsi è «leggermente assopirsi».
2
Oculista.
3
Vuoi discorrere.
4
Suppurazione.
5
Entra nel mese,
cioè: «nell’ultimo mese della gravidanza».
6
Arteria. È osservabile che mentre i Romaneschi cambiano la l in r
qualunque volta precede un’altra consuonante, in questo caso la massima parte muta la r in l nella medesima
circostanza.
1293. La luna
O ne sa ppoco er zor dottor Gioconno,
o a nnoantri
1
sce tiè
2
ppe ttanti micchi.
3
Ggià, sti dottori che sse fanno
4
ricchi
nun ce n’è uno mai propio de fonno.
La luna popolata com’er Monno!
Chi ccià da èsse,
5
er boia che l’impicchi,
drent’in un grobbo che un po’ è ffatto a spicchi,
un po’ sparissce, e un po’
6
ddiventa tonno?
Eh ssí cch’er Papa sarebbe cojjone,
caso llassú cche cciabbitassi ggente,
7
de nun spidicce
8
un Vescovo in pallone.
Lui sce lo mannerebbe a spass’a spasso,
quann’anche nun fuss’antro,
9
solamente
pe le liscenze de maggnà de grasso.
11 giugno 1834
1
A noi altri.
2
Ci tiene.
3
Stolidi.
4
Si fanno, diventano.
5
Ci ha da essere.
6
Un po’: talvolta.
7
Nel caso che lassù abitasse
gente.
8
Di non ispedirci.
9
Non fosse altro.
1294. La mi’ nora
1
Mi’ fijjo, sí, cquel’animaccia fessa
2
che ffu pposcritto
3
e annò a la grann’armata
è ttornato uffizziale e ha rriportata,
azzecca
4
un po’! una mojje dottoressa.
Si
5
ttu la senti! «È un libbro ch’interressa...
Ggira la terra... La luna è abbitata...
Ir tale ha scritto un’opera stampata...
La tal’antra
6
è una bbrava povetessa...».
Fuss’omo, bbuggiarà! mma una ssciacquetta
7
ha da vienicce
8
a smove
9
li sbavijji
10
a ffuria de libbracci e pparoloni!
Fili, fili: lavori la carzetta:
abbadi a ccasa sua: facci li fijji,
l’allatti, e nun ce scocci
11
li cojjoni.
12 giugno 1834
1
Nuora.
2
Quel cattivo soggetto.
3
Coscritto.
4
Indovina.
5
Se.
6
Altra.
7
Donnicciuola.
8
Venirci.
9
Smuovere.
10
Sbavigli,
sbadigli.
11
Non ci rompa, ecc.
1295. Le bbotteghe der Corzo
1
P’er Corzo sc’è una frega
2
senza fine
de libbrari, armaioli, perucchieri,
sartori, machinisti, caffettieri,
orloggiari e mmercanti de pannine.
Ortre poi le modiste e le spazzine,
e antiquari, e arbanisti
3
e cchincajjeri,
sc’è un famoso negozzio de bbraghieri
indisposti
4
in bellissime vetrine.
D’avanti a tutte ste bbotteghe nostre
omo o ddonna che ppassi, è ccaso raro
che nnun s’affermi
5
a ccontemprà lle mostre.
E de tanti paini
6
e ttante sciane,
7
dar zolo
8
disgrazziato bbraghieraro,
nun zo
9
cche ssia, nun ce s’afferma un cane.
12 giugno 1834
1
Corso.
2
Moltitudine.
3
Ebanisti.
4
Disposti.
5
Che non si fermi.
6
Giovani galanti.
7
Ciana: corrisponde per la femmina
al paino, ma con significazione di alquanta maggior vanità.
8
Dal solo.
9
Non so, ecc.
1296. Li morti scuperti
Hoh
1
bbe’ vvolevo dí
2
che li Curati
fussino de scervelli accusí storti
da permette
3
l’usanza che li morti
d’or impoi se portassino
4
incassati.
5
Ggià un cristiano è vvergoggna che sse
6
porti
da quelli facchinacci sfrittellati:
7
e ppoi li spojji
8
se
9
sò ssempre usati
pe rregalía da dà a li bbeccamorti.
Piano: e cquanno c’un morto è in de la cassa,
com’ha er vivo l’esempio che sse more?
chi lo pò indovinà cquello che ppassa?
Disce: questo è un parlà dda mozzorecchio.
10
Sarà; mma ar meno t’arifiati er core
de vede
11
er morto s’è ggiovene o vvecchio.
12 giugno 1834
1
Interiezione che viene dall’animo soddisfatto di aver trovato un effetto conforme al suo giudizio.
2
Voleva io ben dire
che, ecc.
3
Permettere.
4
Si portassero.
5
Un giusto principio di decenza e di sanità aveva persuasa al Governo
l’introduzione dell’uso di mandare alla chiesa i cadaveri incassati. A questo scopo suoleva esso pagare il prezzo della
cassa ai poveri. Ma posteriori viste di risparmio, ritirando queste misere largizioni, hanno fatto revocare un divieto
troppo pei preti in armonia coi moderni perfezionamenti sociali. E altronde, dove il seppellire i cadaveri fuori della
città e in cemeteri è creduto empietà, si può bene mostrare scoperti agli occhi degli uomini questi oggetti funesti e
mortificanti.
6
Si.
7
Allorché il cadavere si porta incassato, non è più a’ confrati è addossata la bara, ma a sozzi becchini
inferiori, vestiti di lurido sacco, e con le sinistre facce scoperte. Sfrittellati, cioè: «sparsi di macchie, dette volgarmente
frittelle».
8
I becchini spogliano i cadaveri delle vesti esteriori, e se le appropriano, al momento di porli sotterra.
9
Si.
10
Causidico cavillatore.
11
Di vedere.
1297. Li Bbeati
Nun è cche nnun ce ssiino Bbeati
deggni e stradeggni de fà un passo avanti:
er paradiso sbrullica
1
de frati
che mmoreno de vojja d’èsse Santi.
Nun è cch’er Papa se li sia scordati,
come se scorda de li nostri pianti:
ché anzi, doppo avelli
2
proscessati,
voría cannonizzalli
3
tutti quanti.
La raggione che ancora li tiè addietro
ne la grolia sceleste,
4
è la gran spesa
de la funzione che cce vò a Ssan Pietro.
Eccolo er gran motivo, poverini:
la miseria. E li Santi de la Cchiesa
nun ze ponno creà ssenza quadrini.
12 giugno 1834
1
Brulica.
2
Dopo averli.
3
Vorrebbe canonizzarli.
4
Gloria celeste.
1298. Li Maggni
Pijjo un posto ar Teatro der Pavone
e cce trovo pe ffarza Carlo Maggno.
Entro in chiesa a la predica, e un fratone
me bbutt’avanti san Grigorio Maggno.
M’affermo
1
dar zantàro
2
in zur cantone,
e sta vennenno
3
un zan Leone Maggno.
Vàdo a l’Argàdia
4
a rripijjà er padrone,
e ssento nominà Llesandro Maggno!
Cazzo! e ssi
5
a cquer che ddicheno, sti maggni
6
ssovrani, e pperché sti distintivi?
Li sovrani nun zò ttutti compaggni?
Saranno o un po’ ppiú bbelli o un po’ ppiú bbrutti:
ponn’èsse o mmeno bboni o ppiú ccattivi;
ma articolo maggnà, mmaggneno tutti.
14 giugno 1834
1
Mi fermo.
2
Santaro. Così vengono chiamati dal popolo i mercanti di stampe.
3
Vendendo.
4
Arcadia.
5
Se.
6
Sono.
1299. Lo stufarolo appuntato
1
A tajjà in linci e squinci
2
fra ccompaggni
panze-nere
3
par mii
4
cosa sciabbusco?
5
Viè
6
la sera però ttra er lusch’e ’r brusco
7
mentre servo li nobbili a li bbaggni.
Sentirai llí che pparoloni maggni!
Llí tte n’accorgerai come m’infusco
8
a sfoderà ssentenze e a pparlà ttrusco
9
quanno me pò ffruttà bbravi guadaggni!
Senti che rrispostina arimbrunita
10
appricai jjer a ssera a un Cardinale
che ddimannò ssi
11
ll’acqua era pulita.
«Questo, Minenza, è un barzimo illustrale,
12
che annetterebbe
13
ir pelo in de la vita,
14
senza fà ttorto a llei, puro
15
a un majale».
14 giugno 1834
1
Ben parlante o concettoso.
2
Sfoggiare in quindi e quinci.
3
Plebei, così detti dalle nere pancie sempre esposte al sole.
4
Pari miei.
5
Ci busco?
6
Vieni.
7
In sull’imbrunire.
8
M’infiammo.
9
Trusco, quasi etrusco, per crusco.
10
Riforbita.
11
Se.
12
Balsamo lustrale.
13
Netterebbe.
14
Sul corpo.
15
Pure.
1300. La lottaría nova
Sonetti due
’Ggni ggiorno, accetto er venardí,
1
ar palazzo
de la casa Teodoli,
2
un’arpia
de chincajjere
3
fa una lottaria
co una ròta che svòrtica un regazzo.
4
Li bijjetti appremiati hanno un spegazzo
5
cor nummero der premio che sse pía.
6
L’antri
7
sc’è scritto Alegri. Alegri un cazzo!
Sce ne fregamo assai de st’alegria.
Bell’alegria d’entrà cco ddu’ lustrini,
8
tirà ddu’ bbijjettacci, e ttornà ffòra
co le fischiate in cammio
9
de quadrini.
Eppoi che ppremi sò
10
cquanno c’hai vinto?
Figurete c’un prete tirò un’ora,
e abbuscò
11
ddu’ speroni e un culo finto.
12
15 giugno 1834
1
Eccetto il venerdì: e la festa. In questa, per rispetto al sacro ozio del culto: in quello, perché i danari che il popolo
voglia gettare in quel giorno, cadano tutti nella cassa del lotto sovrano che si estrae il sabato.
2
Della famiglia de’
marchesi Teodoli, al Corso num. 382.
3
Il chincagliere Francescangeli per ispacciare i suoi capitali giacenti, immagi
una lotteria di tutti gli articoli del suo negozio, distribuendoli in num. 8193 premi, notati tutti in altrettanti viglietti da
estrarsi a sorte.
4
Ruota, cioè «urna cilindrica, avente i fianchi di legno e il tubo di cristallo». La rivolge un fanciullo.
5
Scarabocchio.
6
Pia: contrazione di pijja: piglia.
7
Gli altri, ecc. I biglietti ne’ quali trovavasi il motto Allegri,
imbussolati in num. di 177.171 nella detta urna alla rinfusa con gli 8193 premiati, erano insignificanti, e chi gli
estraeva restava senza vincita alcuna.
8
Lustrino è sovente detto dal volgo il grosso, ossia mezzopaolo d’argento. Di
tanto era la posta per cadaun biglietto da estrarsi.
9
In cambio.
10
Sono.
11
Buscò, per «guadagnò».
12
Arnese di Francia
ad uso delle signore alquanto povere nelle parti deretane.
1301. La lottaría nova
Ma ccazzo! a un prete che nnun va a ccavallo
dàjje
1
pe ppremio un paro de speroni
è ccome a un maressciallo de dragoni
schiaffajje
2
addosso un pivialone ggiallo.
Fussino
3
state fibbie da carzoni,
un braghiere, un messale, bbuggiarallo!
4
ma dd’un par de speron da maressciallo
che sse ne fa? un impiastro a li cojjoni?
Passanno
5
adesso a un zimile scannajjo
tra er zascerdote e cquer ziconno
6
premio,
trovo ch’ er culo-finto è un antro
7
sbajjo.
Perché un prete che vvojji èsse
8
sincero,
ve dirà: «Dda ste cose io nun zò stemio;
9
ma mmetteteme avanti un culo vero».
16 giugno 1834
1
Dargli.
2
Schiaffargli. Schiaffàre: mettere con forza.
3
Fossero.
4
Alla buon’ora.
5
Passando.
6
Secondo.
7
Altro.
8
Voglia
essere.
9
Astemio.
1302. La sperienza der vecchio
Eh ffijji cari, date udienza a Nnonno:
ne l’età vvostra pare tutto bbello:
ma ccresscete, cresscete un tantinello,
e ccapirete poi che ccos’è er Monno.
Vederete oggnisempre ch’er ziconno
fa la scianchetta
1
ar primo e ’r terzo a cquello.
Vederete un abbisso e un mulinello
de tradimenti che nnun ha mmai fonno.
Vederete un Governo che ffa editti
e llassa la vertú mmorí dde fame,
mentre vanno in trïonfo li dilitti.
E ccome l’oro co l’argento e ’r rame
dati da Ddio pe ssollevà ll’affritti,
2
serveno invesce a un mercimonio infame.
16 giugno 1834
1
Dà il gambetto.
2
Afflitti.
1303. Le connotture de Roma
Naturale c’arfine se sò
1
rrotti
li connotti de tutti li bbottini:
subbito che sse
2
fa ttutto a ccazzotti
3
pe schiaffasse
4
in zaccoccia li quadrini.
Si
5
er Governo ordinanno li connotti,
nu li fascessi
6
mette
7
accusí ffini,
8
nun vederessi
9
mó sti pissciabbotti
10
schizzà ffora cqua e llà ddove cammini.
Ecco cosa succede a li paesi
dove er vino dà in testa a cchi ccommanna:
le funtane nun butteno du’ mesi.
Piú de li funtanoni de San Pietro?
Da che er Papa sta llà, tte pare, Nanna,
c’abbino l’acqua de quarc’anno addietro?
11
16 gugno 1834
1
Si sono.
2
Si.
3
Alla peggio.
4
Schiaffarsi: ficcarsi.
5
Se.
6
Facesse.
7
Mettere.
8
Fini, per «sottili, fragili».
9
Vedresti.
10
Il
pisciabotte è propriamente «un innaffiatoio da strade»; qui si prende questo vocabolo per significare «quegli zampilli
d’acqua che spicciano fuori dalla terra o dai muri per dove corrono condotture guaste».
11
Dacché Leone XII, imitato
da’ successori, tornò ad abitare il Vaticano, quelle due maravigliose fontane cominciarono a scemare il volume
dell’acqua che le rende tanto imponenti. Se ne attribuì la cagione all’abbassamento del Lago di Bracciano o Sabatino,
da cui ne deriva l’acquidotto.
1304. Li debiti
Nun zò
1
mmorto: sò
2
stato un anno e mmezzo
carcerato pe vvia d’un creditore
che ddoppo avemme limentato
3
un pezzo
m’ha abbandonato con mi’ gran dolore.
Io a sta vita sce
4
ttanto avvezzo,
c’oggni vorta che in grazzia der Ziggnore
faccio un debbito novo e ariccapezzo
de tornà ddrento, me s’allarga er core.
Che vviggna! maggnà e bbeve
5
alegramente
a ttutta cortesia de chi tt’avanza:
dormí
6
la notte, e ’r giorno nun fà
7
ggnente:
stà
8
in tanti amichi a rride
9
in d’una stanza,
o a la ferrata
10
a cojjonà la ggente...
Ah! er debbituccio è una gran bella usanza!
17 giugno 1834
1
Sono.
2
Sono.
3
Avermi alimentato. Si allude agli alimenti che un creditore è tenuto a somministrare al suo
prigioniero.
4
Ci sono.
5
Bere.
6
Dormire.
7
Fare.
8
Stare.
9
Ridere.
10
Inferriata.
1305. La spia a l’udienza
Verzo l’un’or de notte, ossia le sette,
come che mm’ordinò Vvostr’Eccellenza,
me n’andiedi
1
al caffè cc’ha la liscenza
di tené nnel retrè ttante gazzette.
E llì cco la mia bbrava indiferenza
nun mi fesci sfuggí nneppuro un ette
di quante cose mai fussero dette
da poté rriferirle oggi a l’udienza.
Trall’altre un milordino
2
sbarbatello
disse che ddon Migguele ha ffatto male
di rubbà la corona a ssuo fratello.
Sto pasticcetto è ffiglio d’un curiale,
studia filosofia, porta il cappello
bbianco, ha li bbaffi... Inzomma è un libberale.
17 giugno 1834
1
Me ne andai.
2
Giovinetto elegante.
1306. La ppiú mmejj’arte
Da principio fascevo l’ortolano:
male. Me messe
1
a ffà er libbraro: peggio.
Risòrze
2
allora de mutà mmaneggio,
e mme diede
3
ar mestiere der ruffiano.
In questo, te confesso da cristiano,
nun zolo sce
4
guadaggno, ma ssaccheggio:
e un terzo ar meno der Zagro-Colleggio
vonno la marcanzia da le mi’ mano.
Io servo Monziggnori, io Padr’Abbati,
io maritate, io vedove, io zitelle...
e ll’ho ttutti oggnisempre contentati.
Perch’io
5
onesto e nun tiro a la pelle,
l’ommini mii
6
7
rricchi e intitolati,
8
e le mi’ donne pulitucce e bbelle.
17 giugno 1834
1
Mi misi.
2
Risolsi per «risolvetti».
3
Mi diedi.
4
Ci.
5
Sono.
6
Miei.
7
Sono.
8
Titolati.
1307. Er decoro de la mediscina
Fu addrittura una frebbe inframmatoria,
e ’r medico me dava er zorforato.
1
E ssi
2
nnun era Iddio che mm’ha ajjutato,
io ggià ssarebbe
3
er zor bona-momoria.
4
Come dico, ero ggià bbell’e astremato,
5
quanno un zupprente,
6
vedenno st’istoria,
me fa ssette sanguiggne e ottiè la groria
d’avemme, se pò ddí,
7
arisusscitato.
Ma cche! er medico stenne un momoriale
contr’er zupprente pe la su’ inzolenza
de fà ssette sanguiggne a cchi sta mmale.
Ebbè, er zupprente fu ccacciato, senza
poté ssapé ssi è llegge de spedale
che ss’abbi d’ammazzà ppe cconvegnenza.
18 giugno 1834
1
Il solfato.
2
Se.
3
Sarei.
4
Buona-memoria.
5
Estremato. Estremare: dar l’estrema unzione.
6
Supplente.
7
Di avermi, si
può dire, ecc.
1308. Er Chirico de la Parrocchia
Padre Curato mio, nun ce s’inquieti:
cqua in chiesa sua sce
1
ttroppe funzione;
e ssortanto pe sbatte
2
li tappeti
sce voríeno
3
du’ bbraccia da Sanzone:
senza er commatte
4
co llor antri
5
preti,
tutte bbrave e ddeggnissime perzone,
ma ppuro...
6
che sso io... tanti
7
indiscreti,
che Ddio ne guardi oggni fedèr
8
cojjone.
Io dunque, pe ffà un’arte ppiú mmijjore,
ho arisoluto de mutà li panni
de chiricozzo in quelli de sartore.
Ccusí, cco l’aspertezza
9
che ss’acquista
a fforza de dà
10
ppunti, in un par d’anni
posso passà ar mestier der computista.
11
18 giugno 1834
1
Ci sono.
2
Sbattere.
3
Ci vorrebbero.
4
Combattere.
5
Lor altri.
6
Pure.
7
Tanta.
8
Fedel.
9
Esperienza.
10
Di dare.
11
Questo
assennato discorso fu tenuto da un chierico al parroco Gasparri, soprannominato Quattrocchi.
1309. Monziggnor Maggiordomo
Ohé! Gguai a Ppalazzo. Er Zanto-Padre
è vvienuto a scoprí cch’er Maggiordomo,
che in tuttoquanto er resto è un galantomo
ha un tantinello le manine ladre.
Disce
1
che sto ggenietto er pover’omo
l’ha pportato dar corpo de su’ madre,
e cche n’ha ffatte tante e ttonne e cquadre,
che cchi ssa scrive
2
pò stampanne
3
un tomo.
Nun è mmica che sfassci li cassetti:
sortanto in de li conti de le frabbiche
4
sta a mmezzo co l’artisti e ll’archidetti.
E ’r Papa, che nnun manca de scervello,
c’ha ffatto! Ha ddetto du’ parole arabbiche
su in concistoro, e jje
5
darà er cappello.
18 giugno 1834
1
Dicono, dicesi, ecc.
2
Scrivere.
3
Può stamparne.
4
Fabbriche.
5
Gli.
1310. Zia
Che sse vojjino
1
bbene, che da un mese
lui se la porti a spasso oggni matina,
che vvadino a ffà cquarche scappatina
pe li macchiozzi de villa-bborghese,
sin qui cce sto:
2
mma cche sse siino prese
scert’antre
3
libbertà, nnun me cammina.
4
Questo, credete scerto, sora Nina,
sò ttutte sciarle e invidie der paese.
Pe llui,
5
ppò ddarzi che jje l’abbi chiesta:
ciaverà fforze provo:
6
nun zaprei:
ma in quant’a mmi’ nipote, è ttroppa onesta.
E cche llui né ttant’antri sciscisbei
j’abbino mai potuto arzà la vesta,
questo è ssicuro, e mme l’ha ddetto lei.
7
18 giugno 1834
1
Si vogliano.
2
Sin qui ci convenga.
3
Cert’altre.
4
Non mi persuade.
5
In quanto a lui.
6
Ci avrà forse provato.
7
Noi
conosciamo e la buona zia e la buona nipote.
1311. Er peccato de San Luviggi
San Luviggi Conzagra
1
(si ssò
2
vvere
l’istorie de quer mostro d’innoscenza)
pe avé ppreso da lui
3
senza liscenza
poca porvere e un miccio a un zu’
4
artijjere,
sibbè cch’era
5
un riccone e un cavajjere
n’ebbe tanto dolore a la cusscenza,
che ppiantò er monno e ffesce pinitenza
peggio che ffussi
6
un ladro de mestiere.
E adesso un colonnello, un capitano,
scortica vivo vivo un reggimento,
e jj’arrubba la paga der zovrano;
e tte lo vedi annà
7
cquieto e ccontento
cor zangue che jje gronna
8
da le mano,
9
senz’ombra de rimorzo e ppentimento.
21 giugno 1834
1
Gonzaga.
2
Se sono.
3
Da sé, da sé stesso.
4
Suo.
5
Benché era.
6
Fosse.
7
Andare.
8
Gli gronda.
9
Mano, per «mani».
1312. Er Coco
Voi, fijjo caro, ne sapete poco.
Che mme parlate de lingua latina,
Mattamatica, Lègge, Mediscina!...
1
ttutte ssciaparie:
2
studi pe ggioco.
Cqui è ddove l’omo se conossce: ar foco.
Cqui ar fornello un talento se scutrina.
3
La prima scòla in terra è la cuscina
er piú stimato perzonaggio è er coco.
E cquanno un coco soffre un torto, spesso
er Monno (e sso bbe’ io quer che mme dico)
lo viè a cconziderà ffatto a sse stesso.
Bbasti a ssapé cch’er mi’ padrone antico
tanto bbenvisto, appena ebbe dismesso
er coco, a vvoi!, nun je restò un amico.
21 giugno 1834
1
Sono.
2
Scipitezze.
3
Si scrutina.
1313. Lo scardino perzo
1
Cosa scerchi? er marito?
2
E ffai sta spasa
3
de sciafrujji
4
che ppare un arzenale?!
Quieta: lo troverai. Mica è un detale:
5
mica un marito è un zeppo de scerasa.
6
Si
7
ll’avevi oggi, e nun ha mmesso l’ale
pe vvolà vvia, pòi èsse
8
perzuasa,
fijja mia bbenedetta, che la casa
annisconne e nnun rubba: eh? ddico male?
Io puro
9
un giorno m’ero perza
10
un pavolo:
e azzecca
11
indove poi me lo trovai?
In zaccoccia. Eh sse sa: rruzze der diavolo.
Tu ddi’ er zarmo Cqui-abbita,
12
Lonora;
13
e all’acqua de Venanzio
14
vederai
che sto bbuggero
15
tuo scappe ffora.
21 giugno 1834
1
Il caldanino perduto.
2
Caldanino.
3
Questo sparpagliamento.
4
Minutaglie confuse.
5
Ditale: anello da cucire.
6
Un
picciuòlo di ciliegia.
7
Se.
8
Puoi essere.
9
Pure.
10
Perduta. Il participio retto dall’ausiliare essere preceduto da particella
pronominale, è accordato con la persona che fa l’azione, e non con ciò che la soffre. Così direbbesi da una donna: «Io
avevo perzo un pavolo: io m’ero perza un pavolo».
11
Indovina.
12
«Qui habitat in adiutorio Altissimi, etc.». Si
attribuisce a questa salmo XC la virtù di far ritrovare le cose e le persone smarrite.
13
Eleonora.
14
«Quoniam ipse
liberabit me de laqueo venantium, etc.». versetto del suddetto salmo.
15
Termine generico, come coso, negozio, ecc.
1314. Un ber gusto romano
Tutta la nostra gran zodisfazzione
de noantri
1
quann’èrimo
2
regazzi
era a le case nove e a li palazzi
de sporcajje
3
li muri cor carbone.
Cqua ddiseggnàmio
4
o zziffere
5
o ppupazzi,
6
o er nodo de Cordiano
7
e Ssalamone:
8
llà nnummeri
9
e ggiucate d’astrazzione,
10
o pparolacce, o ffiche uperte e ccazzi.
Oppuro
11
co un bastone, o un zasso, o un chiodo,
fàmio
12
a l’arricciatura quarche sseggno,
fonno in maggnèra
13
c’arrivassi ar zodo.
14
Quelle
15
bbell’età, pper dio de leggno!
Sibbè cc’adesso puro
16
me la godo,
e ssi
17
cc’è mmuro bbianco io je lo sfreggno.
18
22 giugno 1834
1
Noi altri.
2
Quando eravamo.
3
Sporcargli.
4
Disegnavamo.
5
Cifre.
6
Fantocci.
7
Gordiano.
8
Salomone.
9
Per solito vi
scrivano i numeri del millesimo corrente.
10
Giuocate: de’ numeri per la estrazione del lotto.
11
Oppure.
12
Facevamo.
13
Profondo in maniera.
14
Che arrivasse al sodo.
15
Sono.
16
Benché adesso pure, ecc.
17
Se.
18
Glielo rovino.
1315. Li bbattesimi
1
de l’anticajje
Su l’anticajja a ppiazza Montanara
ciànno
2
scritto: Teatro de Marcello.
3
Bbisoggna avé ppancotto pe ccervello,
pe ddí una bbuggiarata accusí rrara.
Dove mai li teatri hanno er modello
4
a uso d’una panza de callara?
5
Dove tiengheno
6
mai quele filara
7
de parchetti de fora
8
com’e cquello?
Pàssino un po’ da Palaccorda e Ppasce:
9
arzino er nas’in zú,
10
bbestie da soma:
studino llí, e sse faccino capasce.
11
Quell’era un Culiseo, sori Cardei.
12
Sti cosi tonni
13
com’er culo, a Rroma
se sò
14
ssempre chiamati Culisei.
22 giugno 1834
1
Battesimi diconsi i nomi ideali od erronei dati a persone o cose.
2
Ci hanno.
3
Il teatro dedicato da Augusto a
Marcello, sugli avanzi del quale si eresse la casa de’ Massimi, passata poi agli Orsini che oggi vi dimorano.
4
Modello,
per «forma».
5
Caldaia.
6
Tengono.
7
Quelle file. Si avverta che dovunque trovinsi le voci quello, quella ecc. scritte con
una sola l, si debbano profferire rapidamente, sdrucciolandovi sopra senza alcuna idea di potenza accentuale, di modo
che formino quasi una sola parola col vocabolo seguente. Qui, per esempio, dicasi: quelefilàra.
8
Di palchetti di fuori.
Le arcate esterne.
9
Due infimi teatri moderni di Roma.
10
Alzino il naso in su.
11
Si facciano capaci, si persuadano.
12
Signori Caldei: stolidi.
13
Questi cosi tondi. Coso, parola di estesissima applicazione.
14
Si sono.
1316. Er vino e ll’acqua
Io nun pòzzo
1
soffrí ttutte ste lite
2
c’hanno sempre da fà Cciocco e Ffreghino,
si
3
cche ccosa è ppiú mejjo, o ll’acqua o ’r vino.
Du’ parole e ssò
4
ssubbito finite.
Chi lloda l’acqua, io je direbbe: «Dite:
pe bbeve
5
un mezzo
6
ve sce vò
7
un lustrino.
8
Pe un bicchier d’acqua poi cor cucchiarino
9
v’abbasta un mille-grazzie, e vve n’usscite.
Dunque che vvale ppiú? cquella c’allaga
Piazza-Navona
10
auffa,
11
e cce se ssciacqua
li cojjoni, o cquell’antro che sse
12
paga?
E ffinarmente, a vvoi:
13
cqua vve do er pisto.
14
Ch’edè,
15
ssori cazzacci, er vino o ll’acqua,
che vve pò ddiventà ssangue de Cristo?».
22 giugno 1834
1
Posso.
2
Queste liti.
3
Se.
4
Sono.
5
Per bere.
6
Un mezzo boccale.
7
Vi ci vuole.
8
Mezzo paolo d’argento. Un grosso.
9
Per beffare coloro che al caffè non prendono mai cosa alcuna, si dice che ordinano un bicchiere d’acqua col
cucchiarino.
10
Si allude all’allagamento di detta piazza che si fa in ogni sabato e domenica di agosto.
11
Gratis. Vedi
nota del Sonetto...
12
Si.
13
A vvoi: quasi: «orsù concludiamo».
14
Qua vi sconfiggo, vi confondo.
15
Che è.
1317. La caccia der Padre Curato
Va’ a ccérca
1
com’er frate abbi saputo
der mi traghetto
2
co la fía
3
d’Ugusto!
4
Vàll’a ccapí chi sse sii
5
preso gusto
de dàjje
6
er grimardello per ajjuto!
Io so cche mm’entrò in casa muto muto,
e cce comparze
7
in de la stanzia, ggiusto
ner mentre ch’io j’arillacciavo er busto,
che
8
cce fesce stremí,
9
ffrate futtuto!
Visto che mm’ebbe in quer frangente, er frate,
co un voscion da caggnaccio de mascello,
strillò: «Bbestia bbú e vvia,
10
che ccosa fate?»
«Padre curato mio, lei nun ze
11
studi
de famme
12
spaventà», ddico: «fo cquello
che ppredicate voi. Vesto l’iggnudi».
13
23 giugno 1834
1
Cercare.
2
Della mia tresca.
3
Figlia.
4
Augusto.
5
Si sia.
6
Di dargli.
7
Ci comparve.
8
In guisa che.
9
Ci fece abbrividire.
10
Bestia etcetera: in buona parole, «bestia buggiarona».
11
Non si.
12
Di farmi.
13
La terza opera di misericordia
corporale.
1318. La povera Terresa
Ar véde
1
una racchietta
2
accusí bbella
de ventun anno e mmanco
3
bben compito
piaggne
4
tanto la morte der marito
che gguasi
5
lla lassò mmezza zitella,
io che, nnun fo ppe ddí,
6
ssò
7
un’animella
8
me sentii tutto quanto intenerito,
e mme messe
9
a studià cquarche ppartito
c’arilegrassi
10
un po’ sta vedovella.
In poco tempo a ffuria de conforti
perzuasi la povera Terresa
che ssò mejjo li vivi de li morti.
Ecco spiegati li mi’ gran dilitti.
Semo arrivati a un tempo che la Cchiesa
condanna puro
11
er conzolà ll’affritti!
12
27 giugno 1834
1
Al vedere.
2
Giovanetta fresca e ben disposta.
3
Nemmeno.
4
Piangere.
5
Quasi.
6
Non fo per dire.
7
Sono.
8
Di cuor
tenero.
9
Mi misi.
10
Che rallegrasse.
11
Pure.
12
La quarta opera di misericordia spirituale.
1319. Quinto, perdonà l’offese
1
Lor antri
2
riliggiosi hanno un bon gozzo
pe stril in chiesa e ppredicà la pasce.
Quanno se
3
tratta co ggente incapasce
de capilla, a cche sserve er predicozzo?
A mmé ppuro
4
la guerra nun me piasce,
e ppe cquesto oggni sempre abbozzo abbozzo.
5
Manch’io
6
nun pòzzo
7
sscèrnele
8
nun pòzzo,
st’anime uguale a pperziche durasce.
9
Dove j’ho ffatto poi tutto st’inzurto?
J’ho ddetto c’ha una mojje che la venne.
10
11
ccose, queste, da pijjasse
12
in urto?
Voría
13
ner caso mio védesce
14
un frate.
Lui m’ha in odio: raggione nu l’intenne:
pasce nu la vò ffà... Ddunque? Stoccate.
27 giugno 1834
1
La quinta opera di misericordia spirituale.
2
Altri.
3
Si.
4
Pure.
5
Tollero.
6
Nemmeno io.
7
Posso.
8
Patirle.
9
Pèsche
duràcine.
10
Vende.
11
Sono.
12
Pigliarsi scambievolmente.
13
Vorrei.
14
Vederci.
1320. Primo, conzijjà li dubbiosi
1
Viè
2
Nninetta
3
e mme disce:
4
«È cquarche ggiorno
ch’er fijjo de la sora Nastasía
me fa rrigali, e cquanno Meo
5
sta ar forno
m’entra in casa a ppregà cche jje la dia.
Da una parte, commare, io nun vorría
6
díjje
7
de sí, pe nnun fa a Mmeo sto corno.
Da un’antra parte poi, commare mia,
come díjje de nò ssi mme viè
8
intorno?
Di’, cche faressi
9
tu ne li mi’ panni?»
10
«Pe mmé, jje la darebbe»,
11
io j’arispose,
«senza lassamme
12
tormentà mmill’anni».
Lei allora annò a ccasa, e jje la diede:
e dda quer giorn’impoi, vanno le cose
che l’assaggia chiunque je la chiede.
28 giugno 1834
1
La prima opera di misericordia spirituale.
2
Viene.
3
Caterina.
4
Mi dice.
5
Bartolommeo.
6
Non vorrei.
7
Dirgli.
8
Se mi
viene, ecc.
9
Faresti.
10
Nella mia circostanza.
11
Gliela darei.
12
Lasciarmi.
1321. La ggnocchetta
1
’Na regazza arrivata a ssediscianni
senza conossce
2
er perno de l’amore
fra ttutti li miracoli ppiú ggranni
díllo er miracolone er piú mmaggiore.
Ebbè, sta rarità, mmastro Ggiuvanni,
sto mmostro de natura, sto stupore,
è (ssarvo er caso che nnun ziinno
3
inganni)
la fijja de Bbaggeo l’accimatore.
4
Si
5
cc’inganna, è una lappa
6
da punilla
cor méttejelo
7
in corpo; e ss’è ssincera
bbisoggna fà de tutto pe istruilla.
Io le so ccerte cose; io sò rromano.
L’inzeggnà a l’ignoranti
8
è la maggnera
9
de fasse aggiudicà
10
vvero cristiano.
28 giugno 1834
1
La fanciulla semplice.
2
Conoscere.
3
Non siano.
4
Il cimatore.
5
Se.
6
Furba.
7
Col metterglielo.
8
La seconda opera di
misericordia spirituale.
9
Maniera.
10
Di farsi giudicare.
1322. Li San Giuvanni
Nun c’imbrojjamo co le spesce.
1
Piano.
Un conto è Ssan Giuvanni Evangelista,
un antro
2
conto San Giuvan Batista,
e un antro San Giuvanni Laterano.
Er primo è cquello c’ha la penna in mano,
l’uscello
3
fra le gamme
4
e ffa la lista.
Er ziconno
5
è la statua c’hai vista
che bbattezza er Ziggnore in ner Giordano.
Er terzo finarmente è un Zan Giuvanni
che nun ze pò ssapé
6
cchi bbestia sia,
7
e nu l’ho mmai capito in quarant’anni.
Sii chi ddiavolo vò,
8
cquesto nun preme.
Però cquer Laterano è una pazzia
c’abbi da dí
9
ddu’-San-Giuvanni-inzieme.
10
24 giugno 1834
1
Non c’imbrogliano colle specie: non confondiamo le cose.
2
Altro.
3
L’uccello.
4
Gambe.
5
Il secondo.
6
Non si può
sapere.
7
Sia e sii sono una medesima voce. Sia per solito si dice dal volgo alla fine dei periodi, e sii per entro a quelli.
8
Vuole.
9
Che abbia da dire, significare.
10
Per intelligenza di questo passo è da sapersi che la Chiesa di San Giovanni
in Laterano è ugualmente dedicata all’Evangelista e al Battista.
1323. Li Santi freschi
1
Dàteme, a sto proposito, un convento
de fratiscelli oppuro
2
monichette,
che ddoppo morte ar meno un zei pe ccento
nun faccino miracoli a ccarrette.
Chi gguarissce una piaga, chi arimette
li pormóni spariti, chi ttiè
3
er vento,
chi ffa ppiove,
4
chi smorza le saette,
e cchi uno e cchi un antro spirimento.
Ccusí er monno se
5
popola de santi:
er Papa sta in faccenne: er ziggnor diavolo
se
6
mozzica la coda; e sse
7
va avanti.
Che ssi
8
a sti tempi manco per inzoggno
9
nu
10
ne fa nné Ssan Pietro né Ssan Pavolo,
è sseggno che nun n’ha ppiú de bbisoggno.
28 giugno 1834
1
Novelli.
2
Oppure.
3
Tiene, frena.
4
Piovere.
5
Si.
6
Si.
7
Si.
8
Se.
9
Nemmeno per sogno: in niun conto.
10
Non.
1324. Li miracoli
Li miracoli, caro sor Donato,
l’hanno sempre da fà li Santi novi;
perché a questi pò èsse
1
che jje ggiovi,
e li vecchi hanno bbell’e assicurato.
Chi vvò
2
adesso miracoli li trovi
in quarche Vvenerabbile o Bbeato;
ma a ccercalli in un zanto staggionato
è inutile inzinenta
3
che cce provi.
Nun vedete l’Apostoli, sor coso,
da quanto tempo hanno finito er patto
4
e sse sò
5
mmessi in stato de riposo?
Benché Ssan Pietro nun abbotta fiaschi,
e ll’urtimo miracolo l’ha ffatto
a ttempi nostri in ner Palazzo Bbraschi.
6
29 ottobre 1835
1
Può essere.
2
Vuole.
3
Insino.
4
Il patto, in questo senso, è «quel lavoro che nelle scuole assegnasi alle fanciulle».
5
Si
sono.
6
Palazzo fabbricato al cadere dello scorso secolo dal duca Luigi Braschi nipote del successor di san Pietro, Pio
VI.
1325. La famijja de la sor’Aghita
1
Quant’a ffamijja, sí, stamo
2
in famijja;
ma nnò cche Nnanna sii mi’ fijja. Quella
è ffijja de Nunziata mi’ sorella
che vventun anno fa mmorze
3
a Scandrijja.
4
E cquella ggiuvenotta è Ttetarella
5
fijja de Nanna, e fijja de la fijja
de Nunziata bbon’anima, che ppijja
marito a Ccarnovale. Io sò zzitella.
Io, come ve discevo, sto cco llòro
pe vvia c’una zitella er vive sola
nun c’è all’occhio der Monno er zu’ decoro.
Inzomma, io nun ciò
6
ffijji: ecco finito:
perché, dditelo voi, Sora Nicola,
come se
7
ponno fà ssenza marito?
24 giugno 1934
1
Agata.
2
Stiamo.
3
Morì.
4
Scandriglia, terra nella Sabina, rinomata per l’eccellenza delle sue pèsche.
5
Teresa.
6
Non ci
ho, semplicemente: «non ho».
7
Si.
1326. La serva nòva
Perché ssò
1
ita via? sò ita via
pe ’na sciarla c’ha smossa er viscinato.
Ma io, nun fo ppe ddí, cc’è bbon Curato
che ppò ttestà
2
ssu la connotta mia.
Oh, in quanto ar cuscinà, cquello che ssia
pe mminestra, allesso, ummido e stufato,
nun fo ppe ddí, cce sfido un coco nato,
spesciarmente a llestezza e ppulizzia.
Poi scopà, sporverà, rri li letti,
votà, llavà li piatti, fà la spesa,
tirà ll’acqua, ssciacquà ddu’ fazzoletti...
Lei, siggnora, me provi: e nnun zò Aggnesa,
3
si
4
llei, nun fo ppe ddí, ttra ddu’ mesetti
nun benedisce er giorno che mm’ha ppresa.
26 giugno 1834
1
Sono.
2
Attestare.
3
Agnese.
4
Se.
1327. Sonate campane
1
Guarda, guarda chi è! La sora Teta!
Me penzavo c’avessivo
2
trovati
qui da noi li scalini inzaponati,
pe ppiantacce
3
accusí ccome la bbieta.
È vvero che l’anelli
4
ccascati,
ma ppuro sciarimaneno le deta.
5
Eh, ccapisco: dall’A sse ssceggne
6
ar Zeta.
Santi vecchi vò ddí
7
ssanti scordati.
Oh cqui ssí
8
cchi nun more s’arivede,
9
o vviè er quarantasette
10
prim’estratto.
Ma ssete
11
propio voi? ce posso crede?
Sti pover’occhi mii ppiú li spalanco
e ppiú mme pare un zoggno. Uhm, quest’è un fatto
da fàcce
12
un zeggno cor carbone bbianco.
13
28 giugno 1834
1
Espressione che si usa all’accadere di cose insperate.
2
Che aveste.
3
Per piantanci.
4
Sono.
5
Ma pure ci rimangono i
diti. Modo familiare per dire che «malgrado checchessia nulladimeno si è sempre le stesse persone d’una volta».
6
Pronunziato colla prima e chiusa. Si discende.
7
Vuol dire: equivale a.
8
Oh qui davvero conviene il detto.
9
Si rivede.
10
Nel libro delle sorti pel giuoco del lotto, al 47 trovasi: Morto risuscitato.
11
Siete.
12
Farci.
13
Dicesi negli eventi
straordinari e meravigliosi.
1328. Lo spasseggio der paíno
1
Ch’edè,
2
ssor fischio,
3
sto sú-in-giú? Pijjate
l’acqu’a ppassà?
4
cce saría mai pericolo?
5
Pe vvostra bbona regola, sto vicolo
nun è aria pe vvoi. Dunque sviggnate.
E ppe ffàvve capasce,
6
in prim’articolo
cqua nnun c’è un cazzo
7
quer che vvoi scercate:
e cce voleno
8
poi scerte stoccate
da entrà in culo e rriusscí ffor der bellicolo.
9
E nun zerve de bbatte la scianchetta,
10
capite? ché mmommó,
11
ppe Ccristo d’oro,
ve ne do la porzione che vv’aspetta.
12
Oh gguardate un po’ cqua cche bber lavoro!
Vonno puro
13
un tantin de rezzoletta
14
co ttante vacche de mojjacce
15
loro.
16
29 giugno 1834
1
Le persone del ceto civile sono pel volgo paíni, cioè: «eleganti».
2
Che è?
3
Fischio e fischietto, nome di spregio dato
ai giovanetti.
4
Prender l’acqua a passare: passar l’acqua: passeggiare innanzi e indietro.
5
Vi sarebbe mai questo
caso?
6
Per farvi capace: per capacitarvi.
7
Affatto.
8
Ci volano.
9
Bellico.
10
Non serve di batter la gambetta: fremere.
11
Or ora.
12
Vi spetta.
13
Pure.
14
Rezzòla, chiamasi la rezza, o reticella, in cui le donne di certi rioni accolgono i capelli.
Pendente essa dalla parte posteriore del capo, vi è stretta da un largo nastro che si annoda sulla fronte con un gran
cappio ardito e aperto in forma di corna. Quindi rezzòle diconsi pure le stesse donne che ne usano, e così anche il ceto
di esse. Per esempio: Egli tratta una rezzòla; sono azioni di rezzòla, ecc.
15
Mogliacce.
16
Con entrambe le o aperte.
1329. Er deposito
1
der Conte
Eccolo cqua! cchi nun ha ffatto un cazzo
2
su la terra, e ssi
3
ha ffatto ha ffatto male,
vivo, carrozze servitú e ppalazzo:
e mmorto, arme pitaffio e ffunerale!
E un padre-de-famijja puntuale
che mmore de fatica e de strapazzo,
passa da le miserie a lo spedale,
e ddar letto a la fossa! oh Mmonno pazzo!
Ma er tempo è ggalantomo: e un po’ de marcia
d’un Conte nun pò ffà cch’er zu’ deposito
o pprima o ppoi nun ze converti in carcia.
4
Allora, addio bbuscíe,
5
titoli e bboria:
e de tanti trofei mal’a pproposito
sparirà dde cquaggiú ffin la memoria.
29 giugno 1834
1
Mausoleo.
2
Nulla.
3
Se.
4
Non si converta in calce, calcina.
5
Bugie.
1330. La riliggione spiegata e indifesa
1
S’io fussi prete o ffrate, e avessi vosce
deggna de fà ddu’ strilli a le missione,
e de sputamme un’ala de pormone
in onor de la grolia de la crosce,
sfoderería
2
’na predica ferosce
pe spiegà cche la Santa Riliggione
se pò
3
arissomijjalla a un tavolone
de sceraso, de mògheno
4
o de nosce.
Tutto sta avé bbon stommico e bbon braccio
da maneggiajje la pianozza
5
addosso
e ddajje er lustro a fforza de turaccio.
E siccome a le vorte pò ssuccede
6
d’imbatte
7
in quarche nnodo un po’ ppiú ggrosso,
sciarimedia
8
lo stucco de la fede.
11 ottobre 1834
1
Abbiamo qui un secondo Alessandro Tassoni, mutatis mutandis.
2
Sfodererei.
3
Si può.
4
Il legno mahogoni, che da
qualche nostro concittadino ho udito chiamare anche Morghen, facendolo parente del famoso calcografo.
5
Pialla.
6
Succedere.
7
D’imbattere.
8
Ci rimedia.
1331. Er zagramento ecolòmico
1
Quer frate missionario der Ciappone
2
che cconverte li Turchi ar gentilesimo,
e nnun arriva a ttempo cor broccone
a mminestrajje l’acqua der battesimo,
dijje da parte mia che llui medesimo
s’è ddata la patente de cojjone,
perché ffa una fatica pe un millesimo
che ssaría troppa a bbattezzà un mijjone.
Dove predica lui? Risponni, dove?
In campaggna? Ebbè, aspetti in sta campaggna
de predicacce
3
un giorno che vvò ppiove.
E, appena che ddiluvia, opri
4
la bbocca,
arzi la mano su la turba maggna,
intoni un bravo Vebbattizzo, e tocca.
11 ottobre 1834
1
Economico.
2
Giappone.
3
Di predicarci.
4
Apra.
1332. L’ottobbre der 34
La gran raggione, e vve ne do le prove,
ch’er ber
1
tempo d’istate ancora dura,
è pperché er Papa sta in villeggiatura
a mmette
2
in corzo le su’ doppie nove.
Vederete c’appena s’arimove
3
pe ttornà a Rroma in abbito e ttonzura,
darà lliscenza a la Madre Natura
de subbissacce
4
a ttutti, e ffarà ppiove.
5
Che ffa cche li mercanti de campaggna
inzeppino collètte in de le messe?
Tanto, o ppiove o nun piove, er Papa maggna.
E cquanno maggna er Papa, oh ccazzo poi
me pare un’inzolenza st’interresse
de chiede
6
l’acqua a Ddio pe mmaggnà nnoi.
15 ottobre 1834
1
Bel.
2
Mettere.
3
Si rimove.
4
Subbissarci.
5
Piovere.
6
Di chiedere.
1333. Er capo invisibbile
1
de la cchiesa
Che ddanno fa la caristìa, Sor Gui,
oggniquarvorta er zanto Padre è ssazzio?
A l’abbonnanza chi cce mette er dazzio?
Nun è llui capo e nnoi li membri sui?
Fatt’è cch’er zor Orazzio e ttoperazzio
da lui sempre arincípieta:
2
per cui
quanno er pane che cc’è, bbasta pe llui,
bbast’a ttutti e Ssiggnore v’aringrazzio.
La Santa Cchiesa è ccome er corp’umano.
Ha la testa, la bbocca, er gargarozzo,
3
li su’ piedi, er zu’ torzo e le su’ mano.
Io lo provo in me stesso er paragone,
e sso cche cquanno la mi’ testa ha er tozzo,
4
le gamme
5
mie sò sverte
6
e ccontentone.
15 ottobre 1834
1
Visibile.
2
«...Ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat...».
3
Gola.
4
Avere il tozzo, cioè: «quanto basta
per vivere».
5
Gambe.
6
Sono svelte.
1334. Er funerale d’oggi
Le messe de li morti che la cchiesa
fa ccelebbrà ppell’anime purgante,
danno sempre er zu’ frutto tutte quante
senza pavura de bbuttà la spesa.
Perché, ssi
1
pp’er zuffraggio se sii presa
quarc’anima groriosa e ttrïonfante,
Iddio lo svorta
2
all’antre
3
anime sante
che stanno ancora tra la bbrascia
4
accesa.
Ecco: la messa che Ppapa Grigorio
manna
5
oggi a Rraffaelle,
6
sur zupposto
che stii da trescent’anni in purgatorio,
Iddio, caso ch’er Papa nun c’ingarri,
7
l’appricherebbe a un’antr’anima arrosto:
presempio
8
a cquella de monzú Vvicarri.
9
17 ottobre 1834
1
Se.
2
Lo rivolge.
3
Alle altre.
4
Bragia.
5
Manda.
6
Messa solenne di requie celebrata il 17 ottobre 1834 nel Pantheon,
ove riposano le ritrovate spoglie di Raffael Sanzio.
7
Non c’indovini, non ci colga.
8
Per esempio.
9
Il pittore Wicar,
morto di recente.
1335. Er cardinal camannolese
Quer bon zervo de Ddio c’ha la figura
d’un vesscigon de strutto inzanguinato
o un zacco de farina siggillato
co la scera de Spaggna all’upertura;
inzomma quer zor Prascido
1
garbato,
che ssenza avé ddormito in prelatura
sartò
2
er convento e sse
3
trovò addrittura
ar penurtimo zompo
4
der Papato,
vonno che in grazzia de li sei fiaschetti
che sse succhia
5
oggni ggiorno da uniscianni
6
come bbeveratori d’uscelletti,
sii morto d’accidente a l’improviso.
E ssi
7
ffussi bbuscía?
8
Dio jje ne manni
9
pe ccressce
10
un antro Santo in paradiso.
17 ottobre 1834
1
Placido Zurla.
2
Saltò
3
Si.
4
Salto.
5
Si succia.
6
Da undici anni. Ebbe il cappello da Pio VII, il 16 maggio 1823.
7
Se.
8
Bugia.
9
Gliene mandi.
10
Per crescere.
1336. Er cardinal camannolese
Sí, amichi, finarmente stammatina
s’è sparza la staffetta da per tutto
che ss’è vvotato er zacco de farina,
che ss’è squajjato er vesscigon de strutto.
Grigorio piaggne, e vvò apparasse
1
a llutto
pe ffàjje
2
un funerale a la Sistina;
bbe’ cche
3
la Morte pe sto caso bbrutto
s’avería
4
da bbascià ddove cammina.
Un po’ ppiú cche ccampava er Cardinale,
er vino che sse
5
trova a sto paese
nun arrivava manco a ccarnovale.
Io Papa ordinería
6
che ttutt’un mese
se cantassi
7
er Tedèo pe ffunerale
der quonnam Cardinal Camannolese.
8
3 novembre 1834
1
Vuol pararsi.
2
Per fargli.
3
Benché.
4
Si avrebbe.
5
Si.
6
Ordinerei.
7
Si cantasse.
8
Morì in Sicilia il 29 ottobre 1834.
1337. Er cardinal camannolese
Che mmorte arruvinosa!
1
che ggran danno!
Er Zanto Padre ha bben raggione s’urla,
e ssi
2
in ner caso suo bbeve e ss’inciurla
3
pe ssoffogà le fotte che jje fanno.
4
Cardinali, capisco sce
5
ne stanno,
ma a rrimpiazzà un Vicario nun ze
6
bburla;
e pprima che sse
6
peschi un antro
7
Zzurla
sc’è da bbuttà la rete pe cquarc’anno.
Dove se
6
trova un antro soggettone
de novanta descine
8
com’e llui
che a vvedello v’incuti suggizzione?
Dove, cristo, se
6
metteno le mane
pe rrïuní li riquisiti sui
ne l’arivede er pelo a le puttane?
9
19 novembre 1834
1
Rovinosa.
2
Se.
3
S’imbriaca.
4
Il mal umore.
5
Ce.
6
Si.
7
Altro.
8
Decine.
9
Nel rivedere il pelo alle ecc.: nel gastigare le
ecc.
1338. Er cardinal camannolese
Che ssii
1
crepato Zzurla è nnaturale
c’ar Papa je dev’èsse arincressciuto,
e cciabbi provo
2
er piú ddolore acuto
c’a la morte d’oggn’antro Cardinale.
Sò ccressciuti compaggni: hanno bbevuto
a un bicchiere e ppissciato a un urinale:
sò stati ssempre assieme ar bene e ar male,
come in bocca la lingua co lo sputo:
assieme a scôla, assieme a lo spasseggio,
assieme in rifettorio, assieme in coro,
assieme a Rroma e in ner zagro Colleggio:
assieme in ner Concrave e in Concistoro...
senza dí ggnente
3
poi der privileggio
d’assorvese
4
le zacchere tra llòro.
3 aprile 1835
1
Sia.
2
Ci abbia provato.
3
Dir niente.
4
D’assolversi.
1339. La bbestemmia reticàle
Purtroppo è vvero, Ciammarúco mio:
tra li cristiani sc’è ttanta iggnoranza,
che sse senteno
1
in quarche ccircostanza
preposizzione
2
indeggne d’un giudio.
Nun piú ttardi de jjeri, cqui, in sta stanza,
su sta ssedia, er padrone de mi’ zio,
lui, co la bbocca sua, disse c’a Ddio
j’amancheno
3
la fede e la speranza.
Dio senza du’ vertú! Ddio senza fede!
E vvò cche ll’omo credi
4
in lui, penzanno
5
che llui stesso p’er primo nun ce crede?
Iddio senza speranza! E in che mmaggnèra
6
s’ha da sperà la vit’eterna, quanno
lui che cce l’ha ppromessa nu la spera?
20 ottobre 1834
1
Si sentono.
2
Proposizioni.
3
Gli mancano.
4
Creda.
5
Pensando.
6
In qual maniera.
1340. La bbellezza
Che ggran dono de Ddio ch’è la bbellezza!
Sopra de li quadrini hai da tenella:
1
pe vvia
2
che la ricchezza nun dà cquella,
e cco cquella s’acquista la ricchezza.
Una cchiesa, una vacca, una zitella,
si
3
è bbrutta nun ze
4
guarda e sse disprezza:
e Ddio stesso, ch’è un pozzo de saviezza,
la madre che ppijjò la vorze
5
bbella.
La bbellezza nun trova porte chiuse:
tutti je fanno l’occhi dorci; e ttutti
vedeno er torto in lei doppo le scuse.
Guardàmo li gattini, amico caro.
Li ppiú bbelli s’alleveno: e li bbrutti?
E li poveri bbrutti ar monnezzaro.
6
20 ottobre 1834
1
Tenerla.
2
Per motivo.
3
Se.
4
Si.
5
Volle.
6
Immondezzaio.
1341. La golaccia
1
Quann’io vedo la ggente de sto Monno,
che ppiú ammucchia tesori e ppiú ss’ingrassa,
piú
2
ha ffame de ricchezze, e vvò una cassa
compaggna ar mare, che nun abbi fonno,
dico: oh mmandra de scechi,
3
ammassa, ammassa,
sturba li ggiorni tui, pèrdesce
4
er zonno,
5
trafica, impiccia: eppoi? Viè ssiggnor Nonno
cor farcione
6
e tte stronca la matassa.
7
La morte sta anniscosta
8
in ne l’orloggi;
e ggnisuno pò ddí:
9
ddomani ancora
sentirò bbatte
10
er mezzoggiorno d’oggi.
Cosa fa er pellegrino poverello
ne l’intraprenne
11
un viaggio de quarc’ora?
Porta un pezzo de pane, e abbasta quello.
27 ottobre 1834
1
L’avidità.
2
Che, quanto più ammucchia tesori e s’ingrassa, tanto più, ecc.
3
Ciechi.
4
Pèrdici.
5
Il sonno.
6
Col falcione.
7
Tutti i progetti, i disegni, ecc.
8
Nascosta.
9
Nessuno può dire.
10
Battere.
11
Nell’intraprendere.
1342. Er zor Giuvanni Dàvide
Io sciò
1
a la Valle
2
du’ coristi amichi
che vvonno c’anni fa er zor Dàvide era
un tenorone da venne in galera
3
tutti li galli e li capponi antichi.
Ma ppe cquanto ho ssentito jjer’a ssera,
me pare bben de ggiusto che sse dichi
4
ch’è ddiventato un vennitor de fichi
o un chitarrinettaccio de la fiera.
5
Fa er nasino,
6
ha un tantin de raganella,
7
sfiata a ccommido suo, ggnavola, stona,
e sporcifica er mastro de cappella.
Quanno la vosce nun ze tiè
8
ppiú bbona,
invesce de cantà la tarantella
se sta a ccasa e sse disce la corona.
29 ottobre 1834
1
Ci ho: ho.
2
Teatro dell’opera buffa.
3
Vendere in galera: superare.
4
Si dica.
5
Fiera dicesi in Roma ad una esposizione
di trastulli fanciulleschi sulla pubblica via.
6
Fa voce nasale.
7
Rantolo.
8
Non si tiene.
1343. Er zor Giuvanni Dàvide
Un ladro che sse
1
ttrovi, poverello,
cor laccio ar collo e ’r boja su le spalle,
si
2
in quer punto j’annassi pe le palle
la vojja
3
de cantavve
4
un ritornello,
sarebbe un zuccherino appett’a cquello
che ccanta adesso da tenore a Vvalle,
co ccerte note sue d’assomijjalle
ar chiudese e a l’uprisse
5
d’un cancello.
E llui, che ssa in cusscenza quer che vvale,
e, ppe cquanto s’ajjuti a rregolizzia,
trema pe la staggion de carnovale,
co cchi jj’arimettesse
6
er fiato in bocca
sce spartiría
7
d’accordo e de ggiustizzia
li du’ mila scudacci che sse scrocca.
10 novembre 1834
1
Si.
2
Se.
3
Gli andasse per le palle la voglia, gli saltasse il ticchio.
4
Di cantarvi.
5
Al chiudersi e all’aprirsi.
6
Gli
rimettesse.
7
Ci spartirebbe.
1344. La sovranezza
Regazzi, io ggià da jjeri ve l’ho ddetto:
ve l’ho avvisato puro
1
stammatina:
ve l’aripeto mó: zzitti, per dina:
li sovrani portateje rispetto.
Fijji, abbadat’a vvoi, c’ortre ar proscetto
2
de Santa Cchiesa e a la Lègge divina,
c’è er guaio de la Santa quajjottina,
3
si
4
è ppoco la galerra e ’r cavalletto.
Je casca a un omo una corona in testa?
Ecchelo
5
in faccia a li veri cristiani
diventato er ziggnore de la festa.
Perché, ccome li soggni de la notte
sò immaggine
6
der giorno, li sovrani
sò immaggine de Ddio guaste e ccorrotte.
31 ottobre 1834
1
Pure.
2
Precetto.
3
Ghigliottina.
4
Se.
5
Eccolo.
6
Sono immagini.
1345. La pratica de Pietro
Pietro, lassela stà:
1
Ppietro, che ffai!
bbada, nun disprezzà li mi’ conzijji:
penza ch’è mmaritata, e cche ttu pijji
n’amiscizzia pe tté ppiena de guai.
Tu tt’accechi accusí pperché nnun zai
doppo tanti tremori e annisconnijji
2
che ggran pena sia quella d’avé ffijji
e nnun potelli chiamà ffijji mai.
Tu nnun conoschi, Pietro mio, l’affanno
dell’èsse padre e dder vedé ccarezze
che sse le gode un antro
3
per inganno.
Tu nnun capischi, nò, ccome se
4
langue
ner dové ssopportà le tirannezze
fatte sull’occhi propî ar propio sangue.
2 novembre 1834
1
Lasciala stare.
2
Nascondigli, per «sotterfugi».
3
Altro.
4
Si.
1346. L’impinitente
Confessamme! e de che? per che ppeccato?
perché ho spidito all’infernaccio un Conte?
perché ho vvorzuto scancellà
1
l’impronte
de l’onor de mi’ fijja svergoggnato?
Bbe’, una vorta che mm’hanno condannato
nun je rest’antro che pportamme a Pponte.
2
È mmejjo de morí ddecapitato,
che avé la testa co una macchia in fronte.
Ma ssi
3
ddoppo er morì cc’è un antro monno,
nò, sti ggiudisci infami e sto governo
nun dormiranno ppiù ttranquillo un zonno;
perché oggni notte che jje lassi Iddio
je verrò avanti co la testa in mano
a cchiedeje raggion der zangue mio.
10 novembre 1834
1
Ho voluto cancellare.
2
Ponte S. Angiolo, stato fino a questi ultimi tempi uno de’ luoghi di esecuzioni capitali.
3
Se.
1347. Le bbone intenzione
Va spargenno
1
lo sguattero de Fressce
2
ch’er Papa in trent’annetti, e mmanco tanto,
co l’ajjuto de Ddio, si jj’arïessce,
3
vò ariddrizzà le gamme
4
a ttutto quanto.
Certo, er penziere è un gran penziere santo,
e vvederemo che ddiavolo n’essce.
Però, bbeato chi cciarriva! e intanto
maggna, cavallo mio, ché ll’erba cressce.
5
Ma in quest’antri
6
trent’anni, Angelo, dimme,
che sse fa,
7
ssi
8
oggniggiorno t’aricacchia
9
un guaio novo e un novo colaimme?
10
In quest’antri trent’anni a nnoi sce
11
tocca
la bbenna,
12
er catenaccio e la mordacchia,
sull’occhi, su l’orecchie e ssu la bbocca.
10 novembre 1834
1
Spargendo.
2
Il cardinal Fesch.
3
Se gli riesce.
4
Le gambe.
5
Proverbio.
6
Altri.
7
Cosa si fa.
8
Se.
9
Ripullula.
10
Disastro.
11
Ci.
12
Benda.
1348. L’amico de Papa Grigorio
Che ddorme! dorme un cazzo.
1
Er Papa è svejjo
e pporta la bbattuta der zorfeggio,
e in cento mila Papa io ve lo sscejjo
2
p’er piú Ppapa gajjardo
3
in ner conteggio.
Lo so, vvoi me direte, sor Cornejjo:
4
perché ddunque lui gode er privileggio
de fà ttutte le cose pe la mejjo,
e ttutto quanto j’ariessce in peggio?
Nun ce vò mmica l’àrgibbra
5
a rribbatte
6
scerte difficortà cche mme se facci.
7
Queste le sanno puro
8
le sciavatte.
9
Ecco er perché: un Pontescife, fijjolo,
nassce com’e nnoi poveri cazzacci
co ddu’ cojjoni e cco un ciarvello solo.
16 novembre 1834
1
Non dorme affatto.
2
Scelgo.
3
Pel Papa più gagliardo.
4
Cornelio.
5
Algebra.
6
Ribattere.
7
Mi si faccia.
8
Pure.
9
Ciabatte.
1349. Le risate der Papa
Er Papa ride? Male, amico! È sseggno
c’a mmomenti er zu’ popolo ha da piaggne.
1
Le risatine de sto bbon padreggno
pe nnoi fijjastri
2
sò ssempre compaggne.
Ste facciacce che pporteno er trireggno
s’assomijjeno tutte a le castaggne:
bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,
muffe de drento e ppiene de magaggne.
Er Papa ghiggna? Sce sò gguai per aria:
tanto ppiú cch’er zu’ ride
3
de sti tempi
nun me pare una cosa nescessaria.
Fijji mii cari, state bbene attenti.
Sovrani in alegria sò bbrutti esempi.
Chi rride cosa fa? Mmostra li denti.
17 novembre 1834
1
Piangere.
2
Il nostro romanesco ha ragione. Noi difatti siam figli di Gesù Cristo e della Chiesa sua sposa, la quale,
morto il primo marito, è tornata a tante altre nozze, e non cessa malgrado della sua decrepitezza.
3
Il suo ridere.
1350. La scampaggnata
Nun pòi crede
1
che ppranzo che ccià
2
ffatto
quel’accidente
3
de Padron Cammillo.
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:
ma un pranzo, un pranzo da restacce
4
matto.
Quello perantro
5
c’ha mmesso er ziggillo
a ttutto er rimanente de lo ssciatto,
6
è stato, guarda a mmé, ttanto de piatto
de strozzapreti
7
cotti cor zughillo.
8
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:
io nun pozzo
9
capí ppe cche rraggione
s’abbi da dí cche strozzino li preti:
quanno oggni prete è un sscioto
10
de cristiano
da iggnottisse
11
magara in un boccone
er zor Pavolo Bbionni
12
sano sano.
16 novembre 1834
1
Non puoi credere.
2
Ci ha.
3
Il vocabolo accidente serve di sinonimo e di rappresentante a molte altre voci della lingua
romanesca. Qui indica valore, abilità.
4
Da restarci.
5
Peraltro.
6
Profusione.
7
Cannelletti di pasta prosciugata, lunghi un
pollice.
8
Sughillo alla napolitana: «sugo di stufato».
9
Non posso.
10
Sciòto: ironia di «semplice».
11
Inghiottirsi.
12
Il
signor Paolo Biondi: la prima corpulenza di Roma.
1351. Er pranzo der Vicario
Nun è er primo Vicario né er ziconno
che dde viggijj’e ttempora se sbajja,
e cconfonne er merluzzo co la quajja,
l’arenga e ’r porco, la vitella e ’r tonno.
Fijjo, li Cardinali de sto monno,
e ttant’antra conzimile canajja,
tiengheno la cusscenza fatta a mmajja
da potella stirà ccome che vvonno.
E cquesti sò cquell’uteri
1
de vento
che ss’ha d’accompaggnalli co le torce
come fussino un antro
2
Sagramento!
Capàsci a un pover’omo che cce storce
3
de fasselo
4
dà in tavola ar momento
cuscinato in guazzetto, o in agr’e ddorce.
17 novembre 1834
1
Otri.
2
Altro.
3
Ci storce: ripugna.
4
Di farselo.
1352. La Causa Scesarini
Naturale ch’er Prencipe Turlonia
ha d’aris
1
affilato e ttasciturno:
se
2
tratta mó cche in ner ziconno turno
la Sagra Rota ha da portallo ar quonia.
3
Dunque machinerà cquarche ffandonia
e cquarc’antro bber trafico nutturno,
4
come li primi imbrojji che cce furno
pe mmannà la raggione in Babbilonia.
Vedi quante sentenze e cquanta ggente
pe abbassà l’arbaggía a sti bboni mobbili,
che nun vonno un espurio pe pparente!
E jje s’hanno d’avé ttanti ariguardi
quanno, per Cristo, er ceto de li nobbili
è ttutto un spedalone de bbastardi!
5
18 novembre 1834
1
Da ristare.
2
Si.
3
Allo sviluppo, agli estremi.
4
Alludesi alla nefanda opera della viziatura di un libro parrocchiale onde
farvi comparire morto fin da bambino l’odierno pretendente della paterna eredità Sforza-Cesarini.
5
Il nostro buon
romanesco parlava cosí all’epoca della terza proposizione rotale, la prima cioè del secondo turno del tribunale della
Rota, già essendosi dal pretendente Don Lorenzo ottenute due decisioni favorevoli ed un expediatar dal primo turno.
Il 22 giugno però del 1835 dovendosi riprodurre la causa per l’ultima e finale decisione, comparve il seguente sonetto
di autore a noi cognitissimo. Noi lo riportiamo qui siccome un complemento alle notizie di questo turpe litigio.
Per la quarta proposizione rotale
che accaderà il...
nella causa di filiazione e adizione alla paterna eredità
fra il duca Lorenzo Sforza Cesarini e i coniugi Torlonia pel loro figlio Giulio
Sotto gli auspici di cotal
1
che adorna,
bestemmiando, l’umano col divino,
nell’arena rotal Giulio Sforzino
2
la quarta volta a battagliar ritorna.
Creda il mondo però, seppur non torna
lo inchiostro in latte e l’acqua fresca in vino,
che don Giulio, e donn’Anna e don Marino
3
saran disfatti e n’avran mazza e corna.
E tempo è ben che cessi il vitupero
di madri e di sorelle snaturate
che infaman sé per offuscare il vero.
Oh Giudici di Dio, voi le salvate,
ributtando il rossor dell’adultero
sull’avarizia e sul mentir d’un frate.
4
1
Il conte Monaldo Leopardi di Recanati, autore del famoso opuscolo intitolato Appendice alla Causa celebre, dove
paragona in certo modo la veracità della duchessa Gertrude Sforza a quella della Beata Vergine sul fatto del loro
concepimento.
2
Don Giulio Torlonia, nipote, pel lato materno, dell’ultimo duca Salvatore Sforza, il quale lo istituí erede
in pregiudizio del proprio fratello Lorenzo, dichiarato bastardo. I commensali de’ Torlonia si dilettano di chiamarlo
lusinghevolmente il piccolo Sforza, di che viene Sforzino.
3
Anna Sforza e Marino Torlonia, genitori dello Sforzino.
4
Il
molto reverendo padre Pier Luigi dell’Angiolo Custode, carmelitano scalzo (fratello di Enrico Giuliani odierno drudo o
marito di coscienza della vecchia duchessa Gertrude), il quale rivelò un’antica confessione della buona dama, onde col
consenso di lei fondare la miglior prova del concepimento adulterino del di lei figlio Lorenzo.
1353. Er tribbunal de Rota
Liticà a Rroma io?! Fussi ammattito.
A mmé la Sagra Rota nun me frega.
1
Me se
2
maggnino puro
3
la bbottega,
io nun fo ccausa un cazzo:
4
ecco finito.
Sai quanto stai ppiú mmejjo a bbon partito
davanti a un tribbunale che tte lega?
Ché ssi ar meno ggiustizzia te se nega,
te tiengheno
5
un parlà cc’abbi capito.
Ma in Rota! in primi
6
parleno latino,
poi ’ggni tanto te stampeno un degreto,
che un giorno disce pane e un antro
7
vino.
Quanno infine sei spinto ar priscipizzio,
c’è cquer porco puttano de segreto,
che nnun zai manco chi tte fa er zervizzio.
19 novembre 1834
1
Non mi corbella.
2
Mi si.
3
Pure.
4
Questo cazzo ci sta per ripieno.
5
Ti tengono.
6
In primis.
7
Altro.
1354. Titta a Ttitta
1
Senti, mi’ nome.
2
Fin da quanno io ero
tant’arto,
3
me disceva Mamma mia:
«Fijjo, in gnisun incontro che sse sia
4
nun dí mmai nero ar bianco e bbianco ar nero.
Pe cqualunque vernisce je se dia,
quello ch’è ffarzo nun diventa vero.
Co li padroni tui vacce sincero,
e nun fà cche tte trovino in buscía».
5
La santa Verità ssai quante pene
m’ha sparaggnate ar monno? Un priscipizzio.
6
L’ho ssempre detta e mme ne trovo bbene.
Quest’è ddunque er gran punto ch’io te prèdico,
pe ssarvà onore e ppane in ner zervizzio.
Tu ppisscia chiaro e ffa’ le fiche ar medico.
7
25 novembre 1834
1
Giambattista.
2
Così dicesi a chi porta il proprio nome.
3
Tant’alto, e così dicendo si fa un segno colla mano distesa a
qualche altezza dalla terra.
4
Si sia.
5
Bugia.
6
Una infinità.
7
Proverbio.
1355. Un zentimento mio
Voi dateme una donna, fratèr caro,
che nun abbi un pannuccio, un sciugatore,
un fazzoletto, un piatto, un pissciatore,
una forchetta, un cortello, un cucchiaro.
Voi datemela iggnuda e ssenza un paro
de scarpe, o una scopetta, o un spicciatore,
in d’un paese che nun c’è un zartore,
un spazzino, un mercante, o un carzolaro.
Fatela senza casa e ssenza tetto:
fate de ppiú cche nun conoschi foco,
e nnun zappi
1
che ssia ssedia né lletto.
Figurateve mò tutta la zella
2
c’ha d’avé sta donnetta in oggni loco,
eppo’ annateme a ddí
3
cch’Eva era bbella.
28 novembre 1834
1
Non sappia.
2
Il sudiciume.
3
Eppoi andatemi a dire.
1356. [Un zentimento mio:] Risposta
Nun dite male d’Eva, perché Eva
fesce da mojje ar primo padr’Adamo:
e nnoi, quanti in ner monno sce ne stamo
1
nun nasscemio
2
si
3
llei nu lo voleva.
È stata sporca? Ebbè? cquesto nun leva
che nnoi l’ariverimo e arispettamo;
e ccome tutte fronne de quer ramo
ricasca sopr’a nnoi quanto fasceva.
Io poi dico c’ha ttorto chi l’accusa;
e mme credo
4
ch’Iddio j’averà ddato
la pulizzia come l’asscenza
5
infusa.
E cquann’anche accusì nnun fussi stato,
so cche la pulizzia c’adesso s’usa
è vvenuta pe ccausa der peccato.
25 novembre 1834
1
Ce ne stiamo.
2
Non nascevamo.
3
Se.
4
Mi credo.
5
La scienza.
1357. La mi’ regazza
Te l’acconcedo:
1
me fa un po’ ammattí:
è un tantino furastica, lo so:
e ’ggniquarvorta j’addimanno un ,
2
lei me s’inciuffa
3
e mme dà in faccia un no.
Co ttutto questo, lassete
4
serví:
fajje puro risponne
5
quer che vvò.
Ma a ppedibus,
6
per dio, scià
7
da vení;
e a la longa pò annà, mma jje la fo.
A bbon conto jerzera ggià cce fu
un pass’avanti; e ffidete
8
de mé
che ggià bbatte la strada pe l’ingiú.
Bbasta, pijjamo un po’ cquer che mme dà:
ccontentamose
9
mó de quer che vviè;
e pp’er restante Iddio provederà.
26 novembre 1834
1
Concedo.
2
Sì.
3
Mi s’intorbida.
4
Lasciati.
5
Falle pure rispondere.
6
Ad pedes.
7
Ci ha.
8
Fidati.
9
Contentiamoci.
1358. Er frutto de la predica
Letto ch’ebbe er Vangelo, in piede in piede
quer bon Padre Curato tanto dotto
se
1
piantò cco le chiappe sul paliotto
a spiegà li misteri de la fede.
Ce li vortò de sopra e ppoi de sotto:
ciariccontò
2
la cosa come aggnede;
3
e de bbone raggione sce ne diede
piú assai de sei via otto quarantotto.
Riccontò ’na carretta de parabbole,
e cce ne fesce poi la spiegazzione,
come fa er Casamia doppo le gabbole.
4
Inzomma, da la predica de jjeri,
ggira che tt’ariggira, in concrusione
venissimo
5
a ccapí cche ssò mmisteri.
29 novembre 1834
1
Si.
2
Ci raccontò.
3
Andò.
4
Cabale, dell’astronomo Casamia, pel giuoco del lotto.
5
Venimmo.
1359. Lo stufarello
1
Sto a spasso,
2
grazziaddio sto a spasso, Checco.
E inzin’a ttanto c’averò er tigame
3
de bbobba
4
dar convento de le Dame
de Tor-de-Specchi, ho vvinto un terno a ssecco.
5
Che sserve? A la fatica io nun ciazzecco:
6
quasi è ppiú mmejjo de morí de fame.
E cquer fà ttutto l’anno er faleggname
nun è vvita pe mmé: ppropio me secco.
Sò stato mozzo, sempriscista, coco...
Ar fin de conti
7
[poi] me sò ddisciso
de capí cche un ber gioco dura poco.
Uhm, quer zempre reggina è un brutto ingergo:
e nnemmanco annerebbe
8
in paradiso
pe nnun cantà in eterno er Tantummergo.
29 novembre 1834
1
Stufarello è «colui che presto si annoia di tutto».
2
Sono disoccupato.
3
Tegame.
4
Minestra.
5
Terno, ad aumento del
cui premio siasi mandata tutta quella parte di posta che importava la vincita dell’ambo, che resta nullo alla vittoria.
6
Non ci azzecco: non ci sono adatto.
7
Alla fine.
8
Andrei.
1360. Che ttempi!
E nnun zenti che llússcia?
1
nu lo vedi
si cche ffresco
2
viè ggiú da li canali?
Co st’inferno che cqui,
3
ccosa te credi?
Manco è bbono l’ombrello e li stivali.
Cristo! quanno se
4
mette a ttemporali
je dà ggiú cco le mano e cco li piedi.
Ah! er zole
5
in sti diluvî univerzali
lo mettemo da parte pe l’eredi.
Oh annate a rregge
6
a scarpe co st’acquetta.
Le sòle ve diventeno una sponga:
7
le tomarre
8
un bajocco de trippetta:
bast’a ddí
9
cch’è da un mese c’a Rripetta
10
sce
11
corre fiume quant’è llarga e llonga,
e ’r pane je lo porteno in barchetta.
30 novembre 1834
1
Acqua dirotta.
2
Se quale rovina.
3
Con questo inferno qui.
4
Si.
5
Il sole.
6
Oh andate a reggere.
7
Spugna.
8
Il tomaio.
9
Basta dire.
10
La via di Ripetta.
11
Ci.
1361. L’annata magra
Ce lamentamo tanto eh, ggente mia,
perché st’anno nun c’è vvino né ggrano?
E avemo core d’accusà er Zovrano
che nun vò pprovibbì la caristia?
Acquietateve llà, pporchi bbú e vvia.
Sò cquesti li discorzi der cristiano?
Se lo merita er popolo romano
d’avé la grasscia
1
ar forno e all’ostaria?
Cqua ffurti, cqua rresie, congiure e ssette;
cqua ggioco, cqua pputtane, ozzio e bbiastime,
2
cqua inzurti, tradimenti, arme e vvennette!...
Si
3
nnun c’è un vago d’ua,
4
si nnun c’è spiga
de grano, nun è er Papa che cciopprime:
5
è la mano de Ddio che cce gastiga.
30 novembre 1834
1
Grascia per «abondanza».
2
Bestemmie.
3
Se.
4
Uva.
5
Ci opprime.
1362. La carità
Ma cche, oggi sei sceco?
1
Sì, ssì, cquello:
quer vecchio stroppio
2
e ccor un occhio pisto
che ccià
3
steso la mano: nu l’hai visto?
Presto, vàjje a pportà sto quadrinello.
Fijjo mio, quanno incontri un poverello
fatte conto
4
de véde
5
Ggesucristo;
e cquanno un omo disce ho ffame, tristo
chi nun je bbutta un tozzo ner cappello.
Chi ssa cquer vecchio, co li scenci sui,
che un anno addietro nun avessi
6
modo
la carità de poté ffalla
7
lui?
E nnoi, che ggrazziaddio oggi maggnamo,
maggneremo domani? Eccolo er nodo.
Tutti l’ommini sò ffijji d’Adamo.
30 novembre 1834
1
Cieco.
2
Storpio.
3
Ci ha.
4
Fatti conto: fa’ conto.
5
Di vedere.
6
Non avesse.
7
Di poter farla.
1363. A Ggesú Ssagramentato
Ggesú mmio, pe li meriti der pranzo
de le nozze de Cana, e in divozzione
de la vostra santissima passione
esaudite sto povero Venanzo.
Date la providenza ar mi’ padrone,
e ffate, o bbon Gesú, cc’abbi uno scanzo
1
da potemme
2
pagà cquer che jj’avanzo
pe èsse
3
stato co llui troppo cojjone.
Dateje la salute, o Ggesú mmio,
acciò nun crepi cor mi’ sangue addosso,
cosa da famme arinegacce
4
Iddio.
E ppe cquesta preghiera che vve faccio
dateje presto un cappelletto rosso
eppoi l’eterna grolia a l’infernaccio.
1° dicembre 1834
1
Abbia un propizio intervallo di tempo.
2
Potermi.
3
Per essere.
4
Da farmi rinnegarci.
1364. La cassa de sconto
1
Dar Popolo pe annà a li Du’ Mascelli
su la Piazza de Spaggna a mmano manca
in fonno a la piazzetta Miggnanelli,
ve viè de petto una facciata bbianca.
Llí, a llettere ppiú ggranne de ggirelli
tutti indorati, sce
2
sta scritto: Bbanca
Romana. Ebbè, ccurrete, poverelli,
ché de príffete
3
llí nnun ce n’amanca.
Sta bbanca inzomma è una scuperta nova
pe ddispenzà cquadrini a cchi li chiede
in qualunque bbisoggno s’aritrova.
Sortanto sc’è
4
cche sta Bbanca Romana,
com’ha ddetto quarcuno che cciaggnéde,
5
capissce poco la lingua itajjana.
1° dicembre 1834
1
Instituita da una compagnia di azionisti francesi, diretta dal marchese Jouffroy.
2
Ci.
3
Denari.
4
C’è.
5
Ci andò.
1365. La gabbella de cunzumo
Fu inzomma che ar partí da Stazzanello
la sora Pasqua la commare mia
me diede un zanguinaccio, e Nnastasia
se lo vòrze agguattà ssotto ar guarnello.
Ce ne venímio
1
bberbello bberbello,
quanno propio a l’entrà de Porta Pia,
fussi caso o cc’avessimo la spia,
ce vedemo affermà
2
dda un cacarello.
3
Lui, visto er bozzo, schiaffò ssotto un braccio
e ll’aggnéde
4
a ttastà ddove capite
co la scusa de prenne er zanguinaccio.
Come finí? ffiní sta bbuggiarata
ch’io perze tutto, e ppe nnun fà una lite
me portai via mi’ fijja sdoganata.
5
1° dicembre 1834
1
Ce ne venivamo.
2
Ci vediamo fermare.
3
Uomiciatto.
4
L’andò.
5
Ammaliziata.
1366. La serva de casa
Ha ttutte le vertú cch’è nescessario
pe bben zerví la nobbirtà rromana.
È mmatta, è strega, è spia, è lladra, è cciana,
1
e ppe bbuscíe
2
nun ce la pò er lunario.
Si
3
ppoi volemo seguità er rosario,
er padrone lo serve da puttana,
la padrona la serve da ruffiana,
e ccusí ss’aritrippica
4
er zalario.
Inortre sce saría
5
n’antra
6
catasta
de difettucci e ttutti a bbommercato;
ma vve sbrigo: è una serva, e ttant’ abbasta.
E nno ppe ggnente
7
da tant’anni addietro,
le serve in ner pretorio de Pilato
sò state mmaledette da San Pietro.
2 dicembre 1834
1
Vanitosa nel vestire.
2
Bugie.
3
Se.
4
Si ritriplica: per semplicemente si triplica.
5
Ci sarebbe.
6
Un’altra.
7
E non per
niente.
1367. Er piú in ner meno
Vedi quer marinaro cor cappotto
e un cappello de sòla tonno tonno
che sta in quer naviscello in fonno in fonno
rosicannose un pezzo de bbiscotto?
Ebbè, cquer marinaro, ch’è un pilotto,
1
m’assicurò jjerzera che sse
2
ponno
trovà ccerti paesi in cap’ar monno
dove oggn’omo che nnassce è un ottantotto.
3
Cristo! che rrazza de trippetta santa
ha d’avé llí una donna! In diesci parti
4
fa ddiesci fijji e ssò ottoscentottanta!
Eppuro,
5
cqui da noi, quarche bbuffone
ve negherà cche Iddio fatto in tre quarti
pò èsse un zol’Iddio
6
in tre pperzone.
3 dicembre 1834
1
Pilota.
2
Si.
3
Equivoco di Ottentotto, od Otentotto.
4
Plurale di parto. Il plurale di parte ha la stessa uscita che il
singolare.
5
Eppure.
6
Può essere un solo Iddio.
1368. La musica de la padrona
Je disceva er Maestro Confidati,
1
mentr’io stavo a ppulí li cannejjeri,
2
che tutti li soggetti, o ffinti o vveri,
se
3
ponno mette
4
in musica adattati.
Lui scià
5
mmesso scinqu’ommini affamati
d’una Commedia der zor Dant’Argèri;
6
e, un anno prima, a Ssan Filippo Neri,
sce messe
7
l’oratorio
8
de li frati.
Io medémo
9
ho ssentito un capponcello
10
ner vespero a Ssan Pietro, er primo sarmo,
de méttesce una ssedia e uno sgabbello.
11
E la padrona mia s’è pperzuasa
de facce mette
12
venti canne e un parmo
de scitazzione der padron de casa.
3 dicembre 1834
1
Ch. maestro di cappella.
2
Candelieri.
3
Si.
4
Mettere.
5
Ci ha.
6
Il canto dell’Ugolino di Dante messo in musica dal
Confidati.
7
Ci mise.
8
Nell’Oratorio dei PP. Filippini si eseguiscono cantate sagre, dette oratorii.
9
Medesimo.
10
Castratello.
11
«Sede a dextris meis, donec ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum». Psal. CIX.
12
Di farci
mettere.
1369. Er zartore
Ricco un zartore mó?! Stateve quieti.
A sti tempacci che o nun c’è llavore,
o nnun ze
1
paga, chi ffa st’arte more
de la morte che ttocca a li poeti.
Quanno che li Padriarchi e li Profeti
se
1
squarciaveno addosso er giustacore,
quello sí cch’era er tempo c’un zartore
se
1
poteva arricchì ccome li preti.
Poi, bbast’a vvede
2
l’accommida-panni
si cche ffrega in ner ghetto de la Rua
3
n’è ssaputa restà ddoppo tant’anni.
Lo so, lloro averanno arippezzato:
ma, arittoppa arittoppa un mese o ddua,
finarmente er zartore era chiamato.
4 dicembre 1834
1
Si.
2
A vedere.
3
Sulla principal porta del recinto degli Ebrei di Roma è scritto: Ghetto della Rua. Quasi tutti que’
meschini vivono con racconciar panni vecchi, e van gridando per la città: Chi accomoda panni?
1370. Er beccamorto de casa
Lo sai chi è cquello che jj’ho ddetto addio
e mm’ha arisposto senza comprimenti?
Quell’è un marchese, un aventore mio:
inzomma, è un antro
1
de li mi’ crïenti.
Eh! ssemo amichi antichi assai, perch’io
j’ho ssotterrati tutti li parenti;
e ll’urtimo l’antr’anno è stato un zio
che ll’arricchí mmorenno d’accidenti.
Sappi ch’è un gran bravissimo siggnore
che ppaga li mortorî da sovrano,
come faranno a llui quanno che mmore.
Pe cquesto io spero che nun zii
2
lontano,
co l’ajjuto de Ddio, d’avé l’onore
de seppellillo io co le mi’ mano.
5 dicembre 1834
1
Altro.
2
Non sia.
1371. Li fiottoni
Tutti a sto Monno só ppieni de vojje,
e ggnisuno è ccontento der zu’ stato.
Er marito se laggna d’avé mmojje
e lo scapolo invidia er maritato.
Quer ch’è llegato se
1
vorebbe ssciojje;
2
quer ch’è ssciorto vorebb’èsse legato;
e oggnuno v’aricconta le su’ dojje
che nun ciànno
3
né ccorpa
4
né ppeccato.
La mi’ padrona e la mi’ padroncina,
ponno appunto serví ppe mmette
5
fora
la mostra de sta bbella palazzina.
6
La madre, semprigrazzia,
7
a ttutte l’ora
smania d’èsse chiamata siggnorina:
la fijja poi de diventà ssiggnora.
6 dicembre 1834
1
Si.
2
Sciogliere.
3
Non ci hanno.
4
Colpa.
5
Per mettere.
6
La casa de’ matti.
7
Exempli gratia.
1372. Er terremoto de sta notte
Sí, tterremoto, sí: nnun te cojjono.
Drent’a la stanzia mia che ssemo in tanti
scià
1
svejjati d’un zarto
2
a ttutti quanti,
e ttu, gghiro
3
fottuto, hai sto bber
4
dono?
Ggnente de meno che
5
cc’è pparzo un tono
che ccià
1
ffatto chiamà ttutti li santi!
Antro
6
che camminà ll’appiggionanti!
È stato un terremoto bbell’e bbono.
Tant’è vvero, che, cquanno è usscito Toto,
7
ne la bbottega de padron Grigorio
j’hanno detto: «Hai sentito er terremoto?».
Chi ddisceva ch’è stato annullatorio,
e cchi ddisceva d’attaccacce
8
er voto
perché invesce è vvienuto succurzorio.
6 dicembre 1834
1
Ci ha.
2
Salto.
3
Qui sta per «dormiglione».
4
Bel.
5
Si tratta che; ti basti che, ecc.
6
Altro.
7
Antonio.
8
D’attaccarci.
1373. Sentite, e mmosca
1
Istoria de Don Màvero.
2
Lui era
fijjo d’un artebbianca
3
pirolese
4
che gguadaggnava trenta ggiorni ar mese
cor buzzico,
5
lo schifo
6
e la stadera.
Vedenno dunque che in ner zu’ paese
è un cojjone capato
7
chi cce spera,
pe ffà ssorte pijjò la strada vera,
e ss’aggnéde
8
a vvistí Ccamannolese.
9
Da frate poi fu eletto Ggenerale,
e slargò er dindarolo,
10
e ssímir
11
cosa
arifesce
12
creato Cardinale.
Finarmente è ssalito ar terzo scelo.
13
Mó cch’è Bbeatitudine sce
14
tosa,
e er zu’ bbarbiere sce dà er contrapelo.
6 dicembre 1834
1
Zitto.
2
Don Mauro Cappellari, oggi Gregorio XVI felicemente regnante.
3
Venditore di paste, risi, olio, canape,
candele di sevo, pignatte, scope, ecc, ecc.
4
Tirolese.
5
Vaso da olio, con becco, fatto di latta.
6
Arnese di legno da
mondar minestre, e da altri usi domestici.
7
Distinto.
8
Andò.
9
Camaldolese.
10
Salvadanaro.
11
Simil.
12
Rifece.
13
Cielo.
14
Ci.
1374. Le sueffazzione
Io me sò
1
avvezzo a ttutto in vita mia,
fora c’a cquella porca de piggione.
Pe cquanto abbino fatto, Annamaria,
nun ciò
2
ppotuto mai pijjà ppassione.
A st’usanza che cqui, nnun zo cche ssia,
addrittura nun ciò indisposizzione.
Propio me sa dd’antipaticheria:
propio nun me sce sento vocazzione.
Pe ’n esempio, li frati a ppoc’a ppoco
s’avvezzeranno tutti ar rifettorio,
ar zuscidume,
3
a la pigrizzia, ar gioco.
Cottuttosciò,
4
mme ggiura un Cappuccino
che nun fanno mai l’ossa a cquer martorio
de sentisse
5
svejjà pp’er matutino.
7 dicembre 1834
1
Mi sono.
2
Non ci ho.
3
Sucidume.
4
Con tutto ciò.
5
Di sentirsi.
1375. Er fagotto pe l’ebbreo
Ecco che cce s’abbusca
1
a sserví ddonne,
massimo
2
quanno sò cciucce
3
da some.
Lei m’aveva da dí nnome e ccoggnome
perch’io nun me sciavesse da confonne.
4
Lei però, ssecca secca, m’arisponne
«Se
5
chiama Aronne». Sí, ddico, ma ccome...
E llei da capo m’aripete er nome,
e mme pianta strillanno: «Aronne, Aronne».
A sta risposta io me n’aggnede
6
in Ghetto,
e ar prim’Aronne che mme fu inzeggnato
je lassai la pilliccia e ’r fazzoletto.
Oh ccazzo! ho da capí pper incantesimo?!
Lei m’aveva da dí ppuro
7
er casato
e nnò ssortanto er nome de bbattesimo.
8
7 dicembre 1834
1
Quel che ci si guadagna.
2
Maxime.
3
Sono asine.
4
Non mi avessi da confondere.
5
Si.
6
Me ne andai.
7
Pure.
8
Il nostro
popolo non conosce altro nome proprio, che quello che si impone alla fonte battesimale.
1376. La ggiustizzia ar Popolo
1
Disce ch’er monno è bbello perch’è vvario.
Pe sta raggione io vorze
2
una matina
annammene
3
a vvedé la quajjottina
4
ch’è ssuccessa a la crosce der Carvario.
Trovai ggià ppronto er boja cor vicario,
5
e sse
6
stava pe ddà la tajjatina:
quanno ecco un frate co ttanta de schina
7
che mme viè a rripparà ccome un zipario.
«Padre», dico, «levateve d’avanti...»
ma in quer frattempo, tzà, sse
8
sente un bòtto
che ffa ddà uno strilletto a ttutti quanti.
Me slongo, e vvedo ggià ffinito er gioco.
Bbravi! Ma un’antra
9
vorta io me ne fotto
d’annamme
10
a scommidà ppe ttanto poco.
8 dicembre 1834
1
Sulla Piazza del Popolo.
2
Volli.
3
Andarmene.
4
Ghigliottina.
5
Coll’aiutante.
6
Si.
7
Schiena.
8
Si.
9
Altra.
10
Andarmi.
1377. L’immaggine e ssimilitudine
Tutti a immaggine sua?! Fra Sperandio,
avétesce
1
un po’ ffremma, io ve la sfravolo.
2
Me lo vienissi a ddì ppuro
3
San Pavolo,
je daría
4
der cazzaccio a ggenio mio.
Sicconno
5
voi, ar conto che ffacc’io,
vieressimo
6
a sti termini der cavolo
che inzino, attent’a mmé, cche inzino er diavolo
sii stato fatto a immaggine de Ddio.
Eh cche vvòi
7
Santi Padri e Ssante Madre!
Ste sorte de resíe,
8
frate mio caro,
sò rresíe puro in bocca a un Zanto Padre.
Si
9
Iddio se presentassi co l’immaggine
c’ha ddato a un ortolano o a un cicoriaro,
me parerebbe er Dio de la bburraggine.
8 dicembre 1834
1
Abbiateci.
2
Ve la sciorino giù: ve la canto.
3
Me lo venisse a dire pure.
4
Gli darei.
5
Secondo.
6
Verremmo.
7
Che vuoi.
8
Eresie.
9
Se.
1378. La bbattajja de Ggedeone
Li trescento ggiudii de Ggedeone
se n’aggnédeno
1
dunque a ffil a ffila
armati inzin’all’occhi d’una pila,
d’una fiaccola drento, e dd’un trombone.
Arrivati poi llà, ccome che sfila
la truppa de li bballi a Ttordinone,
girònno
2
tante vorte in priscissione,
che de trescento parzeno
3
tremila.
Quanno tutú, ttutú, lle pile rotte,
torce all’aria, trescento ritornelli,
e li nimmichi ggiú ccom’e rricotte.
E mmó ttutti st’eserciti cojjoni
invesce d’annà in guerra com’e cquelli,
se metteno
4
a spregà ttanti cannoni!
8 dicembre 1834
1
Se ne andarono.
2
Girarono.
3
Parvero.
4
Si mettono.
1379. Li Monni
Che tt’impicci Fra Elia?! Tutti li grobbi
1
che stanno sparzi pe li sette sceli
2
sce se
3
troveno ebbrei, turchi e ffedeli
come in ner nostro? Miserere nobbi!
Tu mme dichi una cosa che mme ggeli.
Vedi quanti Abbacucchi, quanti Ggiobbi,
quanti Santi Re Ddàvidi e Ggiacobbi,
e quanti Merdocchei, Caini e Abbeli!
Vedi quant’antre
4
vecchie co l’occhiali!
quant’antri cappuccini co le sporte!
e cquant’antri peccati origginali!
Cristo! quant’antri re! quant’antre Corte!
freggna! quant’antri Papi e Ccardinali!
cazzo! quant’antre incarnazzione e mmorte!
5
9 dicembre 1834
1
Globi.
2
Cieli.
3
Ci si.
4
Altre.
5
Incarnazioni e morti. Tutti i plurali femminili escono in e presso il volgo romano.
1380. L’anime
L’anime cosa sò? ssò spesce
1
d’arie.
Dunque, come a li piani e a le colline
se danno
2
l’arie grosse e ll’arie fine,
sce
3
sò ll’anime fine e ll’ordinarie.
Le prime sò ppe li Re, le Reggine,
li Papi, e le perzone nescessarie:
quell’antre
4
poi de qualità contrarie
sò ppe la ggente da contà a dduzzine.
Pe sto Monno la cosa è accommidata;
ma in quell’antro
5
de llà cc’è ggran pavura
che sse svòrtichi
6
tutta la frittata.
Perché Ccristo, e Ssan Pietro er zu’ guardiano,
s’hanno d’aricordà ffin ch’Iddio dura
che cchi li messe
7
in crosce era un zovrano.
9 dicembre 1834
1
Sono specie.
2
Si.
3
Ci.
4
Altre.
5
Altro.
6
Si rivolge.
7
Mise.
1381. Li rinegati
Ecchene
1
un antra
2
che cciò
3
ttanto riso.
Tre o cquattro feste fa, Ppadre Avaristo
drento a li Scento-preti
4
a pponte Sisto
ce diede in de la predica st’avviso:
c’oggni (ve porto er zu’ parlà pprisciso)
c’oggni cristiano c’arinega Cristo,
fussi anche er Papa, nun farà l’acquisto
de la grolia der zanto Paradiso.
Du’ sbajji. Er primo, c’un Papa a l’entrata
potessi èsse
5
cacciato da San Pietro,
che nun faria
6
st’azzione a un cammerata.
L’antro sbajjo è, cch’er zor Chiavone-ggiallo
puro
7
un de noi sciarimannassi
8
addietro
doppo quer fatto de la serva e ’r gallo.
9 dicembre 1834
1
Eccone.
2
Un’altra.
3
Ci ho.
4
L’ospizio de’ Cento Preti.
5
Potesse essere.
6
Non farebbe.
7
Pure.
8
Ci rimandasse.
1382. Una risuluzzione
Er frate zzoccolante Fra Mmodesto,
che li libbri li sa ttutti a mmemoria,
m’ha rriccontato una gran bell’istoria
successa in ner papato de Pio Sesto.
Disce lui dunque, e lo sostiè, che cquesto
prima d’annà a ggodé l’eterna groria
vorze
1
annà a Vvienna a ggastigà la bboria
d’un re cche ccamminava troppo presto.
Arrivò, cce parlò, jje disse tutto;
e, cquann’ebbe finito, er Re ttodesco
disce che jj’arispose assciutto assciutto:
«Pio Sesto mio, vatte a ffà fotte, e ddamme... »
2
Allora er Papa cche cconobbe er fresco
3
ritornò cco la coda tra le gamme.
10 dicembre 1834
1
Volle.
2
Dammi di barba, ecc.
3
Conobbe l’aria che tirava.
1383. La spiegazzione der Concrave
Er Concrave de Roma, Mastro Checco,
tu lo chiami er Pretorio de Pilato.
Senti mó in che mmaggnèra
1
io l’ho spiegato,
e ccojjoneme poi si nun ciazzecco.
2
A mmé ttutto st’impiccio ingarbujjato
me pare un gioco-lisscio
3
secco secco:
4
ché cqua ttutto lo studio è dd’annà ar lecco,
llà ttutto er giro
5
è dd’arrivà ar Papato.
Ccusí ’ggni Minentissimo è una bboccia,
che ss’ingeggna cqua e llà, ccor piommo o ssenza,
de metteje
6
viscino la capoccia.
7
Fin che cc’è strada de passà ttra ’r mucchio
se
8
prova de fà er tiro e cce se penza:
si nnò
9
ss’azzarda e ss’aricorre ar trucchio.
10 dicembre 1834
1
In qual maniera.
2
Se non ci azzecco.
3
Giuoco da bocce, col suolo battuto e levigato.
4
Semplice semplice.
5
L’intrigo.
6
Di mettergli.
7
Il capo.
8
Si.
9
Se no: altrimenti.
1384. Er nôto
Sai? Lo sposo
1
de Mea la lavannara,
Còcco Sferra, quer bravo nôtatore,
propio mó sto fiumaccio traditore
je l’ha ffatta tra er Passo e la Leggnara.
Chi ddisce che in ner roppe la fiumara
je pòzzi èsse
2
arrivato er zangue ar core:
chi ddisce un capoggiro, chi un tremore,
e cchi ddisce pe ffà ttroppa caggnara.
3
Sii l’una o l’antra, o cquarche granchio, oppuro
4
ch’er fiume j’abbi fatto mulinello,
fatt’è cche s’è affogato de sicuro.
Com’è ito a ffiní, ppovero Sferra!
Che ssò li fiumi!
5
Disce bbene quello:
loda lo mare e attacchete
6
a la terra.
10 dicembre 1834
1
Sposo, con entrambe le o strette.
2
Gli possa essere.
3
Per far troppo chiasso, allegria incomposta, disordinata.
4
Oppure.
5
Che cosa sono i fiumi!
6
Attàccati.
1385. L’arte fallite
Adesso ch’è la moda ggenerale
che ss’abbi da mutà ttutti li gusti,
e ttutto, all’occhi de sti bbelli fusti,
a ttempi antichi se
1
fasceva male,
chi llavorava veste d’urinale,
ciprïa, tacchi, guardanfanti e bbusti,
pe l’ingiustizzia de sti tempi ingiusti
termina la vecchiaja a lo spedale.
Mò nnun useno ppiú ddomenichini,
2
perché ddescenza e ppubbrico decoro
nun zò ppiú mmarcanzia da figurini.
Ma llassino durà sta bbella jjoja,
3
e, dde l’usanze vecchie, a ttempi loro
nun resteranno che ssovrani e bboja.
11 dicembre 1834
1
Si.
2
Servitori che dalle semi-dame si assumevano vestivano e pagavano nelle sole domeniche o altre feste per esserne
seguite alla chiesa o al passeggio. Alla sera deponevano la livrea e tornavano alla lor libersino alla festa seguente.
3
Con questa frase è come si dicesse: «Un po’ più che questa storia la duri», ecc.
1386. La bbellezza de le bbellezze
Ce ponn’èsse in ner monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nòva der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.
Nun te dico er colore de la pelle
piú ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che tt’appicceno er foco a le bbudelle.
Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’ occhi, sò rrobba, Ggiuvanni,
da fàtte
1
restà llí ssenza parola.
Si
2
è ttanta bella a vvédela vistita,
Cristo, cosa sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita!
11 dicembre 1834
1
Farti.
2
Se.
1387. L’estri de li francesi
Piú ppresto a spasso,
1
che sserví
2
un francese.
E quann’anche io sciannasse
3
pe la fame,
voría
4
da sti Monzú e da ste Madame
ar meno ar meno trenta piastre ar mese.
Tutti sò lladri co ste ggente infame:
tutte le spese sò ccattive spese:
je puzza tutto
5
quer che ddà er paese,
polli, erbe, caccia, pessce, ova e bbestiame.
Finissi
6
però cqua, nnun zaría ggnente,
7
er pegg’è li crapicci c’hanno in testa
pe cconfonne
8
er cervello a cchi li sente.
Trall’antre
9
fantasie de quella ssciocca
de Madama Ggiujjè, tt’abbasti questa
che vvoleva l’arrosto in ne la brocca.
10
11 dicembre 1834
1
Piuttosto disoccupato.
2
Servire.
3
Ci andassi.
4
Vorrei.
5
Schifano tutto.
6
Finisse.
7
Non sarebbe niente.
8
Per
confondere.
9
Altre.
10
À la broche.
1388. Una fatica nova
Tutta la mi’ passione, Sarvatore,
sarebbe quella de nun fà mmai ggnente;
e cquanno che sto in ozzio, propiamente
me pare, bbene mio!, d’èsse un Ziggnore.
Du’ mesi fa pperò cquel’accidente
der Cardinale se
1
pescò un dottore
che jj’ha ordinato pe le strette ar core
de strufinasse
2
er corpo isternamente.
Me tocca dunque a mmé mmatina e ssera,
d’esiguijje sta porca de riscetta;
e ecchete,
3
compare, in che mmaggnera:
4
se
5
strufina la pelle ar Cardinale,
e jje s’allustra a fforza de scopetta
come se dassi
6
er lustro a uno stivale.
11 dicembre 1834
1
Si.
2
Di strofinarsi.
3
Eccoti.
4
In qual maniera.
5
Si.
6
Si dasse.
1389. Er bordello scuperto
Entrato er brigattiere
1
in ner bordello
je se fa avanti serio serio un prete.
Disce: «Chi ssete voi? cosa volete?»
Disce: «La forza, e pportà llei ’n Castello».
Disce: «Nu lo sapete, bberzitello,
2
co cchi avete da fà? nnu lo sapete?
Aspettate un momento e vvederete,
e ttratanto cacciateve er cappello.
Appena poi che ll’averete visto,
dite a quer zor Vicario der guazzetto
ch’io nun conosco for ch’er Papa e Ccristo».
Detto ch’ebbe accusí, sse
3
scercò addosso,
arzò la su’ man dritta sur zucchetto,
se
3
levò er nero e cce se messe
4
er rosso.
5
11 dicembre 1834
1
Brigadiere de’ carabinieri di polizia.
2
Bel zitello.
3
Si.
4
Ci si mise.
5
Questo è un episodio della vita del cardinale De
S.
e
.
1390. La fila de li Cardinali
Va’ vva
1
er Cardinalume come piove,
si’
2
bbenedetta l’animaccia sua!
Viè
3
cqua, Sghiggna, contamoli: Uno, dua,
tre, cquattro, scinque, sei, sette, otto, nove,
diesci, unnisci, dodisci... Eh la bbua!
Sò ttant’e ttante ste Minenze nòve,
4
che, a vvolelli contà, nun te pòi move
5
pe ttre o cquattr’ora de la vita tua.
Guarda che rriveree!
6
Vedi che sfarzo!
Ecco poi si
7
pperché ll’entrata pubbrica
dar capo-d’anno nun arriva a Mmarzo.
Te ggiuro ch’io me tajjerebbe
8
un braccio
che aritornassi
9
er tempo de repubbrica
pe dijje a ttutti: Cittadin cazzaccio.
12 dicembre 1834
1
Guarda guarda.
2
Sia.
3
Vieni.
4
Nuove.
5
Non ti puoi muovere.
6
Livree.
7
Se.
8
Mi taglierei.
9
Ritornasse.
1391. Un carcolo prossimativo
Una vaccina dell’Agro Romano,
senza la pelle, l’interiori, l’ossa,
er zangue e ’r grasso, pò ppesà, Gghitano,
1
un quaranta descine
2
a ddílla grossa.
Valutanno mó er grano a la riscossa
da la mola e ffrullone, io dico er grano
d’oggni rubbio, un pell’antro, se ne possa
fà un cinquanta decine pe lo spiano.
Incirc’ar vino poi, tu adesso mette
3
c’una bbotte da sedisci
4
a la fine
dà ddu’ mila e cquarant’otto fujjette.
Dunque, l’Eminentissimo s’iggnotte
5
drent’a ddiescianni trentasei vaccine,
quinisci rubbia, e cquarantotto bbotte.
12 dicembre 1834
1
Gaetano.
2
Il rubbio da grano pesa 64 decine di libbre.
3
Metti.
4
Le botti da vino sono comunemente di 8 o di 16
barili. Il barile porta 32 boccali, il boccale 4 fogliette.
5
S’inghiotte.
1392. La lista
Mó cche ssò ssolo e cche nun c’è er padrone,
vedemo si
1
ll’agresta oggi va mmale.
Ôooh, un grosso ho gguadaggnato sur cappone,
du’ bbajocchi sull’erbe, uno sur zale.
Sei e mmezzo lo scorzo de carbone
c’ho sseggnato de ppiú, cquattro er ciggnale
2
mezzo er pepe, uno er riso, uno er limone
che mm’avanzò da jjeri, e ttre er caviale.
Poi mezzo grosso c’ho ttirato fora
pe spesette minute, e ppiú un bajocco
su la marva
3
che sserve a la Siggnora.
Mezz’antro grosso
4
ttra fformaggio e ffrutti...
Quant’è ? Tre ggiuli in punto. Eh nun zò ssciocco.
Ma aringrazziam’ Iddio: lo fanno tutti.
12 dicembre 1834
1
Se.
2
Cinghiale.
3
Malva.
4
Altro.
1393. L’affarucci de la serva
Tiè, Ppippo,
1
intanto maggnete
2
sto petto
de bbeccaccia in zarmí cch’è ttanta bbona.
E ecco le sarcicce
3
e la fettona
de pane casareccio che tt’ho ddetto.
A ssei ora viè ppoi p’er vicoletto,
e sta’ attent’a l’orloggio quanno sona;
ch’io pe ssolito allora la padrona
l’ho ggià bbell’e spojjata e mmess’a lletto.
Un quarto doppo io te darò er zegnale,
tirerò er zalissceggne,
4
e ttu vvia via
sscivola
5
in ner portone e ppe le scale.
Come sei ddrento poi, nun fà er balordo:
va’ dritto dritto in ne la stanzia mia,
perché la padroncina è ggià d’accordo.
12 dicembre 1834
1
Filippo.
2
Màngiati.
3
Salsicce.
4
Saliscendo.
5
Sdrucciola dentro.
1394. Don Micchele de la Cantera
1
Fàmose un po’ a ccapí.
2
Cche ddon Micchele
porti sempre in zaccoccia du’ pistole,
e cche invesce de fà ttante parole
le spari addosso a cchi jje smove er fele,
3
quest’è una cosa ppiú cchiara der zole,
e nnun zerve a spregacce
4
le cannele:
5
com’è ccerto che llui è er piú ffedele
6
tra li Re cche nun ameno le scòle.
Ma cche ppoi, pe pportà cquer zu’ porcile
de pelacci a la bbocca e ar barbozzale,
com’adesso è l’usanza de lo stile,
s’abbi
7
mó da chiamallo un libberale,
questa è ccaluggna da ggentaccia vile,
ciarle de quelli che jje vonno male.
14 dicembre 1834
1
Don Michele d’Alcantara.
2
Facciamoci un poco a intendere.
3
Fiele.
4
Sprecarci.
5
Candele.
6
S.M. Fedelissima.
7
S’abbia.
1395. L’elezzione nova
Disce
1
che un anno o ddua prima der Monno
morze
2
ne la scittà de Trappolajja
pe un ciamorro pijjato a una bbattajja
er Re de sorci Rosichèo Siconno.
Seppellito che ffu dda la sorcajja
sott’a un zasso de cascio
3
tonno tonno,
settanta sorche vecchie se serronno
4
pe ffanne un antro,
5
in un casson de pajja.
Tre mmesi ereno ggià da tutto questo,
e li sorcetti attorno a cquer cassone
s’affollaveno a ddí: «Ffamo
6
un po’ ppresto»,
quant’ecchete
7
da un búscio
8
essce un zorcone
che strilla: «Abbemus Divoríno Sesto».
E li sorci deggiú: «Vviva er padrone!».
18 dicembre 1834
1
Si dice, si narra, ecc.
2
Morì.
3
Un sasso di cacio.
4
Si serrarono.
5
Un altro.
6
Facciamo.
7
Quando eccoti.
8
Buco.
1396. Li comprimenti
Fuss’io, me saperebbe
1
tanto duro
de fà li comprimenti che ssentissimo
2
tra er Maggiordomo e ll’Uditor Zantissimo
che gguasi sce daría
3
la testa ar muro.
«Entri, se servi;
4
favorischi puro,
5
come sta?... ggrazzie: e llei? obbrigatissimo,
a li commanni sui, serv’umilissimo,
nun z’incommodi, ggià, ccerto, sicuro...».
Ciarle de moda: pulizzie de Corte:
smorfie de furbi: sscene de Palazzo:
carezze e amore de chi ss’odia a mmorte.
Perché cco Ddio, che, o nnero, o ppavonazzo,
o rrosso, o bbianco, j’è ttutt’una sorte,
6
sti comprimenti nun ze fanno un cazzo?
7
19 dicembre 1834
1
Mi saprebbe.
2
Sentimmo.
3
Ci darei.
4
Si serva.
5
Favorisca pure.
6
Gli è tutt’uno.
7
Non si fanno affatto?
1397. Li sscimmiotti
Quanto a sscimmiotti poi, quer rangutano
1
che pportò da Turchia
2
l’Imbassciatore,
a rriserva der pelo e dder colore
se
3
poteva pij ppe un omo umano.
Aveva li su’ piedi, le su’ mano,
4
e ddicheno c’avessi
5
puro
6
er core;
e ffasceva er facchino e ’r zervitore,
nun ve dico bbuscía,
7
come un cristiano.
Oh annatela a ccapí! Tra un omo e cquello
guasi guasi a gguardalli in ne l’isterno
nun c’è la diferenza d’un capello.
Eppuro
8
sce n’è ttanta in ne l’interno!
Per via c’uno sscimmiotto, poverello,
nun ha la libbertà d’annà a l’inferno.
20 dicembe 1834
1
Orang-Outang.
2
Ogni paese d’infedeli è Turchia.
3
Si.
4
Mani.
5
Che avesse.
6
Pure.
7
Bugia.
8
Eppure.
1398. La prima origgine
Pijjàmone
1
un esempio su li cani.
Sce sò
2
li can barboni, li martesi,
3
li corzi, li livrieri, li danesi,
e li mastini, e li bbracchi, e ll’ulani...
4
Ccusí ar monno sce sò ll’ommini indiani,
l’ommini mori, l’ommini francesi:
sce sò l’ommini ebbrei, l’ommini ingresi,
l’ommini turchi e ll’ommini cristiani.
Pijjete
5
adesso gusto, e pparagona
un can buffetto e un can da pecoraro.
Vedi che ddifferenza bbuggiarona!
Cionnunostante-questo, fra Nnicola
disce
6
c’oggn’omo o ccane, anche er piú rraro,
viè
7
dda una caggna e dda una donna sola.
21 dicembre 1834
1
Pigliamoci.
2
Ci sono.
3
Maltesi.
4
Alani.
5
Pigliati.
6
Dice.
7
Viene.
1399. La sscerta
1
der Papa
Sò ffornasciaro,
2
sí, ssò ffornasciaro,
sò un cazzaccio, sò un tufo,
3
sò un cojjone:
ma la raggione la capisco a pparo
de chiunque sa intenne
4
la raggione.
Sscejjenno
5
un Papa, sor dottor
6
mio caro,
drent’a ’na settantina de perzone,
e mmanco sempre tante, è ccaso raro
che ss’azzecchino in lui qualità bbone.
Perché ss’ha da creà ssempre un de loro?
perché oggni tanto nun ze
7
fa ffilisce
un brav’omo che attenne
8
ar zu’ lavoro?
Mettémo caso:
9
io sto abbottanno
10
er vetro?
entra un Eminentissimo e mme disce:
«Sor Titta,
11
è Ppapa lei: vienghi
12
a Ssan Pietro».
22 dicembre 1234
1
Scelta.
2
Fornaciaio: fabbricatore di vetri.
3
Sono un insipido, uno stolidone.
4
Intendere.
5
Scegliendo.
6
Titolo che si
dà a chi sputa sentenze.
7
Non si.
8
Attende.
9
Mettiamo caso: supponiamo.
10
Abbottando.
11
Giambattista.
12
Venga.
1400. La lègge der diesci novembre
1
E hanno ardire de dí ccerti bbuffoni
che ss’appolleno
2
a Rroma a ffà la cova,
che in ne le case nostre sce se
3
prova
un freddo da cannisse
4
li cojjoni!,
mentre ch’er Papa a ttutti li cantoni,
pe cquanti ggiorni l’anno s’aritrova,
je fa appricà ’na camisciola nova
d’editti, Moti-propî e ccedoloni!
Lo vedete quell’omo co la pila?
Eccheve
5
un antro editto che ddà ffora,
e vve l’incolla a ddiesci fojji in fila.
Bbenedetta la mano che ll’ha scritto,
e ppòzzi scrive
6
pe ttant’anni ancora
pe cquanti antr’anni
7
camperà st’editto.
23 dicembre 1834
1
Pubblicatosi questo motu-proprio legislativo di Gregorio XVI, si trovarono sulla porta del compilatore di esso,
avvocato Luigi Bartoli, le seguenti parole: Lunario nuovo per l’anno 1835. Il satirista ingiuriò le stabilissime leggi
della Santa Sede, che non sono, effemeridi, ma bolle di sapone.
2
Fanno nido.
3
Ci si.
4
Da candirsi.
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Eccovi.
6
Possa
scrivere.
7
Altri anni.
1401. La carità ccristiana
Ah, è ccarità ccristiana avé scusato
un vassallo fijjol d’una puttana,
c’ha ttante zelle
1
da mannà
2
in funtana
quante sò ttroppe pe mmorí impiccato?
Perché? pperch’è de nobbirtà rromana?
perché ttiè le carzette da prelato?
perch’è rricco e ppò ddà?
3
Sservo obbrigato
de la siggnora carità ccristiana.
Ecco da che ne nassce c’a sto monno
nun ze
4
trova ppiú un parmo de pulito.
Perché la verità sse manna a ffonno.
5
Sta lègge Iddio nun ha ppotuto falla.
Iddio, sor bon cristiano ariverito,
vò cche la verità stii sempre a ggalla.
23 dicembre 1834
1
Lordure.
2
Da mandare.
3
E può dare.
4
Non si.
5
Si manda a fondo.
1402. Er Curato bbuffo
Quer mi’ curato ha sta manía curiosa
che in tutto vò fficcà la riliggione.
La mette a ppranzo, a ccena, a ccolazzione,
ner camminà, nner ride,
1
in oggni cosa.
Arriva ar punto sto prete bbuffone,
che cquanno a ccarnovale io sposai Rosa
me disse ch’er cunzumo
2
de la sposa
s’aveva da pij cco ddivozzione.
Io?! Co la furia che mm’intese ssciojje
3
me je bbuttai addosso a ccorpo morto
senza manco penzà che mm’era mojje.
Sarebbe er madrimonio un ber
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conforto,
quanno er cacciasse
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quer tantin de vojje
sce diventassi
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un’Orazzione all’Orto!
23 dicembre 1834
1
Nel ridere.
2
Il consumo.
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Mi sentii sciogliere.
4
Bel.
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Il cacciarsi.
6
Ci diventasse.
1403. Er gatto girannolone
1
Nina, che vvorà ddí
2
cche stammatina
è or
3
de pranzo e nnun ze
4
vede er gatto?
E io minchiona j’ho ammannito un piatto
pien de sgarze
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e de schiuma de gallina!
Ce saría
6
caso che sse
4
fussi fatto
serrà in zuffitta?
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Vòi provacce,
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Nina?
Ggià, la porta sce
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sta ttanta viscina!
se sentiría
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strillà: mmica è ppoi matto.
’Gni vorta che sta bbestia nun ze trova
me riviè a mmente povero Ghitano
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c’aveva sempre quarche bbòtta nova.
Un giorno Rosscio
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nun tornava; e llui
sai cosa disse? «Starà ar Vaticano
a cconzurtà cco li compaggni sui».
24 dicembre 1834
1
Girandolone, vagabondo.
2
Che vorrà dire?
3
È ora: apocope in uso.
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Si.
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Lische.
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Ci sarebbe.
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Soffitta.
8
Vuoi
provarci.
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Ci.
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Si sentirebbe.
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Gaetano.
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Rosso: nome ordinario che si dà a gatti di quel pelame.
1404. Le Minenze
Che vvò ddí
1
una Minenza, sor Vitale?
Vò ddí un mucchio de sassi, un montarozzo:
vò ddí una torre, una cuppola, un bozzo,
2
un campanile, o un’antra
3
cosa uguale.
Ma ssiggnifica puro
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un Cardinale.
E allora che vvò ddí? Una panza, un gozzo,
una marrana, una cantina, un pozzo,
un búscio
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de cassetta o dd’urinale.
Dunque è mmatta la ggente che sse
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penza
che un Cardinale sii un omo granne
perché pporta quer nome de Minenza.
Nun zempre è pporco quer che mmaggna jjanne;
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e, cco llòro bbonissima liscenza,
l’omo, per dio, nun ze
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misura a ccanne.
25 dicembre 1834
1
Vuol dire.
2
Una bozza.
3
Un altra.
4
Pure.
5
Un buco.
6
Si.
7
Ghiande.
8
Non si.
1405. L’Abbrevi
1
der Papa
Ho ssempre inteso che Nnostro Siggnore
in quelle filastroccole che stenne
2
er Natale e le feste ppiú ssolenne
3
che ccanta messa su l’artar maggiore,
tra ll’antre canzoncine che cce venne
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pe ttenecce
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contenti e ffasse
6
onore,
sce se
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dichiara nostro servitore,
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ma sservitore a cchiacchiere s’intenne.
9
Ber
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zervitore un omo che vv’intona:
«Sori padroni mii,
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faccino grazzia
de pagà sta gabbella bbuggiarona».
Se pò ddà,
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ccristo mio, ppiú cojjonella
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der chiamà sservitore chi sse sazzia
e ppadrone chi ha vvòte le bbudella?
25 dicembre 1834
1
I Brevi.
2
Stende.
3
Solenni.
4
Ci vende.
5
Per tenerci.
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Farsi.
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Ci si.
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«Servus servorum Dei».
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S’intende.
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Bel.
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Miei.
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Si può dare.
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Scherno.
1406. L’abbito nun fa er monico
L’abbito nun fa er monico? Eh sse
1
vede.
Pròvete intanto una sorvorta
2
sola
de presentatte ar Papa in camisciola
e ppoi sappime a ddí ccome t’aggnede.
3
Senza er landàvo
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sai che tte succede?
che ssi
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tt’hanno da dí
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mmezza parola,
pare, per dio, che jje s’intorzi
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in gola:
e cquanno parli tu, nnun te se
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crede.
Hai tempo, fijjo caro, d’arà ddritto
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e dd’èsse galantomo immezzo ar core:
tristo in ner monno chi sse mostra guitto.
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Cqua er merito se
1
tajja dar zartore.
Cqua la vertú in giacchetta
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è un gran dilitto.
Una farda
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ppiú o mmeno, ecco l’onore.
26 dicembre 1834
1
Si.
2
Sol volta.
3
Moltissimi dicono aggnéde, molti andiéde, pochi andò, quando non dicano annò.
4
Il nome del
cocchio cosiddetto landeau è stato dal popolo applicato burlescamente a significare l’abito cittadinesco.
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Se.
6
Da
dire.
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Gl’intoppi.
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Non ti si.
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Arar dritto, agire rettamente.
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Misero.
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Abito succinto.
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Falda.
1407. Er ferraro
Pe mmantené mmi’ mojje, du’ sorelle,
e cquattro fijji io so cc’a sta fuscina
1
comincio co le stelle la matina
e ffinisco la sera co le stelle.
E cquanno ho mmesso a rrisico la pelle
e nnun m’arreggo ppiú ssopr’a la schina,
2
cos’ho abbuscato?
3
Ar zommo una trentina
de bbajocchi da empicce
4
le bbudelle.
Eccolo er mi’ discorzo, sor Vincenzo:
quer chi ttanto e cchi ggnente è ’na commedia
che mm’addanno oggni vorta che cce penzo.
Come! io dico, tu ssudi er zangue tuo,
e ttratanto un Zovrano s’una ssedia
co ddu’ schizzi de penna è ttutto suo!
26 dicembre 1834
1
Fucina.
2
Schiena.
3
Guadagnato.
4
Da empirci.
1408. Le crature
Voi sentite una madre. Ammalappena
1
la cratura
2
c’ha ffatta ha cquarche ggiorno,
ggià è la prima cratura der contorno,
e ssi jje
3
dite che nun è, vve mena.
Conossce tutti, disce tutto, è ppiena
d’un talento sfonnato, è ffatta ar torno,
4
va cquasi sola, è ttosta
5
come un corno,
e ttant’antri
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prodiggi ch’è una sscena.
E sta prodezza poi sarà un scimmiotto,
tonto,
7
mosscio, allupato, piaggnolone,
pien de bbava e llattime e ccacca-sotto.
A le madre,
8
se sa,
9
li strilli e ’r piaggne
10
je pareno ronnò
11
dde Tordinone.
12
Le madre ar monno sò ttutte compaggne.
26 dicembre 1834
1
Appena.
2
Creatura.
3
Se le.
4
Tornio.
5
Dura.
6
Altri.
7
Stupido.
8
Madri.
9
Si sa.
10
Il piangere.
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Paiono rondò.
12
Tor-di-
Nona: teatro regio di Roma.
1409. Er dottoretto
Nun parlate co mmé dde riliggione
de vertú, de misteri e de peccati,
perch’io sciò
1
ppreti in casa, e jj’ho affittati
bbravi letti co bbona locazzione.
Dunque è inutile a ddí
2
ttante raggione
sur diggiuno, sur Papa e ssu li frati.
Questi sò ttutti affari terminati
ner Concijjo de trenta
3
e ppiú pperzone.
Li du’ inquilini mii sò mmissionari,
e pprèdicheno in piazza, e in conzeguenza
è cchiaro che nun ponno èsse somari.
Dicheno lòro c’a pparlà de fede
sce s’arimette
4
sempre de cusscenza.
Cqui nun z’ha da capí
5
mma ss’ha da crede.
6
27 dicembre 1834
1
Ci ho: ho.
2
Dire.
3
Di Trento.
4
Ci si rimette.
5
Da capire.
6
Da credere.
1410. Le raggione secche secche
Er dí
1
cche ss’ariddoppia le gabbelle
pe ppareggià l’entrata co l’usscita,
er dí cche cce se scortica la pelle
perché la cassa pubbrica è smartita,
2
pe cchi rriscòte
3
sò rraggione bbelle,
ma ppe cchi ppaga sò scanzi de vita.
Le raggione da dàsse
4
nun zò cquelle
che cce venne
5
sta Cammera fallita.
Li motivi ppiú vveri e pprencipali
s’hanno da ripescà nne la saccoccia
d’un Papa e de settanta Cardinali.
Chi mmette fora l’antri
6
dua cqui in cima
pijja er turaccio in cammio
7
de la bboccia,
dà la siconna causa e nnò la prima.
30 dicembre 1834
1
Il dire.
2
Smaltita.
3
Riscuote.
4
Da darsi.
5
Ci vende.
6
Gli altri.
7
In cambio.
1411. Er Museo
Tu nun pòi crede
1
a Rroma si cche incerto
2
sii ’no sguizzero
3
amico e cconosscente.
Si Ccuccunfrao
4
nun me se fussi offerto,
er Museo lo vedevo un accidente.
5
Disce: «Fenite sú llipperamente
lunettí o cciufettí
6
cquanno ch’è uperto,
e, appena feterete
7
endrà la ccente,
chiamate a mmé cché ffe fo endrà tte scerto».
8
Ah! cquer Museo è un gran ber grruppo, cacchio:
quante filare de pupazzi in piede!
antro
9
che li casotti a Ssant’Ustacchio!
10
C’è ppoi llaggiú ’na lontananza a sfonno
dipinta a sfugge,
11
c’uno che la vede
nun ze pò ffà un’idea che ccos’è er Monno.
30 dicembre 1834
1
Non puoi credere.
2
Se qual vantaggio.
3
Svizzero della guardia.
4
Nome storpiato di uno svizzero della guardia.
5
Non
lo vedevo affatto.
6
Lunedì o giovedì, le due giornate della settimana nelle quali è libero al pubblico l’accesso a Musei.
7
Vedrete.
8
Che vi fo entrare di certo. Tutte le precedenti parole sono un misto di vernacolo romanesco e di pronunzia
germanica.
9
Altro.
10
Bottegacce di legno che si elevano in mezzo alla Piazza di Sant’Eustachio, pel tempo natalizio e
della Epifania, onde vendervi bambòccioli da presepî e da trastullo di bambini. Questo commercio si fa dirimpetto alla
porta della Sapienza, Università Romana: comodo regio per gli studenti.
11
A sfondo, dipinta a sfuggire ecc. Piccola
prospettiva di una finta galleria, eseguita con discreto effetto d’illusione, lateralmente alla porta d’ingresso al Museo
Vaticano, sopra uno spazio uguale a quello del vano della porta.
1412. Er re de nov’idea
Uno co ’na gazzetta tra le mane
leggeva ggiú ar caffè cch’è morto adesso
lo scaccolo de Perzia,
1
ch’è ll’istesso
che sse discessi
2
er re de le perziane.
Ma er piú ccurioso è cquello c’arimane:
la ppiú bbuffa è la cosa che vviè appresso;
ciovè er novo sovrano c’hanno messo
in logo de quell’antro maggnapane.
Sai chi hanno fatto re? dínne un’infirza.
3
Un re cche cqua da noi se dà ppe ggionta.
4
La sorella der fegheto: una Mirza.
5
Co ’no scaccolo ar meno fai ’n editto:
ma de quel’antro re da bbattilonta
6
dìmme che tte ne fai? Fanne un zuffritto.
7
31 dicembre 1834
1
Feth Alì, Schak di Persia.
2
Si dicesse.
3
Una infilzata.
4
Si per giunta, della carne, secondo l’uso de’ beccai.
5
Mohammed Mirza, figlio di Abbas Mirza, di cui padre era Feth Alì. L’equivoco cade sulla parola milza, chiamata dal
volgo mirza.
6
Quella tabella di legno su cui si fanno i battuti di lardo.
7
Un soffritto.
1413. Lo scolo
1
der 34
Oggi trentun discemmre,
2
ch’è ffinita
st’annata magra de Ggiusepp’abbreo,
la siggnora fratesca ggesuita
pe rrenne
3
grazzie a Ddio canta er Tedeo.
4
Dimani poi, si Ccristo je dà vvita,
ner medemo
5
convento fariseo
s’intona un’antra
6
antifona,
7
aggradita
a lo Spiritossanto Paracreo.
8
E a cche sserveno poi tanti apparecchi?
er distino oramai pare disciso
c’oggn’anno novo è ppeggio de li vecchi.
Pòi
9
defatti cantà cquanto tu vvòi,
10
ché ggià Ddio bbenedetto ha in paradiso
antri
11
gatti a ppelà che ssentí nnoi.
31 dicembre 1834
1
Scolatura: fine.
2
Dicembre.
3
Per rendere.
4
Il Tedeum.
5
Nel medesimo.
6
Altra.
7
L’inno Veni Creator Spiritus.
8
Paracleto.
9
Puoi.
10
Vuoi.
11
Altri.
1414. 3 Gennaio 1835
Invitato io dalla S.a Principessa Zenaide Volkonski a un pranzo ov’era commensale il poeta
Russo Viasemski, ringraziai, ma recatomivi al levar delle mense fui pregato di far conoscere
al Principe un saggio del mio stile romanesco. Per lo che cominciai dai versi seguenti.
Sor’Artezza Zzenavida Vorcoschi,
perché llei me vò espone a sti du’ rischi
o cche ggnisun cristiano me capischi
o mme capischi troppo e mme conoschi?
La mi’ Musa è de casa Miseroschi,
dunque come volete che ffinischi?
Io ggià lo vedo che ffinissce a ffischi
si la scampo dar zugo de li bboschi.
Artezza mia, nojantri romaneschi
nun zapemo addoprà ttermini truschi,
com’e llei per esempio e ’r zor Viaseschi.
Bbasta, coraggio! e nnaschi quer che nnaschi.
Sia che sse sia, s’abbuschi o nnun z’abbuschi,
finarmente poi semo ommini maschi.
Questo non entri nella raccolta come contrario al suo spirito.
1415. 1835
Scritto a richiesta della P.ssa Zenaide Volkonski per presentarsi da lei al Cav. Miniato Ricci
la notte dal 12 al 13 Gennaio, nell’ingresso cioè dell’anno russo, vecchio stile.
Quanno che ll’anno nostro è ggià sfornato,
avanti ch’in Moscovia s’arisforni
disce c’hanno da stà ddodisci ggiorni
per avello ppiú assciutto e bbiscottato.
Questa nun zapería sor don Miggnato,
s’è una carota pe ggabbà li ssciorni.
Però, ss’è vverità, ppare che ttorni
propio stanotte cqui st’anno ssciancato.
Dunque io viengo a pporli comprimenti
e l’ugúri dell’anno cacanido
a cquell’antro che ggià mmette li denti.
E vvoi, sor Ricci, pe la bbocca mia
de tutt’e ddua gradìtene uno spido
come de tordi grassi, e accusì ssia.
Questo non entri nella raccolta, perché troppo insipido, e perché contrario allo spirito di essa, siccome l’altro qui
dietro. Brutto strafalcione da restar sepolto per omnia saecula saeculorum.
1416. Er duca e ’r dragone
Sonetti due
Ma er dragone ar zentisse
1
dí ubbriaco
appuntò ’na pistola a ddon Marino,
che sse
2
poteva, povero duchino,
passà addrittura pe una cruna d’aco.
A st’antifona hai visto quer ciumaco?
3
S’arza, se
2
bbutta ggiú ddar carrozzino,
mette mano a una viggna, entra ar casino,
ce se serra, eppoi disce: «Me ne caco».
Tratanto er viggnarolo e ddu’ garzoni
investirno
4
er zordato, e ssur tinello
l’affermonno
5
co un carcio a li cojjoni.
A sto carcio, er zor Prencipe de drento,
fórzi
6
pe ssimpatia da bbon granello,
7
fesce un strillo futtuto
8
de conzento.
9
8 gennaio 1835
1
Al sentirsi.
2
Si.
3
Accarezzativo che si usa co’ fanciulli.
4
Investirono.
5
Lo fermarono.
6
Forse.
7
Vedi l’ultima parola
del verso undecimo.
8
Tremendo.
9
Di consenso. Ecco la storia. Il Duca di Poli don Marino Torlonia, vero ciumàco,
guidando un tilbury presso il Ponte Milvio, vide un dragone pontificio che si teneva male in sella. È ubbriaco, disse il
Duca al suo valletto. Il dragone, che gli era vicino, lo udì, e, come ubbriaco davvero, assalì il povero Duca con una
pistola. Costui balzò dal suo legno e fuggì in una vigna che a caso trovò aperta, e, sempre inseguito dal dragone
smontato anch’egli dal suo cavallo, arrivò a un fabbricato e poté chiudervisi. Intanto, sopraggiunta una vignaiuola
forte e coraggiosa, allo stretto di una porta colpì il dragone di un calcio nelle parti delicate, e coll’aiuto di due altre
donne e del valletto ducale lo abbatté e lo legò, direbbe il popolo, come un cristo. Qui il valletto trottò a Roma: avvisò
un maggior Ricci (che una volta si sorbì una frustata in faccia da un cocchiere): questi accorse con due dragoni non
ubbriachi, ed arrestò l’ubbriaco. Fatto tutto il Duca sbucò dalla tana.
1417. Er duca e ’r dragone
È scappato, sicuro ch’è scappato.
Cosa aveva da fà ppovero Duca?
In st’incastri che cqua ’na tartaruca
diventerebbe un lepre scatenato.
Er zu’ ggiacchetto è una cratura sciuca:
1
er cane der dragon era ingrillato:
er cancello era bbell’e spalancato:
lui dunque a ggamme
2
come una filuca.
3
Er ziggnor Duca è un giovene medòtico
4
che ffa le cose in regola e sse
5
strugge
dar gran talento sibbè
6
ppare un zotico.
Co un zordato a ccavallo è ccosa scerta
che un pedone nun vince antro
7
c’a ffugge.
8
Omo a ccavallo sepportura uperta.
9 gennaio 1835
1
Creatura piccola.
2
A gambe.
3
Feluca.
4
Metodico.
5
Si.
6
Sebbene.
7
Altro.
8
Fuggire.
1418. Er bullettone de Crapanica
1
Un bravo capo-comico intennente
sai chi cce ll’ha? la Compaggnia Sbarlaffa,
2
che ssa ttiené ddu’ piedi in una staffa
pe ffà cquadrini e cojjonà la ggente.
A ttirà ggonzi nun ce mette ggnente.
3
Pijja un fojjo de carta, te lo sbaffa
4
de ggiallo o rrosso, e ssopra te sce schiaffa:
5
L’Orfino, o la gran Valle der torrente.
6
E ssempre, o ccarte rosse o ccarte ggialle,
c’è un sproloquio
7
p’er popolo cazzaccio
sopra la gran grannezza de sta valle.
Vorà èsse
8
ppiú ggranne de Crapanica?
Io fo er zartore, e ho ssempre visto er braccio
piú ppiccolo der giro de la manica.
9 gennaio 1835
1
Il teatro Capranica.
2
Il capocomico Berlaffa.
3
Non ci dura fatica alcuna.
4
Te lo imbratta.
5
Ti ci ficca dentro.
6
Titolo
di un guazzabuglio drammatico.
7
Tiritera.
8
Vorrà essere.
1419. La calamisvà
1
de Valle
2
Disceva er zor Micchele Mitterpocche
3
ner butteghino
4
ar coco de Lavaggi:
5
«Er mastro de cappella Fontemaggi
6
ha scritto pe li galli e ppe le bbiocche.
Manco in Turchia tra ll’ommini servaggi
7
se pò ssentí ccanzone accusí ssciocche;
ché le sue nun zò
8
mmusiche da bbocche,
ma mmotivi da ròte de cariaggi.
9
Inzino er zor Giuvanni l’impressario,
si llui je straccia l’àpica,
10
o ssi mmore,
je voría
11
rigalà mmezzo salario.
Ma de cazzi!
12
er ziggnor compositore
nun zente lègge,
13
e ccrede nescessario
de dà ll’opera sua pe ffasse
14
onore».
9 gennaio 1835
1
Canto da Ebrei.
2
Il teatro dell’opera buffa.
3
Michele Mitterpoch, ministro della dispensa de’ biglietti. ecc.
4
L’uficio
di dispensa.
5
Il banchiere di questo nome.
6
Il signor Giacomo Fontemaggi, romano, tanto buon cristiano quanto
esimio maestro di cappella, stava da un mese bastonando regolarmente la moglie e i figli, perché digiunassero e
pregassero Iddio pel buon esito della sua Testa di bronzo. Questo è il titolo di un dramma di Felice Romani, ornato
dal Fontemaggi colle sue inspirazioni musicali, togliendone le parole da un altro lavoro armonico precedente al suo. Il
nostro Orfeo è figlio di altro melodista della stessa tacca; al servizio del musicissimo cardinale Giuseppe Albani, testé
mancato ai vivi e alla musica. La Eminenza Sua, vivendo, impose quasi autorevolmente all’impresario Giovanni
Paterni il flagello del melodramma qui encomiato.
7
Selvaggi.
8
Non sono.
9
Carriaggi.
10
Apoca.
11
Gli vorrebbe.
12
Ma
inutilmente.
13
Non sente legge.
14
Per farsi.
1420. Li mariti
Dio la sa llonga, amico, e cquanno venne
a ppiantà nne la Cchiesa er zagramento
der madrimonio, cianniscose
1
drento
una prova de quanto se n’intenne.
2
Appena hai detto: Padre sì, ar momento
te cascheno sull’occhi tante bbenne,
c’hanno poi tempo in testa a spuntà ppenne:
3
ammojjato che ssei, dormi contento.
Simprisciano er marito de Pressede
ggnisuno pò nnegà cch’è un omo asperto;
eppuro, eccolo lí, sta in bona fede.
Capisco, lei lo bbuggera
4
ar cuperto:
lo so, ddisce er proverbio: Occhi nun vede,
core nun dole; ma ccornuto è ccerto.
10 gennaio 1835
1
Ci nascose.
2
Se ne intende.
3
Han bel fare poi le penne a spuntar fuori.
4
Inganna.
1421. Er disinteresse
Chiunque spacci che ttutti hanno er dono
de volé mmale ar prossimo, e cch’è rraro
de trovà ggalantommini, è un zomaro,
e ssi
1
lo sento io, te lo bbastono.
Figurete che jjeri er cappellaro
me dimannò: «Er cappello è ancora bbono?».
Dico: «Sì, pperché ssempre l’aripono».
2
Disce: «Bbravo, per dio! L’ho ppropio a ccaro».
Poi l’oste disce: «E che vvò ddí? ssei morto?».
Dico: «Er dottore m’ha llevato er vino».
Disce: «Pòzzi
3
morí cchi jje dà ttorto».
Un momentino doppo ecchete ggiusto
4
er dottore, e mme fa:
5
«Ccome stai, Nino?».
Dico: «Bbenone»; e llui: «Quanto sciò
6
ggusto!».
10 gennaio 1835
1
Se.
2
Lo ripongo.
3
Possa.
4
Eccoti appunto.
5
Mi dice.
6
Ci ho.
1422. Li portroni
Caro sor cul-de-piommo,
1
io ve la dico
co llibbertà ccristiana: a mmé
2
la ggente
c’ha pper estinto
3
de nun fà mmai ggnente
l’ho a ccarte tante
4
e nnu la stimo un fico.
Dio ne guardi sto vizzio a ttemp’antico
si
5
l’aveva Iddio Padre onnipotente;
er monno nun nassceva un accidente,
6
e nnoi mò nnun staressimo
7
in Panico.
8
A ttutto ha d’arrivà la Providenza!
E ssempre se
9
va avanti co lo spero
e cce sarà er Ziggnore che cce penza.
Grattapanze futtute! e cche! er Ziggnore
l’hanno pijjato a ccòttimo
10
davero?
Lavorate, per dio! Pane e ssudore.
11 gennaio 1835
1
Cul-di-piombo: uom pigro.
2
A me qui sta per «io».
3
Ha per istinto.
4
L’ho dietro.
5
Se, nel senso di particella
dubitativa.
6
Non nasceva affatto.
7
Non staremmo.
8
Contrada di Roma presso la Mole Adriana.
9
Si.
10
Prendere a
cottimo, qui vale: «abusarsi di altrui».
1423. La tariffa nova
Quelli che cciànno,
1
co sto novo editto
2
doppie, luviggi, pezzette, zecchini,
napujjoni e ggijjati, poverini!
pònno dí ppuro
3
d’avé ffatto er fritto.
4
Nun z’era inteso mai c’avé cquadrini
a sto monno che cqua
5
ffussi delitto;
e cquesto è er primo banno
6
che vva dritto
contro a li grossi e nnò a li piccinini.
Co sta bbuggera nova de tariffa,
chi spaccia d’èsse
7
ricco com’e jjeri
disce una farzità, spara una miffa.
8
Figurete Turlonia,
9
co ste ladre
combriccole futtute de bbanchieri,
l’accidenti che mmanna
10
ar Zanto Padre.
11 gennaio 1835
1
Ci hanno: hanno.
2
Al giungere di questo nuovo editto: pubblicato il 10 gennaio 1835.
3
Possono dir pure.
4
Di essere
rovinati.
5
A questo mondo qua.
6
Bando.
7
Essere.
8
Menzogna.
9
Don Alessandro Torlonia, soprannominato il
Salvatorello di Roma in grazia delle usure fatte al Governo nelle urgente del 1831: di che vedi il sonetto...
10
Manda.
1424. Li pericoli der temporale
Santus Deo, Santusfòrtisi,
1
che scrocchio!
2
Serra, serra li vetri, Rosalia;
ché, ssarv’oggnuno, viè una porcheria,
3
te sfraggne,
4
nun zia mai,
5
com’un pidocchio.
Puro
6
lo sai quer c’aricconta zia
c’assuccesse a la nonna der facocchio,
c’arrivò un tòno e la pijjò in un occhio,
che mmanco poté ddí ggesummaria.
E la sòscera
7
morta de Sirvestra?
Stava affacciata; e cquella je disceva:
«Presto, ché ss’arifredda la minestra».
E vvedenno
8
che llei nun ze
9
moveva,
l’aggnéde
10
a stuzzicà ssu la finestra...
Cascò in cennere
11
llí cco cquanto aveva!
13 gennaio 1835
1
Sanctus Deus, Sanctus Fortis, etc.: trisagio angelico che si recita, segnandosi, al balenare, o allo scoppiar del tuono.
2
Quasi croccamento: lo scoppio elettrico.
3
Fulmine. La plebe ha ripugnanza di chiamarlo col suo nome.
4
T’infrange.
5
Non sia mai.
6
Pure.
7
Suocera.
8
Vedendo.
9
Non si.
10
L’andò.
11
Crede il nostro popolo che il fulmine passando presso
una persona, la incenerisca, lasciandole nulladimeno tutte le forme del corpo e delle vesti, che si dissolvano poi al
minimo urto.
1425. L’arrampichino
Gaspero, ssceggne
1
ggiú dar credenzone
sceggne, te dico, ssceggne, demoniaccio.
Ma ddavero oggi tu vvòi dà er bottaccio
a ’ggni patto pe sfràggnete
2
er cestone?
Gaspero, nun me fà ppijjà er bastone,
ch’io me sceco e Ddio sa ccosa te faccio.
Sai che cce metto a sfracasatte un braccio?
Quanto a spreme una coccia
3
de limone.
Ggià mme l’aspetto: tu vvòi fà er miracolo:
tu ffinischi cor vol de Simommàgo
tu mme vòi fà vvedé cquarche spettacolo.
Cristo mio nazzareno croscifisso!
che ss’abbi da stà ssempre co sto spago
4
ner core!... Jeso, che ccapo d’abbisso!
15 gennaio 1835
1
Scendi.
2
Per infrangerti.
3
Scorza.
4
Con questa paura.
1426. La bbocca de mmèscia
1
Come sarebbe a ddí
2
cquer muso bbrutto?
Ch’è stato? nun je va
3
la semmolella?
Sa cche nnova je do? Chi nun vò cquella
nun c’è antro,
4
e sse
5
maggna er pan assciutto.
Cqua nun zerve de fà bbocca a ssciarpella:
6
prima la semmolella, e ppo’ er presciutto.
L’omo de garbo ha da piascejje
7
tutto,
fussi puro
8
er ripien de le bbudella.
È inutile co mmé dd’arzà la vosce.
Maggnate, e zzitto; e aringrazziate Iddio
co la fronte pe tterra e a bbraccia in crosce.
Ciamancherebbe
9
mó st’antra scoletta
10
de nun volé mminestra. Eh, ffijjo mio,
voi ve puzza la grasscia: eccola detta.
15 gennaio 1835
1
Bocca schizzinosa. Mèscia è l’alterazione civilesca del vocabolo inteso al verso ottavo.
2
Cosa significa.
3
Non le
aggrada.
4
Altro.
5
Si.
6
Bocca torta.
7
Piacergli.
8
Pure.
9
Ci mancherebbe.
10
Consuetudine abusiva.
1427. Una ne fa e ccento ne penza
Ma cche ccosa sce tienghi
1
in quela testa?
Guardela si cche
2
imbrojji s’impasticcia!
Se
3
dà de peggio? Pij una sarciccia
4
e ffassela
5
arrostí sott’a la vesta!
Cqua sto marito,
6
aló,
7
una cosa lesta.
Co cchi pparlo? Alegria,
8
fàmola
9
spiccia.
Sai mò ssotto, che ccarne sfumaticcia!
Phuh, ssentitela llí: ppuzza c’appesta.
Oh cqua ssí, cc’è da mettesce in cusscenza
10
li capelli canuti da l’angossce.
Ajjutateme voi, santa Pascenza.
11
Va’, cché da la matina se cconossce
er bon giorno. Oh gguardate: una schifenza
12
cor marito oggni sempre tra le cossce!
15 gennaio 1835
1
Ci tieni.
2
Se quali.
3
Si.
4
Salsiccia.
5
Farsela.
6
Caldanino, detto anche scaldino.
7
Allons.
8
Presto, su.
9
Facciamola.
10
C’è da metterci daddovero.
11
Santa Pazienza, registrata nel martirologio romano.
12
Personettaccia da nulla.
1428. La fiaccona
1
Tutacciaccia,
2
lavora; e ccento mila!
Fa’ cche tte movi ppiú, ccore mio bbello,
che tt’acchiappo
3
p’er ciuffo e tte sfraggello
quer gropponaccio inzin che tte se sfila.
Inzomma, un po’ la scusa de la pila
che vva de fora, un po’ cquesto e un po’ cquello,
’ggni tantino se
4
pianta er filarello,
se
4
spasseggia pe ccasa, e nnun ze
4
fila.
Come jjeri: finí un pennecchio solo,
e tutt’er zanto ggiorno a la finestra
a ffà la sciovettaccia sur mazzolo.
Che ggran rare bbellezze da mostralle!
Voría
5
che tte piovessi
6
una canestra
de furmini e ssaette su le spalle.
15 gennaio 1835
1
Aver la fiaccona: sentir nausea d’ogni fatica.
2
Tuta: Gertrude.
3
Ti afferro.
4
Si.
5
Vorrei.
6
Ti piovesse.
1429. Vent’ora e un quarto
Su, cciocchi, monci,
1
mascine da mola:
lesti, ché ggià è ffinita la campana.
Ch’edè?
2
Vv’amanca una facciata sana?
È ppoco male; la farete a scola.
Via, sbrigàmose,
3
alò,
4
cch’er tempo vola;
mommó
5
ddiluvia e la scola è llontana.
Nun è vvaganza, no: sta sittimana
don Pio nun dà cc’una vaganza sola.
Dico eh, nun zeminamo
6
cartolari:
nun c’incantamo pe le strade: annamo
7
sodi, e a scola nun famo
8
li somari.
Scola santa! e cchi è cche tt’ha inventato!
Quadrini bbenedetti ch’io ve chiamo!
Che rriposo de ddio! che ggran rifiato!
9
15 gennaio 1835
1
Pigri.
2
Che è?
3
Sbrighiamoci.
4
Allons.
5
Or ora.
6
Non seminiamo.
7
Andiamo.
8
Facciamo.
9
Ristoro.
1430. L’anima der Curzoretto apostolico
Er guarda-paradiso, ggiorni addietro
pregava Iddio pe uprí li catenacci
a Ssu’ Eccellenza er cavajjer Mengacci
1
che strijjò in vita sua piú d’un polletro.
2
Dio s’allissciava intanto li mostacci,
e ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
«Voi ci date in cotèdine,
3
sor Pietro,
e cci avete pijjati pe ccazzacci.
Cqua nnun è er reggno de voi Santi Padri,
dove la frusta, er pettine e lo stocco
fanno sorte e ttrionfeno li ladri.
E ssi
4
vvoi nun zapete er vostr’uffizio,
le vostre chiave le darò a Bbajocco
5
e appellateve ar giorno der giudizzio».
15 gennaio 1835
1
Lorenzo Mencacci, famoso propagatore della scomunica di Pio VII contro Napoleone e compagni. Di uomo di stalla
salì all’ordine equestre, e morì quasi milionario l’11 gennaio 1835. Come il Duca di Guisa, poteva egli chiamarsi il
Balafré, portando a traverso la faccia una enorme cicatrice, guadagnata nelle gesta della sua giovinezza, quando
nondum inter equites sed inter equos versabatur.
2
Puledro.
3
Ci sbalestrate.
4
Se.
5
Giovanni Giganti, soprannominato
Baiocco, celebre nano del cosiddetto Caffè Nuovo di Roma. Noi ne diamo qui appresso una illustrazione storica,
governandoci in ciò come la buona memoria del Chiarissimo Francesco Cancellieri, il quale cominciava a parlarvi di
ravanelli, e poi di ravanello in carota e di carota in melanzana, finiva coll’incendio di Troia.
Alla onorata memoria di Giovanni, detto Baiocco *
Dal seme de’ giganti io nacqui nano,
e mi dier di Baiocco il soprannome.
Alto fui quattro palmi, appunto come
la mezza-canna al nostro uso romano.
Non ebbe il torso mio nulla di strano,
ma le gambe fur corte e fatte a crome:
grosso il capo, il pel nero, ampie le chiome,**
schiacciato il naso, e il piè bello e la mano.
Fui del nuovo caffè guardia e decoro,
di chiunque apparia pronto a’ servigi,
buono, saggio, e, a dir vero, un giovin d’oro.
Quanti venian da Londra e da Parigi
mi davan doni, e dir solean fra loro:
«Questo baiocco val più d’un luigi».***
* Sonetto attribuito all’avvocato-cavalier-conte-marchese-commendatore Luigi Biondi. ** Era piú conforme a verità il
dire: irte le chiome. *** L’idea dell’equivoco fra le monete e i nomi non è nuova. Fra le molte citeremo un epigramma
relativo al Re di Francia Luigi XVIII:
L’Engleterre en son pays
A nourri un gros cochon,
Qu’on a estimé dix-huit louis
Et en vaut pas un napolén.
Baiocco di onorata memoria al suo benigno panegirista *
De profundis quaggiù, dove il Signore
per mancati suffragi hammi ristretto,
ti ringrazio, o vivente, del sonetto
onde tu fosti e me fingesti autore.
Il bello e ‘l buono che di me v’hai detto,
vero confesso e me ne faccio onore:
benché la verità saria maggiore
fingendo il torso mio meno perfetto.**
E là dove tu desti ultimo loco
a quel pensiero che ti nacque avanti,
per far di sensi e di parole un gioco,
chiarir meglio era ch’io Giovàn Giganti,
fra gli altri miei servigi, a poco a poco
vi servii di zimbello a tutti quanti.
* Sonetto di uno stretto amico de nostri buoni Romaneschi. ** Difatti, Baiocco aveva il dorso gibboso a dismisura.
Come morette quer Rodomontone
der cavajer Lorenzo, sverto sverto
der paradiso se n’annò ar portone
credenno aritrovàne er passo uperto.
Ma san Pietro per nun èsse cojone,
ché quarche cosa aveva discuperto,
a Cristo domannò si sto campione
der su’ Vicario drento aveva imberto.
Cristo, temenno che quer galeotto
puro lassù facesse quarche stocco,
dicette a lui: De che? Me ne strafotto!
Si parli un’antra vota, t’aribocco.
Caccelo, ch’io si no te fo fà er botto,
e portinaro in cambio fo Baiocco.
Sonetto falsamente attribuito a G.G. Belli. Belli crede che non avrebbe mai fatta una simile babbuassagine. Né è qui la
vera lingua del popolo di Roma, lo spirito che in queste dipinture si richiede. Il principal pensiero, rubato, vi si
esprime in troppo goffa maniera. - Morette e dicette, voci arbitrarie dell’autore. - Der paradiso se n’annò, a Cristo
domannò, drento aveva imberto, e portinaro in cambio fo, ecc., contengono trasposizioni tutte estranee alla favella
popolare. - Aritrovàne non si può dire. L’aggiunzione della particella ne al fine degl’infiniti de verbi (che tutti
debbono terminare in vocale accentuata, rimossa l’ultima sillaba del verbo) appena sarebbe tollerabile nella chiusa di
un periodo, fissato dalla pausa del punto. - Il quinto verso è mal fabbricato. Quella specie di ritmo non procede
sonante e non ha l’accento sulla quarta sillaba. - Discuperto e temenno dicansi voci che mai non si udiranno dalla
bocca di un romanesco, il quale non conosce che scoprì e avé pavura. - Aveva imberto, per aveva ingresso,
accoglienza, è frase di tutta invenzione del compositore. Oltrediché vi si desidera espressa l’idea del poter avere
ingresso. - L’idea plagiaria espressa nello stocco non conviene al Mencacci, secondo il senso in cui lo stocco è qui
preso. Mencacci non fece stocchi: se si vuole, fece furti. - L’ultimo verso rinchiude la principal prova del plagio. -
Cosa povera di ogni spirito e verità. Vedi il mio sonetto di protesta, qui unito:
A’ miei amici
Poiché talora attribuita al Belli
va circolando alcuna porcheria,
io vengo a protestar che non è mia,
ma forse è roba del signor Granelli.
Non ch’io m’abbia pel capo la pazzia
di vantare il più grande fra i cervelli:
neppur credo però, cari fratelli,
di patirne assoluta carestia.
Il ripudiar ciò che ha total difetto
di spirito, di gusto e proporzione
spero da voi che non mi sia disdetto.
Così, fra gli altri aborti di stagione,
io vi dichiaro apocrifo il sonetto
che porta in rima un tal Rodomontone.
1431. Er fijjo de papà ssuo
1
Entrato in fossa er cavajjer Lorenzo
detto pe ssoprannome er Curzoretto,
j’è ito appresso er cavajjer Vincenzo
pe le su’ gran vertú ddetto er Bojetto.
2
Disgrazziato Bbojetto! Ricco immenzo,
ner fior dell’anni, co ttanto de petto,
eccolo llí a ppijjà ll’urtimo incenzo
che ddà er monno a cchi ppaga er cataletto!
Mica annò ttrïonfante in sta vittura,
come un giorno pareva in carrettella
er padrone de Roma in pusitura.
3
Sittranzi grolia munni:
4
un funerale,
quattro fischi,
5
un pietron de sepportura,
e ll’eredi che ffanno carnovale.
18 febbraio 1835
1
Vedi il sonetto...
2
Quattro giorni dopo la morte del padre, nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1835, morì costui,
primogenito della illustre famiglia. Ebbe faccia e maniere di scherano.
3
In positura. Veramente egli vi si atteggiava
con iscenica sovranità.
4
Sic transit gloria mundi: avviso inutile che si dà ai nuovi Pontefici, bruciando innanzi ad essi
la stoppa.
5
Il popolo fischiò il cadavere del padre.
1432. Lo sbajjo massiccio
Quanno zomporno
1
a Ddio li schibbizzi
2
de mette
3
er monno ar monno e ccreà ll’omo,
diede a cquesto la Lègge e ll’antri indizzi
pe vvení bbon cristiano e ggalantomo.
Ma ssuccesso lo scannolo
4
der pomo,
prima causa der còfino
5
a ttre ppizzi,
d’allor impoi chiunque nassce è un tomo
6
pien de magaggne e ccarico de vizzi.
Pijja la secolare e ll’eccresiastica,
in oggn’arte sce cova un buggerío
7
de malizzie e ppeccati; e Iddio la mastica.
8
E ttante rare sò l’azzione bbelle,
che, a lo scoprinne quarchiduna, Iddio
va in estis
9
e nnun cape in ne la pelle.
16 gennaio 1835
1
Zomparono, per «saltarono».
2
Ghiribizzi.
3
Di mettere.
4
Scandalo.
5
Cofano per «cappello».
6
Turbo.
7
Ci cova un
fermento, un viluppo, ecc.
8
La sente male.
9
Va in estasi.
1433. Le conzolazzione
«Ah ccommare! da sí cche
1
nun m’hai vista
tu nun zai le disgrazzie c’ho ppatito.
M’è mmorto de passione mi’ marito
pe ttirannia der Monziggnor Zagrista.
De li mi’ fijji, uno ha pperzo la vista
pe li vaglioli,
2
e un antro
3
s’è incionchito.
4
E a mmé, lo vedi?, er corpo me s’è empito
de malanni da fattene
5
una lista.
Poi me moro de fame: in sta staggione
sò iggnuda e ssenza un straccio de lenzola;
e mme vonno caccià ppe la piggione.
Che ne dichi, Maria, de tante pene?»
«Dico, Ggertruda, una parola sola:
sta’ alegra, ch’er Ziggnore te vò bbene».
16 gennaio 1835
1
Da quando.
2
Pel vaiuolo.
3
Altro.
4
Attratto.
5
Fartene.
1434. Li stranuti
Io nun posso capí dda che ne naschi
che ssentenno la ggente li stranuti
1
abbino da infirzà ttanti saluti,
e ggnente pe la tosse e ppe li raschi.
«Pròsite,
2
bon pro, evviva, Iddio v’ajjuti,
doppie, filiscità, ppieni li fiaschi,
e ttìtera,
3
e ssalute, e ffijji maschi»,
ché ar risponne
4
saría
5
mejjo èsse muti.
Quer negozziante de grescìli e ccreste
6
disce che ttanti bbelli comprimenti
sò vvenuti pe ccausa d’una peste.
La peste ha da fà ll’ommini aducati!
Saría
7
come li Santi Sagramenti
inzeggnassero ar monno a ffà ppeccati.
16 gennaio 1835
1
Starnuti.
2
Prosit.
3
Et iterum.
4
Al rispondere.
5
Sarebbe.
6
Ventrigli e creste di pollo per guazzetti.
7
Sarebbe.
1435. L’usanze bbuffe
Per èsse
1
bbuffo abbasta èsse siggnore.
La ggente attitolata e cquadrinosa
qualunque usanza l’ha d’avé ccuriosa,
o ccrede d’arimettesce
2
d’onore.
Da sí
3
cche ss’è ammalato Monziggnore
de castrica
4
maliggna verminosa,
nun z’ariposa
5
ppiú, nnun z’ariposa,
pe ccopià li bbijjetti der dottore.
Figurete
6
ch’er povero decano
ne schicchera
7
un trescento oggni matina,
pe ppoi distribbuilli a mmano a mmano.
E pperché ppoi sti bbullettini a bbótte?
8
Pe ddà
9
ar monno sta nova sopraffina:
Monziggnore ha ccacato a mmezza-notte.
16 gennaio 1835
1
Per essere.
2
Di rimetterci.
3
Dal punto.
4
Gastrica.
5
Non si riposa.
6
Figurati.
7
Ne sciorina.
8
A botti.
9
Per dare.
1436. Una smilordaria
1
incitosa
Si
2
una vorta l’Ebbrei for de li Ghetti
portaveno ar cappello lo ssciammano,
3
nun era gusto lòro, poveretti:
era pe fforza der vigor d’un banno.
4
Ma cchi ll’obbriga mó sti pasticcetti
5
de cristiani d’annà ccome che vvanno
co ste ssciamanneríe de fazzoletti
fora de le saccocce spennolanno?
6
Se n’incontra de tutti li colori:
bbianchi, turchini, verdi, rossi, ggialli:
a cceróti,
7
a ppupazzi, a rrighe, a ffiori...
Ar vedesseli
8
avanti calli calli,
9
ar trovasse
10
quer commido llí ffori,
ce vò una gran vertú ppe nnun rubballi.
17 gennaio 1835
1
Zerbineria.
2
Se.
3
Lo sciamanno era un cenciolino che dovevano gli Ebrei portare sul cappello. Ne sono stati
affrancati.
4
Bando.
5
Zerbini.
6
Ciondolando.
7
Cioè: «taccati».
8
Al vederseli.
9
Belli e pronti.
10
Al trovarsi.
1437. La medicatura
Va’ adascio,
1
fa’ ppianino, Raffaelle...
Cazzo, per dio! tu mm’arïòpri er tajjo.
Che spasimo d’inferno! Fermete... ajjo!
2
Cristo! me fai vedé ttutte le stelle.
Eh mme sbajjo la bbuggera, me sbajjo.
Sbajji tu, cche mme scortichi la pelle.
Oh vvedi un po’ ssi ssò
3
mmaniere quelle
de medicà un cristiano a lo sbarajjo!
4
So cc’a lo stacco de la pezza sola
ciò intese
5
tutte l’angonie de morte
e strozzammese
6
er fiato in de la gola.
Jeso! Sce
7
sudo freddo. Artro,
8
Madonna,
che cchiodi e spine! Mamma mia, che ssorte
de patí! cche ttremà! pparo
9
una fronna.
17 gennaio 1835
1
Adagio.
2
«Ahi!».
3
Se sono.
4
Come viene viene.
5
Ci ho sentite.
6
Strozzarmisi.
7
Ci.
8
Altro.
9
Paia, sembro.
1438. La medichessa
Eh, ppe ppostème e ppannarisce
1
rotte,
è inutile, fijjola, io sò mmaestra
e mme sce ggiucherebbe
2
la minestra
co li spezziali e ll’antre ggente
3
dotte.
Pijja un bajocco d’èllera
4
terrestra
e un pizzico de tartero de bbótte,
bbúlleli,
5
e ffalli stà ttutta sta notte
ar zereno de for de la finestra.
Dimani all’arba poi, doppo vistita,
6
cola quell’acqua, ssciacquete a ddiggiuno,
fallo tre o cquattro vorte, e ssei guarita.
Io sce
7
curai ’na vecchia de Nottuno,
8
che mm’arrestò
9
obbrigata de la vita.
E sti segreti mii nun l’ha ggnisuno.
10
17 gennaio 1835
1
Pannarici: «panarecci» o «pateréccioli».
2
Mi ci giuocherei.
3
Le altre genti.
4
Edera.
5
Bóllili.
6
Vestita.
7
Ci.
8
Nettuno,
villaggio sul Mediterraneo presso il porto d’Anzio, fondato già dai Saraceni.
9
Restò.
10
Nessuno.
1439. Li vecchi
Ecco cosa vò ddí
1
ll’èssese
2
avvezzi
a ddisprezzà l’età: sse
3
va sse
3
svìcola
e vviè la vorta poi che sse
3
pericola
e sse
3
sconteno tutti li disprezzi.
Pe nnun volé er bastone oggi er zor Ghezzi
propio a le colonnette de Pubbricola,
4
è ccascato e ss’è rrotta una gravicola
5
e la nosce der collo in cento pezzi.
La coccia
6
de li vecchi è una gran coccia.
Vònno fà a mmodo lòro: e Iddio ne guardi
conzijjalli!
7
ve pijjeno in zaccoccia.
8
Sospettosi, lunatichi, testardi,
pieni de fernesie
9
ne la capoccia,
10
e spinosi, per dio, ppiú de li cardi.
17 gennaio 1835
1
Vuol dire.
2
L’essersi.
3
Si.
4
Del Palazzo Publicola.
5
Clavicola.
6
Caparbietà.
7
Consigliarti.
8
Vi pigliano in uggia.
9
Frenesie.
10
Testa.
1440. Er cel de bbronzo
È inutile ch’er tempo sciariprovi.
1
Scopri appena du’ nuvole lontane,
e arïecco dà s
2
le tramontane,
e da capo è impussibbile che ppiovi:
3
disce a vvedé le campaggne romane
è un pianto, è un lutto, sò ffraggelli novi.
Li cavalli, le pecore, li bbovi
manco troveno l’acqua a le funtane.
Nun c’è ggnisun procojjo o mmassaría,
che ppe la sete e la penuria d’erba
vadi assente
4
da quarche appidemía.
Moreno inzin le bbufole e li bbufoli!
St’anno, si
5
la Madon
6
de la Minerba
7
nun ce penza, se
8
maggna un par de sciufoli.
17 gennaio 1835
1
Ci riprovi.
2
Ed ecco di nuovo dar sù.
3
Piova.
4
Esente.
5
Se.
6
La Madonna. Questa apocope non è nostra licenza, ché
mai ce ne prendiamo, ma un vero modo di pronunzia dei nostri modelli.
7
Cioè: «sopra Minerva». Chiesa de’
domenicani, elevata sopra al terreno occupato negli antichi tempi dal lucus Minervae, presso la palude caprea.
8
Si.
1441. La gabbella de la carne salata
Cqua er Governo nun vò mmette
1
ggiudizzio,
perché de noi nun je ne preme un’acca.
Cqua er male nostro nun è mmal de bbiacca,
2
e sse
3
va de galoppo ar priscipizzio.
Un vizzio suo è cche ar pij ss’attacca
a li ferri infocati: e un antro
4
vizzio,
che fforzi
5
fa ppiú ppeggio preggiudizzio,
è cche nun paga, o vvò ppagà a la stracca.
Un presciutto tre ggiuli de dogana!
6
E nun era un’idea meno bbisbetica
de maggnasse
7
la grasscia sana sana?
La Reverenna Cammera Apopretica
nun pò annà avanti un’antra sittimana.
Fa ttroppe tirannezze: è ttroppa eretica.
18 gennaio 1835
1
Non vuol mettere.
2
Non è mal da poco.
3
Si.
4
Un altro.
5
Forse.
6
Il dazio è di due baiocchi a libra.
7
Di mangiarsi.
1442. L’arisposta de Teta
1
La matina de Pasqua Bbefania,
2
ar Nome de Ggesú,
3
ddoppo avé intesa
l’urtima messa, in ne l’usscí da cchiesa
incontrai Teta che vvieniva via.
Me je fo avanti co la fiacca
4
mia:
«Ebbè? ccome ve va, ssora Terresa?
Dico, nun ve l’avete
5
pe un’offesa,
v’è gguarita la tale ammalatia?».
Azzeccatesce
6
un po’, ppe ccristo d’oro!
La sora Terresina ebbe la cacca
7
d’arisponne
8
accusí: «Sto ccom’un toro».
Mentre che ppe rraggion de la patacca
9
pare che, essenno femmina, er decoro
je dovessi
10
fà ddí:
11
ccom’una vacca.
18 gennaio 1835
1
Teresa.
2
Pasqua Epifania.
3
Chiesa al Corso.
4
Flemma ironica.
5
Non ve l’abbiate.
6
Azzeccateci.
7
L’orgoglio.
8
Di
rispondere.
9
Vedine il significato nel Son....
10
Le dovesse.
11
Far dire.
1443. Er bello è cquer che ppiasce
A llui je piasce quella e sse la fotte.
Lo sputà ssu li gusti
1
è da granelli.
2
Nun ze
3
paga pe vvede
4
le marmotte?
Tante teste, se sa, ttanti scervelli.
Quanno sortanto li gruggnetti bbelli
trovassino
5
marito, bbona notte.
Disce il proverbio: Si
6
ttutti l’uscelli
conoscessino
7
er grano, addio paggnotte.
È ttanta bbuggiarona vostra fijja,
eppuro, eccolo llí, ggià ss’è ttrovato
er ziconno
8
cojjon che sse la pijja.
Questo sia pe nnun detto. Io v’ho pportato
sto paragone cqua, ssora Scescijja,
9
pe spiegà ccome er monno è acconcertato.
20 gennaio 1835
1
De gustibus non est disputandum.
2
Minchioni.
3
Non si.
4
Per vedere.
5
Trovassero.
6
Se.
7
Conoscessero.
8
Secondo.
9
Cecilia.
1444. Un pezzo e un po’, e un antro
1
tantino
Io sto cco li proverbi, ch’è er mijjore.
2
Come se
3
disce? «O de pajja o de fieno,
bbasta er corpo sii pieno». Er prim’autore
dunque a sto monno è de fà er corpo pieno.
Cqua nun ze vò
4
ddissubbidí ar dottore:
quer che cqui sse
3
discorre è ssur piú e mmeno.
Pe un boccon d’avantaggio nun ze
3
more,
ché la grazzia de ddio mica è vveleno.
Quattro deta
5
de vino, un po’ de ggnocchi,
du’ fonghi, un mozzichetto de bbrasciola,
6
è ccome ggnente,
7
e ’r gnente è bbon per l’occhi.
8
Bbe’, un fir de cascio. Oh, sta mollica sola
è impussibbile, fijja, che tte tocchi
nemmanco un dente, e nnun t’arriva in gola.
20 gennaio 1835
1
Altro.
2
Ch’è il meglio che possa farsi.
3
Si.
4
Qui non si vuole.
5
Dita.
6
Braciuola.
7
Niente.
8
Proverbio moderno, che
viene dall’antico vocabolo nihil, preso in senso di quel tal collirio di zinco usato anche oggi per medicare le oftalmie.
L’errore comune sta nell’aver tradotto nihil per niente.
1445. Er fistino de la Bbanca Romana
1
Venite tutti quanti attorn’a mmé
si
2
vvolete sentí la novità
der gran fistino in abbito bijjè
3
ch’è stato dato da monzú Cciufrà.
4
Pareva una bbottega de caffè.
C’era tutto lo scol
5
de la scittà.
Le foristiere staveno da sé.
Le romane nun vorzeno
6
bballà.
A mmezzànotte fu vviduta uprí
la porta der zalon dell’ammicú,
7
e le donne se fesceno
8
serví.
Doppo le donne entrorno li monzú:
e cquanno tutto er popolo partí,
disse Sciufrà: «Nnun me sce pijji ppiú».
9
20 gennaio 1835
1
Nella sera di lunedí 19 gennaio 1835.
2
Se.
3
Habillé.
4
Il marchese Jouffroy, presidente della Banca Romana.
5
Scolo.
6
Non vollero.
7
Ambigu.
8
Si fecero.
9
Parve che restasse malcontento del piccolo concorso di nobiltà romana distinta e
del minore di cardinali di Santa Chiesa, pel quale ultimo motivo se ne ritrassero anche i prelati che vi erano
intervenuti. I piccoli guardano sempre in su.
1446. L’educanne de San Micchele
1
V’è ppiasciuta la predica der frate,
ch’è vvenuto oggi a dàcce
2
l’esercizzi?
Li sentite che rrazza de ggiudizzi
se
3
fanno de nojantre
4
disgrazziate?
Ggiri, ggiri le case attitolate:
5
entri ne li palazzi maggnatizzi,
e llà cconosscerà ccosa sò vvizzi
de zitelle e de donne maritate.
Quela fijja che ppare una Susanna,
guardata da viscino in ne l’onore
è una spesce
6
de cammera-locanna.
E de qualunque mojje de siggnore
nun ze chiede si sgrinfia:
7
se dimanna
de punt’in bianco:
8
«Co cchi ffa a l’amore?».
20 gennaio 1835
1
Le educande, ecc. Le rinchiuse nella casa di correzione.
2
Darci.
3
Si.
4
Noi altre.
5
Titolate.
6
Specie.
7
Non si chiede se
amoreggia.
8
Ex abrupto.
1447. Le cose der Monno
Er mormorà d’Iddio, fijji mii bbelli,
è la conzolazzione de li ssciocchi.
Le sorte
1
hanno d’annà cco li fraggelli.
Chi è rricco, e cchi sse
2
gratta li pidocchi.
Er Papa ajjute li poverelli:
un antro
3
poi je caccerebbe l’occhi.
Er Monno accusí vva: ssò ggiucarelli,
cose de ggnente,
4
affare de bbajocchi.
Che sserve annà ccontanno a una a una
le furtune dell’antri?
3
Sò pparole.
Ggnisuno
5
è ssazzio de la su’ fortuna.
Fremma e ttempo, e nun zempre se
2
diggiuna;
e cquanno che la notte nun c’è ssole
contentamose
6
allora della luna.
20 gennaio 1835
1
Sorti.
2
Si.
3
Altro: altri.
4
Niente.
5
Nessuno.
6
Contentiamoci.
1448. L’editto su li poverelli
La Lègge parla chiaro: «Si
1
ppe ssorte
sentirete accattoni sfaccennati,
li porterete tutti carcerati».
Viva l’orecchie de sta Santa Corte!
Ccusí Ccristo in ner punto de la morte
m’accordassi
2
er perdon de li peccati,
come pe la scittà strilleno forte
in zur gusto de tanti indemoniati.
Strade, cchiese, caffè, scale, portoni,
osterie, trattorie, per tutto poveri;
e ggnisuno je roppe
3
li cojjoni.
E nnoi, storditi da ’ggni parte, intanto
pe mmantené li pubbrichi aricoveri
pagamo sangue inzin zull’ojjo-Santo.
4
21 gennaio 1835
1
Se.
2
Mi accordasse.
3
Rompe.
4
Sull’oliosanto.
1449. Er giusto
Er giusto, fijji, fateve capasce,
1
pe cquanto mai sia stato peccatore,
campa co la cusscenza sempre in pasce,
e spira ne le bbraccia der Ziggnore.
Vive in grazzia de tutti, e cquanno more
a ttutti li cristiani
2
je dispiasce;
e oggnuno piaggne, e ddisce co ddolore:
«È mmorto er giusto e in zepportura jjasce».
3
Mentre l’anima sua j’essce de bbocca,
un formicaro d’angeli la pijja,
la porta in Celo, e gguai chi jje la tocca.
Li diavoli je manneno
4
saette,
e ll’angeli je danno la parijja;
e la cosa finissce in barzellette.
21 gennaio 1835
1
Capacitatevi.
2
Gli uomini.
3
In sepultura jacet.
4
Gli mandano.
1450. Chi ss’attacca a la Madonna
nun ha ppavura de le corna
1
Ar punto de morí, cquanno se
2
caccia
l’anima, fijji mii, credete a nnonna,
chi ha la divozzion de la Madonna
pò rrugà
3
ccor demonio a ffaccia a ffaccia.
Abbi puro
4
tenuta una vitaccia,
un zervo de Maria nun ze sprofonna;
5
ché in quer momento llí, povera donna,
lei pe l’amichi sui propio se sbraccia.
Io nun protenno
6
ggià, ccrature
7
mie,
che in onor de Maria nostr’avocata
ce sii nescessità dde fà ppazzie.
Nò, abbasta oggni matina a la svejjata
de rescità ppe llei tre vvemmarie,
e onoralla co cquarche scappellata.
21 gennaio 1835
1
Proverbio in bei versi rimati.
2
Si.
3
Può disputare.
4
Abbia pure.
5
Non si sprofonda.
6
Non pretendo.
7
Creature.
1451. Er discorzo de l’agostiggnano
1
Chi? Ssanta Filomena?!
2
In un paese
che li santi se
3
spregheno?! Eh sor Nanno,
diteme un po’, cquanto pagate ar mese
pe ccomparí ccazzaccio tutto l’anno?
Si
4
a sta Santa novizzia oggi je danno
tant’e ttante incenzate
5
pe le cchiese,
io, poveretta, mica la condanno
che sse sii
6
messa mó ssu le protese.
7
Ma ddico ch’è un penzà da giacubbino
er confronccostei co la Madonna
miracolosa de Sant’Agustino.
8
Questa c’ha scavarcato e ffa sta in regola
la Madonna der Zasso a la Rotonna,
9
nun pò avé suggizzion d’una pettegola.
21 gennaio 1835
1
Agostiniano.
2
Vedi il Son...
3
Si.
4
Se.
5
Incensamenti.
6
Che si sia.
7
Pretensioni.
8
Vedi il Son...
9
Vedi il Son…
1452. La nottata de spavento
Come! Aritorni via?! Ccusí infuriato?!
Tu cquarche ccosa te va p’er cervello.
Oh ddio! che cciài
1
llí ssotto? ch’edè
2
cquello?
Vergine santa mia! tu tte se’ armato.
Ah Ppippo,
3
nun lassamme
4
in questo stato:
Ppippo, pe ccarità, Ppippo mio bbello,
posa quell’arma, damme quer cortello
pe l’amor de Ggesú Ssagramentato.
Tu nun esschi de cqua: nnò, nnun zò Ttuta,
s’esschi. Ammazzeme puro,
5
famme in tocchi,
6
ma nnun te fo annà vvia: sò arisoluta.
Nun volé cche sto povero angeletto,
che ddorme accusí ccaro, a l’up ll’occhi
nun ritrovi ppiú er padre accant’ar letto.
22 gennaio 1835
1
Che ci hai: che hai.
2
Che è.
3
Filippo.
4
Non lasciarmi.
5
Ammazzami pure.
6
Fammi a pezzi.
1453. Che vvita da cani!
L’ho, ddio sagrato, co cquer zor Cornejjo
1
der padrone, che Cristo sce
2
lo guardi.
Nun j’abbasta neppuro
3
che mme svejjo
antilúsce:
4
ggnornò,
5
ffo ssempre tardi.
Nu ne vojj’antro.
6
Aspetto che mme sardi
7
le liste, eppoi le case io me le sscejjo.
8
Manco er riposo?! E cche! ssemo bbastardi?!
Padroni a Rroma? accidentacci ar mejjo.
Annallo
9
a rrippijjà ddrent’ar parchetto,
portallo a ccasa, còsceje da scena,
10
dajje in tavola, e ppoi scallajje er letto,
e ppoi spojjallo, e ppoi, quann’è de vena,
sciarlà
11
un’ora co llui... sia mmaledetto,
che sse dorme?
12
Un par d’ora ammalappena.
13
22 gennaio 1835
1
Cornelio: cornuto.
2
Ce.
3
Neppure.
4
Ante lucem.
5
Signor no.
6
Non ne voglio altro.
7
Mi saldi.
8
Me le scelgo.
9
Andarlo.
10
Cuocergli da cena.
11
Ciarlare.
12
Quanto si dorme?
13
Un paio d’ore appena.
1454. La Rufinella
L’avocato marchese mi’ padrone
disce che a ggiorni vò stampà in un puscolo
1
che all’ombra de le scerque
2
de l’Attuscolo
3
sce spasseggeno
4
Marco e Cciscerone.
Se
5
dà un spropositone ppiú mmaiuscolo
compaggn’a sto su’ gran spropositone?
Volemo dí
6
er calor de la staggione
che jj’abbi fatto dà de vorta ar muscolo?
7
Io sò stato co llui pe ppiú d’un mese
fisso a la Rufinella, e, amico caro,
ortr’a ppochi villani e quarch’ingrese,
ecco quelli che cciò
8
ssempre incontrati:
l’arciprete e la serva, e cquer zomaro
der maestro de scòla de Frascati.
22 gennaio 1835
1
Opuscolo.
2
Quercie.
3
Tuscolo.
4
Ci passeggiano.
5
Si.
6
Vogliamo dire.
7
Un servitore, da noi conosciuto, per dire il
cerebro, diceva sul serio il muscolo celebre; e ciò per la bella ragione della muscola del naso.
8
Ci ho.
1455. Le visite der Cardinale
La padrona sopporta quer zonajjo
1
der Cardinale, pe ffà un stato ar fijjo,
e pperché in un bisoggno e in quarch’incajjo,
sempre è cquell’omo che ppò ddà un conzijjo.
Je se
2
legge però llontano un mijjo
la noja, er vortastommico e ’r travajjo,
benché, ar venijje sú cquarche sbavijjo,
3
se l’annisconni
4
lei sott’ar ventajjo.
Vedi sta stanzia? Cqua cce viè un convojjo
de tutta ggiuventú dd’ogni miscujjo.
Bbe’, appena arriva Su’ Eminenza, è un ojjo.
5
Lei, la padrona, se tiè
6
ssù a la mejjo;
ma de tutto quel’antro guazzabbujjo
nun ce n’è uno c’arimani svejjo.
22 gennaio 1835
1
Sonaglio: minchione e peggio.
2
Le si.
3
Sbadiglio.
4
Se lo nasconda.
5
Silenzio perfetto.
6
Si tiene.
1456. Er colleggio fiacco
Fra sti bbroccoli
1
er Papa è ccome un fiore
che nun fa pprimavera: è ccome un bracco
fra ssettanta bbuffetti: è ccome un tacco
senza chiodi: è una donna senz’onore.
Ha ttempo lui d’avé ccervello e ccore:
nun concrude una pippa de tabbacco.
È inutile: una nosce
2
drent’a un zacco
sgrulla
3
quanto tu vvòi nun fa rrumore.
Certo che Ggesucristo pare stracco
che la cattreda
4
sua bbutti sprennore:
5
cosa che ppuro a llui j’è dd’un gran smacco.
Ma Ddio ne guardi, er Zanto Padre more,
chi ccardinale vòi mette
6
pe Ccacco
immezzo
7
in ne la Cchiesa der Ziggnore?
23 gennaio 1835
1
Uomini inetti.
2
Noce.
3
Scuoti.
4
Cattedra.
5
Splendore.
6
Vuoi mettere.
7
Stare come Cacco in mezzo: tenersi in un
posto distinto che non conviene.
1457. Er temporale de jjeri
1
Ciamancava
2
un bon quarto a mmezzanotte,
quanno, tutt’in un bòtto
3
(oh cche spavento!),
sentíssimo
4
un gran turbine, e ar momento
cascà cqua e llà ll’invetrïate rotte.
Diventò er celo un forno acceso, e, ddrento,
li furmini pareveno paggnotte.
Pioveva foco, come quanno Lotte
scappò vvia ne l’Antico Testamento.
L’acqua, er vento, li toni, le campane,
tutt’assieme fascéveno un terrore
da atturasse
5
l’orecchie co le mane.
6
Ebbe pavura inzin Nostro Siggnore;
ma ppe Rroma nun morze antro
7
c’un cane.
Cusí er giusto patí pp’er peccatore.
24 gennaio 1835
1
Il 3 gennaio 1835.
2
Ci mancava.
3
All’improvviso.
4
Sentimmo.
5
Turarsi.
6
Colle mani.
7
Non morì altro.
1458. Er Carciarolo
Ecco come se
1
fa,
mmastro Zabbajja,
2
pe nnun sbajjasse uguale all’anno scorzo:
3
voi ’ggni ggiorno seggnate in d’una tajja
4
le some de la carcia
5
che vve smorzo.
Poi ’ggniquarvorta
6
ch’er padrone squajja
7
in un’antra intaccatesce
8
lo sborzo.
Ccusí, a striggne li conti nun ze sbajja.
Chi aripete, aripete: ecco er discorzo.
È una spesce
9
de facche e tterefacche.
10
Io tiengo la mi’ tajja, voi la vostra,
e a la fine se conteno l’intacche.
Nun parlo bbene? Oggnuno tiè la sua:
poi, quanno viè er padrone je se mostra
e arrestamo capasce
11
tutt’e ddua.
24 gennaio 1835
1
Si.
2
Questo nome è famoso per averlo portato un artigiano, il quale senza altro soccorso che del suo ingegno portò la
meccanica a sommo lustro: di che nel Vaticano restano superbe memorie.
3
Per non sbagliarsi come l’anno scorso.
4
Taglia o tacca: noto legnetto per servire di saldaconto agli idioti.
5
Calce.
6
Ogni qual volta.
7
Sborsa danari.
8
Intaccateci.
9
Specie.
10
Face et refac: modo proverbiale che si adopera nel senso di «render la pariglia».
11
Restiamo
capacitati.
1459. La mojje invelenita
E mmó adesso in che ddà st’antra
1
scappata
de schiaffeggià cquer povero innoscente?
Nò, nun è vvero, nun ha ffatto ggnente:
sete voi che pparete spiritata.
Ve lo dich’io ch’edè,
2
ssora Nunziata.
Voi stasera ve passa pe la mente
quarche ggrilletto de svejjà la ggente
e ffalla corre
3
sú cco la chiarata.
Sai che rraggione hai tu? c’a mmé mme
4
piasce
da fa ppubbriscità mmeno che pposso
e vvive
5
li mi’ ggiorni in zanta pasce.
Ché ssi nnò, vvoría datte
6
un cazzottone,
bbellezza mia, da stritolatte
7
l’osso
de quer brutto nasaccio a ppeperone.
24 gennaio 1835
1
Quest’altra.
2
Che è.
3
E farla correre.
4
A me mi. Queste due varietà di un medesimo pronome pronunciandosi dalla
nostra plebe nello stesso modo, abbiamo adottato il sistema di accentuare il vocabolo allorché significa me, e lasciarlo
semplice quando sta per mi. Così facciamo pel te e ti.
5
Vivere.
6
Ché se no (altrimenti), vorrei darti, ecc.
7
Stritolarti.
1460. Le sciarlette
1
de la Commare
Dico, diteme un po’, ssora commare,
che sset’ita discenno
2
a Mmadalena
che llui
3
me pista,
4
e nun c’è ppranzo e ccena
che ffinischi tra nnoi senza caggnare?
Ebbè? Ssi
5
Ustacchio me bbastona, è affare
da pijjavvene
6
mó ttutta sta pena?
Che importa a vvoi? Me mena, nun me mena,
è mmarito e ppò ffà cquer che jje pare.
Che vve n’entra in zaccoccia, sora ssciocca,
de li guai nostri? Voi, sora stivala,
impicciateve in quello che vve tocca.
Vardela
7
llí sta scianca a ccressceccala!
8
Lei se tienghi
9
la lingua in ne la bbocca,
e ss’aricordi er fin de la scecala.
10
24 gennaio 1835
1
Ciarlette.
2
Che siete ita dicendo.
3
Mio marito.
4
Mi pesta.
5
Se.
6
Pigliarvene.
7
Guardala.
8
Questa gamba a cresce-e-
cala. Il cresce-e-cala è quel genere di cilindretti di cristallo rintorti a spira, i quali, girati in uno o in altro senso,
sembra che si allunghino od accorcino.
9
Si tenga.
10
Cicala.
1461. La mormorazzione
Avete inteso cos’ha ddetto er frate?
«Chi mmormora, fijjoli, va a l’inferno».
Dunque, cristiani mii, si
1
mmormorate,
ve scallerete er culo in zempiterno.
Se
2
vede arricc un omo in du’ ggiornate?
Ecco come se disce: ha vvinto un terno.
Sentite un antro
3
a ddí bbuscíe
4
l’istate?
Ebbè, ddirà la verità st’inverno.
Quel’impiegato tradirà l’impiego.
È sseggno che nn’ha avuta la liscenza,
perché onore e sservizzio è ttroppo sprego.
Che ffarà, pper esempio, er zor Maccario
chiuso llà ddrento co la sora Ortenza?
Ggnente de male: dicheno er rosario.
24 gennaio 1835
1
Se.
2
Si.
3
Altro.
4
Bugie.
1462. Sò ccose che cce vanno
Ma nun è ggnente, nò, ssora Maria,
nun è ggnente davero, nun è ggnente.
Ve pare che ssi ffussi
1
mmalatia,
ve calerebbe er latte istessamente?
Ma nnò, nnò, nnò, nun v’accorate, via,
fatev’animo, state allegramente:
è la frebbe der pelo,
2
fijja mia,
che l’ha d’avé oggni donna partoriente.
Ssapete c’antre
3
sorte de febbrone
se vedeno
4
sparà cquanno ch’er petto,
nun zia mai,
5
vò vvení a ssuperazzione?
6
Fidateve, sposetta, è ttutt’affetto
7
der calo: e cco la vostra cumprisione
8
nemmanco serve che cce state
9
a lletto.
25 gennaio 1835
1
Se fosse.
2
La febbre della separazione del latte.
3
Che altre.
4
Si vedono.
5
Non sia mai.
6
Suppurazione.
7
Effetto.
8
Complessione.
9
Ci stiate.
1463. La cratura in fassciòla
Bbella cratura! E cche ccos’è? Un maschietto?
Me n’arillegro
1
tanto, sora Mea.
Come se
2
chiama? Ah, ccom’er nonno: Andrea.
E cche ttemp’ha? Nnun piú?! Jjeso! eh a l’aspetto
nun mostra un anno? Che ggran bell’idea!
Quant’è ccaruccio llí cco cquer cornetto!
3
Lui mó sse penza de succhià er zucchietto,
4
la ghinga,
5
o er cucchiarin de savonea.
Vva’, vva’, vva’,
6
ccome fissa la sorella!
Nun pare vojji dijje
7
quarche ccosa
co cquella bbocchettuccia risarella?
Nun ho mmai visto un diavoletto uguale.
Dio ve lo bbenedichi, sora sposa,
e vve lo facci presto cardinale.
26 gennaio 1835
1
Me ne rallegro.
2
Si.
3
Si suole appendere al petto de’ bambini, mercé una catenella di argento, un cornetto o di pietra
dura o di corallo, che eglino vanno sempre tenendosi per la bocca e biascicando. Così pure vi si aggiunge un
cerchiolino d’avorio, detto volgarmente la sciammella (ciambella), sul quale i bambini si arruotano le gengíe verso il
tempo della dentizione. Alcune madri uniscono a tuttociò un campanelluzzo di argento.
4
Zucchero involto e legato
entro un pezzetto di pannolino.
5
Mammella.
6
Come dicesse: «ve’, ve’, ve’,».
7
Voglia dirle.
1464. La curiosità
Abbi pascenza,
1
je stai troppo appresso
pe ffàllo vommità.
2
Vvergoggna, Rosa!
Nun sta bbene èsse
3
poi tanta curiosa.
Tu in sto vizziaccio cqui ddai ne l’accesso.
4
Uh, zzitto, zitto, ch’ecco Nanna. Adesso
la chiamamo e scoprimo quarche ccosa.
Pss, ssenti, Nanna: è vvero che la sposa
5
de tu’ fratello lo rizzola
6
spesso?
Che ssii superba com’un gallo, e bbrutta
quant’un’ira de Ddio, questo è ssicuro:
Rosa però nu la conossce tutta.
Dicce
7
un po’, ddicce un po’... Ggià ttu lo sai
che pparlanno co nnoi, parli cor muro.
Bbe’? ddunque tra li sposi eh? cce sò
8
gguai?
27 gennaio 1835
1
Pazienza.
2
Per farlo parlare e raccontare quello che sa.
3
Essere.
4
Eccesso.
5
Spósa, spósi, coll’o stretta.
6
Lo batte.
7
Dicci.
8
Ci sono.
1465. Er mistiere indiffiscile
1
Nun credessivo
2
mai ch’er fasse
3
prete,
e ddiventà pprelato e annà ppiú avanti,
sii faccenna da poveri iggnoranti
e abbastino le store
4
e le pianete.
Va’ li Sommi Pontescifi: tra ttanti
san Pietro solo j’abbastò la rete.
Tutti l’antri,
5
si
6
mmai nu lo sapete,
j’e ttoccato èsse
7
dotti a ttutti quanti.
Io conosco un abbate che ttiè in testa
de finí Ppapa: ebbè, ssu li latini
ce suda nott’e ggiorno e inzin de festa.
E mmó studia li su’ Scisceroncini
8
pe imparà la ppiú ffàscile ch’è cquesta
de dí in latino: Alò, ppelle o cquadrini.
28 gennaio 1835
1
Difficile.
2
Non credeste: non vogliate mai credere.
3
Il farsi.
4
Stole o stuoie sono nella lingua del Romanesco sempre
store.
5
Gli altri.
6
Se.
7
Essere.
8
I suoi ciceroncini.
1466. La vedova affritta
1
Nun me ne so ddà ppasce,
2
ah ppropio nò.
Quer giorno, Andrea, che l’incontrassi
3
tu,
tornò a ccasa la sera, se spojjò,
4
aggnéde
5
a lletto, e nun z’è arzato ppiú.
L’unico mi’ conforto è cche spirò
la matina der Core de Ggesú.
Pe mmé è stata una perdita però
che ffo ppropio miracoli a stà ssú.
Un omo ch’era un Cèsere! Vedé
morí un campione
6
che a rraggion d’età
cquasi poteva chiude
7
l’occhi a mmé!
Bbasta, Iddio m’ha vvorzuta
8
visità.
Lui se l’è ppreso, e ssaperà pperché.
Sia fatta la su’ santa volontà.
28 gennaio 1835
1
Afflitta.
2
Dar pace.
3
L’incontrasti.
4
Si spogliò.
5
Andò.
6
Nome che si dà agli uomini vegeti.
7
Chiudere.
8
Voluta.
1467. La morte de Tuta
1
Povera fijja mia! Una regazza
che vvenneva
2
salute! Una colonna!
Viè una frebbe,
3
arincarza
4
la siconna,
aripète la terza, e mme l’ammazza.
Io l’avevo invotita
5
a la Madonna.
Ma inutile, lei puro me strapazza.
Ah cche ppiaga, commare! che ggran razza
de spasimi! Io pe mmé nun zò ppiú ddonna.
Scordammene?!
6
Eh ssorella, tu mme tocchi
troppo sur farzo. Io so cc’a mmé mme
7
pare
de vedemmela
8
sempre avanti all’occhi.
Fijja mia bbona bbona! angelo mio!
Tuta mia bbella! visscere mie care,
che tt’ho avuto da dà ll’urtimo addio!
28 gennaio 1835
1
Gertrude.
2
Vendeva.
3
Febbre.
4
Rincalza.
5
Questo invotire consiste nel fare assumere alle guarite una veste di
baracane nero o violaceo e lucido, con attaccati ai fianchi due pendenti nastri coi colori di quella tal Madonna da cui
si ripete la grazia.
6
Scordarmene.
7
A me mi. Vedi per questa ortografia la nota...
8
Vedermela.
1468. La mojje der giucatore
Sei bbuffa! come va? vva che Ccammillo
pe ggiucà all’otto
1
manna
2
casa a ffiamme.
Va, Cchiara mia, che ddio ne guardi io strillo
me dà ccarci da róppeme le gamme.
Va cc’oramai, pe méttete er ziggillo,
io nun ciò ppiú ccamiscia da mutamme.
Va cc’oggi sto, nun me vergoggno a ddíllo,
che ancora potería
3
cummunicamme.
Pe mmé ppascenza,
4
sò li mi’ peccati.
Poco male pe mmé. La mi’ gran pena
sò sti poveri fijji disgrazziati.
Ma ssenti questa, e nnu lo dí a ggnisuno.
Sabbito vinze un ambo. Ebbè? annò a ccena
co li compaggni e cce lassò a ddiggiuno.
29 gennaio 1835
1
Al lotto.
2
Manda.
3
Potrei.
4
Pazienza.
1469. Li fijji cressciuti
Questi li vostri fijji?! Guarda, guarda
che ppezzi de demoni! E ppare jjeri
quanno abbitavio
1
a le stalle d’Artieri
2
c’uno era un’aliscetta, uno una sarda!
Ve se sò ffatti du’ stangoni veri.
Nun ce manc’antro
3
cqua, ssora Bennarda,
4
che mmuntura, giaccò, schioppo e ccuccarda
pe ddà ar Papa un ber
5
par de granattieri.
Come scarrozza er tempo! Ggià ddiescianni
passati com’un zoffio! Eh, nnun c’è ccaso,
li piccinini cacceno li granni.
Antro
3
cqua cche Ggolía e che Ssanzone!
Ce vò la scala pe ttoccajje er naso.
Cos’è er Monno! È una gran meditazzione.
30 gennaio 1835
1
Abitavate.
2
Altieri.
3
Altro.
4
Bernarda.
5
Bel.
1470. Le Suppriche
Cosa fai co ste suppriche? Propali
tutte le tu’ miserie, o ffarze o vvere,
perdi tempo, strapazzi er tu’ mestiere,
bbutti via carta, logri scarpe, e ssciali.
1
Oh ffigurete
2
tù ssi
3
er Tesoriere,
c’ha da sfamà ssettanta cardinali,
vò ddà rretta a li nostri momoriali!
Lèvetelo da testa: sò gghimere.
4
Io sciò
5
intese un mijjaro de perzone,
e ttutte sò arimaste pe sperienza
de la mi’ stessa medéma oppiggnone.
6
Prima bbisoggnería
7
che Ssu’ Eccellenza
imparassi
8
a ccapí cche
9
ddistinzione
passa tra cchi ha cquadrini e cchi nn’è ssenza.
30 gennaio 1835
1
Godi.
2
Figùrati.
3
Se.
4
Son chimere.
5
Ci ho.
6
Opinione.
7
Bisognerebbe.
8
Imparasse.
9
Quale.
1471. La lavannara
Ricontàmo. Tre ppara de carzette,
uno de filo
1
e ddue de capicciola!
2
Cinque camísce, quattro foderette,
3
du’ ssciugamani e un paro de lenzola.
Poi du’ tovajje co ssette sarviette...
Nò, nnò, mme sbajjo, una tovajja sola.
Tre ccanavacci, du’ par de solette,
sei coppie de pannucci e una rezzola.
4
Che ccos’antro
5
ve pare che cciamanchi?
Ggià vve l’ho ddetto: co st’antra
5
bbucata
ve porterò li fazzoletti bbianchi.
Mica poi se sò pperzi o sse sò rrotti.
Credete puro
6
che la cosa è stata
pe vvia
7
de la lesscía
8
che mme l’ha incotti.
30 gennaio 1835
1
Per filo s’intende sempre «la filatura del lino o della canapa».
2
Bavella.
3
Biancheria de’ guanciali.
4
Reticella per
capo.
5
Altro, altra.
6
Pure.
7
Per motivo.
8
Lisciva.
1472. La vecchia trottata
1
A sti tempacci nostri è nnescessario
c’una zitella pe ppij mmarito
abbi prima de tutto partorito,
o rrotto er portoncin der zeminario.
Chi nun ingabbia a ttempo er zu’ canario
se
2
fa vvecchia e nun trova antro
3
partito.
E, a la peggio, la panza è un riquisito
pe ottené pprotezzione dar Vicario.
Quanno nun v’arïeschi èsse
4
sposate
pe sta strada, pe cquella de l’onore
nun zerve, fijje mie, che cce penzate.
Ché appena cominciate a ffà l’amore,
viengheno
5
ste donnacce maritate,
je la danno, e vve lasseno a l’odore.
31 gennaio 1835
1
Maliziosa per lunga esperienza.
2
Si.
3
Non trova altro, ecc.
4
Non vi riesca essere, ecc.
5
Vengono.
1473. La sposa
1
de Pepp’Antonio
Lei sia puro
2
cor gruggno sbrozzoloso,
3
vecchia com’er cuccú cquanto tu vvòi:
pe ggamme abbi du’ zzèrule:
4
ma ppoi?
Pepp’Antonio pe llei sempre è lo sposo.
Hai mai visto li tori a li procoj?
Un toro, Annuccia, dammelo ggeloso
de la su’ vacca, è affare assai scambroso
5
volé ffàllo
6
penzà ccome che nnoi.
Accusí è ll’omo. Dunque Pepp’Antonio,
che sse la vedde
7
stuzzicà da quello
j’aggnéde
8
addosso e ddiventò un demonio.
Se sa,
9
ll’ommini porteno er cortello;
e essennosce
10
de mezzo er madrimonio
sce fu da fà e da dí ppe trattenello.
11
1° febbraio 1835
1
Spóso, spósa colla o stretta.
2
Pure.
3
Bernoccoluto.
4
Zèrula sarebbe come a dire: «una gamba a zigzag».
5
Scabroso.
6
Voler farlo.
7
Se la vide.
8
Gli andò.
9
Si sa.
10
Essendoci.
11
Per trattenerlo.
1474. Ricciotto de la Ritonna
1
Chi? Vvoi? dove? co cquella propotenza?
Voi sete er gruggno de spaccià cqui accosto?
Voi cqua, pper dio, nun ce piantate er posto
manco si
2
er Papa ve viè a ddà lliscenza.
Via sti canestri, alò,
3
bbrutta schifenza.
E cc’è ppoco co mmé da facce
4
er tosto,
ch’io sò ffigura de maggnatte
5
arrosto
e mme te metto all’anima in cusscenza.
6
Si tte scechi de fà n’antra parola,
lo vedi questo? è bbell’e ppreparato
pe affettatte
7
er fiataccio in ne la gola.
State pe ttistimoni tutti quanti
che sto ladro de razza m’ha inzurtato
e mm’è vvienuto co le mano avanti.
1° febbraio 1835
1
Litigioso rivenditore di commestibili sulla piazza di mercato della Rotonda.
2
Neppure se.
3
Allons.
4
Di farci.
5
Di
mangiarti.
6
Te lo giuro sulla mia coscienza.
7
Per affettarti.
1475. Er mortorio de la sora Mitirda
1
Zitto... ecco che la porteno, Presede.
2
Senti?... intoneno adesso er risponzorio.
Guarda... principia ggià a sfilà er mortorio.
Bbeata lei e cchi la pò arivede!
3
Oh a cquest’anima sí cquasi è de fede
ch’è inutile la messa a Ssan Grigorio.
Oh cquesta nun ha ttocco
4
er Purgatorio
manco coll’oggna
5
d’un detin de piede.
Commare mia, è mmorta una gran donna,
c’aveva pe l’affritto e ’r poverello
tutta la carità de la Madonna.
In quelo stato
6
e cco cquer viso bbello
trovene ar monno d’oggi la siconna
che ttratti chi nun ha
7
ccome un fratello.
2 febbraio 1835
1
Matilde Sartori, poi Mazio, quindi De Marchis.
2
Prassede.
3
Rivedere.
4
Toccato.
5
Unghia.
6
Il fratello del di lei primo
marito, Mazio, morì cardinale e i nipoti ne ereditarono.
7
Il misero.
1476. La sepportura ggentilissima
1
Sganàssete de ride.
2
Er mi’ padrone
ha ddato scento scudi senz’usura
a li frati de San Bonaventura
3
pe avé un zeporcro a ssu’ disposizzione.
Nun te pare un penzà ffor de natura?
Nu la credi una spesa da minchione,
c’uno ch’è ssenza casa e sta a ppiggione
abbi poi da crompà
4
una sepportura?
Lui disce sempre a li fijji e a la fijja,
che cquella fossa apprivativa
5
è un loco
che pprepara pe ssé e ppe la famijja.
Disce: «Fijjoli cari, da cqui avanti
cqua, ssi Ddio sci dà vvita, a ppoc’a poco
sci saremo inzeporti tutti quanti».
2 febbraio 1835
1
Gentilizia.
2
Sganasciati dal ridere.
3
Chiesa di Francescani riformati, sul Palatino.
4
Comprare.
5
Privativa.
1477. Er parchetto commido
Le commedie nun zò mmica funzione,
quilibbri, pantomine e bball’in corda,
che le possi capí lla ggente sorda
sibbè stanno
1
lontano dar telone.
E ppe cquesto la sera a Ppalaccorda
2
pijjo er pparchetto de dietro ar violone
dove se
3
sente comichi e ssoffione
4
e sse gode l’orchestra quann’accorda.
Quer parchetto lo chiameno er prosscenico,
pe vvia
5
che sta da un de li du’ capí
der teatro, viscino ar parc’osscenico.
E mmica è vvero che nun ce se capi,
6
perch’io, lei,
7
Toto,
8
Meo,
9
Bbiascio e Ddomenico
sce stamio
10
tutt’e ssei com’e ssei Papi.
3 febbraio 1835
1
Sebbene stando.
2
Teatro inferiore di Roma.
3
Si.
4
Suggeritore.
5
Pel motivo.
6
Non ci si capisca.
7
Mia moglie.
8
Antonio.
9
Bartolommeo.
10
Ci stavamo.
1478. Le purce in ne l’orecchie
1
Uhm, pe mmé, sposa
2
mia, ho ggran pavura
c’a llui
3
je sii successa quarche ccosa.
L’affare nun è llisscio, sora Rosa:
è ttroppo tardi e la nottata è scura.
A mmé pperò nnun m’abbadate,
4
sposa:
fate conto che pparli una cratura.
5
Dico accusí pperch’io l’ho ppe ssicura:
de resto poi nun ziate
6
tanta ombrosa.
Io me posso sbajjà vveh, sposa mia:
mica ggià ssò pprofeta. Ma sta vorta,
me sta in testa che ffo una profezzia.
Cos’è cche ddiventate smorta smorta?
Ve sete messa in apprenzione? Eh vvia!
Chi ssa cche llui nun stii ggià ssu la porta.
4 febbraio 1835
1
Metter le pulci nelle orecchie, vale: «suscitare in altri apprensioni, o paure, o sospetti, ecc.».
2
Colla o stretta.
3
Vostro
marito.
4
Non mi badate.
5
Creatura.
6
Non siate.
1479. Le lettanie de Nannarella
Ora pre nobbi. Ora pre... Attenta, Nanna:
tu aritorni a zzompà.
1
Ddoppo in violata
viè, scrofa mia, madre arintemerata.
Fede e rrisarca sta ppiú ggiú una canna.
Ora pre nobbi. Ora pre no... Sguajata!
Ma cche Tturris e bbruggna! che, mmalanna,
Domminus àuria e Vvirgo veneranna!
Virgo cremis, bestiaccia sgazzerata.
Di’ cchiaro quelo Spè coll’ojjo stizzia.
Ora pre nobbi... Alò,
2
Ssede e ssapienza.
Avanti su: Ccausa nostr’allettizzia.
Animo, a tté: Arifugg’impeccatòro.
Reggina profettaro?! Oh cche ppazzienza!
Manco male che vviè: Er zantòru moro.
4 febbraio 1835
1
Saltare.
2
La nostra Città si serve di questa voce, così storpiata da allons, nel senso stesso e nelle stesse circostanze in
cui è adoperata dai Francesi.
1480. L’ammalatia der padrone
Sta mmale accusí bbene, poverello
che mmó ha ffatto inzinenta
1
l’occhi storti;
e er medico, che Cristo se lo porti,
disce che ttutto er male è in ner cervello.
Piaggne, smania, sospira,... pe un capello
va ssu le furie... e in ne l’inzurti forti
nun ved’antro
2
che ccasse, bbeccamorti,
curati, sepporture, farfarèllo...
3
Io pe mmé jje l’ho ddetto a la padrona:
«Siggnora mia, ma pperché nnun provamo
quarc’antra mediscina che ssia bbona?».
Ggnente. Lei me se striggne in ne le spalle,
e sse mette ar telaro der ricamo
a llavorà li fiori de lo sscialle.
4 febbraio 1835
1
Sino.
2
Non vede altro.
3
Il diavolo.
1481. Le dimanne a ttesta per aria
Quanno lòro s’incontreno, Bbeatrisce,
tu averessi da stà
1
ddietr’un cantone.
«Ôh ccaro sor Natale mio padrone!».
«Umilissimo servo, sor Filisce».
Disce: «Ne prende?»
2
«Grazzie tante», disce.
«Come sta?» «Bbene, e llei?» «Grazzie, bbenone».
Disce: «Come lo tratta sta staggione?».
Disce: «Accusí: mmi fa mmutà ccamisce».
Disce: «E la su’ salute?» «Eh, nun c’è mmale.
E la sua?», disce. «Aringrazziam’Iddio».
«E a ccasa?» «Tutti. E a ccasa sua?» «L’uguale».
«Ne godo tanto». «Se
3
figuri io».
«Oh ddunque se
3
conzervi, sor Natale».
«Ciarivediamo,
4
sor Filisce mio».
6 febbraio 1835
1
Avresti da stare.
2
Cioè: tabacco.
3
Si.
4
Ci rivediamo.
1482. Er fijjo tirat’avanti
1
Tra er negozzio de stracci e ll’osteria
psè, aringrazziam’Iddio, tanto la strappo.
2
Co cquer c’abbusco a Rripa, e cquer c’acchiappo
3
traficanno cqua e llà, se
4
tira via.
Lasseme
5
intanto vení ssú cquer tappo,
6
quer mi’ raponzoletto de Mattia,
e allora poi, deo grazzia, a ccasa mia
c’entrerà ttanto da poté ffà er vappo.
7
Mó adesso studia e vva a l’Iggnorantelli
8
a ffàsse
9
omo; e ggià ssur cartolare
co la penna sce fa ssino l’uscelli.
Le lettre lavorate se le spifera
10
co ’na lestezza e bbravità, cche ppare
Monziggnor Zegretario de la Zífera.
11
9 febbraio 1835
1
In carriera di studi.
2
Tanto, campo alla meglio.
3
Prendo, guadagno.
4
Si.
5
Lasciami.
6
Quel ragazzetto.
7
Da potere
sfoggiare.
8
Scuole Cristiane, o Ignorantelli, guidate da certi frati laici e senza voti, i quali insegnano lettura,
calligrafia e aritmetica.
9
Farsi.
10
Se le fa.
11
Cifra.
1483. La mojje ggelosa
Io ve dico accusí cche nun zò ttonta:
1
io ve dico accusí, fijja mia bbella,
che vvoi sete una bbrava puttanella,
sete una bbona faccettaccia pronta.
Guarda si
2
cche ffigura che ss’affronta!
guarda che bber proscede
3
da zitella!
Sí, zzitelluccia come la vitella
a ddu’ bbajocchi e mmezzo co la ggionta.
Tu ariviè
4
a cciovettà cco mmi’ marito,
si cce vòi avé
5
ggusto: tu ariviecce
6
un’antra vorta, gruggnettaccio ardito,
e mme te bbutto sopra quant’è vvero
la Madonna: t’aggranfio
7
pe le trecce,
t’arzo la vesta, e tte fo er culo nero.
10 febbraio 1835
1
Stupido.
2
Se.
3
Che bel procedere.
4
Rivieni.
5
Se ci vuoi avere, ecc.
6
Rivienci.
7
Ti afferro.
1484. La mojje marcontenta
Nun me la sento, nò, nnun me la sento:
queste cqui nun zò llègge da cristiani,
d’avé da stà li mesi e ll’anni sani
a mmorisse de pizzichi
1
cqua ddrento.
Mai un po’ d’aria! Ma’ un divertimento!
Sempre ammuffita cqui ccome li cani!
Che mmariti! Che ccori indisumani!
E sse
2
laggneno poi si
3
mmuta vento.
Co cquella sscimmia tua de Luscïola
er tempo d’annà in zònzola
4
sce ll’hai:
tutti li gran da-fà
5
ssò ppe mmé ssola.
Oh, inzomma, io drento casa incaroggnita
nun ce vojjo stà ppiú. Ssi ccaso-mai,
6
nun ho ggruggno
7
né età de fà sta vita.
12 febbraio 1835
1
A morirsi di noia.
2
Si.
3
Se.
4
D’andare a zonzo.
5
Da-fare: affari.
6
In fin fine poi.
7
Vòlto.
1485. Er marito stufo
Madalena, finisscela: e nnovanta.
Nun me roppe li fiaschi,
1
Madalena.
Lasseme stà: nnun me fà ffà una sscena
de le mie. Ôh ttu sseguita: ôh ttu ccanta.
Che lingue! Che ccervelli da catena!
Se ne perdi la razza tutta quanta!
E cce fiotteno poi s’uno le pianta,
e sse laggneno poi si
2
un omo mena.
Eh ddàjjela!
3
Ho ccapito: ggià lo vedo
che sta jjoja
4
finissce cor pagozzo.
5
Io fo li fatti: a cchiacchiere te scedo.
6
Bbada, nun te fidà ssi
2
ancora abbozzo:
7
zittete llí, pperch’io sto un antro crèdo.
8
E ppoi te do de piccio
9
e tte scotozzo.
10
12 febbraio 1835
1
Non mi rompere il capo, o ecc.
2
Se.
3
Oh dàgliela! E via innanzi così!
4
Questa storia, questa molestia.
5
Colla paga,
colle busse.
6
Ti cedo.
7
Soffro con pazienza.
8
Un altro crèdo: tanto tempo in quanto si reciti un credo.
9
Di piglio.
10
Ti
sfiguro.
1486. La sposa
1
ricca
Hai visto si
2
cche ggala? di’, l’hai vista
la pidocchia-arifatta,
3
eh Furtunata,
come se n’è vvenuta impimpinata
4
guasi
5
nun fussi mojje d’un artista?
Vesta de seta, zinàl
6
de bbatista,
corpetto de villuto, scamisciata,
7
france,
8
ricami, robba smerlettata,
perle, anelli, pennenti d’ammattista...
9
Pe una visita a nnoi la sciscia-ssciapa
10
s’è mmessa a sfoderà
11
ttutta sta fiera,
manco si avessi d’annà a ttrova
12
er Papa!
Ôh, cco ttanta arbaggía
13
de fasse vede,
14
potería ricordasse
15
de quann’era
piena de stracci e ssenza scarpe in piede.
13 febbraio 1835
1
Pronunziato colla o stretta.
2
Se.
3
Si dice così delle persone salite da misera a prospero stato.
4
Azzimata.
5
Quasi.
6
Grembiule.
7
Gala della camicia.
8
Frangie.
9
Pendenti di ametista.
10
Cicia-sciapa: sciocca.
11
A sfoggiare.
12
Neppure se
avesse da andare a trovare.
13
Albagia.
14
Di farsi vedere.
15
Potrebbe ricordarsi.
1487. Ménica dall’ortolano
Du’ bbaiocchi d’andivia.
1
E cche mme dai?
Quattro pieducci soli? Ôh ssanta fede!
Ma ssei matto davero o mme sce
2
fai?
Questa, capata
3
ch’è, mmanco se
4
vede.
Tu stasera vòi famme
5
passà gguai
co la padrona. Ebbè? ccosa succede?
Te l’aribbutto llí, Ggiachemo, sai?
Presto, a tté, ttira via, ggiú, un antro piede.
Da scerto temp’in qua, ppropio, sor coso,
ve sete messo sur caval d’Orlanno:
come ve sete fatto carestoso!
Varda
6
cqui ddu’ bbaiocchi d’anzalata!
7
E aringrazziamo er cefolo:
8
quest’anno
l’erba è ddiventat’oro, è ddiventata.
19 febbraio 1835
1
Invidia.
2
Mi ci.
3
Mondata.
4
Si.
5
Vuoi farmi.
6
Guarda.
7
Insalata.
8
Ringraziamo il cielo: modo scherzoso.
1488. La Mamma prudente
Ma fijja mia, ma indove sta er decoro?
Come! er zor Conte te porta un anello,
e ttu jje vai a mmette
1
in ner cervello
la sofisticheria che cc’è ppoc’oro!
P’er primo ggiorno t’ha da dà un tesoro?
Ttu ffatte arregolà.
2
Mmó imberta
3
quello,
e un’antra vorta l’averai ppiú bbello.
Se sa,
4
ttutte le cose ar tempo lòro.
Ggià cche tte manna
5
Iddio sto pezzo d’onto,
6
fijja mia, fa’ la parte che tte tocca:
nun te lo disgustà, ttiettel’acconto.
Er ricusà rrigali è aggí da ssciocca.
Pijjelo, Tuta:
7
nun je fà st’affronto.
Caval donato nun ze guarda in bocca.
8
23 febbraio 1835
1
Mettere.
2
Fatti regolare.
3
«Intasca, afferra» e che so io.
4
Si sa.
5
Manda.
6
Balordo.
7
Gertrude.
8
Proverbio.
1489. Li studi der padroncino
Si
1
er padroncino studia!? È una faccenna
d’arimane intontiti,
2
d’arimane.
Tira a schiattasse:
3
fa un studià da cane:
apprica tanto, ch’è una cosa orrenna.
Nun c’è antro pe llui che llibbro e ppenna,
come si
1
ar monno j’amancassi
4
er pane.
Sta a ttavolino le ggiornate sane;
e ss’è ccopiato ggià Pparis e Vvienna.
5
Quarche vvorta er Perfetto
6
der Colleggio
je sciarríva
7
a llevà li frutti e ’r vino.
E llui s’incoccia
8
e vvò studià ppiú ppeggio.
Je lo dico pur’io quanno je porto
la mutatura: «È mmejjo, siggnorino,
’n asino vivo c’un dottore morto».
25 febbraio 1835
1
Se.
2
Da rimanere attoniti.
3
A schiattarsi: a schiattare.
4
Gli mancasse.
5
Vecchio romanzo notissimo alla plebe.
6
Prefetto.
7
Gli ci arriva.
8
Si ostina.
1490. Li du’ ordini
Er zalumaro ha ttrovo in d’un libbrone
che un certo sor Dimenico Sgumano
1
e un certo sor Francesco Bennardone
2
quello spaggnolo e cquest’antro itajjano,
volenno arzà ddu’ nove
3
riliggione,
er primo se
4
vistí ddomenicano,
mentre er ziconno se legò un cordone
su la panza e sse
4
fesce francescano.
Seiscent’anni e un po’ ppiú ggià ssò ppassati,
che ppe ggrazzia der primo e dder ziconno
sto par de fraterie cacheno frati.
Seiscent’anni! Oh vvedete quant’è antica,
oh immagginate quant’è sparza ar mondo
la vojja de campà ssenza fatica!
27 febbraio 1835
1
Guzman, cognome di S. Domenico.
2
Bernardone, cognome di S. Francesco.
3
Nuove.
4
Si.
1491. Tutto cambia
La causa de sti guai tiettelo
1
a mmente,
nun è la guerra, nun zò le staggione:
tutto ne viè cch’er zecolo presente
nun conossce ppiú un cazzo
2
riliggione.
Oggni quarvorta un Papa anticamente
ussciva da Palazzo in carrozzone,
se
3
sentiveno turbini de ggente
dí:
4
«Ssanto Padre, la bbenedizzione».
Ma a sti tempi che cqua
5
cchi sse ne cura?
chi jje la chiede adesso? Tutt’assieme,
quattro vecchi, e ssí e nnò cquarche ccratura.
6
Co ttutto questo, io noto la costanza
der povero sant’omo, che sse
7
spreme
a spaccà ccrosce pe ssarvà ll’usanza.
25 marzo 1835
1
Tientelo.
2
Affatto.
3
Si.
4
Dire.
5
A questi tempi qua.
6
Creatura.
7
Si.
1492. L’ottavario der catachisimo
Come diavolo mai! pare un distino!
che tt’abbi da vení sta fantasia,
sto gran bisoggno d’un bicchier de vino
propio quann’è inibbita l’osteria!
Lo capisco che er beve un fujjettino
nun ze pò ddí a rrigore un’eresia.
Ma sti ggiorni è un giudío chi ha ssete, infino
che nun zente sonà lla vemmaria.
Er Papa sa cquer che sse fa, ffijjolo,
e nun deve soffrí cch’er catachisto
parli ar muro e se sfiati da sé ssolo.
Serrato indove se bbeve e sse maggna,
pe rrabbia d’ozzio se va in chiesa; e Cristo
sempre quarche ffiletto
1
lo guadaggna.
30 marzo 1835
1
Vantaggio poco sperato o poco meritato.
1493. Er zoffraggio de la vedova
Dico: «Nina,
1
che ffai llí appied’ar letto,
coll’occhi in faccia a ttu’ marito morto?».
Disce: «Dico er rosario, poveretto,
pe mmannajje
2
un tantino de conforto».
Dico: «Sentime, Nina: io te l’ho ddetto
pe ccausa de l’amore che tte porto,
ché ssi
3
dduri sta vita, tra un mesetto
tu ffaiun’antra
4
mancia ar beccamorto.
Lassa, dico, li morti indove stanno,
e ppenza ch’er compare, ch’è ssincero,
te guarda de bbon’occhio da quarc’anno».
Cqua llei me se vortò: «Cchi? Ttanislavo?».
5
disce,«lo so, Mmitirda;
6
e cquant’è vvero
sta corona de Ddio mó cce penzavo».
30 marzo 1835
1
Caterina.
2
Mondargli.
3
Se.
4
Altra.
5
Stanislao.
6
Matilde.
1494. Tòta dar mercante
Dateme un telo de muerre onnato
1
d’una canna, pe ffà ’na pollacchina
come le scarpe che ss’è mmessa Nina
la dimenica in arbis c’ha sposato.
Eppoi vorebbe doppo una ventina
de parmi de robbetta a bbommercato
de gran figura cor fonno operato
pe ffà ’na bbuttasú de bbammascina.
Eppoi vorebbe puro quarche pparmo
de fittuccia compaggna arta du’ dita
com’e cquella c’ho vvista a Ppiedemarmo.
2
Ôh, eppoi... ch’edè?
3
nun m’avete capita?
E io bbestia è da un’ora che mme scarmo!
4
Oh annate annate a vvenne
5
l’acquavita.
30 marzo 1835
1
Moerra ondata.
2
Strada di Roma, che da un piede colossale di marmo, situato presso un cantone, è detta di Piè-di-
marmo.
3
Che è ?
4
Mi scalmo, direbbe un cittadino del buon ceto. Pare voce derivata dal verbo scarmare.
5
Andate a
vendere, ecc.
1495. La spiegazzione de li Re
Li Re a bbon conto sò nne le nazzione
come la testa sopr’ar corpo umano;
che cquanno disce lei le su’ raggione
è ccome l’abbi dette er corpo sano.
Ce vò un popolo matto in ner cestone,
1
pe ccrede de campà ssenza sovrano.
Dunque oggnuno se tienghi er zu’ padrone,
e aringrazziamo Iddio cor core in mano.
Quello llassú ffa tutto co pprudenza;
e mmentre che li Re llui l’ha ccreati
vò ddí cch’er monno nun pò stanne senza.
Ecco perché li Re, ssor Tisifonte,
2
nascheno tutti bbelli e ppreparati
co la corona ggià incarnita in fronte.
31 marzo 1835
1
Nella testa.
2
Tesifonte qui è preso per nome generico di «giacobbino». Così volle essere chiamato un Barbèri,
quando, all’epoca della Repubblica gallo-romana, sul finire del passato secolo, si sbattezzò solennemente in piazza
coram-populo.
1496. Li Tesorieri
Tra ttanti tesorieri, padron Titta,
c’hanno in bocca l’onore e lo sparaggno,
povere casse! le vedo e le piaggno
e nnun ze sa a cchi ddàjje la man dritta.
Qualunque che ne viè, cqui annamo ar baggno
pe le dojje
1
e la Cammera è ppiú gguitta.
2
Nun ciamanca
3
pell’urtima sconfitta
c’a la zecca sce
4
bbattino lo staggno.
’Ggni tesoriere caccia fora un banno
pieno de mari e mmonti; e intanto, amico,
chi jj’avanza, riscode
5
anno penanno.
6
Lòro soli sò cquelli ar fin der gioco
che ffanno goffo,
7
p’er proverbio antico
che pparla de la lesca
8
accant’ar foco.
31 marzo 1835
1
Andare al bagno per le doglie: cercar bene e trovar peggio.
2
In senso di povera.
3
Non ci manca.
4
Ci.
5
Riscuote.
6
Anno per anno: modo equivoco popolare, consistente nel giuoco della parola penando, che dalla plebe si pronunzia
penanno.
7
Far goffo: tirar tutto.
8
Dell’esca.
1497. ’Na precavuzzione
Pe strada oggni bbaggnato c’ha ffigura
d’un fonno de tinozzo o dd’un rotino,
quello, Ggiuvanni mio, nun è mmai vino,
ma acqua, e ppe lo ppiú, ppisscio addrittura.
Tu da quer logo llí scanzete, Nino,
perché appresso ar brodetto sc’è ppavura
che ppossi vení ggiú la ssciacquatura
e azzuppatte simmai
1
com’un purcino.
Nun fidatte cor dí cc’appunto er zito
dov’hanno ggià vvotato l’urinale
è ssempre ppiú ssicuro der pulito.
Er risico, lo so, sta dda pertutto;
ma intanto è ccerto che llí cc’è un zeggnale
che nun ze trova sur terreno assciutto.
1° aprile 1835
1
E azzupparti a buon bisogno.
1498. La bbona stella
Fra ttutti quanti l’ommini assortati
Papa Grigorio sce pò ffà er campione.
Nassce fijjo d’un povero cojjone,
e vva a ddà llègge a un ordine de frati!
Viè a Rroma a lleccà er culo a li prelati,
e jje zompeno
1
in testa tre ccorone!
Schioppa,
2
cristo de ddio, ’na ribbejjone
curre er froscio,
3
e li guai sò arimediati!
Levatose quell’osso da la gola,
dà mmazzolate de mano maestra
e la ggente je bbascia
4
la mazzola!
D’inverno, a mmezza notte, senza lume,
voi bbuttatelo ggiú dda la finestra
e ttrova sotto un cusscinon de piume.
1° aprile 1835
1
Gli saltano.
2
Scoppia.
3
Frocio: tedesco.
4
Bacia.
1499. Er Papa frate
Er Papa tra li frati sce s’ingrassa,
nò pperché ss’aricordi er temp’antico:
cor mutà de vardrappa,
1
Federico,
se
2
muta er core, e l’amiscizzia passa.
Nun dico ggià cche ne faría
3
man bassa,
si ddassi
4
retta ar genio suo, ma ddico
che llui l’imbecca e jje se mostra amico,
perc’hanno in mano er fil de la matassa.
Lui li ninna, li coccola
5
e li cova
e cce va a nnozze in ner leccajje er pelo,
perché er tenelli da la sua je ggiova.
È ssempre bbene tené acceso er zelo
co cquarche smorfia e bbonagrazzia nova
ne le bbocche che spiegheno er Vangelo.
2 aprile 1835
1
Gualdrappa.
2
Si.
3
Farebbe.
4
Se dasse.
5
Coccolare: far moine.
1500. Li crediti
Tristo ar monno chi avanza, Crementina.
È un anno che cquer gruggno da sassate
de don Bruno ha da damme
1
una diescina
de scudi pe ttre rrubbie de patate.
Co ssalille
2
oggni ggiorno e oggni matina,
j’ho llograte le scale, j’ho llograte.
«Dorme, pranza, nun c’e; sta a la dottrina...».
E ssempre sta canzona: «Aritornate».
N’ariviengo mó ppropio co ste gamme,
perc’oggi ar fine er zanto sascerdote
m’aveva aripromesso de pagamme!
Sai cosa ha ffatto dimme
3
er zor don Bruno?
Ch’è ttanto affaccennato in ner riscote
che nun ha ttempo de pagà ggnisuno.
3 aprile 1835
1
Darmi.
2
Con salirle.
3
Dirmi.
1501. In vino veribus
Senti questa ch’è nnova. Oggi er curato
ch’è vvenuto ar rifresco der battesimo,
doppo unisci bbicchieri, ar dodiscesimo
ch’er cervello je s’era ariscallato,
ha ddetto: «Oh ccazzo! A un prete, perch’è nnato
in latino, è ppermesso er puttanesimo,
e ll’ammojjasse nò! Cquello medesimo
che ppe un Grego è vvertú, ppe mmé è ppeccato!».
E sseguitava a ddí: «Cchi mme lo spiega
st’indovinello cqua? cchi lo pò ssciojje?
nemmanco san Giuseppe co la sega.
Cosa sc’entra er parlà cquanno se
1
frega?
Che ddiferenza sc’è rriguardo a mmojje
da la freggna latina a cquella grega?».
3 aprile 1835
1
Se.
1502. La distribbuzzion de li titoli
Li medichi se
1
dicheno dottori:
li mozzini
2
hanno er nome d’avocati:
li ricchi d’oggni razza sò ssiggnori:
li preti je va er titolo d’abbati:
l’arcivescovi, vescovi e pprelati
se chiameno eccellenze e monziggnori:
li cardinali poi sò intitolati
un po’ mminenze e un po’ ssagri lettori.
3
Perché llettori? Che ddimanda ssciapa!
Perché li cardinali hanno la lègge
de chiudese
4
in concrave e llègge
5
er Papa.
Lègge, ciovè ccr: cché staría
6
fresco
chi lleggessi
7
in ner Papa! E cche vvòi lègge?
8
Quarche ccojjoneria scritta in todesco?
3 aprile 1835
1
Si.
2
Mozzini, mozzorecchi: nomi che si danno a legulej.
3
Lettori, per «elettori».
4
Di chiudersi.
5
Leggere, per
«eleggere».
6
Starebbe.
7
Leggesse.
8
Che vuoi leggere.
1503. Er Vicario novo
Co sto Vicario novo, ar Vicariato
tristo mó cchi cc’incappa, Gurgumella.
Oh adesso se pò ddí dda la padella
che ssem’iti a la bbrascia,
1
dio sagrato!
Ar meno, da quell’antro
2
ch’è ccrepato,
Si
3
cc’era d’aggiustà cquarche cquarella,
4
sce
5
mannavi tu’ mojje o ttu’ sorella,
e scontavi peccato pe ppeccato.
Quello, bbeata sia l’anima sua,
sapeva serrà un occhio a ttemp’e lloco;
ma cquesto li spalanca tutt’e ddua!
Ccusí Ccristo mó ppropio lo scecassi
6
cor zor Grigorio, che mmette un bizzoco
drent’ar maneggio de l’affari grassi.
3 aprile 1835
1
Si può dire che dalla padella siamo iti alla bragia.
2
Altro.
3
Se.
4
Quercia.
5
Ci.
6
Cecasse.
1504. Guerra fra ccani
Bbe’, ho ccapito, lo so: er Governatore
litica cor Vicario; e Ssu’ Eminenza
cerca de falla
1
in barba a Ssu’ Eccellenza.
E ttu ppe cquesto te sciaffanni
2
er core?
Perché uno vò ssarva la cusscenza
mentre quell’antro
3
vò ssarvo l’onore
sò ccasi da provà ttanto dolore?
Se
4
vede propio che nun hai sperienza.
Io sento che ppe mmé nnun me sciaccoro.
5
Lasseli fà, llasseli fà, ppe ccristo,
che sse
4
sfasscino er gruggno tra de lòro.
Che sse
4
disce dar popolo romano
ner trovà ccani che sse
4
danno er pisto?
6
«Pijjelo sú, ppijjelo sú, Ggiordano».
4 aprile 1835
1
Farla.
2
Ti ci affanni.
3
Altro.
4
Si.
5
Non mi ci accoro.
6
Si danno il pisto: si battono.
1505. La crausura de le Moniche
Oh cche ppurcinellata è sta crausura!
Rote, grate, rippari d’oggni sorte,
catenacci, ferrate e inchiavatura
ppiú cc’a li ladri condannati a mmorte;
e cco ttutta sta gran caricatura
pe ttené cchiuse quattro bbocche storte,
bbussa un Eminentissimo, e addrittura
je vedi spalancà ttutte le porte.
Ah, ddunque nun è omo un Cardinale?
Forzi
1
omo nun zarà, mma mmaschio è ccerto,
perché ne tiè in possesso er capitale.
Nun zò de carn’e dd’ossa st’angeletti
pe vvia che la lavoreno ar cuperto?
Eh, ppotessi
2
parlà ccasa Projetti!...
3
4 aprile 1835
1
Forse.
2
Potesse.
3
La casa de’ projetti.
1506. Er galateo cristiano
Sonetti 2
Una vorta, ar passà d’un Cardinale
in qualunque carrozza co l’ombrello,
le ggente s’affermaveno in du’ ale,
e ttutti je cacciaveno
1
er cappello.
E Ssu’ Eminenza, ar vede
2
quer zeggnale
de stima, s’affacciava a lo sportello,
e ssalutava co rrispetto uguale
er granne e ’r ciuco,
3
er ricco e ’r poverello.
Piano piano però lli ggiacubbini
nimmichi a mmorte de le bbone usanze,
ssò rriussciti a llevà ppuro
4
st’inchini.
Cos’è ssuccesso? In grazzia de ste panze
5
oggi er Zagro Colleggio è a li confini
de nun zapé ppiú un cazzo
6
le creanze.
5 aprile 1835
1
Si fermavano.
2
Al vedere.
3
Il grande e il piccolo.
4
Pure.
5
Panza, panzanera: nomi di spregio a gente abbietta.
6
Non
saper più affatto.
1507. Er galateo cristiano
Incontrai jermatina a Vvia Leccosa
1
un Cardinale drento a un carrozzino,
che, ssi
2
nun fussi stato l’ombrellino,
lo pijjavi p’er leggno d’una sposa.
3
Ar vedemmelo llí, ppe ffà una cosa,
je vorzi
4
dunque dedicà un inchino,
e mmessame la mano ar berettino
piegai er collo e ccaricai la dosa.
E acciò la conveggnenza nun ze sperda
in smorfie, ciaggiontai
5
ccusí a la lesta:
«Je piasce, Eminentissimo, la mmerda?».
Appena Su’ Eminenza se fu accorta
der comprimento mio, cacciò la testa
e mme fesce de sí ppiú dd’una vorta.
5 aprile 1835
1
Strada di Roma, presso il porto di Ripetta nel Campo Marzio, dove pare che il Tevere anticamente formasse gli
stagni di Terento. (Vedi Ovidio, Fast. lib. I).
2
Se.
3
Spósa, coll’o stretto.
4
Gli volli.
5
Ci aggiunsi.
1508. Er zucchetto der Decàn de Rota
1
Vienuto appena a Mmonziggnor Decane
er zucchetto, a Ssan Pietro,
2
in piena Rota,
3
l’antri Uditori, tutta ggente ssciota,
4
je se sò mmessi a sbatteje le mane.
Chi zzompava ar zonà de le campane:
chi strillava: «Per oggi nun ze vota»:
chi ddimannava: «Se sa ggnente in nota
chi cce sia pe la ssedia c’arimane?».
Poi tutti: «Evviva er nostro Minentissimo!».
E cquello arisponneva: «Indeggno, indeggno».
E cquell’antri:
5
«Dignissimo dignissimo».
Poi Su’ Eminenza, co cquell’antri dietro,
è sscento
6
pe le scale, è entrato in leggno,
e ha vvortato le natiche a Ssan Pietro.
6 aprile 1835
1
Il decanato del tribunale della Rota apre la via immediata alla porpora.
2
Il tribunale risiede in Vaticano.
3
Il
Concistoro per la creazione de’ Cardinali si tiene il lunedì mattina. Contemporaneamente è adunato nelle sue sale
anche il tribunale della Rota, il quale giudica in tutti i lunedì e i venerdì, meno i lunghi tempi feriali. Accaduta la
elezione cardinalizia, in cui sia nominato il Decano rotale, gli è portato il zucchetto rosso nel tribunale, e il suo arrivo
sospende per quel giorno la giudicatura.
4
Semplice, in senso ironico.
5
Altri.
6
Disceso.
1509. Li ggiochi d’Argentina
1
Jerzera, a la commedia,
2
quer zor Pianca
che ccammia er vino in acqua e ll’acqua in vino
e vve fà pparé omo un burattino,
er tutto pe vvertú de maggía bbianca,
volenno quarche oggetto piccinino
da fà sparí, cco la su’ faccia franca
se vortò da un parchetto ammanimanca,
e ll’annò a cchiede ar Prencipe Piommino.
3
S’ha da sapé cch’er Prencipe, un po’ avanti,
nun vorze
4
fà una somma ar giucatore,
pe ccui sce lo ssciusciòrno
5
tutti quanti.
Dunque a st’antra
6
dimanna, che ffu cquesta:
«Me dia quarcosa piccola, siggnore»,
la ggente je strillò: «Ddajje la testa».
6 aprile 1835
1
Ne’ venerdì del carnevale 1834 in 35 al Teatro di Torre-Argentina il giuocoliere Carlo Pianca dette una serie di
ricreazioni fisiche e di destrezza.
2
Commedia si prende e si dice dal volgo per teatro.
3
Il primogenito del principe di
Piombino, don Antonio Duca di Sora.
4
Non volle.
5
Sciusciare: fare con la bocca, ad altrui scorno, quel suono indicato
benissimo dal suono della prima sillaba di questo verbo.
6
Altra.
1510. Le scuse de Ghetto
In questo io penzo come penzi tu:
io l’odio li ggiudii peggio de te;
perché nun zò ccattolichi, e pperc
messeno
1
in crosce er Redentor Gesú.
Chi aripescassi
2
poi dar tett’in giú
3
drento a la lègge vecchia de Mosè,
disce l’ebbreo che cquarche ccosa sc’è
ppe scusà le su’ dodisci tribbú.
Ddefatti, disce lui, Cristo partí
dda casa sua, e sse ne venne cqua
cco l’idea de quer zanto venardí.
Ddunque, seguita a ddí Bbaruccabbà,
subbito che
4
llui venne pe mmorí,
cquarchiduno
5
l’aveva da ammazzà.
6 aprile 1835
1
Misero.
2
Ripescasse.
3
Cioè: secondo le viste umane.
4
Subitoché: postoché.
5
Qualcuno.
1511. Tristo a cchi ttocca
Nissuno ve l’impuggna, sor Tobbia,
c’a Rroma li prelati e ccardinali,
un po’ mmeno o un po’ ppiú, ssò
1
ccapitali
da ffasse er zeggno
2
de la crosce e vvia.
Puro nun zò
1
li furbi prencipali,
e sse
3
dà cchi li passa in birberia.
Diteme un po’ cchi ha vvisto mai gginía
4
peggio de la gginía de li curiali.
Ciànno
5
inzino un oremus
6
che ss’addopra
pe cchiede
7
a Ddio de disturbà la pasce
de le famijje e gguadaggnacce
8
sopra.
Quest’è un punto pe mmé bbell’e disciso
9
che un par che sse ne sarvi sia capasce
de mette
10
sottosopra er paradiso.
7 aprile 1835
1
Sono.
2
Da farsi, incontrandoli, il segno, ecc.
3
Si.
4
Genia.
5
Ci hanno: hanno.
6
«Suscita. Domine, lites et controversias
inter volentes et malesolventes, etc.».
7
Per chiedere.
8
Guadagnarci.
9
Deciso.
10
Di mettere.
1512. Un conzijjo da amico
Santo Padre, che ccosa ve fregate
1
co ttutti sti quadrini che spennete?
Dolori co le mmànnole
2
attorrate
ve possino vení ssi nnu
3
l’avete.
Ve pare questa cqua vvita da frate?
Ve pare questa cqua vvita da prete?
Eppoi fate er piaggnone: eppoi sperate
che vve possino annà le cose quiete.
Le ggente mica poi sò cceche e mmute;
e vve faranno avé strette infinite,
peggio de quelle che ggià avete avute.
Che ssciupi
4
una siggnora c’ha la dote,
pascenza;
5
ma li vostri, lo capite?,
nun zò sfarzi da Sommo Sascerdote.
7 aprile 1835
1
V’imbrogliate.
2
Mandorle.
3
Se non.
4
Scialacqui.
5
Pazienza.
1513. La ggiustizzia der Monno
La ggiustizzia è pp’er povero, Crestina.
1
Le condanne pe llui sò ssempre pronte.
Sai la miseria che ttiè scritto in fronte?
Questa è ccarne da bboja; e cc’indovina.
N’averò vvisti annà a la ghijjottina
da venti o ttrenta, tra er Popolo e Pponte.
2
Ce fussi stato un cavajjere, un conte,
un monziggnore, una perzona fina!
Quantunque, fijja, a rripenzacce
3
sopra,
povero Papa, nun ha ttanto torto
si co cquelli er marraccio
4
nu l’addopra.
Forzi
5
lui voría fajjela
6
la festa;
ma bbuttería la spesa de straporto:
7
se pò gghijjottinà cchi nun ha ttesta?
8 aprile 1835
1
Cristina.
2
Piazze sulle quali sino agli ultimi anni si è eseguita la giustizia. Ora le esecuzioni han luogo in Via de
Cerchi, che corre parallela al lato esterno settentrionale dell’antico Circo Massimo, nella valle fra l’Aventino e il
Palatino, bagnata una volta dal Velabro maggiore. Ed ivi ben conviene la punizione de’ misfatti dove fu da’ Romani
compiuto il primo delitto: il ratto delle Sabine.
3
Ripensarci.
4
Scure.
5
Forse.
6
Fargliela.
7
Trasporto.
1514. La morte der zor Meo
Sí, cquello che pportava li capelli
ggiú pp’er gruggno e la mosca ar barbozzale,
1
er pittor de Trestevere, Pinelli,
2
è ccrepato pe ccausa d’un bucale.
3
V’abbasti questo, ch’er dottor Mucchielli,
4
vista ch’ebbe la mmerda in ner pitale,
cominciò a storce
5
e a mmasticalla male,
6
eppoi disse: «Intimate li fratelli».
7
Che aveva da lassà? Ppe ffà bbisboccia
8
ner gabbionaccio
9
de Padron Torrone,
10
è mmorto co ttre ppavoli in zaccoccia.
11
E ll’anima? Era ggià scummunicato,
12
ha cchiuso l’occhi senza confessione...
13
Cosa ne dite? Se
14
sarà ssarvato?
9 aprile 1835
1
Mento.
2
Bartolommeo Pinelli, nativo di Trastevere, incisore, pittore e scultore, il giorno di aprile 1835, nella età
di anni 54. Nella sera antecedente, aveva presa all’osteria la sua ultima ubriacatura.
3
Boccale.
4
Alcuni del popolo
credono che il medico di Pinelli fosse costui, noto in sua gioventù per poesie romanesche che andava recitando per gli
spedali in occasione di pubbliche dimostrazioni anatomiche degli studenti di chirurgia: ma fu realmente un dottor
Gregorio Riccardi.
5
A torcere il grifo in aria di dubitazione.
6
Masticarla male, in senso di «presagir male».
7
Coloro
che convogliano i morti alla sepoltura.
8
Per far tempone.
9
Il Gabbione, nome della osteria dove il Pinelli consumava
tutti i suoi guadagni mangiando e bevendo e dando a bere e mangiare. Havvi sú la insegna di una gabbia con merlo.
10
Torrone, nome dell’oste.
11
Circostanza storica. Il funerale fu fatto con largizioni spontanee di alcuni ammiratori della
di lui eccellenza nell’arte. Molti artisti, vestiti a lutto, e quali con torchi, quali con ramoscelli di cipresso in mano, lo
accompagnarono alla tomba nella chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio a Trevi.
12
Nel giorno di san Bartolommeo
dell’anno 1834, il nome del nostro Bartolommeo Pinelli fu pubblicato in S. Bartolommeo all’Isola Tiberina sulla
solita lista degl’interdetti per inadempimento al precetto pasquale. Avendovi egli letto esserglisi attribuita la qualifica
di miniatore, andò in sacristia ad avvertire che Bartolommeo Pinelli era incisore, onde si correggesse l’equivoco
sull’identità della persona.
13
Alla intimazione de’ sacramenti, volle l’infermo essere lasciato qualche ora in pace, per
riflettere, come egli disse, ai suoi casi. Il parroco lo compiacque, ma ritornato al letto di lui lo trovò in agonia! Si narra
però che il moribondo corrispondesse ad una stretta di mano del prete. Questa circostanza deve aver fruttato al corpo
la sepoltura ecclesiastica e all’anima la gloria del paradiso.
14
Si.
1515. Li padroni de Roma
Eccheve
1
li padroni c’a nnoi guitti
2
ce
3
cuscineno
4
mejjo de li cochi,
ché spesso sce
3
trovamo tra ddu’ fochi
e da tutte le parte semo fritti.
Prima viè er Papa a conzolà l’affritti:
doppo, li Cardinali, e nnun zò ppochi:
poi viè cquell’antra fila de bbizzochi
de li Prelati, a mmette fora editti.
Dietro a li Cardinali e a li Prelati
viengheno a ffà le carte sti Margutti
de capi de le regole de frati.
Poi viengheno a ttajjà la testa ar toro
l’Immassciatori,
5
e ppoi prima de tutti
le donne bbelle e li mariti lòro.
14 aprile 1835
1
Eccovi.
2
Poverelli.
3
Ci.
4
Cucinano.
5
Ambasciadori.
1516. Un’erlíquia
1
miracolosa
Questo io lo so cche ttra li pezzi rari
d’erliquie che li Papi hanno provisto
e ttiè in conzeggna Monziggnor Zagristo
coll’utentiche drento all’erliquiari,
sc’è er prepuzzio c’aveva Ggesucristo
coll’antri su’ membrucci nescessari,
ch’è un erliquione che ssopra all’artari
pò ccacà in faccia ar mejjo che ss’è vvisto.
E nun zerve de dí, ccaro sor Muzzio,
che cc’è ppiú d’un paese che ss’avvanta
2
d’avé er tesoro der zanto prepuzzio.
Fede, sor Muzzio mio, fede bbisoggna.
Ebbè? mmagaraddio fussino ottanta?
Je sarà aricressciuto com’e ll’oggna.
3
14 aprile 1835
1
Reliquia.
2
Si vanta.
3
Le unghie.
1517. Er Padraccio
Vestí
1
li fiijj? lui! Santa pascenza!
2
Che cc’entra lui co li carzoni rotti?
A llui j’abbasta d’annà a li ridotti
a ggiucà a zzecchinetto; ecco a cche ppenza.
Ebbè, cquanno ho strillato? me dà udienza
com’er Papa dà rretta a li sciarlotti.
3
Bbisoggna che l’abbíla
4
io me l’iggnotti;
5
nun c’è antro da fà, ssora Vincenza.
Tutto er mi’ studio è ppregà Iddio che vvinchi.
6
Nò cc’allora sce
7
speri quarc’ajjuto
ma ppe avè mmeno carci in ne li stinchi.
Quela bbestiaccia io la conosco ar pelo;
e quanno torna a ccasa c’ha pperduto,
sora Vincenza mia, òprete scelo!
8
14 aprile 1835
1
Vestire.
2
Santa pazienza.
3
Ciarlòtti, specie di uccelli. Questo è un proverbio popolare.
4
La bile.
5
Me la inghiottisca,
me la inghiotta.
6
Vinca.
7
Ci.
8
Apriti cielo!, cioè: «che rovina!, che inferno!», ecc.
1518. Le cappelle papale
La cappella papale ch’è ssuccessa
domenica passata a la Sistina,
pe tutta la quaresima è ll’istessa
com’è stata domenic’a mmatina.
Sempre er Papa viè ffora in portantina:
sempre quarche Eminenza canta messa;
e cquello che ppiú a ttutti j’interressa
sc’è ssempre la su’ predica latina.
Li Cardinali sce
1
stanno ariccorti
2
cor barbozzo inchiodato sur breviario
com’e ttanti cadaveri de morti.
E nun ve danno ppiú sseggno de vita
sin che nun je s’accosta er caudatario
a ddijje: «Eminentissimo, è ffinita».
14 aprile 1835
1
Ci.
2
Raccolti.
1519. Er zeporcro in capo-lista
Chi vvò ggode
1
un zeporcro stammatina
che tt’arillegri e cche tte slarghi er core,
bbisoggna annà a Ppalazzo, e avé l’onore
d’èsse in farde
2
e dd’entrà a la Pavolina.
3
Che pparadis’in terra! che sprennore!
4
quante cannele!
5
e ttutta scera fina.
Pare un inferno! E tt’assicuro, Nina,
che cce potrebbe stà un Imperatore.
Io sciappizzai
6
l’antr’anno de sti tempi,
e mm’aricordo sempre d’avé ddetto
che sti sfarzi che cqua
7
ssò bbrutti esempi.
Per via ch’er Gesucristo de le cchiese
che sse vede trattà da poveretto,
pò ssartà in bestia e bbuggiarà
8
er paese.
16 aprile 1835
1
Godere.
2
D’essere in falda.
3
La Cappella Paolina.
4
Splendore.
5
Candele.
6
Ci andai, ci accorsi.
7
Sfarzi qua.
8
Rovinare.
1520. Er giuveddí e vvenardí ssanto
Sò ppoche le funzione papaline:
nun basteno la scena
1
e la lavanna.
Pe ffa le cose com’Iddio commanna
2
pare c’ar Papa tra ste du’ matine
bbisoggnerebbe métteje una canna
in mano e in testa una coron
3
de spine:
poi fraggellallo a la colonna, e infine
proscessallo e spidijje la condanna.
Disce: «Ma a Rroma nun ce sta Ccarvario».
Si
4
cconzisteno cqui ttutti li mali
s’inarbera la crosce a Mmonte-Mario.
E llassú oggn’anno, a li tempi pasquali,
ce s’averebbe da inchiodà un Vicario
de Cristo, e accanto a llui du’ Cardinali.
16 aprile 1835
1
Cena.
2
In regola.
3
Apocope usatissima da’ Romaneschi.
4
Se.
1521. Nun c’è strada de mezzo
Er Papa dorme da una man de notte
1
nov’ora appena, e ss’arza, poverello,
cor culo pe l’inzú,
2
cco ccerte fotte
3
da tajjalle a grostini cor cortello;
perché sto par de fijji de miggnotte
4
ch’è in zur proscinto de dajje er cappello,
l’ha scuperti ppiú lladri che mmarmotte
e mmó sta ttra l’ancudine e ’r martello.
Si
5
li lassa in ner posto c’hanno adesso,
va a rrisico che ll’antra prelatura
specchiannose in sti dua facci l’istesso.
Si
5
ppoi l’incardinala, ha ggran pavura
c’un giorno uno de lòro entri ar possesso
de la Cchiesa, e la manni
6
in raschiatura.
1835
1
Da cinque notti.
2
Di strano umore.
3
Ugge.
4
Bagasce.
5
Se.
6
Mandi.
1522. La padrona bbizzoca
L’osso-duro de casa è ddonna Teta,
la sorella ppiú ggranne der padrone,
che ssagrata
1
e sse
2
mozzica le deta
3
si
4
la ggente nun fa ll’opere bbone.
Disce: «Set’ito a mmessa oggi, Larione?».
5
Dico: «Sí». «E ddove?» «A Ssan Zimon Profeta».
«A cche ora?» «Un po’ ddoppo er campanone».
«E de che ccolor’era la pianeta?»
Allora me zomporno,
6
e jj’arispose:
7
«Ôh, ssa cche jj’ho da dí? Cquann’io sto a mmessa
sento messa e nun bado a ttante cose.
Saría
8
bbella ch’er prete da l’artare
scutrinassi
9
la robba che ss’è mmessa
la ggente! oggnuno va ccome je pare».
16 aprile 1835
1
Bestemmia.
2
Si.
3
Le dita.
4
Se.
5
Ilarione.
6
Mi saltarono.
7
Le risposi.
8
Sarebbe.
9
Scrutinasse: scrutasse.
1523. Er mette da parte
1
Je le do ttutte vinte! È ffijjo solo,
cerco d’accontentallo come posso.
Disce: «Mamma, me fate er dindarolo?».
2
E io ’ggni festa j’arigalo un grosso.
Me sce spropio,
3
lo so, mma mme conzolo
ch’è ttanta robba che jje metto addosso.
E llui ggià ffa la mira a un farajolo
cor castracane
4
e ’r pistaggnino rosso.
Li regazzi, se sa, da piccinini
s’ha da avvezzalli de tené da conto
e ffajje pij amore a li quadrini.
Ccusí, cquanno sò ppoi ommini grandi,
nun sciupeno,
5
e a ccosto anche d’un affronto
nun te danno un bajocco si
6
li scanni.
18 aprile 1835
1
Il mettere a parte.
2
Salvadanaio.
3
Mi ci sproprio: mi ci rovino.
4
Pelo di Astracan, detto a Roma astracane.
5
Non
dissipano.
6
Se.
1524. L’oste
Sonetti 2
Lodat’Iddio! sto porco de diggiuno
ce s’è llevato arfine da le coste.
Quer fà ssempre seguenzia,
1
sor don Bruno,
je pare usanza d’annà a ggenio a un oste?
Pe cquarantasei ggiorni! tante poste
2
èsse aridotte a nun cenà ggnisuno!
So cche stasera de sol’ova toste
3
ggià n’ho ccotte trescent’e ssettantuno.
Nun sarebbe ppiú mmejjo ch’er Vicario
stramutassi
4
st’inzurza pinitenza
in una terza parte de rosario?
Che mmale ne vierebbe a la cusscenza?
D’annà cquarc’antra vorta ar nescessario?
Caro lei, tutto sta ccome se penza.
18 aprile 1835
1
Quel far sempre Sequentia sancti Evangeli sulla bocca: far crocetta: digiunare.
2
Avventori.
3
Gli uovi duri che
mangiansi a Pasqua di Resurrezione.
4
Tramutasse, permutasse.
1525. L’oste
Male er maggnà de magro?! Voi vivete
in errore, in equivico, in inganno.
Li medichi, se sa, ttutto fa ddanno.
Ggnente,
1
imposturerie: nun ce credete.
Io faccio l’oste, ma ss’io fussi prete
predichería
2
sarache
3
tutto l’anno.
Solamente la sete che vve danno!
E cc’è ppiú ggusto che smorzà la sete?
Ecco li scibbi da fà ll’omo sazzio:
tonni, arenghe, merluzzi, tarantelli...
Queste sò ggrassce da levajje er dazzio.
Li viggnaroli armanco,
4
poverelli,
direbbeno: «Siggnore v’aringrazzio,
che sse vòteno presto li tinelli».
19 aprile 1835
1
Niente.
2
Predicherei.
3
Certa specie di pesce in concia.
4
Almeno.
1526. La Santa Pasqua
Ecchesce
1
a Ppasqua. Ggià lo vedi, Nino:
la tavola è infiorata sana sana
d’erba-santa-maria, menta romana,
sarvia, perza, vïole e ttrosmarino.
Ggià ssò ppronti dall’antra sittimana
diesci fiaschetti
2
e un bon baril de vino.
Ggià ppe ggrazzia de Ddio fuma er cammino
pe ccelebbsta festa a la cristiana.
Cristo è risusscitato: alegramente!
In sta ggiornata nun z’abbadi a spesa
e nun ze penzi a gguai un accidente.
3
Brodetto,
4
ova, salame, zuppa ingresa,
carciofoli, granelli e ’r rimanente,
tutto a la grolia de la Santa Cchiesa.
19 aprile 1835
1
Eccoci.
2
Quando dicesi assolutamente fiaschetti, s’intende parlare di vino d’Orvieto, o più raramente di aleatico
fiorentino.
3
Affatto.
4
Minestra di pane con brodo coagulato per via di uovi.
1527. La commare accipùta
1
Che, ha mmaggnato l’agresta, eh sora Peppa,
che mme sta ccusí ascida e mm’allappa?
2
Quant’è ggrazziosa sta commar Giuseppa!
Propio, per dio, nun ce la pò una zappa.
Bbellezza mia, chi la tira la strappa,
e ppò ffiní la storia co una sleppa.
3
Data che ppoi ve l’ho, mmadama schiappa,
4
abbozzate
5
e mmettetesce una zeppa.
6
Vatte a ffà spellecchià,
7
vva’ a ggiucà a llippa:
8
va’, vvatte a ccerca chi tte porti in groppa,
9
bbrutta stampa de mmaschere da pippa.
Dico a tté, mmarcia, alò, trotta, galoppa;
o tte fo er chiavicone de la trippa
come la scamisciata
10
de Falloppa.
19 aprile 1835
1
Accipigliata.
2
Allappare: aver sapore lazzo.
3
Sgrugno, cazzotto, o qualunque altro colpo che si faccia altrui toccare.
4
Persona da nulla.
5
«Tacete»: ciò che i Francesi direbbero endurez.
6
Rimediateci se potete.
7
Vatti a fare scorticare.
8
Il
giuoco della lippa è esercizio di niuno ingegno.
9
Chi ti lusinghi.
10
Gala di camicia.
1528. Le cose a ìcchese
1
Io nun me ne volevo perzuade,
2
eppuro sissiggnora: stammatina,
a li venti d’aprile, pe le strade
pare cqui a Rroma una Sibberia fina.
Chi lo capissce come possi accade
3
che in ner mentre l’istate s’avviscina
se fa er passo der gammero? e la strina
4
ve penetra nell’ossa com’e spade?
E vvoi fiottate
5
de quello a Ssan Pietro
perché l’affari nostri nun ze cura
si
6
invesce d’annà avanti vanno addietro!
Quanno nun c’è ppiú istate né ppiú inverno
e ss’ammattissce la madre natura,
se pò,
7
ccredo, ammattí ppuro
8
er Governo.
20 aprile 1835
1
A x: in disordine.
2
Persuadere.
3
Accadere.
4
Vento gelato.
5
Vi lagnate.
6
Se.
7
Si può.
8
Pure.
1529. Li Cardinali ar Concistoro
C’è Ffarzacappa,
1
Micchera,
2
Tantini,
3
Sciacquapiatti,
4
Sciufeco,
5
Desimoni,
6
Fressce,
7
Tesguazzo,
8
Frozzoli,
9
Obbizzoni,
10
Bussi, Pacca, Latrijja,
11
Bbarberini,
Odescarchi,
12
Sciabbotta,
13
Lammruschini,
14
Morozzo, Arbani,
15
Zzúllera,
16
Franzoni,
17
Delaporta, Isuà,
18
Mmacchia,
19
Guidoni,
20
Vèrde,
21
Arezzi,
22
Crapano,
23
e Ppidiscini.
24
Sin qua ssò vventinove. Chi cce resta?
Sirva,
25
Rïari,
26
Grassucchi,
27
Canale.
Sala, Doria, Arberghini,
28
quela cresta
de Pallotta... ch’edè? ccome? sta mmale?
De testa hai detto? Un rifreddor de testa?
Un rifreddor de testa a un cardinale?!
20 aprile 1835
1
Falzacappa.
2
Micara.
3
Dandini.
4
Caccia-Piatti.
5
De Cienfuegos-y-Jove-Llanos.
6
De Simone.
7
Fesch.
8
De Inguanzo
Ribera.
9
Frosini.
10
Oppizzoni.
11
De Latil.
12
Odescalchi.
13
De Rohan-Chabot.
14
Lambruschini.
15
Albani.
16
Zurla.
17
Fransoni.
18
D’Isoard.
19
Macchi.
20
Vidoni.
21
Weld.
22
Arezzo.
23
Caprano.
24
Pedicini.
25
De Silva.
26
Riario Sforza.
27
Gaysruch.
28
Alberghini. Non si troverebbe un perfetto sincronismo fra tutti questi Eminentissimi, alcuni dei quali sono
stati pianti di recente. Ma i vivi non valendo gran fatto più de’ morti, si è creduto lasciarli in compagnia.
1530. La visita d’oggni ggiorno
Quer che sta in pasce
1
co la vacca e ’r bove
viè a ttrova la padrona oggni matina
a un’ora fissa che la ggente fina
pe nnun dí ccom’e nnoi disce a le nove.
Pò ffioccà a ssangue,
2
tirà vvento, piove,
3
pònno fionnà
4
ssaette in pollacchina,
quann’è cquell’ora ecchete lui, Ggiustina,
e inzino a mmezzoggiorno nun ze move.
Pe llui nun c’è immassciata:
5
entra da franco,
e sse
6
serreno drento de galoppo
dov’è er zofà ccor cusscinone bbianco.
Stammatina perantro
7
la Marchesa
se l’è ffatto vení ddu’ ora doppo
per via ch’è ita a ppijjà ppasqua in chiesa.
21 aprile 1835
1
Pace.
2
Nevicare a furia.
3
Piovere.
4
Fiondare, quasi «fischiare».
5
Ambasciata.
6
Si.
7
Peraltro.
1531. San Vincenz’e Ssatanassio a Ttrevi
1
Tu tte sbajji: nun è in una cappella,
è ppropiamente su a l’artar maggiore.
Li stanno li precòrdichi,
2
Pacchiella,
d’oggni Sommo Pontescife che mmore.
Che mme bburli? te pare poco onore?
Drent’una cchiesa
3
er corpo in barzamella,
4
e ddrent’un’antra li pormoni, er core,
er fedigo,
5
la mirza e le bbudella!
Morto un Papa, sparato e sprufumato,
l’interiori santissimi in vettina
se conzeggneno in mano der curato.
E llui co li su’ bboni fratiscelli
l’alloca in una spesce
6
de cantina
ch’è un museo de corate e de sciorcelli.
7
22 aprile 1835
1
Chiesa de santi Vincenzo e Anastasio sulla piazza della Fontana di Trevi, appartenente ai chierici regolari minori,
riedificata dal famoso cardinale Mazzarini. È parrocchia del Palazzo-pontificio-quirinale.
2
Precordii.
3
Nel Vaticano.
4
Imbalsamato.
5
Fegato.
6
Specie.
7
Due nomi appartenenti alla massa de’ visceri nobili de’ minuti animali da macello.
1532. Er tribbunale der Governo
1
Eccoli cqua sti ggiudisci da jjanna
2
che pporteno la spada e la pianeta.
Sò cquattr’anni e ’r proscesso nun ze manna
3
e la popolazzione ha da stà cquieta.
Pe cquer Cristo è una gran lègge tiranna!
Tené er distin d’un omo tra le deta,
e nun volé spidijje la condanna
prima de fallo infrasci
4
in zegreta!
Doppo annata
5
la causa a l’infinito
caso c’un poveretto esschi
6
innoscente
chi jj’arifà cquell’anni c’ha ppatito?
E ss’è ppoi sentenziato dilinquente,
quanno va ssu le forche è ccompatito,
perché er dilitto nun ze tiè ppiú a mmente.
Aprile 1835
1
Così chiamasi il Tribunale criminale.
2
Da ghianda.
3
Non si manda.
4
Di farlo infracidare.
5
Andata.
6
Esca.
1533. Sentite che ccaso
Io tiengo indeggnamente accapalletto
una bbrutta Madonna nera nera,
ch’è un ber ritratto e l’immaggine vera
de la Vergine Santa de l’Archetto.
Bbe’, jjer’a nnotte se staccò er chiodetto,
er quadro cascò ggiú ccom’una pera,
ner cascà sfracassò ll’acquasantiera,
me venne in testa e de risbarzo in petto.
Figuret’io! Me svejjo intontolito,
1
me tasto in fronte ar zito de la bbotta,
sento er zuppo,
2
e mme credo èsse ferito.
Che aveva da strillà, ssora Carlotta,
ccusí a lo scuro un povero marito?
«Me l’hai fatta, per dio, porca miggnotta!».
3
23 aprile 1835
1
Instupidito.
2
Bagnato.
3
Bagascia.
1534. La donna filisce
Ggià, pperché nun m’amanca la minestra
me credeno una mojje affurtunata.
E io, vedi, sò ttanta disperata,
che mm’annería
1
a bbuttà da la finestra.
Ne li guai d’antri
2
ggnisuna è mmaestra.
Pe ccapí bbene er zon d’una sonata
bbisoggna de sentí, ssora Nunziata,
tutti li sciufoletti de l’orchestra.
S’ha da stà a li crapicci e a li stravèri
3
d’un maritaccio, pe ssapé, ccommare,
si
4
una donna pò vvive
5
volentieri.
V’abbasti questo cqua, cche da st’aprile,
nun c’è ccaso che ttienghi,
6
in quel’affare
lui vò entrà da la parte der cortile.
25 aprile 1835
1
Mi andrei.
2
D’altri.
3
Stravaganze.
4
Se.
5
Può vivere.
6
Non c è rimedio.
1535. Er proscetto pasquale
Mica che a ppijjà ppasqua abbi er crapiccio
de famme
1
ariggistrà ffra l’ostinati,
o ttienghi
2
in corpo un’anima de miccio
3
risolata a ddu’ sòle
4
de peccati:
nò, è ppropio che nun trovo un giorno spiccio
pe ccercà ttra sto nuvolo de frati,
voi me capite, un confessore a cciccio,
5
che nun badi a li casi ariservati.
Ortre de questo sc’è un’antra raggione,
ciovè cc’ammalappena
6
spunta l’arba
io bbisoggna che ffacci colazzione.
Quanno sò mmorto io damme de bbarba:
e de stamme
7
a gguastà la cumprisione
8
pe ste bbuggere
9
cqua, ppoco m’aggarba.
25 aprile 1835
1
Farmi.
2
O io tenga.
3
Anima perduta.
4
Suole.
5
A proposito.
6
Appena.
7
Starmi.
8
Complessione.
9
Bazzecole.
1536. La Cchiesa da confessasse
1
Tu ccredi che, ppe ffà la confessione,
qualunque cchiesa sia, sempre è l’istessa,
perché ddovunque se pò ddí
2
la messa
ce se pò ppuro
3
fà le devozzione.
Eppuro Monziggnore er mi’ padrone
te sce farebbe perde la scommessa,
perché ppiuttosto lui nun ze confessa
si
4
nun va a la Ritonna: e ha gran raggione.
Mica è la divozzion de la Madonna,
sai?, ché in st’affari cqua llui nun fa ttesto;
ma pper un’antra idea va a la Ritonna.
Lui se scortica
5
llà ssolo pe cquesto
che tte dich’io: da quela bbúscia tonna
6
li scorpioni
7
svaporeno ppiú ppresto.
25 aprile 1835
1
Confessarsi.
2
Si può dire.
3
Ci si può pure.
4
Se.
5
Scorticarsi: confessarsi; si scortica: si confessa.
6
Buca tonda.
7
Scorpioni, cioè: «peccati gravi».
1537. La lezzione
1
de Papa Grigorio
Quanno sparò er cannone, Bbëatrisce
dava la pappa ar fijjo piccinino:
mi’ marito pippava, e Ggiuvacchino
se spassava
2
a mmaggnà ppane e rradisce.
3
Peppandrèa s’allustrava la vernisce
de la tracolla; e io stavo ar cammino
a accenne
4
cor zoffietto uno scardino
de carbonella dorce
5
e de scinisce.
6
M’aricorderò ssempre che ssonorno
sedisci men’un quarto. Io fesce
7
allora:
«Sciamancheno
8
tre ora a mmezzoggiorno».
Fra cquinisci e ttre cquarti e ssedisciora
se
9
creò ddunque er zanto Padre, er giorno
dua frebbaro che ffu la Cannelora.
10
25 aprile 1835
1
L’elezione.
2
Si divertiva.
3
Radici: ravanelli.
4
Accendere.
5
Carbonella dolce: quell’avanzo de’ legni spenti de’ fornai.
6
Quasi cinigia; ma per questo nome di cinìce, s’intende in Roma un leggiero carbone di sterpi e ramoscelli sottili, il
quale presto arde, e si mantiene sotto la cenere in una lunga incandescenza.
7
Dissi.
8
Ci mancano.
9
Si.
10
Candelaia.
1538. Trescento ggnocchi sur zinale
1
Io l’aringrazzio tanto, sor don Pio,
de quela dota
2
che ttiè bbell’e ppronta.
Io pe rregola sua campo der mio
senza bbisoggno un cazzo de la ggionta.
3
’Na zozza,
4
frittellosa,
5
onta e bbisonta
6
piú ppeggio de la panza d’un giudio,
7
che indove tocca sce lassa l’impronta,
nu la vorría
8
si mme la dàssi
9
Iddio.
Io a ste facce da spazzacammini
nun je darebbe
10
un pizzico nemmeno
le vedessi cuperte
11
de zecchini.
Sor don Pio, tra la zella
12
io nun ce godo
come lor’antri preti, c’o ppiú o mmeno,
drent’a la porcheria sce vanno in brodo.
13
27 aprile 1835
1
Trecento scudi di dote belli e pronti sul grembiale, cioè in contanti.
2
Dote.
3
Giunta.
4
Una sozza.
5
Lorda, piena di
macchie.
6
Unta e bisunta.
7
Pancia d’un giudeo.
8
Non la vorrei.
9
Se me la dasse.
10
Non le darei.
11
Coperte.
12
Sudiciume.
13
Ci vanno in deliquescenza di piacere.
1539. Er geloso com’una furia
Sò ggeloso sicuro, dio sagrato!
E nun ho da patí de ggelosia,
quanno che ppe la Vergine Mmaria
m’aricordo le suste
1
che mm’hai dato?
E de chi ssò ggeloso? De Mattia,
der guercio, de tu’ zio, de tu’ cuggnato,
de l’ebbreo, de lo sbirro, der curato,
der can’e ’r gatto, e inzin dell’ombra mia.
Voantre
2
streghe, o de riffe o de raffe,
3
tutti li maschi li volete arreto,
4
e ttienete li piedi in cento staffe.
O ggiuvenotti, o bbocci,
5
o bbelli, o bbrutti,
bbasta èsse donna per avé er zegreto
de falli bbeve
6
e ccojjonalli tutti.
27 aprile 1835
1
Strette.
2
Voi altre.
3
Questa frase suona come chi dicesse: aut per fas, aut per nefas.
4
Dietro.
5
Vecchi.
6
Di farli bere:
in senso di «darla ad intendere», ecc.
1540. La dipennenza der Papa
Disce c’a ssentí er Papa in concistoro
quanno sputa quarc’antro
1
cardinale
sce sarebbe da facce
2
un carnovale
da venne
3
li parchetti a ppeso d’oro.
Principia a inciafrujjà
4
cche ppe ddecoro
de tutto quanto er Monno univerzale
vorrebbe dà er cappello ar tale e ar tale;
e cqui aricconta
5
le prodezze lòro.
Ariccontate ste prodezze rare,
passa a ddí: «Vvenerabbili fratelli,
je lo volemo dà? cche vve ne pare?».
6
Detto accusí, ssenz’aspettà che cquelli
je diino la risposta de l’affare,
te li pianta e spidissce li cappelli.
27 aprile 1835
1
Altro.
2
Farci.
3
Vendere.
4
Imbrogliare.
5
Racconta.
6
«Venerabiles fratres... quid vobis videtur?».
1541. La bbocca der Cardinale novo
Per èsse
1
c’oggi er Papa a Ssu’ Eminenza
j’ha sserrato la bbocca in concistoro,
sí, nun te dubbità, ppe ccristo d’oro,
che llui pe pparte sua j’ha ddat’udienza.
Avessi visto tu ssi
2
cche llavoro
ha ffatto in quela povera dispenza,
te saría parzo
3
ppiù cc’a ssuffiscenza
pe ffà ccrepà d’indiggistione un toro.
E nun essenno poi manco contento,
s’è mmesso a attacmmoccoli
4
a mmanciate
da potelli addoprà ppe ttorce a vvento.
Oggi scià
5
ddato sta piccola offerta
perché ha la bbocca chiusa. Oh immagginate
quer che ssarà cquanno la tienghi uperta!
28 aprile 1835
1
Per essere.
2
Se.
3
Ti sarebbe parso, paruto.
4
Attaccar moccoli: bestemmiare.
5
Ci ha.
1542. L’uscelletti de razza
Doppo ch’er gatto tuo diede la fuga
ar mi’ cardello, la madre Vicaria
m’arigalò un canario e una canaria
ggialli come du’ cicci
1
de lattuga.
Quanti sò
2
ccari! Lei sciangotta,
3
ruga,
4
spizzica
5
er becco ar maschio, e cce se svaria;
6
e questo canta, quanno sente l’aria,
come er fischietto a acqua che sse suga.
Mó la femmina ar nido ha ffatto l’ova,
e cquanno va a mmaggnà la canipuccia
presto vola er marito e jje le cova.
Si
7
ttu vvedi la femmina, coll’ale
mezz’aperte covanno in quela cuccia,
pare un Papa in zedione cor piviale.
30 aprile 1835
1
Ciccio dicesi quel fascetto di foglie più tenere che sono come l’anima dell’erbe fatte crescere legate.
2
Quanto sono.
3
Ciangottare: emetter suono di voce poco articolata e distinta.
4
Rugare: garrire con una specie di stizza.
5
Bezzica.
6
Ci
si diverte.
7
Se.
1543. La gricurtura
A la Locanna de la Gran Bertaggna
oggni qualunque furistiero arriva
tiè ppronte le su’ critiche e sse laggna
c’a sto paese sc’è ll’aria cattiva.
Chi sse mette a stril cche la campaggna
nun ze popola e mmanco se cortiva:
chi cce voría
1
le pecore de Spaggna,
chi er cottone, chi ll’arberi d’uliva...
Jerassera però ffesci stà cquieti
du’ ssciapi che ssentiveno cordojjo
perché Rroma ha ppiú vviggne c’uliveti.
«Sta gran difficortà mmó jje la ssciojjo»,
je disse allora io: «li nostri preti
logreno
2
tutti ppiú vvino che ojjo».
3
30 aprile 1835
1
Vorrebbe.
2
Logorano.
3
Olio.
1544. Er momoriale pe la dota
Er chirico, llí bbell’e in zagristia,
m’ha stampato in du’ bbòtte un momoriale
da presentasse
1
ar cardinal Canale,
pe cchièdeje
2
una dota per Lluscía.
Ma adesso come fo? Sto cardinale
dove diavolo sta? Ppe pparte mia,
nun ho ssaputo mai chi bbestia sia:
nu lo conosco né in bene né in male.
Tu cche sservi Palazzo, e cche ne sai
vita, mort’e mmiracoli de tutti,
perché nun me lo porti e jje lo dai?
Che mmale vorà èsse? de fà ccecca?
3
de restacce Martino
4
e a ddenti assciutti?
Ma a fforza de bbajà ttanto
5
se lecca.
6
30 aprile 1835
1
Presentarsi.
2
Per chiedergli.
3
Far cecca: dare in fallo.
4
Restarci deluso.
5
Tanto, in senso di «sempre poi, ad ogni
modo poi».
6
Si lecca: si raccapezza qualche cosa.
1545. Li du’ testamenti
«Ecco», io disse ar giudio: «ssi
1
ppiano piano
vienghi a ddí cche li tu’ commannamenti
sò uguali in tutt’e ddua li testamenti,
pe cche mmotivo nun te fai cristiano?»
«Badanài, nun zò bboni funnamènti»,
2
m’arispose Mosè: «nnoi, sor Bastiano,
adoramo Iddio-padre, e ’r padre ha in mano
li raggioni de tutti li parenti.
Sino ar giorno c’un padre nun è mmorto,
bbe’ cc’abbi
3
fatto testamènto, er fijjo
dipenne sempre, e, ssi cce ruga,
4
ha ttorto.
Er vostro Jjesucristo ha er padre eterno:
io dunque, mordivoi, me maravijjo
che cce possi mannà ttutti a l’inferno».
9 maggio 1835
1
Se.
2
Non sono buone ragioni.
3
Benché abbia. ecc.
4
Se ne brontola.
1546. La morte der Rabbino
1
È ito in paradiso oggi er Rabbino,
che ssaría com’er Vescovo der Ghetto;
e stasera a li Scòli j’hanno detto
l’uffizzio de li morti e ’r matutino.
Era amico der Papa: anzi perzino
er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto
pijjò la penna e jje stampò un zonetto
2
scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.
Dunque a la morte sua Nostro Siggnore
cià ppianto a ggocce, bbe’ cche ssia
3
sovrano,
e cce s’è inteso portà vvia er core.
Si
4
ccampava un po’ ppiú, tte lo dich’io,
o nnoi vedemio
5
er Rabbino cristiano,
o er Papa annava a tterminà ggiudio.
9 maggio 1835
1
Moisè Sabbato Beer, uomo dottissimo.
2
Lo scrisse veramente.
3
Benché sia.
4
Se.
5
Vedevamo.
1547. Er masso de pietra
In ner vede
1
quer zasso bbuggiarone
2
lí avanti a la Madonna de l’Archetto,
che lo porteno a un studio d’archidetto
3
pe ffà er deposito a Ppapa Leone,
4
un villano che stava sur cantone
a ccavallo a un zomaro, «Eppuro», ha ddetto,
«sce
5
scommetto sta bbestia, sce scommetto,
si nun vale ppiú llui che sto pietrone».
«Nò, amico», j’ha arisposto un omo grasso:
«pòi
6
scommette er zomaro quanto vòi,
7
ma pper adesso nò: vvale ppiú er zasso.
Lassa
8
che sse
9
lavori, fratèr caro,
e, a statua finita, allora poi
valerà d’avantaggio er tu’ somaro».
10
9 maggio 1835
1
Nel vedere.
2
Enorme: marmo di Carrara.
3
Allo studio della scultore cavalier Fabbris.
4
Leone XII.
5
Ci.
6
Puoi.
7
Vuoi.
8
Lascia.
9
Si.
10
Il monumento, lavorato dallo scultore Fabbris a spese di Gregorio XVI, fu poi scoperto nel Vaticano in
Natale 1836, e si disse non ismentire il presagio dell’uomo grasso.
1548. Nostro Siggnore a Ffiumiscino
Ôh, ffinimole un po’ ttante caggnare.
Si er Papa va ddomani a Ffiumiscino
che ccosa sc’è da dí, ssor figurino?
Li Papi ponno annà ddove je pare.
Mica poi sce va a ttròva la commare,
mica va ppe nnotà,
1
ppe sbarcà er vino:
sce va ppe scannajjà
2
cco Gghitanino
3
come pò ffà ppe pportà a Rroma er mare.
4
Co cquarche ccentinaro e un po’ de fremma
ggnisuno pò nnegà cch’è un ber zoccorzo
de tené ddrento casa la maremma.
Dove se sò mmai visti a ttempi addietro
li scefoli e le trijje ggiú pp’er corzo?
le galerre ar palazzo de San Pietro?
13 maggio 1835
1
Nuotare.
2
Scandagliare.
3
Cameriere e consigliere intimo di Nostro Signore.
4
Si parlò in Roma di questo colossale
progetto, che almeno servì per tenerci un po’ allegri.
1549. La mano reggia
Che sturbo, fijjo! A ccasa der padrone
oggi è stato un inferno, è stato un lutto:
tutto a ccausa der Papa, de quer brutto
pidicozzo de naso a ppeperone.
E pperché? pperché llui, ccusí ssanbrutto,
1
j’ha mmannato a esiguí n’esecuzzione
de scerta mano reggia, ch’è un manone
che indove pò arrivà sse pijja tutto.
Nun basta. Aveva detto er Tribbunale:
«La mano reggia cqui nun c’entra un cazzo,
e er tesoriere l’ha intimata male».
Bbe’, er zanto Padre ha avuto la cremenza,
come adesso l’Accè
2
ffussi un pupazzo,
de dà un baffo de penna a la sentenza.
3
13 maggio 1835
1
Ex-abrupto.
2
Il Tribunale dell’A.C. (Auditor Camerae).
3
La sentenza di cui qui si parla fu cancellata dal Papa con
dispaccio della Segreteria di Stato l’11 maggio 1835. Vedi la bella e coraggiosa scrittura di Bartolommeo Belli,
difensore di Pietro Gramiccia, avanti la Congregazione Civile dell’A.C., per l’udienza del giorno 18, detto mese,
impressa dalla Stamperia Camerale.
1550. Le Vergine
Su le Vergine poi er zanto frate
1
ggià ss’è spiegato e nu ne fa mmistero.
Vò llevajje
2
pe fforza er monistero
e straportacce
3
le Sagramentate.
4
Io lo so da bbon logo; e è ttanto vero,
che vvederete che appena entra istate
quele serve de Ddio sò bbuggiarate,
5
perché er Papa in sta coccia
6
è ppropio fiero.
Hanno tempo a sfogasse
7
ggiorn’e nnotte
a ttriduvi, diggiuni e ddissciprine:
bbisoggna che sse vadino a ffà fotte.
8
Sarà fforzi
9
c’a Rroma er Zanto Padre
nun ce vojji ppiú vergine, p’er fine
de nun zentijje
10
vvergine e mmadre.
11
17 maggio 1835
1
Gregorio XVI.
2
Levargli, per «levar loro».
3
Trasportarci.
4
Siccome le monache Sacramentali, ossiano adoratrici
perpetue del Sagramento, vivono in angustissima casa e malsana sul colle del Monte Quirinale presso il crocicchio
delle Quattro-Fontane, il Cardinal Vicario Odescalchi ha persuaso il Papa di translocarle nel convento delle cosí dette
Vergini, non lungi dalla Fontana di Trevi; e queste, malgrado della loro resistenza, riunirle con altre monache del loro
instituto a Santa Lucia in Selci alla Suburra sul clivo dell’Esquilino-cispio.
5
Son disertate, rovinate.
6
Ostinazione.
7
Sfogarsi.
8
Semplicemente, «che se ne vadano».
9
Forse.
10
Sentirgli, per «sentir loro».
11
È per verità curioso l’udir dare
il nome di madre e di padre a chi per voto si legò a perpetua castità. quindi son rari in Roma gli esempi di
claustrali dell’uno e dell’altro sesso, che non persuasi del senso spirituale attribuito a que’ due vocaboli, s’ingegnano
di ricondurla alla naturale sua origine, sperimentando se meglio che allo spirito non convenga alla materia. Della
quale vaghezza alcun beneficio pur deriva alla popolazione tradita dalla sterilità del celibato.
1551. Cristo a la Colonna
Er Redentor Gesú, sotto le bbraccia
de quelli manigordi senza fede,
dite che ddiventò dda cap’a ppiede
una spesce
1
d’un pezzo de carnaccia.
2
Uhm, ar vede
3
la colonna che sse
4
spaccia
pe cquella vera llí a Ssanta Presede,
5
sarà stato in ner petto e in ne la faccia,
ma in tutt’er corpo nu lo posso crede.
Ce starò
6
ppe la panza e ppe la schina,
pe bbracc’e ffianchi e ppe le cossce puro,
7
ma in tutt’er corpo nò, ssora Fermina.
Io so cc’a la colonna accost’ar muro
me sce sò mmisurato stammatina,
e armeno er culiseo
8
stava ar zicuro.
19 maggio 1835
1
Specie.
2
Carne sanguinolenta di carogna che si vende per Roma a cibo di gatti.
3
Al vedere.
4
Si.
5
Nella chiesa di
Santa Prassede sull’Esquilino, si vede la colonna della flagellazione. Giunge appena ai fianchi di un uomo.
6
Ci
converrò.
7
Pure.
8
«Il diretano», con rispetto parlando.
1552. Una dimanna d’un Ziggnore
L’avé ar Monno ricchezze e pprencipati
va bbene, ma è ppiú mmejjo l’èsse dotti,
pe ttené ppronti llí, ccom’e ccazzotti
li su’ termini truschi e ariscercati.
Ecco, a Ttivoli, er duca Lancellotti
disse ar pranzo der Papa a ddu’ prelati:
«Ha vvisto li fonticoli
1
aridotti
a usanza de spasseggi alluminati?».
Er Papa ne fu ttanto perzuaso,
che llí per lí jje s’arimpose er vino,
e jj’uscí ppe le natiche
2
der naso.
Però
3
cquanno un zziggnore è ppiccinino
pe ffa bbona figura in oggni caso
lo metteno a studià Ccisceroncino.
19 maggio 1835
1
I due cunicoli, aperti a traverso d’una roccia, onde divergere il corso dell’Aniene dai luoghi che flagellava con
soverchio impeto. Il Papa vi entrò a passeggiare, recatosi espressamente in que’ luoghi per ricrearsi fra le sue cure di
stato.
2
Sinonimo ricercato di narici, che altrimenti sarebbe frosce.
3
Per questo motivo.
1553. Er missionario dell’Innia
1
Nostro Siggnore, a cquella testa matta
che mmó ppe cconvertí quarc’omo indiano
se va a scapicollà ttanto lontano,
sai che ccosa j’ha ddato? Una sciavatta.
2
Lui l’ha bbasciata, l’ha ppijjata in mano,
l’ha mmessa in una scatola de latta,
eppoi drent’una bborza, tutta fatta
a strissce de villuto e ttaffettano.
Er prete porta un croscifisso e cquella,
e aridusce li popoli a la fede
cor Cristo e la santissima sciafrella.
3
E ssi cc’è ppoi quarche ffijjo de mulo,
4
che nun j’abbasta,
5
se la mette in piede
e tte lo fa cristiano a ccarci in culo.
20 maggio 1835
1
India.
2
Ciabatta.
3
Ciabatta.
4
Ostinato.
5
Non gli basta.
1554. Un antro viaggio der Papa
Ggià, un antro viaggio.
1
Er Zanto Padre adesso
avenno inteso a ddí cch’er Nazzareno
entrò a Ggerusalemme co ggran treno,
vò annà a Ccivitavecchia e ffà ll’istesso.
2
Sto viaggio poi che ppò ccostà a un dipresso?
Psè, un ventimila scudi e fforze
2a
meno,
senza però la caristia der fieno
pe ttante bbestie che sse porta appresso.
3
E ssentirete l’archi trionfali
in onor der trionfo de la guerra
contro st’ire de ddio de libberali!
4
E vvederete er Gesucristo-in-terra
si cquanti ladri e mmarfattori uguali
condannerà a ppartí dda la galerra!
5
20 maggio 1835
1
Tornato appena dal viaggio di Fiumicino (vedi il Son...), Sua Santità ripartí per quello che qui si celebra. Ciò
accadde il 20 maggio, e il ritorno il 25.
2
La sola differenza fra i due treni di Cristo e di Gregorio sta in ciò, che il
Redentore cavalcò un asino, e il suo Vicario invece fu tirato da sei cavalli, cambiati in molti asini bipedi un bel tratto
prima della città.
2a
Forse.
3
S’intende delle bestie della molta corte, da cui Sua Beatitudine si fece seguire.
4
Gli archi ci
furono, e carichi di epitaffi veracissimi. Si dispensarono anche epigrafi a stampa, di Benedetto Blasi.
5
Purtroppo varii
ladroni subirono questo gastigo d’esser cacciati di carcere.
1555. Un antro viaggio der Papa
Curre la nova pe ppiazza Navona
ch’er Papa, pe vviaggià cco ppiú ddecoro
ner rifresco che ffesce a Ppalidoro
1
se pijjò ’na santissima cacona.
2
E a la faccia de mezzo concistoro
rivommitanno pe un’oretta bbona
s’impiastrò ttutta la Sagra perzona
fino a le scarpe co la crosce d’oro.
E la Corte, sbruffata da li schizzi
vienuti da lo stommico sovrano
li pijjò ccome ttanti bbenefizzi.
Chi ssa? Nner galateo der cortiggiano
er male e ’r bene, le vertú e li vizzi
nun zaranno spiegati in itajjano.
25 maggio 1835
1
Predio assai esteso, di proprietà dell’archiospedale di Santo Spirito in Sassia di Roma, circa a mezza via tra questa
città e Civitavecchia.
2
Imbriacatura. Anche il Buffone Santissimo (Mons. Soglia, Segretaria de’ Vescovi e Regolari) si
ubbriacò sino agli occhi. Questi e il Papa si abbracciarono in un impeto di entusiasmo divino, e così stretti l’uno fra le
braccia dell’altro andavano ruttando, recendo, e gridando «Monsignor Soglia mio, che bella giornata!», «Santo Padre
mio, che consolazione!». La corte intanto gli osservava con divoto raccoglimento.
1556. Un antro viaggio der Papa
Tant’è: er Papa dall’antra sittimana
inzinenta a ddimenica mmatina
nun ha ffatt’antro che mmarcià in tartana
pe cquant’è llarga e llonga la marina.
1
Ma ddio ne guardi a llui ’na tramontana
j’arrivava in ner culo a la sordina,
e lo mannava ggiú bbell’e in zottana
a rresci da coccia de tellina,
nun poteva trovà cquarche bbalena
parente a cquella der profeta Ggiona,
che cce fascessi
2
un bocconcin de scena?
3
senza che cquesta fussi accusí bbona
d’ariggettallo poi sopr’a la rena
come fesce ar giudio quella cojjona?
29 maggio 1835
1
La sua Santità si fece condurre in barca a tutte le ore, con seco molti altri suoi bene-affetti, fra i quali la Sig.ra moglie
del suo primo cameriere. Per assolvere un momento quei cari dalla suggezzione della riverenza dovuta alla sua sagra
persona, il Vice-Dio gli andava spruzzando d’acqua marina, e coloro nella libertà di que’ diporti restituivano alla
benignità papale gli scherzi innocenti. Vera età dell’oro!
2
Ci facesse.
3
Cena.
1557. Un antro viaggio der Papa
Riccontaveno cqui ccom’e cquarmente
er battello a vvapore è un tammurlano
1
c’ortre li marinari e ’r capitano
appena sce pò entrà ppoc’antra ggente.
Bbè ttutto questo nun è vvero ggnente,
perché cquanno passò er Meliterrano
2
sce salí er Zanto Padre, e a mmano a mmano
tutta la Corte sua commodamente.
E avete da sapé cche li viannanti
che ggià cc’ereno sopra, sce restorno,
e cce staveno larghi tutti quanti.
Io ste cose le so da la padrona
che lo disse a llei stessa l’antro ggiorno
la puttana santissima in perzona.
3
2 giugno 1835
1
Tamburlano.
2
Il Mediterraneo, battello a vapore francese, che passò a que’ giorni da Civitavecchia, e il Papa vi
montò su per recarsi alle saline. Il capitano fu creato cavaliere di S. Gregorio, e l’equipaggio ebbe un regalo di 50
gregorine d’oro da 5 scudi l’una.
3
Vedi nota 1
a
del son. precedente.
1558. Er viaggio all’estro
1
Forzi
2
sarà bbuscia, ma cquarchiduno
che sta in artis e ccrede de sapello
disce c’ar Papa je va pp’er cervello
d’uggne le rote e scarrozzà a Bbelluno.
3
Bbravo! farà bbenissimo; e ggnisuno
pò nnegajje c’un viaggio com’e cquello
è ssempre mejjo che de stà a Ccastello
4
a ppescacce le tinche p’er diggiuno.
Quadrini n’ha d’avanzo: passaporto
se lo firma da sé: ddunque ha rraggione,
e accidentacci a llui chi jje dà ttorto.
Eppoi, quer tornà Papa tra pperzone
che tt’hanno visto scicorietta d’orto
dev’èsse un gran gustaccio bbuggiarone.
26 maggio 1835
1
Il viaggio all’estero.
2
Forse.
3
Patria di Gregorio XVI.
4
Castel Gandolfo sul Lago Albano, ordinaria villeggiatura de’
Pontefici.
1559. Er Papa omo
A ppalazzo der Papa
1
c’è un giardino
co un boschetto e in ner bosco un padijjone
pien de sofà a la turca e de portrone
e de bbottijje de rosojjo e vvino.
C’è ppoi ne le su’ stanzie un cammerino
co una porta de dietro a un credenzone,
che mmette a una scaletta, e in concrusione
corrisponne ar quartier de Ghitanino.
2
Ghitanino è ammojjato: la su’ mojje
è una donna de garbo, assai divota
der Vicario de Ddio che llega e ssciojje.
Ôh, nun vojjo antro: e ho ffatto male
anzi a pparlà ccusí ddove se nota
oggni pelo e sse
3
penza ar criminale.
1° giugno 1835
1
Al Vaticano.
2
Gaetano..., primo cameriere santissimo.
3
Si.
1560. Le paterne visscere
Mentre er zor Papa in un viaggetto solo
1
bbutta zecchini a ccanestrate sane,
va’ cc’uno strilli che jj’amanca er pane,
sai c’arisponne lui? «Me ne conzolo».
Ah ttafino
2
bbrodaro
3
stracciarolo
4
griscio
5
leccascudelle
6
scarzacane,
7
che ssenz’arte né pparte ne le mane
sei vienuto a ffà a Rroma er dindarolo!
8
Questa è l’aricompenza de l’avette
9
steso le grinze de la sagra panza,
che pprima te ggiucaveno a ttresette?
10
Ccusì ce neghi eh, pallonaccio a vvento,
inzino er mollicume
11
che tt’avanza
de quer pane che mmaggni a ttradimento?
1° giugno 1835
1
Vedi i sonetti...
2
Tafino si suol dire a’ Piemontesi, ma il Romanesco, poco intendente di geografia, dà questo titolo di
scherno anche ad altri italiani alpigiani, a dei contorni delle Alpi.
3
Brodari sono propriamente que’ puledrelli,
vannini, ai quali, mancata la poppa materna, si dà per nutrimento i rimasugli sierosi del latte servito alla fabbricazione
de’ formaggi. Per estensione però, chiamasi brodaro un affamato per miseria, che vada in cerca avidamente di
minestre da satollarsene.
4
Colui che raccoglie stracci per le vie; qui, «uom lacero, pezzente».
5
Nome appellativo
degli indigeni del lago di Como, che vengono a Roma in succinte vesti, e dati a meschini traffichi stentano la vita onde
ammassare un peculio da rinvestire nella patria in possedimenti stabili. Pel resto vedi la nota 2.
6
Leccascodelle: coloro
che vanno a pascersi di minestre alle porterie de’ frati.
7
Scalzacane.
8
Salvadanaio.
9
Dello averti.
10
Giuocavano fra
loro per la lor quantità.
11
L’unione delle minute briciole del pane che si frange.
1561. L’aricreazzione
Detta ch’er Papa ha Mmessa la matina,
e empite le santissime bbudelle,
essce in giardino in buttasú
1
e ppianelle,
a ppij ’na bboccata d’aria fina.
Lí llegato co ccerte catenelle
sce tiè
2
un brutto uscellaccio de rapina,
e, ddrento a una ramata, una ventina
o ddu’ duzzine ar piú de tortorelle.
Che ffa er zant’omo! ficca drento un braccio,
pijja ’na tortorella e la conzeggna
ridenno tra le granfie
3
a l’uscellaccio.
Tutto lo spasso de Nostro Siggnore
è de vedé cquela bbestiaccia indeggna
squarciajje er petto e rrosicajje er core.
2 giugno 1835
1
Veste-da-camera.
2
Ci tiene.
3
Artigli.
1562. Lo spojjo
Nun sta bbene, fijjoli, a ffà bbaccano
perché er pubbrico orario
1
sce li scoccia
2
acciò li preti vadino in bisboccia
3
sur bon esempio che jje dà er Zovrano.
Un omo galantomo, un bon cristiano,
s’ha da fà ssucchià er zangue a ggoccia a ggoccia,
ha da fasse aridusce
4
la saccoccia
lísscia come la pianta della mano.
Chi pporta in collo er peso de la stola,
è ggiusto ch’er bordello e la cuscina
5
li compenzi ner pinco
6
e nne la gola.
Lo spojjà ddunque è de lègge divina.
Dommine ripulisti è una parola
che la canteno a Mmessa oggni matina.
25 maggio 1835
1
Corruzione di erario.
2
Cioè i... Vedi il Son…
3
Andare in bisboccia, vale: «divertirsi, crapulare».
4
Ha da farsi
ridurre.
5
Cucina, con la sillaba ci strisciata.
6
Vedine il significato nel Son…
1563. Fra Ffreghino
Er Papa scià ppippato der gajjardo,
1
e vvonno j’abbi fatto ggiú ppell’ossa
una caterinaria
2
bbuggiarossa
3
dannoje
4
la patente de bbusciardo.
5
Disce: «Zittete llí, ffrate bbastardo:
co’ li piedi sull’orlo de la fossa,
arifanne
6
oggni ggiorno una ppiú ggrossa,
senza ar meno un tantino d’ariguardo!
Quanno avevi ste bbuggere de vojje,
faccia de bbajoccone
7
arruzzonito,
8
potevi restà ar monno e pijjà mojje».
Ma er Zanto Padre cqua ss’era ammattito.
Chi è ccapasce a ttradí le sagre spojje
saría
9
stato, dich’io, peggio marito.
28 maggio 1835
1
Ci ha sbuffato gagliardamente.
2
Catilinaria.
3
Buggerona, tremenda.
4
Dandogli.
5
Bugiardo.
6
Rifarne.
7
Faccia dura,
imperterrita.
8
Irruginito.
9
Sarebbe.
1564. La casa de Ddio
Cristo perdona oggni peccato: usuria,
1
cortellate, tumurti der paese,
bbuscíe, golosità, ccaluggne, offese
sgrassazzione
2
in campaggna e in ne la curia,
tutto: ma in vita sua la prima ingiuria
ch’ebbe a vvéde ar rispetto de le cchiese,
lui je prese una bbuggera, je prese,
ch’esscí de sesto e ddiventò una furia.
E ffascenno
3
la spuma da la bbocca
se messe a ccurre
4
in ner ladrio
5
der tempio
cor un frustone, e ggiú a cchi ttocca tocca.
Questa è ll’unica lite c’aricorda
er Vangelo de Cristo, e nnun c’è esempio
che mmenassi
6
le mane un’antra vorta.
28 maggio 1835
1
Lussuria.
2
Grassazioni.
3
Facendo.
4
Si mise a correre.
5
Nell’atrio.
6
Menasse.
1565. Terzo, ricordete de santificà le feste
Jeri er Vicario, essenno l’Asscenzione,
disse a lo stampatore cammerale:
1
«Questa è ggiornata d’ozzio e dd’orazzione,
e nnun ze stampi né in bene né in male».
Figuret’oggi poi che ccunfusione!
La gran folla arrivava pe le scale;
e ddrento se pò ddí cc’oggni mattone
c’aveva fatt’Iddio sc’era un curiale.
2
E ssai stasera quanta ggente arresta
3
senza distribbuí le su’ scritture!
4
Ma cquesto cosa fa? jjeri era festa.
Però pper allestí ll’antro palazzo
der Zanto Padre, se lavori pure;
e cqui la festa nun importa un cazzo.
5
29 maggio 1835
1
La Stamperia Camerale gode la privativa delle stampe forensi, e dal Governo si affitta.
2
Nella prossima tornata del
Tribunale della Rota, si dovevano portare infinite cause, per essere quella la prima dopo le vacanze dette delle purghe
(Erunt potiones).
3
Resta.
4
Se le scritture non sono distribuite nella stabilita sera ad un ora di notte, o poco più, la
causa va in contumacia.
5
Il Palazzo Lateranense ridotto già da Leone XII a ricovero de’ poveri, e dal regnante Gregorio
restituito con enorme dispendio all’antico splendore, onde farvi una colezione prima di dar la benedizione solita dalla
gran loggia della Basilica nel giorno dell’Ascensione.
1566. Er diavolo a cquattro
1
La serva, nò, nnun j’ha sfassciato un vaso,
je roppé un pissciator de porcellana:
pissciatori che llei n’è ttanta
2
vana
che sse li tiè ccome la rosa ar naso.
Penzete
3
quela povera cristiana!
Se bbuttò ttra la bbraccia a ddon Gervaso
pe intimà a la padrona er fiero caso;
e llei tratanto se serrò in funtana.
L’abbate principiò: «Ssiggnora Checca,
imbassciator nun porta pena»: e ddoppo
j’appoggiò la sassata secca secca.
L’inferno che nun fu! ggessummaria!
Povero prete, pij ssú er galoppo
come un gatto frustato e scappò vvia.
30 maggio 1835
1
Fare il diavolo a quattro: strepitare infuriando.
2
Tanto.
3
Pènsati.
1567. Er marito arisoluto
Ah scrofa, t’ho vvist’io dar luscernario
quanno se’ ita sotto a Ggiammatista.
1
Vacca, t’ho vvista propio io, t’ho vvista,
fà ppiú assai de quer ch’era nescessario.
Tu ariprovesce ppiú, pporca futtrista,
2
a ffattelo
3
inzeppà ddrent’ar zagrario,
e tt’accommido er corpo cor Vicario
che tte manni a llegà com’una crista.
Io quer tantin d’onor che mm’aritrovo
nu lo vojjo bbuttà ddiettr’a un cantone
come se bbutta via ’na coccia d’ovo.
Io, spuzzonaccia mia, nun zò
4
er padrone,
c’oggni ggiorno je spunta un corno novo
e ss’ammaschera sempre da cojjone.
30 maggio 1835
1
Giambattista.
2
Temperamento di più osceno vocabolo.
3
Fartelo.
4
Non sono.
1568. Regole contro l’imbriacature
L’imbrïacasse
1
è ppeggio assai, fratello,
che avé addosso er peccato origginale.
Co li fumi der vino p’er cervello
l’omo nun è ppiú omo, è un animale.
Chi ss’accorge ch’er beve
2
je fa mmale
o ha da dismette,
3
o ccià d’annà bberbello,
4
e nnò spiggne
5
bbucale co bbucale
e addossà ccaratello a ccaratello.
Ma ccazzo, eh ffate com’er Padre Santo,
che in st’affari che cqui ssenza contrasto
pò ddà rregola ar Monno tutto quanto.
Sí, vvia, sta cosa è vvera, statte
6
quieto:
lui nun vò cche bbottijje a ttutto pasto,
ma ll’innacqua però ccor vin d’Orvieto.
3 giugno 1835
1
L’imbriacarsi.
2
Il bere.
3
Dismettere.
4
Ci ha d’andar bel bello.
5
Spingere.
6
Statti.
1569. Li canali
S’ha ttanto da strillà, ppe ddio de leggno,
c’a sto paese cqui, ffor der canale
de quarche ccammerier de cardinale,
d’entrà a l’impieghi ggnisun’omo è ddeggno,
quanno se sa cche in qualunqu’antro reggno
sta canzona succede tal e cquale;
e ffino in paradiso, o bbene o mmale,
nun ce se pò arrivà cche pper impeggno.
Sí, pper impeggno, sí: ttutti li morti
o un zanto, o la Madonna, o er purgatorio,...
ce vò un diavolo inzomma che li porti.
Perché ddunque accusà Ppapa Grigorio
de tutte l’ingiustizzie e dde li torti,
che mmanco
1
li faría Monte Scitorio?
2
3 giugno 1835
1
Neppure.
2
Il palazzo della giustizia civile.
1570. La favola der lupo
C’era una vorta un lupo, che sse messe
1
una pilliccia e ddiventò ppastore,
tarmenteché le pecorelle istesse
s’ainaveno
2
a ubbidillo e a ffàjje onore.
Ma un canóne mastino, che pper èsse
3
de ppiú bbon naso lo capí a l’odore,
cominciò a ddí a l’orecchia a cquelle fesse:
4
«L’amico è llupo, e vvò mmaggnavve er core».
Le pecore strillorno a ppiú nun posso;
ma er lupo pe ccarmà la ribbijjone
mostrò li denti e tte je diede addosso.
Che ffesceno ste pecore frabbutte?
5
Disseno: «Er cane, er cane è er zussurrone»:
e llí d’accordo a mmozzicallo tutte.
3 giugno 1835
1
Si mise.
2
Si affrettavano premurosamente.
3
Per essere.
4
Sguaiate.
5
Disleali.
1571. Le resíe
M’avete ariccontato una resía,
1
vera com’una fetta de Vangelo.
Mó state attenta,
2
e vve dirò la mia
ch’è ttal e cquale e nu ne perde un pelo.
Ciovè, ppiano, mia nò, cch’io grazzia ar celo
sò ccristiano e ddivoto de Maria.
Ho ddetto mia, sor don Taddeo, pe vvia
ch’io l’aricconto, e mm’ha ggabbato er zelo.
Va spargenno pe Rroma un framasone
ch’er papa san Grigorio tammaturco
3
era un furbo e un maestro de finzione.
E pprotenne
4
quell’anima de turco
che in ne l’orecchia pe cchiamà er piccione
ce se metteva un vago de granturco.
4 giugno 1835
1
Eresia.
2
Attenta si usa in entrambi i generi.
3
Il volgo suole confondere il taumaturgo san Gregorio, vescovo di
Neocesarea, col pontefice e dottore san Gregorio Magno, il quale si dipinge collo Spirito Santo all’orecchio in atto
d’inspirargli la dottrina ch’ei scrive.
4
Pretende.
1572. Monziggnore, sò stato ferito
Da quattr’anni a sta parte e ppochi mesi
si vvoi dite a sti santi Imporporati:
«Minentissimo mio, semo affamati»,
pare, pe ccristo, che l’avete offesi.
Io discorro accusí, pperché ll’ho intesi;
e sso anzi che llòro e li prelati,
quanno senteno guai, tutti arrabbiati
dicheno: «Aringrazziate li francesi».
C’ha che ffà cquela ggente in sta faccenna?
cosa sc’entra la Francia in sto lavoro?
Sc’entra come li cavoli a mmarenna.
1
Li francesi oramai passa vent’anni
che sse ne stanno in pasce a ccasa lòro
senza annàsse
2
a ppij ttutti st’affanni.
3
4 giugno 1835
1
Merenda.
2
Andarsi.
3
Fra gli altri sollazzi puerili, usa in Roma il seguente. Un fanciullo si asside giudice. Un altro,
curvato e colla faccia in grembo a lui, è percosso da qualcuno del resto della compagnia, che si tiene ivi presso
schierata. Rizzatosi allora sulla persona, dice al giudice l’offeso: «Monziggnore, stato ferito. / Chi vv’ha ferito?/
La lancia. / Annatela a ttrova in Francia. / E ssi in Francia non c’è? / Annatela a ccerca indov’è. / E ssi nun ce
vení? / Pijjatela pe un’orecchia e pportatela cqui». Con questo mandato va egli attorno, fissando in volto tutti i suoi
compagni, se mai vi apparisse alcun moto dal quale arguire la verità, mentre gli esplorati si agitano fra le più curiose
smorfie del mondo, per comporsi ad un aspetto d’indifferenza. Finalmente ne sceglie uno, e lo conduce al giudice, che
gli dimanda: Chi è questo? Il querelante risponde: Carne allesso; e il giudice, rivestito insieme della prerogativa di
testimonio, riprende: Riportatelo via, ché non è esso; ovvero: Lassatelo cqui ch’è esso, secondoché il reclamo era
bene o male applicato. Nel primo caso, il povero deluso ritorna al suo posto in seno al giudice per subirvi nuove
percosse: nel secondo vi subentra invece il reo convinto, e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e
condanne. Or noi, supposta un’ingiuria, ed elevato il dialogo o più alta significazione, chiederemo al lettore, per
moralità di questi versi, dove dovrebbe cercarsi l’orecchio da menare a penitenza, se cioè sul Montmartre presso il
Colle Vaticano.
1573. Lo scordarello
Di’, tt’aricordi ggnente, Fidirico,
chi era quello ch’er mastro de scòla,
disce c’a ttempi sui fesce sciriola
1
ar Papa e lo trat ccome nimmico?
L’ho ssu la punta de la lingua dico,
eppuro... Aspetta un po’, ffiniva in ola.
Andrea? no Andrea; ’na spesce de Nicola
co un antro nome de casato antico.
Cristo! sarà ddu’ ora che cce penzo!
zitto, zitto ché vviè: Cola da... Ccazzo!
L’ho ttrovo, eccolo cqua: Ccola d’Arienzo.
Sto Cola era ’na bbirba bbuggiarossa:
co ttutto questo, io sciannerebbe a sguazzo
2
c’ariarzassi
3
la testa da la fossa.
4 giugno 1835
1
Tradì il, ecc.
2
Godrei, nuoterei nel piacere.
3
Che rialzasse.
1574. Er chiacchierone
Sonetti 2
Eh ffinísscelo
1
un po’ sto tatanài,
2
corpo de li mortacci de Bbertollo!
3
Sempre, perdio, co cquer beccaccio a mmollo!
Che mmulinello! nun t’azzitti mai!
Ôh mmanco male via: rotta de collo
che sta futtuta grazzia sce la fai.
Bblu bblu bblú, bblu bblu bblú,... che ddiavol’hai?
Pari una pila
4
c’abbi arzato er bollo.
Accidenti, che cciarla, bberzitello!
5
Oh a tté nun ze pò ddí
6
che la mammana
s’è scordata de róppete er filello.
Cristo! quanno cominci sò ffaccenne
7
che cce svergoggneressi
8
una campana;
e tte la vòi vedé ssino all’ammenne.
9
8 giugno 1835
1
Finiscilo.
2
Cicalamento.
3
Di Bertoldo.
4
Pignatta.
5
Bel zitello.
6
Non si può dire.
7
Sono faccende.
8
Ci svergogneresti.
9
Te la vuoi vedere fino all’amen: vuoi dir l’ultima.
1575. Er chiacchierone
Sia mmaledetto li mortacci tui!
E a tté cquanno che pparli chi tte tocca?
Strilli, cristo de ddio, com’una bbiocca,
e vvòi dà llègge a li discorzi artrui?
Oh gguarda llí cche pprotenzione ssciocca
che nun z’abbi da dí li fatti sui!
Saría mo bbella pe ddà ggusto a llui
c’uno s’avessi da cuscí la bbocca.
Pare co cquela vosce de cornacchia
la ttromma der giudizzio univerzale
e all’antri je vò mmette la mordacchia!
O cciarle bbelle, o bbrutte, o nnove, o vvecchie,
quanno er zentí ddiscorre ve fa mmale,
schiaffàteve
1
un toppaccio ne l’orecchie.
29 settembre 1835
1
Ficcatevi.
1576. La ficcanasa
1
Slongate er collo assai voi, sora Marta.
Ve scappa forzi
2
de sapé un tantino
che ccosa sc’è drento a sto fiasco? È vvino.
Odoratelo, e annateve a ffà squarta.
3
Quanno er padrone mio sta ar tavolino
e ccrede ch’io je guardi quarche ccarta,
disce sempre: «Né ccòccolo s’incarta
e nné mmano s’inarca,
4
sor ficchino».
Ggià, cche sserve a pportavve le raggione?
5
Lavà la testa all’asino è l’istesso
che spregacce lesscía,
6
tempo e ssapone.
Voi me parete a mmé ccome li preti,
che sse faríano
7
turchi e ccosce
8
allesso
pe smania de sapé ttutti li peti.
9
10 giugno 1835
1
Curiosa.
2
Vi preme forse.
3
Andatevi a fare squartare: andatevene.
4
Nec oculus in charta, nec manus in arca, lo
dicono frequentemente tutti i vecchi. Gli altri si contentano di un equivalente italiano.
5
Portarvi le ragioni.
6
Sprecarci
lisciva.
7
Si farebbero.
8
Cuocere.
9
Tutte le minuzie.
1577. La purciaròla
Io nun trovo dilizzia uguale a cquesta
che de stamme a spurcià
1
ssera e mmatina
la camiscia, er corzè, la pollacchina,
le legacce e le grespe de la vesta.
Si le purce so
2
assai, pe ffalla lesta
le sgrullo tutte in d’una cunculina:
si nnò
3
l’acchiappo co le mi’ detina
4
je do una sfranta, eppoi je fo la festa.
5
Oggnuno ha li su’ gusti appridiletti.
Io ho cquello de le purce, ecco, e mme piasce
d’acciaccalle e ssentí cqueli schioppetti.
E cche ddirete der nostro Sovrano,
che sse ne sta a ppalazzo in zanta pasce
6
a ccacciasse
7
le mosche er giorno sano?
11 agosto 1835
1
Che di starmi a spulciare.
2
Se le pulci sono.
3
Se no: altrimenti.
4
Co’ miei ditini.
5
Le uccido.
6
In santa pace.
7
A
cacciarsi.
1578. La notizzia de telèfrico
1
Ha ssentito, Eccellenza, a ddon Bennardo
che ggran nova j’ha ddato un uffizziale
che ll’ha intesa da un omo ggiú ar bijjardo,
che ll’ha lletta in ner fojjo der giornale?
Disce ch’er Re de Francia, ar baluardo
der Tempio
2
de le guardie nazzionale,
un certo Monzú Ggiàchemo Ggerardo
3
j’ha sparàt’una machina infernale.
Le palle hanno ammazzato pe ffurtuna
un zubbisso
4
de popolo innoscente,
e ar Re ppoi, ch’era robba sua, ggnisuna!
5
Chi è stato còrto
6
in testa, chi in ner core,
chi in ne la panza; e er Re e li fijji ggnente!
Ce se
7
vede la mano der Ziggnore!
14 agosto 1835
1
Di telegrafo.
2
L’attentato del 28 Luglio au Boulevard du Temple.
3
L’assassino Fieschi si nominò sul principio
Gérard.
4
Un subisso: una gran massa.
5
Nessuna.
6
Colpito.
7
Ci si.
1579. Er debbitore der debbitore
1
Dunque perché la Cammera ha d’avé
dar mi’ padron de casa, ha la bbontà
de roppe
2
er culo a cchi nun cià
3
cche ffà,
e vviè a spidí la mano reggia a mmé?!
È vvero c’ar padrone io j’ho da
la piggion de sei mesi, ma pperché?
Perché appenne la lite in ne l’Accè,
4
pe l’acconcími che mme vò nnegà.
Quanno fra de noi dua s’astipo
la locazzione, sce se venne a ddí
5
che cc’entrassi
6
la Cammera? Ggnornò.
7
Disce: ma er Fisco l’intenne accusí.
Ddunque er fischio me fischi quanto sciò
8
e er Ziggnore lo pòzzi bbenedí.
9
15 agosto 1835
1
Vedi l’affricano editto della Segreteria per gli affari di Stato interni, dato il 9 luglio 1835, N. 33.200 di protocollo.
2
Rompere.
3
Non ci ha.
4
Pende la lite nel Tribunale dell’A.C.
5
Ci si venne a dire.
6
C’entrasse.
7
Signor no.
8
Mi involi
quanto ci ho: quanto ho.
9
Lo possa benedire.
1580. La divozzione
Io mó nnun ve sto a ddí ssi
1
a sto paese
de divozzione sce n’è ttroppa o ppoca;
si la ggente è incredibbile
2
o bbizzoca,
e ssi è ppeggio er romano der francese.
Sí, ll’ho vviste pur’io piene le cchiese;
ma ebbè? ppe cquesto è ffatto er becco all’oca?
3
Fijji, a cquello llassú nnun je se ggioca
4
co cquattro sciarle e ddu’ cannele accese.
Quanno nun z’abbia carità, nnun z’abbia,
l’acqua der pozzo e ll’acqua bbenedetta
sò una spesce
5
der canchero e la rabbia.
L’opera bbone, ecco che vvò er Ziggnore:
ché Ggesucristo è ccome la sciovetta.
Cosa je piasce a la sciovetta? er core.
16 agosto 1835
1
Se.
2
Incredula.
3
A qual conclusione ciò mena?
4
Non gli raggira.
5
Sono una specie: sono consimili.
1581. Er zervitor de lo Spaggnolo
Sonetti 2
Se n’abbuscheno pochi. È ccirca un mese
che sto a sserví cco un Monziggnor de Spaggna
che er core l’averebbe, ma sse
1
laggna
d’avé pperze
2
l’entrate der paese.
Perché llà cc’è una guerra che sse maggna
le scitccom’e ttordi, e ffanno imprese
d’arrubbà, scannà ffrati, e bbruscià cchiese,
che l’inferno ar confronto è una cuccagna.
E cche ddiavolo mai sò
3
ddiventati
l’ommini a sto monnaccio bbuggiarone?
Caníbboli,
4
Medèi, gatti arrabbiati?...
Sverzà
5
ffiumi de sangue, dio sagraschio,
6
e pperché? ppe ddiscíde
7
si er
8
padrone
l’abbino da pij
9
ffemmina o mmaschio!
16 agosto 1835
1
Si.
2
D’aver perdute.
3
Sono.
4
Cannibali.
5
Versare.
6
Giuramento circospetto onde non dire: Dio sagrato.
7
Per
decidere.
8
Se il.
9
L’abbiano da pigliare.
1582. Er zervitor de lo Spaggnolo
Sí, Mmonziggnore ha ppatriotti a ccena,
pe vvia
1
ch’er lòro Re, ttra cquell’orrori,
s’è ffatto un generale ch’è una sscena!
E ssai chi? La Madòn de li dolori.
Lui j’ha mmannato st’indispaccio.
2
— Fori:
3
A Ssu’ Eccellenza Maria grazzia-prèna;
e ddrento poi: Menate, addio. — Che onori!
Menate! E llei, c’ha sette spade, mena.
Come sarebb’a ddí? rridi, Bbennardo?
Ma ssenti er resto; e, da povero coco,
4
Bennardo mio, me chiamerai bbusciardo.
Ar general Madonna er Re bbizzoco
j’ha ddato un certo capitan Stennardo
5
perché ccommanni l’esercizzie
6
a ffoco.
16 ottobre 1835
1
Pel motivo.
2
Questo dispaccio.
3
Fuori.
4
Nel profferire queste parole, da povero cuoco, si dovrà porre la mano al
petto in atto di giuramento.
5
Stendardo. E realmente il buon Carlo V nominò capitano lo stendardo de’ Sette Dolori.
6
Perché comandi gli esercizi.
1583. Er Cardinale solomíto
1
Bbadi, Eminenza. Iddio sto perzichino
nu lo vò un corno: Iddio è un cane grosso
2
che un giorno o ll’antro
3
pò arrivavve all’osso
e ddavve er gusto de strillà Ccaino.
4
Lui ve sopporterà ssor prete rosso
un anno, dua, tre, cquattro, ccinque, inzino
che jje zzompi la mosca sur nasino
eppoi ve striggnerà lli panni addosso.
Dio fa ccampana e ccapoccella,
5
e vvede
e ssente tutto, e cce n’ha ppochi spicci
e ggnente da spiccià,
6
ssi
7
llei sce crede.
Com’è ito a ffiní ppe sti crapicci
quer tar
8
prelato?... Morze e sse n’aggnede
9
a aspettà ar callo
10
er zor Tomasso Sgricci.
17 agosto 1835
1
Sodomita.
2
È un personaggio potente.
3
Altro.
4
Così dicesi dell’abbaiare, anzi dell’ululare e doloroso dei cani.
5
Sta in
ascolto e fa capolino.
6
Non bada: è risoluto nell’operare.
7
Se.
8
Quel tal.
9
Morì e se ne andò.
10
Ad aspettare al caldo.
1584. Er Papa in anim’e ccorpo
Er Papa nostro è un omo subbitanio,
caca-pepe, bbiglioso
1
e ffumantino:
e ccome ha in corpo er zu’ bucal de vino,
tristo chi ccià cche ffà! ppare er Demanio.
Smoccola
2
come er chirichetto Ascanio
quanno sbròdola
3
troppo lo stuppino.
4
Inzomma tiè
5
cco nnoi sto figurino
tutto er fà dder zu’ popolo ggermanio.
6
Nun daría retta manco a ssan Giuvanni,
e ha sposato la massima, ha sposato,
che cchi ffa a mmodo suo campa scent’anni.
Io l’assomijjo a un medico, c’allora
c’ha ddato la sscialappa all’ammalato,
o de sopra o de sotto la vò ffora.
21 agosto 1835
1
Bilioso.
2
Bestemmia.
3
Sgocciolo.
4
Stoppino.
5
Tiene.
6
Il fare del suo popolo germanico.
1585. L’arte moderne
1
Questo pell’arte
2
è un gran zecolo raro!
Viè er padrone e mme disce: «Furtunato,
va’ cqui ggiú da Scipicchia er mi’ libbraro,
che tte dii quer Bruttarco
3
c’ho ccrompato».
Vado, lui me dà un libbro, e, «Ffratel caro,
disce, guardate che nun è ttajjato».
Io me lo pijjo, e usscito che ssò
4
ar chiaro
l’opro e mm’accorgo ch’è ttutto stampato.
Stampà un libbro va bbe’; mma inventà ll’usi
da potesse poté
5
stampà la stampa
su le facciate de li fojji chiusi!
Io sce scommetto, che ssi cqua sse
6
campa
un po’ ppiú a llongo, l’ommini sò mmusi
7
da fa scrive
8
un zomaro co la zampa.
21 agosto 1835
1
Le arti moderne.
2
Per le arti.
3
Plutarco.
4
Sono.
5
Da potersi potere.
6
Se qua si.
7
Gli uomini sono capaci.
8
Fare
scrivere.
1586. Er zole novo
Lo disceveno a ppranzo, è vvero Nina?,
che mmó, ppe alluminà strade e ppalazzi
s’abbruscia un fil de carcia
1
fra ddu’ cazzi
2
e la sera
3
diventa una matina.
Disce che sta scuperta chimichina
4
se pò ppuro
5
addoprà da li regazzi;
e in Inghirterra trall’antri
6
rimpiazzi
l’hanno appricata ar Farro de Missina.
7
Disce che cco sta carcia, pe le scòle,
quanno arimane nuvolo, arimane,
ce fanno inzino er negroscopio a ssole.
8
Dunque mó cco sta lusce nun fa un corno
9
si
10
ppiove, e cce pòi fà le mediriane
11
pe rrimette
12
l’orloggi a mmezzoggiorno.
22 agosto 1835
1
Si brucia un pezzolin di calce.
2
Fra due gaz.
3
Si avverta che per sera intendesi in Roma, propriamente, le prime ore
della notte.
4
Chimica.
5
Si può pure.
6
Fra gli altri.
7
Al Faro di Messina.
8
Sino il microscopio a sole. Comprendesi di
leggieri che la portentosa scoperta della quale il nostro buon romanesco intese parlare servendo a tavola il suo
padrone, è quella del calciossidrogeno, accaduta recentemente in Londra. Di questo nuova fonte di sfolgorantissima
luce è celebre l’applicazione fatta in Inghilterra al sistema de’ microscopi solari, e la sostituzione alle lampade
d’Angand, con meraviglioso successo tentata da Drummond nel Faro di Purfleet.
9
Non nuoce.
10
Se.
11
Ci puoi fare le
meridiane.
12
Per rimettere.
1587. Le mmaledizzione
Chi bbiastimassi
1
san Pietro e ssan Pavolo
saría ppiú ppeggio; ma nnemmanco poi
sta bbene l’antr’usanza,
2
caro voi,
de dí ’ggnisempre mmaledetto er diavolo.
Pe mmé ccome l’intènno ve la sfravolo.
3
Er demonio, sú o ggiú, vòi o nnun vòi,
4
è ccratura de Ddio quanto che nnoi
che lo tenémo pe un torzo de cavolo.
Bbelle raggione de jjachemantonio!
5
Tutti li torti abbi d’avelli
6
ar monno
quer povero cristiano
7
der demonio!
Perché sto mmaledillo in zempiterno?
Eh lassàmolo in pasce
8
in ner profonno
de le su’ sante pene de l’inferno!
22 agosto 1835
1
Bestemmiasse.
2
L’altra usanza.
3
Ve la sciorino giù.
4
Vuoi o non vuoi.
5
Da imbecille.
6
Averli.
7
Espressione
commiserativa, che sempre è nelle bocche volgari.
8
In pace.
1588. Er perampresso
1
Ho capito, Matteo, risémo llí.
2
«Un po’ a la vorta: Iddio sce penzerà:
dàmo tempo: si è rrosa fiorirà...».
Bbravo, cojjone mio: sempr’accusí.
A ’ggni vassallo che tte viè a ttradí
te la sgabbelli via
3
cor lassa.
Dunque tu nu lo sai che a Llassafà
j’arrubborno la mojje, eppoi morí?
Jerassera sfassciassi
4
un gabbarè
pe rrabbia de vennetta,
5
e adesso
sei diventato un pízzico?
6
e pperché?
Tu mme pari er fratel de sant’Alò,
che ssempre speri che ssi ffoco viè,
7
t’abbrusci er culo e la camiscia no.
23 agosto 1835
1
Il perplesso, l’irrisoluto.
2
Siam di bel nuovo.
3
Ti togli d’impaccio.
4
Sfasciasti.
5
Vendetta.
6
Ti sei avvilito.
7
Se
fuoco viene.
1589. Le perziane
Nonna mia parla sempre de le stole
1
der tempo suo su le finestre umane.
Ma cce s’ha da impiegà ttante parole
mentre adesso sciavemo
2
le perziane?
La perziana dà llusce e appara
3
er zole,
dà aria e afferma
4
piogge e ttramontane.
E nun fuss’antro, ste du’ cose sole
5
de nun favve
6
entrà mmai mosche e zzampane!
Io so che inzin da quanno dar zor Pietro
hanno armato
7
perziane, nun pòi crede,
8
la grandina nun j’ha ppiú rrotto un vetro.
Pe le donne poi metti in capo-lista
che ddietr’a le perziane una pò vvede
9
li fatti di chi vvò
10
ssenza èsse
11
vista.
23 agosto 1835
1
Stuoie.
2
Ci abbiamo: abbiamo.
3
Ripara.
4
Ferma.
5
E non fosse altro, che queste due cose sole.
6
Di non farvi.
7
Armare una cosa: metterla, cavarla fuori, introdurne l’uso.
8
Non puoi cedere, qui vale: «incredibile a dirsi».
9
Può
vedere.
10
Chi suole.
11
Essere.
1590. Er lutto p’er capo de casa
Circa a la morte sua nun guardà, Llello,
che la povera vedova e li fijji
pàreno
1
tutt’e ttre ggrassi e vvermijji,
perché una cosa è ccore, una è ccervello.
Cocco mio, si
2
li ggiudichi da quello
tu ppijji un fischio per un fiasco, pijji.
Nun je li vedi a llei queli scompijji
neri, e a llòro er coruccio sur cappello?
Nun vanno mai... ciovè
3
vvanno pe ttutto
ma ssempre addolorati, poveracci!,
e stanno addietro sin che ddura er lutto.
Anzi lei disse jjeri a ccert’amiche:
«Nun vedo l’ora de bbuttà sti stracci
pe rrifà
4
un po’ de le caggnare
5
antiche».
23 agosto 1835
1
Paiono.
2
Cuor mio, gioia mia, se ecc.
3
Cioè.
4
Per rifare.
5
Baldorie, allegrie.
1591. Perummélo, dímm’er vero
1
Tutt’er giorno se
2
sente disputà
si er zanto Padre sce vò bbene o nnò.
Chi vvò cche cce lo vojji, e cchi nun vò;
e ggnisuno sa ddí ccome la va.
Ce vò ttanto a scoprí la verità?
Bbast’a llègge l’editti, e llí sse
3
capí ss’è ppicchiarella o ppicchiabbò:
4
dar discorzo che ttiè Ssu’ Santità.
Pe pparte mia, da quanto costa a mmé,
che cce vò mmale io nu lo posso dí,
e in ne l’editti sui questo nun c’è.
Ah è ccerto, via, che cce vò bbene, sí:
ce vò un bene dell’anima... ciovè
5
cce vò un bene da Papa, eccola cqui.
23 agosto 1835
1
Così i fanciulli della nostra plebe profferiscono le parole di una loro formula, le cui sillabe si vanno alternamente
pronunciando e battendo, mentre col dito si tocca or questo or quel pugno di chi vi tiene nascosta alcuna cosa da
indovinarsi in quale dei due si ritrovi. La formula è la seguente: Perummélo (pero e melo), dimm’er vero: indove sta,
cqui o cqua; dimme la santa verità. Dove cade l’ultima sillaba della scongiuro, ivi in buona regola dovrebb’esser
chiuso l’oggetto cercato, ma non di rado la fortuna vien contraria alla fede.
2
Si.
3
Se.
4
Se è nell’un modo o nell’altro.
5
Cioè.
1592. La scummunica
La scummunica inzomma è una parola
che ddisce er Papa, e appena Iddio l’ha intesa
l’ubbidissce ar momento, e vve conzola
cor cacciavve dar gremmo
1
de la Chiesa.
Abbasta una scummunica, una sola,
pe sbattezzavve;
2
e gguai chi sse l’è ppresa!
Pò vvení Ggesucristo co la stola
a bbenedillo, bbutta via la spesa.
Domenica er Curato l’ha spiegata,
e ha detto: «Iddio ne guardi si
3
pprennete
la scummunica nata e mmarinata.
4
Un libbro, un cazzo, un scappellotto a un prete,
un sputo, una scorreggia, una pissciata
ve pò scummunicà cquanno volete».
25 agosto 1835
1
Dal grembo.
2
Sbattezzarvi.
3
Se.
4
Anathema et Maranatha.
1593. Li ggiochi de la furtuna
A cquer zor tale, quanno magro e affritto
1
fasceva er torcimano a un rigattiere,
la miseria, le trappole, er mestiere,
e ttutto quer che vvòi, j’era dilitto.
Oggi perantro
2
che nun è ppiú gguitto
e ha ccrompato
3
un croscion da cavajjere,
te l’incenzeno in tutte le maggnere
4
e in casa, e ffor de casa, e a vvosce e in scritto.
Oggi è bbello, oggi è bbono, oggi ha ttalento,
oggi fa bbene, e nun ze
5
sbajja mai,
oggi si
6
arrubba
7
tre mmerita scento.
8
Malappena
9
sei ricco, in du’ parole,
10
bbasta un cerino a mmostrà cchiaro c’hai
vertú cche pprima nun scopriva er zole.
11
25 agosto 1835
1
Afflitto.
2
Peraltro.
3
Comperato.
4
Maniere.
5
Non si.
6
Se.
7
Ruba.
8
Cento.
9
Appena.
10
Per ristringere il molto in poche
parole.
11
Il sole.
1594. Chi è ccausa der zu’ mal
piaggni se stesso
Jeso c’ho da sentí!
1
Mamma mia bbella!
2
Ma ccome t’è ssartato er capogatto
de fà sto passo de sposà cquer matto?
Io sce divento un pízzico,
3
sorella.
Eh cce vò antro
4
che bbocca a sciarpella!
5
Ciavevi da penzà cquann’eri all’atto.
Adesso, fijja, quer ch’è ffatto è ffatto.
Chi ha vvorzuto la vergna
6
ha da godella.
Certe zzappate
7
Iddio nu le perdona.
Bbuttà vvia un bonissimo partito
pe ppij sto Luscifero in perzona!
Ggià, ccapisco, se
8
sa: mmó cc’hai finito
queli quattro bbajocchi, te bbastona.
Che cce faressi, Nanna?
9
È ttu’ marito.
10
20 agosto 1835
1
Jesus! che ho da udire.
2
Altra esclamazione di meraviglia.
3
Io mi rannicchio dallo stupore.
4
Ci vuol altro.
5
Che far
bocca torta.
6
Chi ha voluto il danno.
7
Certi falli.
8
Si.
9
Che ci faresti, Marianna?
10
È tuo marito.
1595. Pijja sù e rrósica
Ma gguardate che ppàtina!
1
oh vva’ er nano
che bbatte amaro e vvò mmostrà li denti!
Fijjo, annate
2
a mmostralli ar ciarlatano
che vve sciàpprichi
3
er bàrzimo e l’inguenti.
Se pò vvéde un felònomo
4
ppiú strano?
Me s’è infortito
5
er zor gneggnè. Accidenti
che vvespa! che ddragone! che vvurcano!
Eh, ssi ccreschi
6
un po’ ppiú, ssai che ddiventi!
Che staggione! le purce
7
hanno la tosse!
Ebbè, ssor ggruggno color de patate,
ce le volémo fà ste guance rosse?
Er giurà è da bbriccone, ma tte ggiuro
ch’io mommó ddo de piccio
8
a ddu’ manciate
de stabbio, t’òpro bbocca, e tte l’atturo.
26 agosto 1835
1
Quale aria!
2
Andate.
3
Vi ci applichi.
4
Si può vedere un fenomeno.
5
Mi si è inasprito.
6
Se cresci.
7
Le pulci.
8
Di
piglio.
1596. Er fruttarolo
Che vve tastate? l’animaccia vostra?
Questo cqua nun è er modo e la maggnera
1
d’ammaccamme
2
accusí ttutte le pera.
Io la robba la dò ccome sta in mostra.
Sin che gguardate er peso a la stadera
e nun credete a la cusscenza nostra,
nun ciarifiàto;
3
ma in che ddà sta ggiostra
che cce vienite a ffà mmatina e ssera?
Eppoi tante capàte
4
pe’ un bajocco!
Caro quer fijjo! dàteje la zzinna.
Tenete, sciscio
5
mio, succhiate er cocco.
Le pera auffa?
6
povero cojjone!
Spassàtelo, cantateje la ninna:
Ninna li sonni e ppassa via bbarbone.
7
26 agosto 1835
1
Maniera.
2
Di ammaccarmi.
3
Non ci rifiato, non replico, non mi oppongo.
4
Scelte: da capare, scegliere.
5
Cicio, nome
accarezzativo a’ bambini.
6
Aufo, gratis.
7
Verso che si canta dalle madri e dalle balie romane a’ putti per
addormentarli.
1597. La crudertà de Nerone
Nerone era un Nerone,
1
anzi un Cajjostro;
e ppe l’appunto se chiamò Nnerone
pell’anima ppiú nnera der carbone,
der zangue de le seppie, e dde l’inchiostro.
Quer lupo, quer caníbbolo,
2
quer mostro
era solito a ddì nnell’orazzione:
«Dio, fa’ cche tutt’er Monno abbi un testone,
pe ppoi ghijjottinallo a ggenio nostro».
Levò a fforza er butirro
3
a li Romani,
scannò la madre e ddu’ mojje reggine,
e ammazzò ttutti quanti li cristiani.
Poi bbrusciò Rroma da piazza de Ssciarra
sino a Ssanta-Santòro,
4
e svenò arfine
er maestro co ttutta la zzimarra.
26 agosto 1835
1
Di qualunque uomo d’animo crudele dicesi: È un Nerone.
2
Cannibale.
3
Allude allo morte di Burro.
4
Il Santuario di
Sancta-Sanctorum, alla estremità meridionale di Roma, dove si conserva il Volto-Santo.
1598. Er legge e scrive
1
E a cche tte serve poi sto scrive e llegge?
Làsselo fà a li preti, a li dottori,
a li frati, a li Re, all’Imperatori,
e a cquelli che jje l’obbriga la Lègge.
Io vedo che cce sò
2
ttanti siggnori
che Ccristo l’arricchissce e li protegge,
e nnun zann’antro che rròtti,
3
scorregge,
sbavijji,
4
e strapazzà li servitori.
Bbuggiarà
5
ssi
6
in ner cor de le famijje
l’imparàssino ar piú li fijji maschi;
ma lo scànnolo grosso è nne le fijje.
Da ste penne e sti libbri mmaledetti
ce vò ttanto
7
a ccapí ccosa ne naschi?
Grilli in testa e un diluvio de bbijjetti.
27 agosto 1835
1
Il leggere e scrivere.
2
Ci sono.
3
Non sanno altro che rutti, ecc.
4
Sbadigli.
5
Meno male.
6
Se.
7
Ci vuol tanto.
1599. La scianchetta
1
Santissima
Quanno l’apprivativo
2
fu abbolito,
la padrona pe mman d’un cardinale
presentò ar zanto Padre un momoriale
pe ottené li limenti
3
dar marito.
Er Papa repricò ttutto compito:
«Noi cqui la nostra utori ppapale
nu la vojjamo usà. Cc’è ir tribbunale,
siconno er novo codisce, ch’è uscito».
La povera Siggnora che cce crese
4
staccò ttutte le carte che tt’ho ddetto,
citò cquer cane, e pprincipiò le spese.
Custruito
5
er giudizzio, un ber
6
bijjetto
der Papa ar presidente lo sospese,
e accusí tterminò sto trabbocchetto.
27 agosto 1835
1
La insidia, il tradimento ecc.
2
I giudici privativi.
3
Gli alimenti.
4
Ci credette.
5
Instruito.
6
Bel.
1600. Lo sbarco fratino
Ar lazzaretto tra Nnottuno
1
e Ancona
sò sbarcati da scento a ccentoventi
frati de ttutte sorte de conventi
iti a ffoco a Ccaloggna e Bbraccellona.
2
Nun hann’antro con zé
3
che la corona,
bbrutti, panonti,
4
làsceri e ppezzenti.
Ma cce sarà cchi li farà ccontenti.
E indovinate chi? Rroma cojjona.
Cqua sse pò ddí:
5
Ppadre, è ccressciuto un frate,
e sse pò arrepricà
6
ccom’er Guardiano:
Brodo-longo, fra Ddiego, e sseguitate.
Via,
7
longo longo nun zarà sto bbrodo.
Eppoi eppoi tra er popolo romano
bbeato er frate che cce pianta er chiodo!
28 agosto 1835
1
Nettuno, terra sul Mediterraneo.
2
In Catalogna, in Barcellona. Riferisce agl’incendi di conventi per opera de’
costituzionali di Spagna.
3
Non hanno altro con sé.
4
Unti, sordidi.
5
Qua si può ben dire.
6
E si può replicare.
7
Benché a
dir vero.
1601. Bbone nove
Io le nove le so dda fra Ssiconno
1
er laïco der padre Dejjantoni,
2
c’oggni sera co ccerti chiacchieroni
legge li fojji e mmette in paro er monno.
Bbe’ ddunque in Francia er Re li framasoni
nun ce lo vonno ppiú, nnun ce lo vonno;
e ss’ingeggneno a ffa cquello che pponno
pe llevàsselo
3
for de li cojjoni.
Quelle sò ttutte sette indemogratiche,
disce er frate, che vvonno l’arcanía,
4
ma llassa fà
5
le potenze alleatiche.
Adesso l’alleatichi tratanto
vanno ar campo der càlisce
6
in Turchia,
e ddoppo
7
in Francia sentirai che spianto!
8
28 agosto 1835
1
Fra Secondo.
2
Il reggente del Convento di S. Agostino.
3
Per levarselo.
4
L’anarchia.
5
Ma tu lascia fare.
6
Così il volgo
pronuncia calice. Qui fa equivoco con Kalisch dove il Russo fece campo di esercizi militari.
7
E dopo di ciò.
8
Eversione, sperpero, spiantamento.
1602. Er tistimonio culàre
1
Io stiede
2
llí a ffumà ssu li scalini
de la locanna un par d’orette toste,
3
e vvedde
4
partí a ffuria
5
pe le poste
er zegretario de Monzú Rreggnini.
6
Oggi ho ssentito poi ch’ebbe le groste
pe vviaggio da una bbanna d’assassini,
che stanno apparecchiati a li confini
sempre come la tavola dell’oste.
Disce che cce perdé ppuro
7
li pieghi.
Ma in questo parla bbene er locanniere:
«De le carte chi vvoi che sse ne freghi?».
8
Eppoi, sai che ggran carte! Er Re de Francia
che mmanna ar Re de Napoli un curiere
pe ffajje accommidà
9
ccerta bbilancia.
10
28 agosto 1835
1
Oculare.
2
Stetti.
3
Un paio d’ore e più.
4
Vidi.
5
Partire in gran fretta.
6
Il conte Rigny, pari di Francia e ministro dalla
marina di quel regno.
7
Pure.
8
Chi vuoi che se ne curi?
9
Per fargli accomodare, racconciare.
10
Bilancia politica delle
potenze meridionali contro quelle del nord. Si pretese essere il ministro venuto in Italia, onde chiedere personalmente
al Papa e al Re di Napoli la cessione dei porti di Civitavecchia e di Gaeta.
1603. Le seccature
1
der primo piano
Disce: «Nina è bbussato, annàt’a uprí».
2
Io me finisco d’allaccià er corzè,
curro a la porta e ddimanno: «Chi è?».
Disce: «Amici». «Chi vvò?». Disce: «Er Balí».
Dico: «Uhm, sto coggnome cqua nun c’è».
Disce: «Ma ccome! m’hanno detto cqui».
Dico: «Fratello, cosa v’ho da dí?
si mmai nu lo conoscheno
3
ar caffè...».
Disce: «Scusate»; e sse n’annava
4
ggiú.
Dico: «Ggnente, ma, pss, sentit’un po’,
5
dico, eh quell’omo, aritornate su».
Dico: «È un francese chi ccercate?» «Nò»,
disce: «è romano». «Ah, ccredevo un monzú»,
dico; «ma, o ll’uno o ll’antro,
6
io nu lo so».
28 agosto 1835
1
Le noie, gl’incomodi.
2
Andate ad aprire.
3
Se mai non lo conoscono, cioè: «Seppure non lo conoscessero», ecc.
4
Se
ne andava.
5
Sentite un poco.
6
O l’altro.
1604. La statura
Te tufa
1
tanto a tté dd’èsse schiavetto?
2
Oh gguarda! e a mmé mme parería ’na sorte.
Campi co ppoco, spenni
3
meno in ghetto;
4
te la sscivoli mejjo da la corte,
nun batti all’architrave de le porte,
pòi fà da servitore e da ggiacchetto,
te pòi coprí cco le cuperte corte,
te pòi stenne
5
in qualunque cataletto;
entri ar teatro cor bijjetto franco
tra ppanze e cculi; e indòve sc’è la festa
hai la patente de montà ssur banco.
E tte metto per urtimo guadaggno,
che ssi
6
vvonno azzeccatte
7
in ne la testa,
quarche sassata tua tocca ar compaggno.
28 agosto 1835
1
Ti rincresce.
2
D’esser di piccola statura.
3
Spendi.
4
In Ghetto gli Ebrei vendono vesti usate.
5
Ti puoi stendere.
6
Se.
7
Colpirti.
1605. Una capascitàta a cciccio
1
De grazzia, sete voi quer figurino
che mme vò ffuscilà
2
ccor uno sputo?
Bbravo: je lo faremo conzaputo;
3
e ss’accòmmidi intanto in cammerino.
4
Co mmé nnun rescitamo er brillantino,
5
perch’io, sor merda de villan futtuto,
me sento in gamma,
6
cor divin’ajjuto,
de favve er barbozzetto gridellino.
7
Pe vvostra addistruzzione,
8
io, da pivetto
9
ho mmesso lègge a cquanti rispettori
10
teneveno Atticciati e Mmerluzzetto.
11
Figuratev’a vvoi! s’io mó ppe ccristo
nun ve manno addrittura dar drughiere
a crompavve
12
un carlín de muso-pisto.
13
29 agosto 1835
1
Un convincimento a dovere.
2
Che mi vuole fucilare.
3
Glielo faremo sapere: modo ironico.
4
Intanto favorisca pure, si
accomodi al suo piacere.
5
Con me non recitiamo l’ardito.
6
Mi sento in gamba.
7
Di farvi il mento, ecc.
8
Per vostra
istruzione.
9
Da fanciullo.
10
Ho dato legge a quanti ispettori.
11
Atticciati e Merluzzi: due commissari di polizia sotto la
invasione francese.
12
A comperarvi.
13
Di viso pesto.
1606. Parenti, tiranni
E nnotate tra ll’antri adducumenti
1
c’all’epica
2
der lòro sposalizzio
io fui bbona a pportajje un priscipizzio
3
d’ova fresche e un ber paro de pennenti.
4
E mmó cche sto in bisoggno, si li senti!,
5
m’hanno fatto inzinenta
6
er bon’uffizzio
de dímme
7
in faccia che nnun ho ggiudizzio.
Ma eh? cche ssò
8
a sto monno li parenti!
Un amico te pò
9
llevà d’affanni;
ma un parentaccio che tte vede strugge
10
nun t’impresta
11
un ajjuto si
12
lo scanni.
Sin che sse
13
maggna, tuttiquanti attorno.
Sparecchiato poi ch’è, ffanno a cchi ffugge,
e nun te danno ppiú mmanco er bon giorno.
29 agosto 1835
1
Fra gli altri documenti.
2
All’epoca.
3
Una gran quantità.
4
Un bel paio di pendenti da orecchi.
5
Se gli ascolti!
6
Sino.
7
Di dirmi.
8
Cosa sono.
9
Ti può.
10
Ti vede struggere.
11
Non ti presta.
12
Se.
13
Si.
1607. Er dilettante de Ponte
1
Viengheno: attenti: la funzione è llesta.
2
Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente
er prim’omo dell’opera, er pazziente,
l’asso a ccoppe, er ziggnore de la festa.
E ecco er professore che sse
3
presta
a sserví da scirúsico a la ggente
pe ttré cquadrini,
4
e a tutti ggentirmente
je cura er male der dolor de testa.
Ma nnò a mman manca, nò: ll’antro a mman dritta.
Quello ar ziconno posto è ll’ajjutante.
La proscedenza aspetta a Mmastro Titta.
5
Volete inzeggnà
6
a mmé cchi ffà la capa?
7
Io cqua nun manco mai: sò ffreguentante;
e er boia lo conosco com’er Papa.
29 agosto 1835
1
Per ponte, detto così assolutamente, intendesi il ponte S. Angiolo. La piazza sulla quale esso si apre è uno dei luoghi
ove si eseguisce la giustizia contro i malfattori.
2
È vicina.
3
Si.
4
Molto ben pagato è il carnefice, ed in qualunque
servizio del suo mestiere gode di varii e bei profitti. Si vuole però che l’atto della uccisione del paziente siagli pagato
tre quattrini, cioè 3 centesimi della lira romana (il papetto), a dimostrare la viltà dell’opera.
5
Ogni carnefice è dai
romani chiamato Mastro Titta.
6
Insegnare. Capo, detto qui capa alla napolitana.
1608. Le speranze de Roma
Nun ho inteso; scusate, sor Pasquale:
de le vorte
1
sto un po’ ssopr’a ppenziero.
Che mme discévio?
2
Ah, ssi aricàla er zale?
3
Eh, ddicheno de sí; ma ssarà vvero?
Voless’Iddio! Ma una furtuna uguale
io pe la parte mia poco sce spero.
Eppoi ggiú ne lo spaccio cammerale
inzin’a cqui nnun ze n’è ddetto un zero.
Che jje n’importa un cazzo de la pila
4
de la povera ggente a li Sovrani
che cconteno le piastre a ccento-mila?
Anzi, mó cciànno
5
dato le missione;
6
e, ddopo er giubbileo, pe li romani
pe ssolito c’è ssempre er zassatone.
7
30 agosto 1835
1
Talvolta.
2
Che mi dicevate?
3
Se il sale cala nuovamente di prezzo.
4
Della pignatta.
5
Ora ci hanno.
6
Le missioni
spirituali.
7
La sassata. Infatti, tra il detto giubileo e la processione di penitenza, di cui vedi il Sonetto.... fu aumentata
del doppio la dativa reale: e ciò senza editto, ma per via di semplice circolare ai pubblici percettori.
1609. Lui sa er perché
Armanaccà
1
nnoantri
2
poveracci
perché Ssu’ Santità cce pela e scarca?
3
Qualunque cosa sii, bbon prò jje facci:
in st’imbrojj sce
4
ffede e rrisarca.
5
Chi ha ppiselli
6
da dà
7
dunque li cacci.
Er nostro incrementissimo Monnarca
pijja moneta fina e cquadrinacci,
8
ché ttutt’è bbono pe ajjutà la bbarca.
Fraterie, sordatesche, bbirbioteche,
funzione pe li vivi e ppe li morti,
spese a rraggion veduta e spese sceche...
Tutto questo, e un po’ ppiú, ccosa siggnifica?
Ch’er Papa nun ha ppoi tutti li torti
si
9
ha ttanta smania d’intonà er Maggnifica.
10
30 agosto 1835
1
Almanaccare, indagare.
2
Noi altri.
3
Ci pela e scalca.
4
Ci vuole.
5
Ci vuol fede. Espressione tolta dal Foederis arca
delle litanie.
6
Quattrini.
7
Da dare.
8
Moneta di rame.
9
Se.
10
Magnificat anima mea, etc.
1610. Nun c’è rregola
Er dolor de ggingivie è un gran zupprizzio:
ve compatisco assai, sor Ziggismonno.
Ma cce saría pericolo,
1
s’è in fonno,
2
che mmettessivo
3
er dente der giudizzio?
Eh vvia, che ssarà mmai sto priscipizzio
d’anni c’avete! Mica sete un nonno.
Nun zaressivo er primo né er ziconno
che l’età nnun je porti preggiudizzio.
Io l’ho mmesso ch’è ppoco:
4
Nastasía
doppo du’ mesi o ttre che la sposai,
e de trent’anni lo metté Mmattía.
Er dente der giudizzio sce
5
assai
che vvienghi
6
fora. La padrona mia
è vvecchia cucca
7
e nnu l’ha mmesso mai.
30 agosto 1835
1
Ma vi sarebbe mai il caso.
2
S’è in fondo.
3
Che metteste.
4
Poco fa, poc’anzi.
5
Ci vuole.
6
Che venga.
7
Vecchia
decrepita.
1611. La cura sicura
Che ccosa sc’è da rimanecce stàtichi
1
e de stacce accusí smiracolati?
2
Ma ggià, vve compatisco, sciorcinati:
3
de st’asscenze che cqui
4
nnun zete
5
pratichi.
Io ve dico c’a ttutti l’ammalati
de dojje isterne e ddolor aromatichi
6
je se dà ll’ojjo d’àrcadi volatichi
7
in certi bbottoncini smerijjati.
L’antro
8
mese ch’io stiede
9
a lo spedale,
pe la scommessa mia che mme maggnai
sei libbre de porcina de majale,
sto segreto scuperto io l’imparai
da Ambroscione er facchin de lo spezziale
che ppuro
10
lui sce n’ha gguariti assai.
30 agosto 1835
1
Qual cosa c’è da rimanerci estatici.
2
E di starci così attoniti.
3
Poverelli.
4
Di queste scienze qui.
5
Non siete.
6
Reumatici.
7
D’alcali volatile.
8
L’altro.
9
Stetti.
10
Pure.
1612. L’accimature de la padrona
Se
1
va a la Valle,
2
sí, mma cchi ssa cquanno!
È attaccato, è attaccato: eh, la siggnora
la carrozza la vò ssempre a bbon’ora,
eppoi l’inchioda ggiú in cortile un anno.
Cosa fa adesso? Adesso se
1
sta armanno
3
a la toletta; e avanti che sta mora
se facci
4
bbianca e n’ariscappi fora,
ggià le ggente ar teatro se ne vanno.
Prima de congeggnà ttutte le stecche,
de situà li cusscinetti ar posto,
de stiracchià cquele pellacce secche
(tutte imprese da fasse
5
d’anniscosto,
6
secunnum òrdine Merchisedecche),
principia a llujjo e ttermina d’agosto.
30 agosto 1835
1
Si.
2
Al Teatro della Valle.
3
Armando.
4
Si faccia.
5
Da farsi.
6
Di nascosto.
1613. Er conto tra ppadre e ffijjo
1
Che? stammatina t’ho ddato uno scudo,
e ggià stasera nun ciài
2
ppiú un quadrino?!
Rennéte
3
conto, alò,
4
ssor assassino:
cqua, pperch’io nu li zappo: io me li sudo.
Sú: ttre ppavoli er pranzo: dua de vino
tra ggiorno; e cquesti ggià nnun ve l’escrudo.
5
Avanti. Un grosso p’er modello ar nudo.
Bbe’: un antro
6
ar teatrin de Cassandrino.
7
ssei pavoli. Eppoi? Mezzo testone
de sigari: un lustrino
8
er pan der cane...
E er papetto c’avanza, sor cojjone?
Nò, ppranz’e vvino ve l’ho mmesso in cima.
Dunque? Ah, l’hai speso per annà a pputtane.
Va bbene, via: potevi díllo
9
prima.
30 agosto 1835
1
Narrasi che questo rendiconto, realmente seguisse un giorno fra il celebre pittore e plastificatore Pinelli e il suo
figliuolo, indirizzato da lui alla sua stessa professione.
2
Non ci hai: non hai.
3
Rendete conto.
4
Andiamo.
5
Non ve gli
escludo.
6
Un altro.
7
Sono.
8
Un grosso.
9
Dirlo.
1614. Le creanze a ttavola
Sú er barbozzo
1
dar piatto. Uh cche ccapoccia!
2
Madonna mia, tenéteme le mane.
Sora golaccia, aló,
3
mmaggnamo er pane,
presto, e ar cascio
4
raschiamoje la coccia.
5
E adesso che pprotenni
6
co sta bboccia?
7
De pijjà ’na zzarlacca?
8
Er ciurlo
9
cane!
Se n’è strozzate
10
du’ fujjette sane,
e mmó sse vò
11
assciugà ll’úrtima goccia!
Bbe’, ssi
12
avete ppiú ssete sc’è la bbrocca.
Ggiú er bicchiere, e iggnottite
13
quer boccone,
ché nun ze
14
bbeve cor boccone in bocca.
Eh cciancica,
15
te pijji una saetta!
Nun inciaffà,
16
ingordaccio bbuggiarone...
E la sarvietta?
17
porco; e la sarvietta?
31 agosto 1835
1
Il mento.
2
Che testa.
3
Andiamo, presto.
4
Al cacio.
5
Raschiamogli la scorza.
6
Che pretendi.
7
Caraffa.
8
Di pigliare una
imbriacatura.
9
Imbriaco.
10
Se n’è ingoiato.
11
Ed ora si vuole.
12
Se.
13
Inghiottite.
14
Non si.
15
Mastica.
16
Non
aggiungere boccone a boccone.
17
Salvietta.
1615. La modestia in pubbrico
La maggior parte de le donne cqui
tutto er merito lòro e ll’onestà
vve lo fanno conziste
1
in nun guardà
ggnisuno
2
in faccia, pe nnun dà da dì.
3
Drento casa però nun è accusí;
4
e ssi nun fussi
5
pe la carità,
Vergine santa mia de la pietà!,
ve diría cose da favve stordí.
6
Pe strada scerte sciurme
7
che nun piú,
8
mane
9
ar petto, occhi bbassi, che a vvedé
pareno ar terzo scelo
10
e un po’ ppiú ssú.
Ma in cammera, su cquelli canapè,
scerte galantaríe, scerte vertú
da fà rrestà Ssantaccia
11
all’abbeccè.
12
1° settembre 1835
1
Consistere.
2
Nessuno.
3
Per non dar da dire, da mormorare.
4
Così.
5
Se non fosse.
6
Vi direi cose da farvi stordire.
7
Certi cipigli.
8
Che non potrebbero andar più oltre.
9
Mani.
10
Cielo.
11
Famosa bagascia da plebe.
12
All’a bi ci, al
noviziato dell’arte.
1616. Er corzè de la scalandrona
1
Madama Dorotea, me manna cqui
la mi’ padrona pe ppij er corzè
fatto a l’usanza de Monzú Ggabbè,
2
che jje serve stasera c’ha da usscí.
Anzi, m’ha ddetto lei che vv’ho da dí
che vvenite voi puro
3
in zú cco mmé,
a mmettéjjelo
4
in prova pe vvedé
ssi
5
cc’è cquarche ddifetto llí pper lí.
E ddisce che vve dichi
6
d’abbadà
che, in quant’a la larghezza, vienghi
7
un po’
ppiú assestato de quer d’un anno fa.
Perché ddisce che mmó llei de cqua ggiú
è ppiú ggrossa d’allora, e cche pperò
ce vò ppiú stretto un par de deta
8
e ppiú.
1° settembre 1835
1
Donna pingue e di carni flosce.
2
Francesco Gabbet, oriundo francese, inventore o propagatore in Roma di una foggia
di corsaletti da donna composti di molti pezzi rivolti a filo contro il senso della forza dilatante del corpo, onde, meno
cedendo, più lo stringono senza incomodarlo. Raccomanderemo il signor Gabbet al tipografo della Volpe al Sassi in
Bologna, onde lo annoveri nella sua edizione di vite e ritratti de’ benefattori della umanità.
3
Pure.
4
A metterglielo.
5
Se.
6
Che vi dica.
7
Venga.
8
Un paio di dita.
1617. Er zervitore e la cammeriera
Si
1
la padrona inzomma è una ggirella
2
e ha ttutte le vertú dde le miggnotte,
nun ciò ggnente che ddí,
3
ggioja mia bbella.
Er marito è ccontento, e bbona notte.
Ma vvoi nun zete dama com’e cquella,
e io nun zò er curier de don Ghissciotte.
Ergo dunque, siggnora cojjoncella
ve sfornerò un mijjón de mela cotte.
4
Nun v’impostate, fijja bbenedetta.
Vedete, io ve l’avviso co le bbone:
fin che ssò vivvo io, nun ze sciovetta.
5
Cosa ve disse io llí in quer cantone
quanno che vve sposai? «Eh sora Bbetta,
nun ze fàmo
6
guastà dda le padrone».
1° settembre 1835
1
Se.
2
Una capricciosa, un cervellino leggiero.
3
Non ci ho niente da dire.
4
Un milione di busse.
5
Non si civetta, dal
verbo civettare.
6
Non ci facciamo.
1618. Li commenzabbili
1
der padrone
Hanno maggnato cqua, ssí, ppoveretti;
perché llui oggni ggiorno ha la passione
d’invità a ppranzo scinqu’o ssei perzone
pe scorticalli a ffuria de sonetti.
Tutti scràmeno
2
in faccia der padrone
che ppe vverzi co llui manco Ferretti;
ma, in ne l’usscí, li chiameno bbijjetti,
riscevute de sardo
3
e llocazzione.
4
Dunque perché strozzà
5
sta povesía,
tu mme dirai, e nun lassà st’inviti?
Io t’arisponno: un po’ ppe gguittaria,
6
e un po’ pperché a sto monno tu lo sai
come la cosa và: rricchi o ffalliti,
un pranzo auffa
7
nun dispiasce mai.
1° settembre 1835
1
I commensali.
2
Esclamano.
3
Ricevute di saldo.
4
Locazioni.
5
Ingoiare.
6
Miseria.
7
Gratis.
1619. Quer che cce vò cce vò
1
Sonetti 2
Eh ppovera siggnora, lei sce
2
prova,
ma ar cassettino lui
3
sce tiè
4
l’abbiffa.
Dunque com’ha da fa? Ccerca e ssi
5
ttrova
er pollastrello
6
da fà er trucchio,
7
aggriffa.
8
Poi malappena ha quarche ccosa nova,
disce ar marito c’ha vvinto una riffa;
e llui, sce credi o nnò,
9
sempre je
10
ggiova
de fà l’indiano e dd’ingozzà la miffa.
11
Ma ssai che ppasto-nobbile
12
è l’amico!
13
A llui j’abbasta de nun spenne ggnente,
14
e dder restante
15
nun j’importa un fico.
Lo capissce lui puro
16
ch’er zervente
vorà li su’ filetti
17
all’uso antico;
ma, avènnoli
18
anche lui, tasce e acconzente.
1° settembre 1835
1
Quel che ci vuole ci vuole.
2
Ci.
3
Lui, così assolutamente detto, vale: «il padrone».
4
Ci tiene.
5
Se.
6
«Un giovanetto di
primo pelo», ovvero «un uom semplice».
7
Il truccio.
8
Aggriffare, o colpir di griffo è nel giuoco delle bocce il colpo
dato alla palla contraria senza aver prima toccata la terra colla propria.
9
Ci creda o no.
10
Gli.
11
La menzogna.
12
Quale
uomo scaltro.
13
È colui.
14
A lui basta il non ispender nulla.
15
E del resto.
16
Egli pure.
17
I suoi profitti.
18
Avendoli.
1620. Quer che cce vò cce vò
Tutt’ar contrario de quer ch’è da mé.
La padroncina mia, che in quel’età
nun trova ppiú er babbeo che jje ne dà,
1
cià attorno un disperato e lo mantiè.
2
Per cui, siccome su’ marito
3
è er re
de tutta quanta la cojjonità,
lei sce curre
4
a lo sgriggno e jje ne fa
nove parte pe llui, una pe ssé.
S’io me n’accorgo? Me n’accorgo sí;
mma mme sto zzitto, Checco
5
mio, me sto,
pe li sconcerti che ne ponno usscí.
E llei che nnota sta mi’
6
gran vertú,
m’arigala
7
oggni tanto; e io je fo
8
la guardia ar cane, si mmai vienghi sú.
9
2 settembre 1835
1
Le ne dia.
2
E lo mantiene.
3
Suo marito.
4
Ci corre.
5
Francesco.
6
Questa mia.
7
Mi regala.
8
Le fo.
9
Se mai venga su.
1621. Rifressione immorale sur Culiseo
1
St’arcate rotte c’oggi li pittori
viengheno
2
a ddiseggnà cco li pennelli,
tra ll’arberetti, le crosce, li fiori,
le farfalle e li canti de l’uscelli,
a ttempo de l’antichi imperatori
ereno un fiteatro, indove quelli
curreveno a vvedé li gradiatori
sfracassasse
3
le coste e li scervelli.
Cqua llòro
4
se pijjaveno
5
piascere
de sentí ll’urli de tanti cristiani
carpestati e sbramati da le fiere.
Allora tante stragge
6
e ttanto lutto,
e adesso tanta pasce!
7
Oh avventi
8
umani!
Cos’è sto monno!
9
Come cammia
10
tutto!
4 settembre 1835
1
Riflessioni morali sul Colosseo.
2
Vengono.
3
Fracassarsi.
4
Essi.
5
Si pigliavano.
6
Stragi.
7
Pace.
8
Eventi.
9
Questo
mondo.
10
Cambia.
1622. Chi ccerca trova
Se l’è vvorzúta
1
lui: dunque su’
2
danno.
Io me n’annavo in giú pp’er fatto mio,
quann’ecco che l’incontro, e jje fo: «Addio».
Lui passa, e mm’arisponne cojjonanno.
Dico: «Evviva er cornuto»; e er zor Orlanno
3
(n’è ttistimonio tutto Bborgo-Pio)
strilla: «Ah ccaroggna, impara chi ssò io»;
4
e ttorna indietro poi come un tiranno.
Come io lo vedde
5
cor cortello in arto,
6
co la spuma a la bbocca e ll’occhi rossi
cúrreme
7
addosso pe vvení a l’assarto,
8
m’impostai cor un zercio
9
e nnun me mossi.
Je fesci fà ttre antri
10
passi, e ar quarto
lo pres’in fronte, e jje scrocchiorno l’ossi.
11
4 settembre 1835
1
Se l’è voluta, l’ha voluta.
2
Suo.
3
Il tagliacantoni, lo spaccamontagne.
4
Chi sono io.
5
Appena io lo vidi.
6
In alto.
7
Corrermi.
8
All’assalto.
9
Con un selce.
10
Gli feci fare tre altri.
11
Gli scricchiolarono le ossa.
1623. Er proggnostico de la sora Tecra
1
Lui ggiovene, e llei ggiovene: lui bbello,
e llei bella: lui scàpolo e llei puro:
2
l’uno e ll’antra de casa mur’a mmuro:
tutt’e ddua un po’ mmatti in ner cervello:
lui cantava jjerzéra un ritornello,
e llei s’affacciò ssubbito a lo scuro...
Via, s’appiccicheranno
3
de sicuro:
io me sce ggiucherebbe
4
er filarello.
5
Ma co nnoi? Fijja, ne sapémo troppo.
L’omo accant’a la donna è una fornasce
in ner mezzo a la porvere da schioppo.
Ce vò antro a impidì cche mmadr’e ppadri!
6
Femmine e mmaschi sgrinfieranno
7
in pasce
8
sin c’a sto monno sce saranno ladri.
5 settembre 1835
1
Il pronostico della signora Tecla.
2
Pure, ancora.
3
Si attaccheranno.
4
Io mi ci giuocherei.
5
Filarello: macchinetta a
ruota per filare.
6
Ci vuole altro che madri e padri per impedire.
7
Amoreggeranno.
8
In pace.
1624. L’ammalato magginario
1
Lo crederò pperché mme lo ggiurate
c’un antro po’ nnun ve trovavo vivo.
L’aspettito
2
però mmica è cattivo:
io ve vedo com’erivo
3
st’istate.
4
Volete guarí
5
ssubbito? Maggnate,
bbevete quarche bbon ristorativo,
levateve dar culo er lavativo,
e usscite in ste bbellissime ggiornate.
Fora, fora: un po’ d’aria de campaggna:
quello sce vò
6
ppe vvoi: moto, alegria,
e ppoi ggnente pavura de magaggna.
Sú, a ffiumaccio spezziale e spezziaria.
L’omo campa cquaggiú dde quer che mmaggna;
e ’r curasse
7
è la peggio ammalatia.
5 settembre 1835
1
Immaginario.
2
L’aspetto.
3
Com’eravate.
4
Questa estate.
5
Guarire.
6
Ci vuole.
7
E il curarsi.
1625. Er cimiterio de San Lorenzo
1
Jeri
2
a vventitré ora finarmente
sto scimiterio è stato bbenedetto.
3
T’assicuro che ffu un carnovaletto,
p’er gran concorzo de carrozze e ggente.
Le seppurture vecchie er Papa ha ddetto
che dd’or’impoi nun zèrvino
4
ppiú a ggnente,
perché tutti li morti istessamente
5
anneranno
6
llaggiú ssopr’un carretto.
Però, s’intenne,
7
da li Papi
8
in fori,
e ccardinali, e vvescovi, e pprelati,
e ppreti, e ffrati, e mmoniche e ssiggnori.
Ne sarà ppuro
9
accettuato
10
oggnuno
che sse
11
terrà da conto li curati...
Inzomma, via, nun ciannerà
12
ggnisuno.
6 settembre 1835
1
Principiatosi a costruire sotto l’impero di Napoleone, ed ora in parte compiuto sotto l’impero del timor del cholera,
onde abolir l’uso della tumulazione nelle chiese.
2
Giovedì 3 settembre 1835.
3
Dal vicario, cardinale Odescalchi.
4
Non
servano.
5
Ugualmente.
6
Andranno.
7
S’intende.
8
Dai Papi.
9
Pure.
10
Eccettuato.
11
Si.
12
Non ci andrà.
1626. Er frutto de le gabbelle grosse
Capite voi?
1
Pe ccressce
2
la gabbella
fanno cressce li fraudi e ’r contrabbanno.
Capite voi che ppo’
3
de bbagattella
tre scudi a ccanna de laumento
4
ar panno?
È un affare de venti in ventun anno
5
ch’io sò ccapo-facchino in doganella;
e ’r fatto sta, ccapite voi?, che cquanno
cressce un dazzio, oggni ggiorno una quarella.
6
Dico pe cquello che sse
7
scopre: eppoi
sc’è ttutto quanto er resto che ddich’io,
ch’è ccento vorte ppiú: capite voi?
Tre o cquattro piastre in faccia a un proposèo,
8
e vve fanno passà mmagaraddio
9
tutti li panni de Ggiusepp’ebbreo.
6 settembre 1835
1
Semplicemente, «capite?».
2
Per crescere.
3
Poco.
4
D’aumento.
5
È dall’epoca di venti in ecc.
6
Una querela, una
denunzia.
7
Si.
8
Proposé: soldato di dogana.
9
Magari.
1627. Un inzoggno
1
Me so’
2
fatto un inzoggno. Me pareva
d’èsse
3
creato Papa in ner Concrave,
e mme vienissi
4
avanti Adamo e Eva
a pportamme
5
un bastone e un par de chiave.
6
Poi me pareva de stà in pizzo
7
a un trave,
e un omo sceco
8
me dassi
9
la leva;
e mme trovavo solo in d’una nave
che un po’
10
mme s’arrenava e un po’ ccurreva.
Poi me pareva d’avé ccento bbraccia,
novantanove pe ttirà cquadrini
e uno pe ddà indietro carta-straccia.
Cqua ssento come un sparo de cannone;
me svejjo abbraccicato
11
a li cusscini,
e in cammio d’èsse
12
Papa ero un cojjone.
6 settembre 1835
1
Un sogno.
2
Mi sono.
3
D’essere.
4
Venisse.
5
Portarmi.
6
Un paio di chiavi.
7
Sulla estremità.
8
Cieco.
9
Mi dasse.
10
Talora.
11
Mi sveglio abbracciato.
12
In cambio.
1628. La cremenza minchiona
Ch’er Papa, co l’annà ttanto bberbello
1
contr’a li ggiacubbini de la setta,
se possi
2
conzervà Rroma soggetta,
ciò le mi’ gran difficortà, ffratello.
Eh ssi fuss’io, pe cquanto?, pe un’oretta,
governator de Roma e bbariscello,
3
vederebbe oggni suddito ribbello
cosa se
4
chiama ar Monno aspra vennetta.
’Na bbrava manettata lesta lesta,
un proscessaccio, e, appena condannati,
sur carretto, e ppoi subbito la testa.
E ppe incúte
5
a la setta ppiú ppavura,
doppo avelli accusí gghijjottinati
je darebbe
6
una bbona impiccatura.
6 settembre 1835
1
Bel bello, dolcemente.
2
Si possa.
3
Bargello.
4
Si.
5
Per incutere.
6
Gli darei.
1629. Madama Lettizzia
Che ffa la madre de quer gran colosso
che ppotava il Re cco la serecchia?
Campa de cunzumè, nnun butta un grosso,
disce e nnepà,
1
sputa e sse specchia.
2
Sta ssopr’a un canapè, ppovera vecchia,
impresciuttita llí ppeggio d’un osso;
e ha ppiú ccarne sto gatto in d’un’orecchia
che ttutta quella che llei porta addosso.
A ccolori è er ritratto d’un cocommero
sano: un stinco je bbatte co un ginocchio;
3
e ppe’ la vita è ddiventata un gnommero.
4
Cala oggni ggiorno e vva sfumanno a occhio.
Semo all’Ammèn-gesú: ssemo a lo sgommero:
5
semo all’ùrtimo conto cor facocchio.
6
8 settembre 1835
1
Credono i popolani nostri che il no de’ Francesi sia nepà.
2
Si specchia. E realmente Mad. Letizia continuamente
specchiavasi. Quanti motivi potevano trarla a quest’uso!
3
Dopo una caduta, rimase con una gamba rattratta.
4
Un
gomitolo.
5
Siamo allo sgombro, siamo all’amen: è finita.
6
Pel cocchio che doveva funeralmente portarla al sepolcro.
1630. Li spaventi de la padrona
E jjerzera
1
me diede un’antra stretta.
2
Doppo accesi li lumi, a un quarto e mmanco,
3
stavo in zala accusí ssur cassabbanco
sbavijjanno
4
e bbattenno la scianchetta,
5
quanno, che vvòi sentì!,
6
de punt’in bianco
7
quela testa de matta mmaledetta
me se
8
mette a strillà da la toletta
c’uno scorpione je sbramava
9
un fianco.
Curro de furia, spalanco la porta,
e ttrovo lei che sse vieniva meno
10
sopr’a la cammeriera mezza morta.
Credi che ffussi
11
uno scorpione? Eh ggiusto!
Era un pizzo d’un osso-de-bbaleno,
12
che jj’ussciva cqui ggiú ffora der busto.
8 settembre 1835
1
E ieri a sera.
2
Un altro orgasmo.
3
A meno di un quarto d’ora di notte.
4
Sbadigliando.
5
Gambettando.
6
Che voi udire?
7
All’improvviso.
8
Mi si.
9
Le sbranava.
10
Si veniva meno: veniva meno.
11
Fosse.
12
L’estremità di un osso di balena.
1631. La cuggnata
1
de Marco Spacca
Come disce er ronnò
2
cco la catena?
Parto reggin’addio sèntime Arbasce.
Accusí
3
ddico a tté: ssèntime, Nena,
4
sta tu’ sorella
5
a mmé ppoco me piasce.
Io so
6
un omo che ccerco la mi’ pasce
7
ma un giorn’o ll’antro
8
che mme pijja in vena,
me j’attacco
9
ar tiggnone,
10
e ssò ccapasce
11
d’ammaccajje er musaccio e ffà una sscena.
Fàmose a pparlà cchiaro. Er viscinato
pò ddí
12
ssi
13
cche ffioretto è stata lei,
ché er marito sc’è mmorto disperato.
Che tte viè
14
a rriccontà? li su’ trofei?
Che vviè a ffà a ccasa mia, pe bbio salato?
A imbirbitte
15
un po’ ppiú de quer che ssei?
9 settembre 1835
1
La cognata.
2
Il rondò.
3
Così.
4
Sentimi, odimi, Maddalena.
5
Questa tua sorella.
6
Io sono.
7
La mia pace.
8
O l’altro.
9
Me le attacco.
10
Il tignone è formato dalle trecce di capelli ravvolte dietro il capo.
11
E sono capace.
12
Può dire.
13
È un
ripieno da non considerarsi.
14
Che ti viene.
15
A guastarti, a corromperti.
1632. Li nobbili
Un nobbile, o de vecchia o nnova zecca,
o vvadi
1
co la scuffia o ccor cappello,
(nun zia
2
detto pe ddajjene
3
la pecca)
è una spesce
4
d’un cane de mascello.
5
Te ggira attorno bberbello bberbello,
te se
6
strufina, t’ammusa, te lecca,
te scòtola
7
la coda..., e ppe un capello
8
poi te s’affiara indov’azzecca azzecca.
E cquanno puro
9
quer cagnaccio indeggno
te facci
10
una carezza co la zampa,
abbada a tté,
11
cche tte sce lassa er zeggno.
12
Pe ste sorte de bbestie, Madalena,
da la quale ggnisuno se la scampa,
ecco er zolo
13
rimedio: a la catena.
settembre 1835
1
O vada.
2
Non sia.
3
Per dargliene.
4
Specie.
5
Di macello.
6
Ti si.
7
Ti scuote.
8
E per un nonnulla.
9
E quando pure.
10
Ti
faccia.
11
Bada a te.
12
Perché ti ci lascia il segno.
13
Il solo.
1633. Oggnuno ha li sui
Eh nun c’è vverzo: ar Monno, bbella mia,
nun cià ppropio da èsse
1
una contenta.
Vòi ’na donna ppiú rricca de Maria,
c’ha vventi anelli e ppiú, ssi nnun
2
ttrenta?
Ebbè, vva’ a ssentí llei: pare inzinenta
3
che tte vòjji spirà dd’ipocondria.
Nun ride mai, sospira, e sse
4
lamenta
de nun poté ffà ffijji. Eh? cche ppazzia!
Da un’antra
5
parte poi, povera donna,
capisco, un fijjo a llei je staría bbene
com’un lume davanti a la Madonna.
Io je l’ho ddati li conzijji bboni.
Dico: «Ma ppe llevatte
6
da ste pene,
fijja, hai mai provo
7
de cammià
8
ccarzoni?».
11 settembre 1835
1
Non ci ha propriamente da essere.
2
Se non sono.
3
Sino.
4
Si.
5
Altra.
6
Per levarti.
7
Provato
8
Di cambiare.
1634. La Madonna de la bbasilica libbreriana *
Sonetti 2
Che ppriscissione! Oh ddio, stateve quieti
ch’io vorze annacce
1
pe li mi’ peccati!
Vennero tre ddiluvî scatenati
da intontí li padriarchi e li profeti.
Li preti nun pareveno ppiú ppreti,
li frati nun pareveno ppiú ffrati,
ma ppanni stesi, purcini abbaggnati,
trippette, scolabbrodi, sottasceti...
Li vedevi cantanno
2
lettaníe,
chi in cotta, chi in pianeta, chi in piviale
scappà ppe li portoni e ll’osterie.
Inzomma, ggente mia, fu una faccenna
3
che inzino la Madonna e ’r Cardinale
4
doverno fà la sparizzion de Vienna.
11 Settembe 1835
* Basilica Liberiana, cosí detta dal nome di S. Liberio Papa, sotto il cui pontificato fu eretta, ma piú conosciuta col
titolo di Santa Maria Maggiore. In essa, entro la cappella borghesiana, si conserva la miracolosa immagine della
Vergine, una di quelle dipinte per suo divertimento dal medico S. Luca evangelista. Questa immagine per ordine di
Gregorio XVI fu tratta di l’8 settembre 1835 ond’esser trasportata processionalmente da tutto il clero secolare e
regolare alla basilica vaticana, a preservare per sua intercessione la città di Roma dal vicino flagello del cholera.
1
Ch’io volli andarci.
2
Cantando.
3
Faccenda.
4
Il Cardinal Vicario, Odescalchi, fuggì con la Madonna nella chiesa di S.
Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) de’ filippini, ed ivi la depose. Con altra processione poi nella seguente domenica,
si portò a S. Pietro, dove per varii giorni rimase esposta alla pubblica venerazione, e quindi fu ricondotta a casa sua.
1635. La Madonna de la bbasilica libbreriana
Uhm, la ggiornata er Papa nu la trova
pe ffiní ll’antra
1
mezza priscissione.
Che tte pare? Ggià er tempo sciariprova
cor zolito tempaccio bbuggiarone.
Vado vedenno
2
che sta gran funzione
finirà ccom’er pranzo d’un par d’ova,
e ’r zagro
3
quadro resterà a ppiggione
indov’abbita mó, a la Cchiesa-nova.
La spasseggiata de sto quadro nero
me pare er viaggio de la tartaruca,
che ppe ttre mmijja sce
4
un mese intiero.
Oh ppovera Madonna de san Luca!
Lei a Ssan Pietro nun ce va davero
si
5
er Papa nun prepara una filuca.
13 settembre 1835
1
L’altra.
2
Vedendo.
3
E il sacro.
4
Ci vuole.
5
Se.
1636. Li Papi de punto
1
Nu lo capisco io sto verba vòla:
2
nun me piàsceno a mmé sti bbiribbissi.
3
Li Papi hanno da dí: cquo ddissi, dissi.
4
Li Papi hanno da èsse de parola.
Se sprofonnassi
5
er celo in ne l’abbissi,
una promessa, una promessa sola
l’ha (scappata che jj’è ffor de la gola)
da inchiodà ccom’e ttanti croscifissi.
Ecco llí Cchiaramonti: ecco er modello.
Ner momento d’annà in deportazzione
cosa disse a li preti a lo sportello?
«Io parto aggnello e ttornerò lleone».
Defatti accusí ffu. Cquer bon aggnello
partí ggranello e rritornò ccojjone.
12 settembre 1835
1
Di fermo carattere.
2
Verba volant.
3
Giuochi, mutamenti, sotterfugi.
4
Quod dixi, dixi.
5
Si sprofondasse ancora.
1637. L’ubbidienza
Nò, vveh, ccristiani, nun è vvero mica
che ppe ubbidí cce vò ttanta pazienza.
È un gran riposo all’omo l’ubbidienza;
e ppe cquesto in ner monno è ccusí antica.
Ma ssentite, ch’Iddio ve bbenedica,
che bbella verità: er Zovrano penza,
e er zúddito esiguissce; e in conzeguenza
oggnuno fa ppe ssé mmezza fatica.
E a cchi de noi saría venuto in testa
de pagà la dativa ariddoppiata
si
1
er Papa nun penzava puro
2
questa?
Un essempio e ffinisco. Ar teatrino
chi la sostiè
3
la parte ppiú ssudata?
Dite, er burattinaro o er burattino?
12 settembre 1835
1
Se.
2
Pure.
3
Sostiene.
1638. Er giovene servizzievole
Io le su’ bbirberie nu l’annisconno:
1
è uno scapezzacollo
2
pien de vizzi.
Ha pperò un core che ppe ffà sservizzi
lui nun ce maggna e cce se
3
leva er zonno.
Ponno vení li diavoli, sce ponno
èsse fiumi, montaggne, priscipizzi:
come se
4
tratta de fà bboni uffizzi
v’annerebbe magara in cap’ar monno.
Ce stanno sopr’a llui quele du’ vecchie
che fanno scappà vvia;
5
eppuro
6
lui
je porterebbe l’acqua co l’orecchie.
A mmé ddunque me pare, poveretto!,
che ppe sti bboni riquisiti sui
je se pò pperdonà cquarche difetto.
12 settembre 1835
1
Non le nascondo.
2
Scapestrato.
3
Ci si.
4
Si.
5
Che son tali da inorridire chi le vede.
6
Eppure.
1639. Chi mmistica màstica
1
Je lo prèdico sempre a cquela sciuccia
2
che cchi vvò vvive
3
cor timor de Ddio
ha da innustriasse e ffà
4
ccome fo io,
pe gguadaggnasse
5
er pane e un po’ de cuccia.
6
Perché llei nun impara a essempio mio
a nnegozzià de perza e de mentuccia?
Ché Rroma mica è ppoi Roccacannuccia
da nun offrí rrisorte,
7
eh sor don Pio?
Quann’una inzomma ha una bbon’arte in mano,
pò ddísse
8
er fatto suo, e arzà la testa,
e rrídese
9
inzinenta
10
der Zovrano.
Je lo prèdico sempre io: «Zinforosa,
ingeggnete
11
cardèa:
12
la ggente onesta
oggnuno ha dd’appricasse
13
a cquarche cosa».
12 settembre 1835
1
Che si rimescola, mangia.
2
A quella ciuccia.
3
Chi vuol vivere.
4
Ha da industriarsi e fare, ecc.
5
Per guadagnarsi.
6
E
un po’ di ricovero.
7
Da non offrire risorse.
8
Può dirsi.
9
E ridersi.
10
Sino.
11
Ingegnati.
12
Stolta.
13
Da applicarsi.
1640. L’incontro de le du’ commare
1
«Oh, addio, commare: indove vai de cqua?»
«A ssentí mmessa a Ssant’Ustacchio. E ttu?»
«Io esco mó da casa, e ttiro in giú
verzo er Monte». «Che mmonte?» «De pietà».
«E cco sta presscia?
2
E cche cce vai a ffà?»
«Eh, a rrifrescà sti peggni. «E cche cciài
3
sú?»
«Ciò
4
una cuperta trapuntata, e ddu’...».
«Ho ccapito. E pperché le lassi llà?»
«Pe nnun poté speggnalle». «E pperché? di’».
«Ma ssei curiosa tu co sti perché!
Perché nun ciò
5
cquadrini, eccola cqui».
«Ma pperché ll’impeggnassi?»
6
«Oh questa mó
è ppiú bbuffa dell’antra!».
7
«Inzomma, ebbè?»
«Pe annà a Ttestaccio a ddivertímme
8
un po’».
13 settembre 1835
1
Delle due comari.
2
Fretta.
3
Ci hai.
4
Ci ho.
5
Non ci ho: non ho.
6
Le impegnasti.
7
Dell’altra.
8
A divertirmi.
1641. Er vistí de la ggente
Nun concrude: vedete Sarafina?
Co cquella bbella su’ disinvortura
lei un straccio ch’è un straccio je figura:
se
1
mette un corno e ppare una reggina.
A l’incontrario poi sc’è la spazzina
che, ppò pportà cqualunque accimatura,
è un pajjaccio vistito, fa ppavura,
la pijjate pe un sacco de farina.
S’intenne: tutto sta nne la perzona.
Chi è svérta
2
com’e nnoi, la peggio robba
je s’adatta e jje sta ccome la bbona.
Dateme invesce un tripponaccio grosso,
una guercia, una ssciabbola, una gobba:
oggni galantaria je piaggne addosso.
13 settembre 1835
1
Si.
2
Svelta.
1642. La zitella ammuffita
È inutile pe mmé, ssora Nunziata,
de dimannamme si
1
mme faccio sposa.
2
Io nun zò Llutucarda, io nun zò Rrosa,
pper èsse bbervorzúta
3
e ariscercata.
Ppe mmé ppovera mmerda è un’antra cosa.
Nun me sò inzin’adesso maritata,
e ccreperò accusí; perch’io sò nnata
sott’a cquella stellaccia, pidocchiosa.
Ciarlàveno der coco; ma ssu cquello
nun c’è vverzo da facce
4
capitale:
sta ppiú fforte der maschio de Castello.
Bbasta, aspettamo un po’ sto carnovale,
si ccapitassi
5
quarche scartarello:
lassàmo fà ar Ziggnore e a Ssan Pasquale.
6
13 settembre 1835
1
Se.
2
Pronunziato coll’o stretta.
3
Per esser benvoluta, amata.
4
Da farci.
5
Se capitasse.
6
San Pasquale Baylon,
protettore delle giovani da marito.
1643. L’avaro
Sonetti 2
È ttant’avaro quer vecchio assassino
che schiatterebbe pe nun dà una spilla,
e ppe nun spenne
1
l’arma d’un quadrino
2
nun ze farebbe
3
mmezza diasilla.
4
La matina, in ner batte
5
l’acciarino
pe ppreparasse
6
er tè de capomilla,
7
pijja un pezzo de lesca
8
piccinino
piccinino ppiú assai de la favilla.
La bbarba se la fa ssenza sapone,
e ’r zu’ rasore
9
nu l’affila mai
pe ppavura che vvadi in cunzunzione.
E ar tempo de li frutti fa er mistiere
d’ariccojje ossi,
10
e cquanno sce n’ha assai
ne va a vvenne
11
le mmannole
12
ar drughiere.
13
13 settembre 1835
1
E per non ispendere.
2
Neppure un quattrino.
3
Non si farebbe dire.
4
Diessilla.
5
Nel battere.
6
Per prepararsi.
7
Di
camomilla.
8
Di esca.
9
E il suo rasoio.
10
Di raccogliere ossa.
11
A vendere.
12
Le mandorle.
13
Al droghiere.
1644. L’avaro
Quer vecchio che vvenneva
1
ar zor Balestra
le mmànnole dell’ossi de li frutti
per ccrompacce
2
li stinchi de presciutti
da fà er brodo a un baiocco de minestra,
ha llassato morenno
3
una canestra
de zecchini, pesati e ggiusti tutti,
acciò er fijjo li sporveri
4
e li bbutti
a bber commido
5
suo da la finestra.
Lui defatti in teatri, in pupe,
6
in gioco,
in leggni, in mode, in viaggi, e in maggnà e bbeve
7
n’ha sfranti
8
ggià che jje ne resta poco.
La fine poi la sentirete in breve;
perché cquello è ggruggnetto
9
de dà ffoco
inzinenta
10
a li pozzi de la neve.
21 settembre 1835
1
Vendeva.
2
Per comperarci.
3
Lasciato morendo.
4
Li spolveri, li dissipi.
5
A bel comodo.
6
In femmine.
7
E bere.
8
N’ha
dispersi.
9
È persona capace.
10
Sino.
1645. Er boccone liticato
Ohé, ohé, l’hai visto quell’artóne
1
che jj’ho ppassato adesso l’immassciata?
2
Oh ddio che rride!
3
oh cche ccommedia è stata!
T’avevi da trovà ddietr’un cantone.
Dico: «Sc’è mmonzú Ajjè». Ddisce: «Padrone».
E intanto la siggnora è ddiventata
una fiàra de foco, e la cuggnata
come un fojjo de carta fiorettone.
Sappi c’a mmé mm’ha cconfidato Nina
la cammeriera, che er monzú ffrancese
aveva da sposà la padroncina.
Ma la padrona, a la stracca a la stracca,
tant’ha ssaputo fà, cche in capo a un mese
l’ha mmesso ar punto de vortà ccasacca.
14 settembre 1835
1
Quell’uomo alto.
2
Pel quale ho adesso passato, ecc.
3
Oh Dio, che ridere!
1646. Le man’avanti
Ggiú cco le mano;
1
se stia fermo; e ddua.
A cchi ddico? E da capo! Ahà, ho ccapito:
savio, sor Conte, ché jje scotto un dito.
Ma ssa cche llei è un ber porco da ua?
2
Me pare una vergoggna a mmé sta bbua
3
co ’na zitella che nun ha mmarito.
Dunque me lassi in pasce:
4
ecco finito;
e sse tienghi le mano ccasa sua.
5
Ôoh, adesso principiamo co la gamma.
6
Vò ffinillao nnò? Bbadi, Eccellenza,
nun ciariprovi
7
veh, cché cchiamo Mamma.
E cche sse
8
crede lei? de stà ar precojjo?
9
Io co llei nun ce pijjo confidenza,
e ste su’
10
libbertà mmanco le vojjo.
14 settembre 1835
1
Mani.
2
Un bel porco da uva: sozzo in grado estremo.
3
Questa storia, questa faccenda, ecc.
4
Mi lasci in pace.
5
E si
tenga le mani a sé.
6
Gamba.
7
Non ci riprovi.
8
Si.
9
Al proquoio.
10
E queste sue.
1647. La Madòn de la neve
La Madòn de la neve è una Madonna
diverza assai da la Madòn de Monti,
da quell’antra
1
viscin’a ttor de Conti
e da quella der zasso a la Ritonna.
2
Sopra de lei m’ariccontava nonna,
fra ttant’antri
3
bbellissimi ricconti,
’na storia vera da restacce tonti,
4
che nnun ze n’è ppiú intesa la siconna.
Ciovè cche un cinqu’agosto, a ora scerta,
5
nevigò in zimetría su lo sterrato
fra vvilla Strozzi e ’r palazzo Caserta.
E intanto un Papa s’inzoggnò un sprennore;
6
e «Vva», ss’intese dí: «ddov’ha ffioccato
fa’ ffrabbicà
7
Ssanta Maria Maggiore».
14 settembre 1835
1
Altra.
2
Al Panteon.
3
Tanti altri.
4
Da restarci attoniti.
5
Ad ora certa.
6
Si sognò, sognò uno splendore.
7
Fa’ fabbricare.
1648. Er ceco
Lui, prima de scecasse in sta maggnera,
1
negozziava de nocchie bbell’e mmonne;
2
e adesso campa cor girà la sera
vennenno lettaníe
3
pe le Madonne.
Co ’na voscetta liggèra liggèra
incomincia a ccantà: Ccrielleisonne,
Cristelleisonne..., e cquela strega nera
de la mojje sbavijja e jj’arisponne.
Lui scià
4
ffisse da venti a ttrenta poste
a un pavoletto o ddu’ carlini ar mese,
che ppoi tutti finischeno dall’oste.
Sto sceco inzomma campa d’orazzione
5
come fanno li preti ne le cchiese.
Nun ve pare una bbella professione?
14 settembre 1835
1
Di acciecarsi in questa maniera.
2
Avellane, bell’e monde.
3
Venendo litanie.
4
Ci ha: ha.
5
Di orazioni.
1649. La primaròla
Sonetti 2
E accusí? ggrazziaddio, sora Susanna,
l’avemo arzata poi la trippettona?
Che la bbeata Vergine e Ssant’Anna
ve protegghino, e ssia coll’ora bbona.
E in che lluna mó state? Ah, in de la nona.
Eh, ar véde,
1
si
2
la panza nun inganna,
pare che nun dev’èsse una pissciona,
3
ma ssarà arfine quer ch’Iddio ve manna.
4
Ve la sentite in corpo la cratura?
Dunque bboni bbocconi, e ccamminate;
e llassate fà er resto a la natura.
Ggnente: tutte ssciocchezze. Voi penzate,
pe llevàvve
5
da torno
6
la pavura
quante prima de voi sce
7
ppassate.
15 settembre 1835
1
Al vedere.
2
Se.
3
Non dev’essere una femmina.
4
Vi manda.
5
Per levarvi.
6
D’attorno.
7
Ci sono.
1650. La primaròla
Come sarebbe?! Ho da cacà un maschiaccio?
Oh ddio, commare mia, nun me lo dite;
che sti maschiacci
1
le calamite
de li guai. Nò, ppiuttosto io nu lo faccio.
Io so cche cquanno lo tienessi in braccio
ggià ccredería vedello attaccà llite,
ggià schiccherasse
2
ggiú cquante acquavite
cià ppadron Carlandrea drent’a lo spaccio.
’Na femminuccia armanco,
3
poverella,
quanno me la mannassi
4
la Madonna
io me l’alleverebbe a mmollichella.
5
Un omo spesso spesso v’arimane
senz’arte e ssenza parte; ma una donna
sa ssempre come guadammiasse
6
er pane.
15 settembre 1835
1
Sono.
2
Ingoiarsi.
3
Almeno.
4
Me la mandasse.
5
Me l’alleverei accuratamente a mio modo, secondo il mio cuore.
6
Guadagnarsi.
1651. Er traccheggio *
«Ebbè? cquanno te sbrighi?» «A ffà cche ccosa?»
«A sposamme». «A sposatte?!» «Sí, a sposamme».
«Sorella, dàmme un po’ de tempo, dàmme:
tu ssei ’na donna troppa pressciolosa».
1
«Sí, ttempo e ttempo, e nun viè mmai». «Ma, Rrosa,
vò ddí
2
cch’averà mmale in ne le gamme».
«E intanto mamma bbrontola». «Eh, le mamme
nun zann’antro che ddí:
3
mmi’ fijja è sposa».
4
«Dunque sciariparlamo cor Curato;
5
perch’io, bbrutt’animaccia de ggiudío,
6
la carne mia, la carne mia t’ho ddato».
«Ma ssenti co che mmeriti se n’essce!
Tanti sussurri pe sta carne! E io,
bbuggiarona che ssei, t’ho ddato pessce?».
16 settembre 1835
* Il temporeggiare.
1
Frettolosa.
2
Vuol dire.
3
Non sanno dire altro fuorché.
4
Mia figlia è sposa. Sposa pronunciato con
o chiuso.
5
Ci riparliamo col curato: ricorrerò al curato.
6
Giudeo.
1652. Le chiamate dell’appiggionante
«Sora Sabbella.»
1
«Êe». «Ssora Sabbella,
affacciateve un po’ ssu la loggetta».
«Eccheme:
2
che vvolete sora Bbetta
3
«Ciavéte
4
una piluccia
5
mezzanella?»
«Ciò
6
cquella de la marva».
7
«Ah, nnò, nnò cquella».
«Eh, nun ciò antro,
8
fijja bbenedetta».
«Bbe’, imprestateme dunque un fil d’erbetta,
un pizzico de spezzie e una padella?»
«Mó vve le calo ggiú ccor canestrino».
«Dite, e mme date uno spiechietto d’ajjo,
un po’ d’onto e una lagrima de vino?»
«Ma ffamose a ccapí,
9
ssora Bbettina,
a ppoc’a ppoco voi, si
10
nun me sbajjo
me sparecchiate tutta la cuscina».
16 settembre 1835
1
Isabella.
2
Eccomi.
3
Elisabetta.
4
Ci avete, cioè semplicemente avete.
5
Un pignattino.
6
Ci ho: ho.
7
Della malva.
8
Non
ci ho altro: non ho altro.
9
Ma facciamo ad intenderci.
10
Se.
1653. Vatt’a ttené le mano
1
«Marta. Oh Marta!». «Ch’edè?»
2
«Mmarta». «Che vvòi?»
«Porteme ggiú er tigame de la colla».
«Venite sú a ppijjavvelo
3
da voi,
ch’io sto ar foco a ssuffrigge la scipolla».
«Io nun posso lassà, cché cciò una folla
de cose da finí». «Sse
4
ffanno poi».
«Vedi, Marta? Eppoi dichi uno te bbolla!».
5
«Oh ccanta». «Marta, dico: ànimo, a nnoi».
«C’avete, padron Peppe,
6
che strillate
«Ôh, mmastro Checco:
7
l’ho cco cquela strega
che mme porti la colla». «Ebbè, aspettate.
Eccheve
8
er callarello der padrone:
tanto noi mó sserramo la bbottega».
«Grazzie, e cco bbona ristituzzione».
16 settembre 1835
1
Vatti a tenere le mani.
2
Cos’è?
3
A pigliarselo.
4
Si.
5
E poi dici, e poi ti lamenti se uno ti segna.
6
Giuseppe.
7
Francesco.
8
Eccovi.
1654. L’inguilino antico
Doppo tant’anni v’annate inzoggnanno
1
ch’io muto casa? Uhm, mmanco per idea.
Saranno scinquant’anni, eh Dorotea,
che stamo cqui? E ssicuro che ssaranno.
Se
2
fa ssubbito er conto. Io sc’entrai quanno
ebbe
3
lo sturbo che mme mòrze
4
Andrea.
M’aricorderò ssempre cche ffu ll’anno
che vvenne a Rroma l’úrtima chinea.
5
Sto bbúscio
6
inzomma io me sce sò invecchiato;
e oramai co ttant’anni de piggione
sai quante vorte me lo sò ccrompato?
7
Allora ariscodeva
8
er zor Aimme,
9
poi venne un oste, e mmo st’antro
10
padrone
c’ha ppagato la casa sscimme sscimme.
11
18 settembre 1835
1
Vi andate sognando.
2
Si.
3
Ebbi.
4
Mi morì.
5
«L’ultima Chinea»: nel 1787.
6
In questo buco.
7
Me lo sono comperato.
8
Riscuoteva.
9
« Haim», famiglia ora estinta.
10
Ora quest’altro.
11
A vil prezzo.
1655. Le lode tra ddonne
Anime sante! come s’è stregata
1
quela Bbibbiana! E mme se dà cquer tono.
Che schifenza! Nun pare, co pperdono,
una coda de gatto scorticata?
Ggià, nun è stata mai ggnente de bbono:
l’ho vvista in vita sua sempre sguajata:
ha avuta sempre una gran brutta occhiata:
puro,
2
prima... Ma adesso? te la dono.
Magra ppiú d’una tèmpora, pellosa,
co ’na bbocca d’abbisso, d’un colore
tra la ruta, la scennere e la rosa...
E sse dà ar monno
3
chi cce fa l’amore?
E sse trova er bon’omo che la sposa?
Ce vò un stòmmico proprio da dottore.
4
19 settembre 1835
1
Sciupata, decaduta.
2
Purtuttavia.
3
E si trova al mondo.
4
Medico: uno stomaco da medico.
1656. Er cacciatore
Fijjolo, me seccate inutirmente.
D’un cacciatore io poco me ne fido.
Nun me guardate fisso, ché nun rido.
Fijjo caro, io nun sposo scerta ggente.
Come! sorprenne
1
e condannà a lo spido
2
una povera passera innoscente,
che a vvoi nun v’odia e nnun v’ha ffatto ggnente,
e sta pp’er fatto suo drent’ar zu’ nido!
Io la penzo pe mmé cche un cacciatore
che ggode tanto d’ammazzà un uscello,
nun pò èsse
3
un cristiano de bbon core.
Bella raggione! Ah, ddunque perché cquello
è ppiccinino, nun zente er dolore
com’un omo a lo sfràggneje er cervello?
settembre 1835
1
Sorprendere.
2
Spiedo, in senso di schidione.
3
Non può essere, ecc. Gio. Giorgio Zimmermann la pensa presso a
poco come la nostra romanesca, avendo detto nel suo trattato sulla Solitudine che un uomo pel quale la caccia sia una
passione farà tanto più male agli uomini quanto più avrà di potere.
1657. La serva e la criente
«Chi è cche bbussa?» Sò io, sora Lonòra.
C’è er zor Abbate Pela?» «Nò, mma entrate,
ch’è ccapasce
1
che ttorni, ché l’istate
lui pe ssolito viè ssempr’a bbon’ora».
«Dunque l’aspetto cqui, pperché llí ffora
c’è una solína da morí abbrusciate».
«E pperché lo volévio
2
er zor abbate?»
«Pe cquela lite che cce venne
3
allora».
«Che! avete aùta un’antra scitazzione?»
«Sí, ppe ddisgrazzia mia; e ddon Giuanni
disce ch’è ppe lo sfratto e la piggione».
«E vvoi ve ne pijjate tant’affanni?
Lassate, fà, lassate fà er padrone
e nun annate
4
via manco in cent’anni».
19 settembre 1835
1
È probabile.
2
Volevate.
3
Ci venni.
4
Non andate.
1658. Li salari arretrati
Je li chiedo oggnisempre, io, fijji cari;
ma cche sserve che ppívoli
1
e ccammini?
Un giorno disce che nun cià ddenari,
e un antro
2
disce che nun cià cquadrini.
Jerzera arfine, fascenno lunari,
manco si
3
avessi li piedi indovini,
passo davanti ar caffè de crapettari
4
e tte l’allúmo
5
llí ttra ddu’ paìni.
6
Me metto de piantone in faccia a llòro,
e appena vedo che llui arza er tacco
me je fo avanti com’un cane ar toro.
E llui che mm’arispose? Eh, stracco stracco
cacciò una bbella scatoletta d’oro
e mme diede una presa de tabbacco.
19 settembre 1835
1
Pivolare è «quel continuo insistere chiedendo, che non altrui riposo».
2
Un altro.
3
Se.
4
Al Caffè in Piazza de’
Caprettari.
5
E lo vedo fra due, ecc.
6
Il paìno è chiunque veste con proprietà cittadinesca.
1659. Un pavolo bbuttato
Che tteatri! Accidenti a sta puttana
d’Argentinaccia e cquanno se sprofonna.
1
Stà
2
ssur un banco una nottata sana
3
pe ggòdese
4
le furie d’una donna!
Io, sentenno quer nome de Ggismonna
5
sur bullettone a Pporta settiggnana
6
la pijjai, com’è vvero la Madonna,
pe la sora Ggismonna la mammana.
7
C’avevo da sapé cche sse trattassi
8
de sti mortòri e tutte ste magaggne
de li secoli arti e dde li bbassi?
Lo fo ddiscíde
9
a vvoi, lo fo ddiscíde.
Che! A la commedia sce se va ppe ppiaggne?
10
A la commedia sce se va ppe rride.
11
19 settembre 1835
1
Quando si sprofonda.
2
Stare.
3
Intiera.
4
Per godensi.
5
Gismonda di Mendrisio: tragedia di Silvio Pellico.
6
Porta
Settimiana.
7
Lucia Gismondi, detta Gismonda, notissima ostetrica di Roma.
8
Si trattasse.
9
Decidere.
10
Ci si va per
piangere?
11
Per ridere.
1660. L’amore de li morti
A sto paese tutti li penzieri,
tutte le lòro carità ccristiane
sò ppe li morti; e appena more un cane
je se smoveno tutti li bbraghieri.
1
E ccataletti, e mmoccoli, e incenzieri,
e asperge, e uffizzi, e mmusiche, e ccampane,
e mmesse, e ccatafarchi, e bbonemane,
2
e indurgenze, e ppitaffi, e ccimiteri!...
E intanto pe li vivi, poveretti!,
gabbelle, ghijjottine, passaporti,
mano-reggie, galerre e ccavalletti.
E li vivi poi-poi,
3
bboni o ccattivi,
sò cquarche ccosa mejjo de li morti:
nun fuss’antro
4
pe cquesto che ssò vvivi.
19 settembre 1835
1
Si mettono tosto in faccende.
2
Mance.
3
Alla fine de’ conti.
4
Non foss’altro.
1661. Er pupo
1
Sonetti 2
Che bber ttruttrú!
2
oh ddio mio che cciammellona!
3
Nò, pprima fate servo
4
a nnonno e zzio.
Fàteje servo, via, sciumàco
5
mio,
e ppoi sc’è la bbebbella e la bbobbòna.
6
Bbravo Pietruccio! E ccome fa er giudío?
Fa aéo?
7
bbravo Pietruccio! E la misciona?
8
Fa ggnào? bbravo Pietruccio! E cquanno sona?
9
Fa ddindí? bbraavo! E mmó, ddove sta Iddío?
Sta llassú?
10
bbraavo! Ebbè? e la pecorella?
Fate la pecorella a zzio e nnonno,
eppoi sc’è la bbobbòna e la bbebbella.
Ôh, zzitto, zzitto, via: nòo, nnu la vonno.
Eccolo er cavalluccio e la sciammella...
Eh, sse
11
stranissce un po’, mma è ttutto sonno.
20 settembre 1835
1
Il puttino.
2
Che bel cavallo!
3
Ciambellona.
4
Far servo, salutar colla mano.
5
Ciumaco, cuor mio, o altro vocabolo
carezzativo.
6
La cosa bella e la cosa buona.
7
Grido degli ebrei stracciaiuoli.
8
Micióna: gattona.
9
Quando è suonato il
campanello di casa.
10
Così dicendo s’innalzo verso il cielo l’indice disteso.
11
Si.
1662. Er pupo
Ajo,
1
commare mia, ajo che ffiacca!
2
Tenello
3
tutto er zanto ggiorno in braccio!
Mai volé stà
4
in ner crino!
5
mai p’er laccio!
6
Io nu ne posso ppiú: ssò ppropio stracca.
Lo vedete? Mó adesso me s’attacca
e mme la tira inzin che nun è un straccio.
Uf, che vvita da cani! oh cche ffijjaccio!
Làssela, ciscio, via: fermo, ch’è ccacca.
Bbasta, Pietruccio mio, bbasta la sisa.
7
Dajjela un po’ de pasce
8
a mmamma tua...
Ecco er pianto. Che ggioia, eh sora Lisa?
Ssí, ssí, mmó jje menàmo ar caporèllo.
9
Bbrutta sisaccia, c’ha ffatto la bbua
a li dentíni de Pietruccio bbello.
10
20 settembre 1835
1
Ahi!
2
Quale fiacchezza!
3
Tenerlo.
4
Voler stare.
5
Crino è quel cesto a campana, entro cui si pongono i bambini,
perché si addestrino a camminare di per se stessi, senza cadere.
6
Il laccio che loro si attacca dietro le spalle, onde
sorreggerli nel camminare.
7
Poppa.
8
Dagliela un poco di pace.
9
Al capezzolo.
10
Così fin dai primi momenti della vita
si principia ad educare i bambini alla vendetta delle reali offese e delle immaginarie, contro gli animati esseri e
gl’inanimati.
1663. Er bon core de zia
Sentite bben’a mmé, bbella zitella.
Mó cc’a vvoi padre e mmadre ve sò
1
mmorti,
vostro zzio s’è incornato
2
che vve porti
co mmé cche ppotrebb’esseve
3
sorella.
Dunque volenno voi ch’io ve sopporti,
stamo
4
in tono e nun famo la ggirella;
5
perch’io nun vojjo né sserví dd’ombrella
né rraddrizzà li scervellacci storti.
Ggià cche la sorte nun m’ha ddato fijji,
piuttosto che de fà la guardia a vvoi
è mmejjo ch’er ziggnore v’aripijji.
6
Ce sem’intesi? Aringrazziam’Iddio.
E ssoprattutto nun ze
7
scordi poi
che cqui in sta casa sce commanno
8
io.
20 settembre 1835
1
Vi sono.
2
Si è ostinato.
3
Potrei esservi.
4
Stiamo.
5
La capricciosa.
6
Vi ripigli.
7
Non si.
8
Ci comando io.
1664. La datìva riddoppiata
Riddoppià le datìve senz’editto!
E a cchi ss’incoccia a nnun volecce crede,
1
àprijje un tiratore e ffajje vede
2
un scàccolo de carta manoscritto!
Ah, cqua, pper dio!, nun ze
3
cammina dritto!
E ppe ppiantà le cose su sto piede
ce vò
4
un Papa nimmico de la fede
ppiú der re Ffaraone de l’Iggitto.
Un galantomo che ss’è mmesso a pparte
er zòlíto ssciroppo,
5
in cuncrusione
mó le mezz’once l’aritrova quarte.
Hanno raggione lòro, hanno raggione.
Tutt’er torto l’ha aúto Bbonaparte
che nun ha ffatto lavorà er cannone.
20 settembre 1835
1
Si ostina a non volerci credere.
2
Fargli vedere.
3
Non si.
4
Ci vuole.
5
Sciroppo, cosa grave a sofferirsi, come in questo
caso una tassa.
1665. Le visscere der Papa
Sí, llingue de tenajje
1
mmaledette,
sí, vv’aripèto che Nnostro Siggnore
è un omo... ciovè, un Papa de bbon core.
Ve l’aripèto, e nnun ce levo un ette.
2
Nun zentite le cose che promette?
Nun vedete che rrazza de dolore
tiè ssempre in quela faccia? e cco cche amore,
quanno che Iddio le vò, ffa le vvennette?
3
Per esempio: ve pijja un accidente?
Súbbito lui v’intona una diasilla,
e ssi mmorite poi
4
nun disce ggnente.
Sí, er zu’
5
piascere è de sentí cchi strilla;
ma ddisidera er male de la ggente
pe addoprà la vertú de compatilla.
22 settembre 1835
1
Lingue da tanaglie, malediche.
2
Non ne tolgo un jota, nulla.
3
Vendette.
4
E se al contrario morite.
5
Il suo.
1666. La risípola
«Se pò?»
1
«Chi è?» «Ssò io».
2
«Chi io?» «Luscia».
«Chi Lucia?» «La madreggna de Pasquale».
«Ôh, addio, Lucia. Che! siete stata male?»
«Sò stata pe spallà,
3
ssiggnora mia».
«Poverina! E quant’è?» «Da sto Natale
sin’ar giorno de pasqua bbefania».
«Oh vedete! E con quale malattia?»
«Cor una bbona porcheria mortale».
«Porcheria? E sarebbe?... Animo: lesta».
«Eh... ssarebbe che... inzomma è cquer gonfiore
che ppijja pe la faccia e ppe la testa».
«Dunque dite risípola». «Uh Ssiggnore!
Zzitta pe ccarità cché ssinnò
4
cquesta
aritorna da capo e cce se more».
5
22 settembre 1835
1
Si può?
2
Sono io.
3
Sono stata per morire.
4
Se no: altrimenti.
5
Ci si muore. Crede il volgo che se dopo avuta la
risípola se ne faccia menzione pronunziandone il nome, essa ritorni ad assalire chi n’era guarito. Perciò si studiano di
farsi intendere per via di perifrasi e definizioni, e dovendole pure assegnare un nome la dicono porcheria, come
chiamano anche il fulmine una porcheria.
1667. Li vitturini de piazza
«Come va, ppadron Peppe?» «Affari neri,
padron Chiumella. Se ne fanno pochi.
Questo nun è ppaese da cucchieri:
questo è ppaese da puttane e ccochi».
«Hai raggione. Io sto cqui da l’antro
1
jjeri
che straportai
2
quer branco de bbizzochi
pe ccinquanta bbajocchi a Vvill’Artieri
3
ar Vorto-santo
4
e in tre o cquattr’antri lochi».
«E io? Quanno che stacco a la rimessa,
disce: “C’hai fatto?” “Ho fatto un accidente”;
5
e ’ggni ggiorno st’antifona è l’istessa.
«Siggnore, eccheme
6
cqua: vvò
7
ccarrettella?
Vò ccarrozza eh sor E». «Moàh Peppe ggnente?»
«Nu l’hai visto da te? ggnente, Chiumella».
23 settembre 1835
1
Dall’altro.
2
Trasportai.
3
A Villa Altieri.
4
Al Volto-santo.
5
Nulla.
6
Eccomi.
7
Vuole.
1668. Er comprimento a la siggnora
Fatt’è che quanno in ne l’usscí
1
da messa
j’ho ddetto co ’na bbella ariverenza
«Serva de vusustrissima, Eccellenza»,
lei me s’è mmessa a rride,
2
me s’è mmessa.
Eh, ppe ggarbo co mmé cce vò ppascenza:
3
io voi nun me guardate che ssò
4
ostessa,
ché cquarche pprincipessa e pprincipessa
pò vvenicce
5
a imparà la conveggnenza.
Eppoi j’ho ddetto: «E sta regazza ch’essce
è la sua e dder zu’ siggnor marito?
Com’ha spigato! Eh, la mal’erba cressce».
6
Er ride
7
allora a llei je s’è infortito
che sguizzolava tutta com’un pessce:
seggno ch’er comprimento l’ha ggradito.
23 settembre 1835
1
Nell’uscire.
2
A ridere.
3
Con me ci vuol pazienza, convien cedere.
4
Sono.
5
Può venirci.
6
Questo proverbio volgare si
ascolta applicare frequentemente con una sorprendente bonomia, quasi una frase che spiegasse in semplice e general
modo ogni aumento della viva natura.
7
Il ridere.
1669. La partenza pe la villeggiatura
Sor’Irene, e ccusí? ss’arivà ffora?
1
E ss’è lléscito, indove? Eh ggià, a Ffrascati,
a cqueli belli crimi imbarzimati.
2
Ecco cqua che vvor dí dd’èsse siggnora.
3
Ma ssa cche cco ste sciarle è vventun’ora,
e li cavalli ggià stanno attaccati?
Anzi, in ner leggno sciò
4
vvisto du’ frati
che la prèsscia d’annà
5
sse li divora?
J’hanno messa la robba, eh sor’Irene?
Oh bbrava: ma jj’avverto che vvò ppiove:
6
veda che ttutto sii cuperto bbene.
Ôh, ddunque, arivedèndola;
7
e co cquesto
facci bbon viaggio, sce dii le su’ nove,
8
se diverti,
9
s’ingrassi, e ttorni presto.
24 settembre 1835
1
Si rivà, si va nuovamente fuori?
2
Climi imbalsamati.
3
Che vuol dire l’esser signora.
4
Ci ho.
5
La fretta di andare.
6
L’avverto che vuol piovere.
7
Al rivederla.
8
Ci dia le sue nuove.
9
Si diverta.
1670. Er ritorno da la villeggiatura
Ôoh, evviva, bben tornata, sor’Irene,
bben tornata una vorta, bben tornata:
che ffa? sta bbene? è stata sempre bbene?
l’aria de fora come l’ha ttrattata?
Màa, cce ne semo prese veh de pene
pe vvia
1
de la su’ lettra aritardata!
La lontananza, ste stradacce piene
de ladri, la staggione un po’ inortrata...
E cche nnove sce
2
dà dde quele parte?
S’è ssaputo llaggiú de sto collèra?
Uh! a pproposito: Meo
3
l’ho mmesso all’arte.
Ih! le sciammelle!
4
Oh gguardi si
5
cche onore!
Ma llei mi vò cconfonne.
6
E in che mmaggnera
7
poterò ccompenzalla der favore?
24 settembre 1835
1
Pel motivo.
2
Ci.
3
Bartolommeo.
4
Le ciambelle.
5
Se. Qui è un ripieno da non considerarsi.
6
Mi vuol confondere.
7
In
qual maniera.
1671. La notizzia de bbona mano
1
Ma io de sta notizzia ve ne posso
dà scòla a vvoi e a ttutto er Criminale.
Io sta notizzia la so da un canale
che nun sbajja: la so dda un pezzo grosso.
La poterà ssapé er gammero rosso?
Pò ddí una bbuggiarata un cardinale?
Dunque quanno parl’io, soro stivale
2
nun c’è da fàmme
3
tanti conti addosso.
Su’ Eminenza l’ha ddata ar cammeriere:
er cammeriere l’ha ddata ar decano;
e ’r decano a la sposa der cucchiere.
4
E cquesto, che ll’ha intesa da la sposa,
l’ha ariccontata all’oste, e a mman’a mmano
l’ho avuta fresca io com’una rosa.
24 settembre 1835
1
Di buona fonte.
2
Signor stivale.
3
Da farmi.
4
Cocchiere.
1672. La prima cummuggnone
1
Sí, ddiescianni e la picca.
2
Ma vva’, vva’:
la siggnorina ha ttrediscianni e ppiú.
Certe cose nun z’hanno da inzeggnà,
fratel caro, a nnoantra servitú.
3
La madre, in ne li conti de l’età,
bbada sempre ar zu’ fior de ggioventú.
Ma la fede, per dio, l’ha da caccià
mo cche la fijja va ar Bambin-Gesú.
4
E ssicuro sta fede che cce vò,
5
perché le Moniche hanno da vedé
ssi
6
la regazza è bbattezzata o nnò.
Dunque pe st’otto ggiorni s’ha da dí
tutto er priscíso de l’età cche cc’è.
Ar nono poi nun zarà ppiú accusí.
7
24 settembre 1835
1
Comuniome.
2
E la picca: modo ironico, per indicare che il conto è al disotto del vero.
3
Noi altri servitori.
4
Monistero, posto sull’Esquilino Cispio, dove le fanciulle vanno a prepararsi alla prima comunione eucaristica.
5
E
sicuramente che ci vuole questa fede.
6
Se.
7
Non sarà più così.
1673. L’affari de la finestra
«Sai ggnente, commàr Rosa, indove stanno
le quarantóra?» «Nò, ccommar’Aggnesa;
ma adesso chiamo la sora Terresa,
che cce va ’ggni matina tutto l’anno.
Sora Terresa, dite un po’, in che cchiesa
stanno le quarant’ora?» «Ehée, lo sanno
puro
1
li gatti. A la parrocchia; e vvanno
a Sammarco, viscin’a la Ripresa».
«Grazzie, sora Terresa». «E de che ccosa?
Saría bbella! me faccio maravijja:
commannateme
2
puro,
1
sora sposa».
3
«Bbe’, pperché, Aggnesa, nun me viènghi a ppijja
4
che cciannamo
5
po’ insieme?» «Eccheme,
6
Rosa».
«Sora Terresa, addio». «Bbon giorno, fijja».
25 settembre 1835
1
Pure.
2
Comandatemi.
3
Sposa, pronunciato coll’o chiuso.
4
Non mi vieni a pigliare.
5
Ci andiamo.
6
Eccomi.
1674. La bbòtta der zor Pippo
Te ggiuro, Anna Maria: quanno er padrone
se
1
vortò a bboccasotto su cquer letto,
e cquel cirusicaccio mmaledetto
se messe
2
a pprincipià l’operazione,
me fesce un’impressione, un’impressione
che mme sentii com’una bbòtta in petto:
me s’appannò la vista, e ffui costretto
d’arrèggeme
3
tremanno a un credenzone.
Nun bisoggnava èss’ommini
4
ma ssassi
pe vvedé sfraggellajje, poverello!,
tutt’er confin de li paesi bbassi.
Quer mascellaro
5
sce ficcò er cortello,
che ppareva, per cristo, che ttajjassi
6
’na fetta de cularcio o de scannello.
25 settembre 1835
1
Si.
2
Si mise.
3
Di reggermi.
4
Essere uomini.
5
Macellaio.
6
Tagliasse.
1675. La faccenna de premura
«Sor Cremente, e cche nnova da ste parte?»
«Vado cqui de premura in quer portone
dar curiale c’assiste er mi’ padrone
a pportajje a ffà vvéde
1
scerte carte».
«Ciavete
2
avuto ggnente a l’astrazzione?»
3
«No, pprese
4
un terno in ner libbro dell’arte,
5
ché mm’inzoggnai
6
san Pietro e Bbonaparte;
e ppoi me ne scordai com’un cojjone.
E vvoi, sor Checco, avete vinto ggnente?»
«Psé, sse spízzica sempre quarche ccosa».
«Dio ve l’accreschi». «Grazzie, sor Cremente».
«Bbe’? e nun pagate un cazzo a li cristiani
«Venite a bbéve
7
un mezzo a Ppiazza Rosa».
«E ddar curiale?» «Ciannerò
8
ddomani».
25 settembre 1835
1
A portargli a vedere.
2
Ci avete: avete.
3
Estrazione de’ lotti.
4
Presi.
5
Libro delle sorti, de’ sogni.
6
Mi sognai: sognai.
7
Bere.
8
Ci anderò.
1676. La Serenata
Vièttene a la finestra, o ffaccia bbella,
petto de latte, bbocca inzuccherata,
ch’io te la vojjo fà la serenata,
te la vojjo sonà la tarantella.
Presto, svéjjete e affàccete, Nunziata;
e ppenza ch’er tu’ povero Chiumella
dorme sempre all’arbergo de la stella,
fora de la tu’ porta appuntellata.
Perché mme vòi lassà ttutta la notte
a ssospirà cquaggiú ccom’un zoffietto,
bbianco come la neve e le ricotte?
Tutti l’ommini adesso stanno a lletto:
tutte le fiere stanno in ne le grotte:
io solo ho da restà ssenza riscetto!
25 settembre 1835
1677. Er padre e la fijja
1
Sì, è stata una commedia troppa corta,
ma è stata una commedia accusí bbella,
ch’io pe ssentilla ar Monno un’antra vorta
me sce farebbe
2
strascinà in barella.
C’era una fijja d’una madre morta,
bbona e ggrazziosa, e sse
3
chiamava Stella.
Poi sc’era un padre, una testaccia storta,
che strepitava:
4
è cquella e nun è cquella.
La parte de sta fijja tanta cara,
senti, la resci ’na scerta
5
Amalia,
un angelo de ddio, ’na cosa rara.
Che pparlate! che mmosse! tutte fatte
da intontí.
6
Bbenedetta quela bbalia
che ll’ha infassciata e cche jj’ha ddato er latte!
25 settembre 1835
1
Estella, ossia il padre e la figlia, commedia di Scribe, tradotta liberamente e ridotta all’uso della scena italiana dal
nostro amico Giacomo Ferretti. Fu rappresentato al teatro della Valle dalla drammatica Compagnia Mascherpa; e i
caratteri de’ due protagonisti vennero sostenuti dai sommi artisti Luigi Domeniconi e Amalia Bettini.
2
Mi ci farei.
3
E
si.
4
Che gridava strepitando.
5
Una certa.
6
Da incantare.
1678. La povera mojje
E otto: ott’ora! E nnun ritorna! e intanto
me lassa
1
cqui a spirà ssur una ssedia.
Oh cche vvita! Si Iddio nnun ciarimedia
2
è mmejjo de morí che ppenà ttanto.
Ma Ggesú mmio, ma ccroscifisso santo!,
lui co l’amichi a ccena e a la commedia,
e io, sola, tra er zonno e ttra l’inedia
nun avé antro
3
che llavore
4
e ppianto!
E a cche sserveno mai tanti lamenti?
Ah! mme l’aveva detto mamma mia:
«Fijja, nu lo pijjà, cché tte ne penti».
Ecco cosa vò ddí la fernesia
5
de nun volé ddà rretta a li parenti
pe sposà un omo e nun zapé
6
cchi ssia.
25 settembre 1835
1
Mi lascia.
2
Se Iddio non ci rimedia.
3
Non avere altro.
4
Lavoro.
5
Vuol dire la frenesia.
6
Non sapere.
1679. La famijja poverella
Quiete, crature mie, stateve quiete:
sí, ffijji, zitti, ché mmommò vviè
1
Ttata.
Oh Vvergine der pianto addolorata,
provedeteme voi che lo potete.
Nò, vvisscere mie care, nun piaggnete:
nun me fate morí ccusí accorata.
Lui quarche ccosa l’averà abbuscata,
e ppijjeremo er pane, e mmaggnerete.
Si ccapíssivo
2
er bene che vve vojjo!...
Che ddichi, Peppe? nun vòi stà a lo scuro?
Fijjo, com’ho da fà ssi nun c’è ojjo?
E ttu, Llalla, che hai? Povera Lalla,
hai freddo? Ebbè, nnun méttete
3
llí ar muro:
viè
4
in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla.
5
26 settembre 1835
1
Or’ora viene.
2
Se capiste.
3
Non metterti.
4
Vieni.
5
Ti riscalda.
1680. Un fattarello curioso
La padroncina mia da un mese e ppiú
sgrinfiava
1
cor un certo petimè,
2
e spesso lo fasceva vení ssú
de sera, e lo serrava in d’un retrè.
Che ssuccede! La madre, c’ancor’è
tosta
3
lei puro
4
e in mezza ggioventú,
s’accorge de sti lòro tettattè
5
e de sti lòro imbrojji a ttu pper tu.
Che ffa! Una sera che llui stava llí,
pijja un scanzo, e a lo scuro se ne va
ner cammerino a ffàsse
6
bbenedí.
Finarmente la fijja annò de llà,
e inzomma, senza che vve stii ppiú a ddí,
in ner zu’ logo
7
sce trovò Mmammà.
26 settembre 1835
1
Amoreggiava.
2
Petit maître. Intende: «con un francese».
3
Dura, di carni sode.
4
Pure.
5
Tête-à-tête.
6
A farsi.
7
Nel suo
luogo.
1681. Li canti dell’appiggionante
Sempre accusí: le solite canzone.
Appena le galline vanno ar pollo
lui principia a sfogasse
1
cor zu’ Appollo
2
e lo scongiura a sson de calasscione.
E jje dichi cantante a un cannarone
che ccanta in chiave de merluzz’a mmollo?
Cosa, pe’ Cristo, da tirajje er collo
eppoi fajje l’essequie der cappone.
È un gran che de sentisse
3
in ne l’orecchie
tutta la santa notte st’anticòre!
Sai quanto è mmejjo er mal de le petecchie?
Sò annata
4
in pulizzia ’na vorta o ddua:
e ssai che mm’ha rrisposto Monziggnore?
«Che cce volete fà? Sta a ccasa sua».
26 settembre 1835
1
A sfogarsi.
2
Col suo Apollo.
3
Di sentirsi.
4
Sono andata.
1682. Lo sposo
1
de Nanna Cucchiarella
Sarà ttísico er vostro maritaccio,
sora bbrutta maliggna sputa-fele,
ma nnò er regazzo
2
mio, ma nnò Mmicchele,
che smovería Castello cor un braccio.
Io l’ho sscerto
3
co ttutte le gautele,
4
e in questo so bbe’ io cosa me faccio.
Mosscio a Mmicchele mio! Micchele un straccio!
Fijja, santa Luscìa occhi e ccannele.
5
Lo so io si cch’edè:
6
rrosicarella
7
de nun avello voi; ma in questo tanto
8
squacqueraquàjjasquícquera,
9
sorella.
Tisico a cquer gigante, a cquer campione,
a cquer colosso che ppò ddasse er vanto
10
d’un par de porzi da corcà Ssanzone!
11
26 settembre 1835
1
Pronunziato con due o chiusi.
2
L’amante.
3
L’ho scelto.
4
Cautele.
5
Frase che vale: «siete cieca».
6
Lo so che è, lo so io
cos’è.
7
Rodimento invidioso.
8
Ma circa a questo.
9
Parola di dileggio.
10
Può darsi il vanto.
11
D’un paio di polsi da
colcare Sansone.
1683. Er campo
E ar campo, e ar campo, e ssempre co sto campo
tutti quanti li santi ggiuveddí!
Nun zai che ar campo dar campà ar morí,
sscemunito che ssei, ce corre un lampo?
Dichi che le pavure io me le stampo?
Bbe’, mme le stampo, me le stampo, sí;
ma ssi
1
un giuvenco te dà addosso, di’,
chi tte difenne? indove trovi un scampo?
Cosa te servirà ttanta ruganza,
si
1
una vaccina co cquer par de penne
te viè a scrive
2
una lettra
3
ne la panza?
Da’ rretta a le parole de le vecchie.
Sentisse
4
attorno quelle du’ faccenne,
5
fijjo,
6
bbrutte purce
7
in ne l’orecchie.
27 settembre 1835
1
Se.
2
Ti viene a scrivere.
3
Lettera.
4
Sentirsi.
5
Quelle due faccende, que’ due ordigni: le corna insomma.
6
Sono.
7
Pulci.
1684. Er lunario
Disce accusí: «Ddomenica, vò ffà
cquarche mmossa de tempo; Luneddí,
acquarella minuta; Marteddí,
grandina a Rroma e attorno a la scittà».
Avanti. «Mercordí, nnun t’azzardà
dd’usscí ssenza l’ombrello; Ggiuveddí,
nuvoloni pell’aria; e Vvenardí,
temporale co ggran lettrichità».
Tu ddichi: «Un omo nun ha la vertú
de prevéde
1
er futuro». Ma pperché?
Fforzi
2
perché nnun te n’intenni tu?
Ner dà ffora er lunario io questo so,
che nnun ponno stampà cquer che nnun è,
perché er governo je diría de no.
27 settembre 1835
1
Di prevedere.
2
Forse.
1685. Er legator de libbri
Arïeccheme
1
cqua, ssor Bonifazzi.
Viengo a ddivve
2
pe pparte der padrone
si jj’avete
3
legato er cammerone
4
e cquelle bbrozzodíe
5
de li regazzi.
E ddisce ch’ecco cqui st’antri
6
du’ mazzi
de libbri c’ha ppijjato a la lauzzione
7
pe ffacce
8
un po’ de legature bbone
da risiste
9
a ’ggni sorte de strapazzi.
E disce poi che ssenza tante sciarle
je l’incollate cor lume de Rocco
10
acciò nun ze
11
li maggnino le tarle.
E ddisce pulizzia e ccose leste,
sinnò artrimenti nun ve dà un bajocco.
E cco cquesto salute e bbone feste.
27 settembre 1835
1
Eccomi di nuovo.
2
Vengo a dirvi.
3
Se gli avete.
4
Il decamerone.
5
Prosodie.
6
Questi altri.
7
All’auzione.
8
Per farci.
9
Da resistere.
10
Coll’allume di rocca.
11
Non se.
1686. Er zervitore marcontento
La sorte de chi sserve, sor Cremente.
Se
1
fatica, se tribbola, se suda,
e cquanno credi avé spuggnato Bbuda,
un carcio in faccia e nun hai fatto ggnente.
Lei la vò ccotta e cquello la vò ccruda:
chi tte sbarza a llevante e cchi a pponente.
Sortanto in questo penzeno uguarmente,
ner mannà ssempre la famijja iggnuda.
Eh sse fa ppresto a ppredicà er giudizzio.
Pe cconossce un cristiano in ner cimento,
bbisoggna intenne
2
che vvò ddí sservizzio.
Nun dormí cquasi mai, maggnà l’avanzi,
ingiustizzie e bbirbate
3
oggni momento,
schiattà
4
in eterno e ppij ffiato a scanzi.
29 settembre 1835
1
Si.
2
Intendere.
3
Sgridate.
4
Faticare.
1687. Er passaporto der milanese
Smira! «In nome de Smira»!
1
E sta parola
che ddiavolo siggnifica, Bbastiano?
T’assicuro da povero cristiano
ch’io nu l’ho intesa che sta vorta sola.
Smira! Bbisoggna dí cche llà a Mmilano
abbino in ner discorre
2
un’antra
3
scòla.
So cch’io sto Smira me s’intorza in gola
come fussi,
4
per dio, scera de grano.
5
Quanno li Turchi dicheno volìra,
dìra, fascìra,
6
oggnuno li capissce
ma sfido er monno de spiegà sto Smira.
Vino nun vò ddí ccerto;
7
e mmanco pane.
Dunque ch’edè
8
sto Smira? Uhm, già ffinissce
ch’è cquarche nnome da mettésse
9
a un cane.
29 settembre 1835
1
In nome di S.M.I.R.A.
2
Abbiano nel discorrere.
3
Un’altra.
4
Fosse.
5
Cera di grano. Con riverenza, «lo sterco umano».
6
Volere, dire, fare.
7
Non vuol dire certamente.
8
Che è.
9
Da mettersi.
1688. Mariuccia la bbella
È una bbella regazza scertamente:
cqui ppoi nun c’è da repricacce
1
affatto.
Lei se pò vvenne
2
p’er vero ritratto
der paradiso o ppoco indiferente.
3
L’unica cosa..., ma nnun guasta ggnente,
pare che ffrigghi er pessce e gguardi er gatto,
4
c’abbi un occhio ar bicchiere e un antro ar piatto,
c’uno azzenni a llevante, uno a pponente.
Sí, gguarda un po’ in ner buzzico,
5
ma cquesto,
siconno mé, l’ajjuta e jje dà ggrazzia
ppiú de la bbocca e ttutto quanto er resto.
Perché la bbocca cor barbozzo
6
e ’r naso
pareno un chincajjúme che sse sdazzia,
7
lettre de stampa messe inzieme a ccaso.
29 settembre 1835
1
Replicarci.
2
Si può vendere.
3
O consimil cosa.
4
In questo e ne’ tre seguenti versi, dicesi per vari modi essere ella
losca.
5
Vaso di latta da tenere olio a mano per uso minuto e continuo.
6
Mento.
7
Si sdazia.
1689. Le mormorazzione de Ggiujano
1
Sto ppe ddí, ssarv’er vero, che Ggiujano
fa assai male a sparlà ccontr’er governo;
e, ssarv’er vero, quer lòtono
2
eterno,
sto ppe ddí, nnun è azzione da romano.
Fussi
3
anche Roma, sto ppe ddí, un inferno,
e, ssarv’er vero, er diavolo un zovrano,
me parerebbe sempre c’un cristiano
nun avessi
4
da usà st’uso moderno.
Sto ppe ddí cche Ddio è bbono, sarv’er vero;
ma a fforza de st’offese ar zu’ Vicario
5
da bbianco, sto ppe ddí, sse
6
farà nnero.
Doppo ch’er Papa, sarv’er vero, assiste
la Cchiesa, e, sto ppe ddí, ssenza salario,
ha d’annà ssotto a ste linguacce triste?
30 settembre 1835
1
Giuliano.
2
Querimonie.
3
Fosse.
4
Non avesse.
5
Al suo vicario.
6
Si.
1690. La luscerna
Pio, fa’ er zervizzio, attizza un po’ cquer lume,
ché nun ce vedo ppiú mmanco er lavore.
Me pare de stà in grotta a sto bbarlume:
me sce viè un male: me se serra er core.
Hôoh, llaudata la lusce der Ziggnore!
Via, nu l’arzà ppoi tanto, ché ffa ffume...
Bbona notte, sor Pio. Dar fosso ar fiume:
sem’arimasti tutti d’un colore.
Tuta,
1
va’ a ccérca
2
un zorfarolo, lesta,
che ll’appicciamo cqui ddrent’ar marito.
3
Fa’ cco ggiudizzio, veh:
4
bbada a la testa.
Indove sei?... da’ cqua... Ma, Ttuta, Pio,
che vve fate llaggiú? Bbe’, bbe’, ho ccapito:
da cqui avanti però smoccolo io.
1°ottobre 1835
1
Gertrude.
2
Va’ a cercare.
3
Dentro al caldanino, o, come in Roma dicesi comunemente, scaldino.
4
Vedi, avverti, sai,
ecc. È un modo di ammonizione.
1691. La luscerna
Rïecco
1
er lume c’aripiaggne er morto!
2
Eppuro
3
è ojjo vecchio, è ojjo fino:
ce n’è ito un quartuccio da un carlino;
e da quann’arde
4
nun pò èsse
5
scorto.
6
Come diavolo mai! pare un distìno.
Uhm! sarà ll’aria ummida dell’orto;...
eh sse
7
smorza sicuro: oh ddàjje
8
torto:
nun vedete? È ffinito lo stuppino.
9
Che ffijjaccia c’ho io! manco è ccapasce
d’aggiustà ddu’ bboccajje!
10
eh? sse ne ponno
sentí de peggio? Aló,
11
cqua la bbammasce.
12
E da stasera impoi, ggià vve l’ho ddetto,
vojjo un lume de ppiú ffin che sto ar monno,
e una torcia de meno ar cataletto.
1° ottobre 1835
1
Ecco nuovamente.
2
Che ripiange il morto: che langue.
3
Eppure.
4
Da quando arde.
5
Non può essere.
6
Scorto,
pronunciato con entrambi gli o chiusi, vale: «finito, consumato».
7
Si.
8
Dàgli.
9
Stoppino, lucignolo.
10
Due bocchetti.
11
Animo, presto, andiamo. È l’allons dei Francesi
12
Qua a me la bambagia.
1692. La vesta
Eppoi nun ho rraggione si
1
mm’inquieto!
Guarda che strappi tiè ddietr’a la vesta!
Messa jjeri! Nun pare, bbrutta cresta,
che ssia ita a inzurtà tutto Corneto!
Eccheje er filo e ll’aco: animo, lesta,
e ss’arinnacci subbito lí arreto.
2
Nun za llei che indov’oggi sc’entra un deto,
3
in cap’a un giorno o ddua sc’entra la testa?
Che sso... ffussimo armeno
4
ggente ricche,
bbuggiarà!
5
E de sto passo chi sse
6
trova
che tte vojji sposà? Mmanco Bberlicche.
Io so che quanno prese
7
vostro padre
me fésceno una vesta; e ancora è nnova
sibbè
8
ffussi uno scarto de mi’ madre.
1° ottobre 1835
1
Se.
2
Lì dietro.
3
C’entra un dito.
4
Almeno.
5
Alla buon’ora.
6
Si.
7
Presi.
8
Sebbene.
1693. La visita de comprimento
Se pò?
1
Nnun zapería,
2
dico, è ppermesso
de poté ariverí la sora Lilla?
Cosa dirà cche vviengo a ffavorilla
e a ddajje sto disturbo propi’ adesso?
Anzi, Bartolomeo sempre me strilla
che vviengo a incommidalla accusí spesso.
Ma io nun je do udienza; e ar temp’istesso
me sapeva mill’anni de stordilla.
E er zu’ siggnor conzorte che jje scrive?
Uh! è mmorto?! E cche vvò ffà? cce vò ppascenza.
E le pupette
3
sue sò
4
ancora vive?
E llei in che mese sta? Ggià sta in ner quarto?!
Bbadi, c’adesso curre
5
un’infruenza
che ttuttequante moreno
6
de parto.
2 ottobre 1835
1
Si può?
2
Non saprei.
3
Le bambine.
4
Sono.
5
Corre.
6
Muoiono.
1694. Er congresso tosto
1
Tuttiquanti a Ppalazzo lo vederno.
2
Un gran Ministro d’una gran Potenza
3
venne a Rroma a pparlà cco Ssu’ Eminenza
er Zegretar-de-Stato de l’isterno.
Er Cardinale preparò un quinterno
de carta bbianca, e ppoi je diede udienza;
e cce tenne una gran circonferenza
4
sopra a ttutti l’affari der governo.
Tra llòro se
5
trattò dder piú e der meno;
e scannajjorno
6
l’ummido e l’assciutto,
er callo e ’r freddo, er nuvolo e ’r zereno.
Arfine er Cardinale uprí la porta,
discenno:
7
«Evviva, è ccombinato tutto:
ne parleremo mejjo un’antra vorta».
2 ottobre 1835
1
Il Congresso importante.
2
Lo videro.
3
Il Conte di Rigny, Ministro della Marina di Francia.
4
Conferenza.
5
Si.
6
Scandagliarono.
7
Dicendo.
1695. L’abbozzà
1
de li secolari
Stamo ubbidienti, rispettosi, quieti,
contenti prima e ppiú ccontenti doppo,
tutto quer che vve pare; ma li preti,
sor Don Craudio, da noi ne vonno troppo.
Sò ttroppi
2
farisei, tropp’indiscreti,
ner parlà vvanno troppo de galoppo,
hanno troppe bbuscíe,
3
troppi segreti,
sò ttroppi deggni d’assaggià lo schioppo.
Ma ssi
4
cc’è in paradiso un Padr’Eterno,
lòro a sto monno sce li tiè ppe sseme
de le rape dell’orto de l’inferno.
Cos’è? ccosa ve dite, sor Don Craudio?
Anneremo a l’inferno tutti assieme?
Ebbè, mmale cummune è mmezzo gaudio.
3 ottobre 1835
1
La sofferenza.
2
Sono troppo, ecc. In tutti i casi la parola troppo è dai Romaneschi accordata in genere e numero col
nome a cui va congiunta.
3
Bugie.
4
Se.
1696. Er francone tutto-core
Me maravijjo assai: lei me fa un torto.
Perché sti comprimenti, sor Giuvanni?
Questa è ssu’ riverèa:
1
lei me commanni:
lei è er mi’ bbon padrone e vvivo e mmorto.
Puro
2
lo sa er rispetto che jje porto,
lo sa cche jj’approfesso obbrighi granni:
lei me manni a l’intíbbodi,
3
me manni,
me parerà ’na spasseggiata all’orto.
Ma cche ddisce; je pare! se figuri!
Ggnente, minchionerie, tutte ssciapate:
io pe sservilla sfonnería li muri.
Lei se fidi de mé: llei pe imbassciate
dormi
4
li sonni sui quieti e ssicuri,
e vvederà cchi è Ppeppe l’Abbate.
5
3 ottobre 1835
1
È sua livrea.
2
Eppure.
3
Agli antipodi.
4
Dorma.
5
L’Abate: soprannome.
1697. La Sabbatína
1
«Pfch: mamma, oh mamma». «Ahó». «Mmamma». «Che hai?»
2
«Pijjateme la pippa
3
accapalletto,
4
e sporgeteme ggiú ppuro
5
un papetto».
«E sto papetto mó cche tte ne fai?»
«E a vvoi che vve ne preme de sti guai?
6
Voi abbadate a ffà cquer che vv’ho ddetto,
e nun state a sfassciamme er ciufoletto».
«Dímme armeno
7
a cquest’ora indove vai».
«Dove me pare». «Ah Nnino!...». «Ôh, pprincipiamo».
«Ma ffijjo!...». «Ebbè, vvado a mmaggnà la trippa».
«E cco cchi?» «Cco li zoccoli d’Abbramo».
«Ggià annerai co le solite zzaggnotte...».
8
«Ma inzomma, sto papetto co sta pippa?»
«Eccolo. E cquanno torni?» «Bbona notte».
4 ottobre 1835
1
La sabbatina è «quel vegliare la sera del sabato, onde poi mangiar cibi vietati passata che sia mezzanotte».
2
Che vuoi
?
3
Pipa.
4
A capo del letto.
5
Pure.
6
Di queste cure.
7
Dimmi almeno.
8
Sozze bagasce.
1698. Er passa-mano
Er Papa, er Visceddio, Nostro Siggnore,
è un Padre eterno com’er Padr’Eterno.
Ciovè
1
nun more, o, ppe ddí mmejjo, more,
ma mmore solamente in ne l’isterno.
Ché cquanno er corpo suo lassa er governo,
l’anima, ferma in ne l’antico onore,
nun va nné in paradiso né a l’inferno,
passa subbito in corpo ar zuccessore.
Accusí ppò vvariasse
2
un po’ er cervello,
lo stòmmico, l’orecchie, er naso, er pelo;
ma er Papa, in quant’a Ppapa, è ssempre quello.
E ppe cquesto oggni corpo distinato
a cquella indiggnità,
3
ccasca dar celo
senz’anima, e nun porta antro
4
ch’er fiato.
4 ottobre 1835
1
Cioè.
2
Così può variarsi.
3
Dignità.
4
Altro.
1699. L’Àrberum
1
«A la grazzia, sor Meo. Dove se
2
va?»
«A l’uffizzio dell’àrberum». «De che?»
«Dell’àrberum». «E st’àrbero ch’edè?»
3
«È un coso che sse stampa in du’ mità».
4
«E cche cc’è ddrento?» «Un po’ de sciarle, e ttre
ddiseggni». «E cche ddiseggni?» «Antichità,
papi, animali, pezzi de scittà,
fori, cchiese, osterie, pupazzi,
5
re...».
«E cc’è ttutta sta robba?» «Siggnor zí».
«E cquann’essce?» «Oggni sabbito ar Gesú».
6
«Chi lo fa?» «Questo poi nu lo so ddí».
«E cquanto costa?» «Un grosso». «Dichi tú».
7
«Da cristiano». «Oh cche ccosa ho da sentí!
Un grosso un papa!». «E ccalerà de ppiú».
4 ottobre 1835
1
L’Album, giornale ebdomadario che si stampa in Roma, imitando e in parte ricopiando il Magasin pittoresque di
Parigi ed altri consimili fogli periodici.
2
Si.
3
Che è.
4
In due metà: in due colonne.
5
Statue, o simili simulacri.
6
In via
del Gesù.
7
Cioè: non ci credo; vuoi farmela bere. ecc.
1700. Checchina
1
appiccicarella
2
Díteme, è vvero o nnò, ssora Checchina,
quer c’ho ttranteso pe cciarabbottana,
3
che vvolete da mé una canzoncina
sur gusto d’un zonetto a la romana?
Fijja, e ssippuro
4
sto una sittimana
penzanno inzin’a ssabbito a mmatina,
che vvolete che ffacci?
5
Una funtana
acqua ve la pò ddà, mma nnò ffarina.
Voi co cquer par d’occhietti da Serena,
6
che ssò vvaga
7
de pepe, oggni perzona
v’immagginate de mettélla
8
in vena.
Ma io, prima che abbi la furtuna
de cantà in povesia, la mi’ canzona
ha da ssceggne
9
dar monno de la luna.
4 ottobre 1835
1
Francesca.
2
Facilmente affezionabile e gentilmente accarezzatrice.
3
Ho trainteso per cerbottana.
4
E seppure.
5
Che
faccia.
6
Pronunziato con entrambe le e strette.
7
Sono grani.
8
Di metterla.
9
Scendere.
1701. L’amica de mane lònghe
1
Ma eh? vvatte a ffidà de scerte facce
províbbite!
2
eh? cco cquella ipogrisia!
Inzomma a mmé mme s’è pportata via
una coràla
3
e ddu’ par de legacce.
Disce: «Sor’Anna, me pijjo quattr’acce
de filo?» Dico: «Sí». Ppoi, sposa
4
mia,
co la cosa
5
che cc’era Annamaria
io nun ebbe la dritta
6
de guardacce.
7
Capisco, quarche vvorta una s’acceca.
Ma ppuro
8
a le legacce e a le corale
ce s’ha adesso da mette
9
l’impoteca?
S’avería da fà ssempre er muso bbrutto?
Nun c’è ppiú rriliggione: eccolo er male.
Semo in terra de ladri: è ddetto tutto.
5 ottobre 1835
1
Di mani lunghe: ladra.
2
Proibite. Si pronunzia sdrucciolo, coll’accento nella prima i, e vale: «sinistre».
3
Un agorale.
4
Pronunciasi colla o chiusa.
5
Per la circostanza, pel motivo.
6
La malizia, l’avvertenza.
7
Di guardarci.
8
Pure.
9
Da
mettere.
1702. Amalia che ffa da Amelia
Io compatisco assai chi nun ha intesa
la Bbettini a la Valle. Ah, ssi
1
la senti!...
Bbast’a ddí cche sti nobbili scontenti
2
sce
3
stanno zzitti come fussi
4
in chiesa.
Jer’a ssera,
5
a li su’ scontorcimenti,
e in ner vedella su cquer letto, stesa,
io sciò
6
ssudato freddo, e mme sò
7
ppresa
la mi’ povera lingua tra li denti.
Sori romani mii, ve do un avviso.
Quella nun è una donna de sto monno:
è una fetta der zanto paradiso.
L’oro? È ppoco pe llei. Nun è ppremiata.
Dunque che je daressi?
8
Io v’arisponno:
la gujja de San Pietro imbrillantata.
6 ottobre 1835
1
Se.
2
Inurbani, sgarbati.
3
Ci.
4
Fosse.
5
Il 5 ottobre 1835. Beneficiata di lei, che produsse il dramma di Vittorio
Ducange intitolato: I tristi effetti di un tardo ravvedimento.
6
Ci ho.
7
Mi sono.
8
Daresti.
1703. Er medico de l’Urione
1
«Ôh ssor dottore». «Ebbene? l’ammalata?»
«Eh, un’ora fa mme la sò vvista bbrutta».
2
«Perché?» «Pperché ss’era intisíta
3
tutta».
«Niente: un poco di febbre risaltata».
«L’ha presa quella roba?» «L’ha ppijjata».
«Brava. E... dicevo... il vescicante?» «Frutta».
«Bene. Dov’è l’orina?» «Uh! ll’ho bbuttata».
«Ma, figliuola, l’orina, non si butta».
«Nun penzi: da cqui avanti je la lasso».
«Brutta lingua!». «Ce vò er vommitativo?»
«Stiamo a vedere come va da basso».
«E cquanno lo dirà?». «Quando ritorno».
«Tratanto posso fajje un lavativo?»
« Fatelo. E ci vedremo un altro giorno».
8 ottobre 1835
1
Il medico del Rione. Ogni rione ha professori e medicamenti pagati dal Governo per soccorso de’ poveri. Ma i
poveri! miseri poveri!
2
Mi sono assai sbigottita.
3
Si era tutta irrigidita nelle membra.
1704. Er convalisscente
Filiscissima notte a llòr ziggnori.
Come va er zor Cristòfino? ha sfebbrato?
Oh mmanco male, via. E li dolori?
Sia laudato Ggesú ssagramentato!
Se pò entrallo a vvedé?
1
Ss’è appennicato?
2
Zitto dunque: nò, nnò, stamo cqui ffori;
e vve possi dormí ssenza rimori
3
quínisci ggiorni e ppiú ttutt’in un fiato.
4
Mó, vve lo posso dí, ssora Grigoria:
io quell’omo l’ho vvisto e nun l’ho vvisto.
5
Bbasta, oramai se pò
6
ccantà vvittoria.
In zei ggiorni j’ho ffatto tre nnovene,
dua a la Madonna e una a Ggesucristo.
Ma llòro poi se sò
7
pportati bbene.
8 ottobre 1835
1
Si può entrare a vederlo?
2
Appennicarsi è «addormentarsi leggermente: assopirsi».
3
Romori.
4
Tutti di seguito.
5
L’ho
veduto in gran pericolo.
6
Si può.
7
Si sono.
1705. Bbrutti e scontenti
1
Hanno oggnun de li dua la su’ magaggna.
Cattiva mojje e ccattivo marito.
Lui sempre muto e vve commanna a ddito;
e llei strilla oggnisempre e vve se maggna.
Lui fa er rondone
2
pe ppiazza de Spaggna:
3
lei sempre se ne va ccor zu’ patito.
4
Inzomma, scerti
5
mòbbili, è ffinito,
er Ziggnore li fa, ppoi, l’accompaggna.
Nun pòi crede
6
che rrazza de gammone
7
se pijjeno
8
e cco cche ddisinvortura,
quela saràca
9
e cquer palamidone.
10
Eppuro,
11
ortre che mmetteno pavura,
sò ddu’ frutti oramai for de staggione,
sò un tantino passati de cottura.
8 ottobre 1835
1
Sgarbati.
2
Va in ronda, si aggira.
3
Ove sino a recentissimi tempi è stato l’asilo delle meretrici, per la immunità
goduta dai ministri di Spagna.
4
Drudo.
5
Certi.
6
Non puoi credere.
7
Ansa, libertà.
8
Si pigliano.
9
«Donna adusta», detta
così da un pesce salato, conosciuto col nome commerciale di salacca.
10
Palamita. Qui vale «uomaccione».
11
Eppure.
1706. L’oppiggnone diverze
1
Quante disputeríe! Senti che gghetto
2
per un gnente!
3
Me pare la questione
de fra Ccucuzza e ’r vecchio Simeone.
Er fatto eccolo qui ssémprisce e schietto.
Jer’ar giorno, Taddeo, Pio e Leone,
tutt’e ttre sse n’annàveno a bbraccetto,
quann’ècchete
4
una tevola da un tetto
che tt’acchiappa
5
Taddeo sur coccialone.
6
Leone sartò indietro e ddisse a Ppio:
«Attaccàmosce
7
er voto tutt’e ddua,
ch’è stato un gran miracolo de Ddio».
Taddeo, allora, che ffasceva un sguazzo
8
de sangue, repricò ppe pparte sua:
«Sí, è stato un ber
9
miracolo der cazzo».
9 ottobre 1835
1
Le opinioni diverse.
2
Che chiasso.
3
Per un niente.
4
Quando eccoti.
5
Colpisce.
6
Sul capo.
7
Attacchiamoci.
8
Che
faceva un guazzo.
9
Bel.
1707. La priscissione
1
der 23 Settembre
«Sei stato oggi a vvedé la priscissione?»
«Che ddimanna! ce sò stato sicuro.
Tu cce sei ito?» «Sce sò ito io puro».
2
«Che tte n’è pparzo?»
3
«Gran bella funzione!».
«E in che ssito l’hai vista?» «Llí ar cantone
tra Bbanchi e Pponte, arrampicato ar muro
su ’na ferrata. E ttu? Ggià, mme figuro
da la tu’ sgrinfia».
4
«No, ddrent’un portone».
«Dunque c’hai visto? di’, li mi’ stivali
«Defatti nun ho vvisto che le teste
der zanto Padre e dde li Cardinali».
«Oh vvatte a ffà impiccà! Mma sse ne dànno
piú mminchione e rridicole de queste?
J’hai visto propio quello che nun ciànno?!».
5
9 ottobre 1835
1
La processione.
2
Ci sono ito io pure.
3
Paruto.
4
Dalla tua innamorata.
5
Che non ci hanno: semplicemente, «che non
hanno».
1708. Cosa fa er Papa?
Cosa fa er Papa? Eh ttrinca,
1
fa la nanna,
2
taffia,
3
pijja er caffè, sta a la finestra,
se svaria,
4
se scrapiccia,
5
se scapestra,
e ttiè Rroma pe ccammera-locanna.
6
Lui, nun avenno fijji, nun z’affanna
a ddirigge
7
e accordà bbene l’orchestra;
perché, a la peggio,
8
l’úrtima minestra
sarà ssempre de quello che ccommanna.
Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane,
li crede robba sua: È tutto mio;
come a sto monno nun ce fussi
9
un cane.
E cquasi quasi godería sto tomo
10
de restà ssolo, come stava Iddio
avanti de creà ll’angeli e ll’omo.
9 ottobre 1835
1
Beve.
2
Dorme.
3
Mangia.
4
Si diverte.
5
Si scapriccia.
6
Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano,
potrebbe san Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio:
Quegli che usurpa in terra il luogo mio,
Il luogo mio, il luogo mio che vaca
Nella presenza del Figliuol di Dio.
7
A dirigere.
8
Al peggior dei casi.
9
Non ci fosse.
10
Questo furbo.
1709. La risposta de Monziggnore
L’unniscésima vorta ch’io sciaggnéde
1
ebbe
2
arfine la grazzia de l’udienza;
e cche vvòi!,
3
ner trovàmmeje
4
in presenza
fui llí llí cquasi pe bbasciajje er piede.
Poi je disse:
5
«Lustrissimo, Eccellenza,
nassce de cqui ffin qui, ccome pò vvede
6
dar momoriale che ppò ffajje fede
7
de la ggiustizzia a scàpito innoscenza».
8
Lui stava quieto; e io: «Dov’è er dilitto?
C’ha ffatto er fijjo mio? fora le prove:
nun parlo bbene?». E Mmonziggnore zzitto.
Ner mejjo der discorzo, er carzolaro
venne a pportajje un par de scarpe nove,
e mme mmannòrno
9
via com’un zomaro.
10 ottobre 1835
1
Che ci andai.
2
Ebbi.
3
Vuoi.
4
Nel trovarmigli.
5
Gli dissi.
6
Può vedere.
7
Può fargli fede.
8
Ex capite innocentiae.
9
Mandarono.
1710. La vista curta
«Come sta, Nnino, la commar Celeste
«Pe stà
1
sta bbene, ma cquell’occhi cani
j’hanno tanto infarzito, sor Oreste,
che mmanco ariconossce li cristiani.
2
V’abbasti a ddí cche prima de ste feste
un giorno sott’all’arco de pantani
pijjò un par de somari co le sceste
3
pe ’na coppia de frati francescani».
«Ma mme dichi davero o mme canzoni?»
« È vvangelio: du’ asini bbadiali
4
li bbattezzò ppe ffrati bbelli e bboni».
«Dunque, o all’occhi nun cià
5
ttutti sti mali,
o cquer giorno che vvedde
6
li torzoni
lei guardava le cose co l’occhiali».
10 ottobre 1835
1
Per istare.
2
Cristiani, vuol dire: «uomini» .
3
Ceste.
4
Tanto-fatti, grandi e grossi.
5
Non ci ha.
6
Vide.
1711. L’entróne
1
der teatro
Er ber zentí
2
è la folla de paíni,
3
quanno ch’essce la folla da la Valle.
4
«Chi è cquella?». «Bbenemio,
5
cche ppar de spalle!
Guarda sta vecchia come spaccia inchini!».
«Ecco ecco er novo duca Sceserini.
6
Chi appoggia?». «Ohé, vve piasce quelo sscialle?
Ggià mme capite...». «Oh ddio quanto sò ggialle
ste regazze!... E pperché? Nu l’indovini?».
«La Contessa stasera sta in brillanti».
«Di’ ffonni de bbicchieri». «Uh, vvedi vedi:
passa la scuffiarina. E mmamma avanti!».
E intanto che ss’aspetta la carrozza,
tra er gioco de le mane e de li piedi
la Compaggnia de San Martino
7
abbozza.
8
10 ottobre 1835
1
L’androne.
2
Il bel sentire: il bello udire.
3
Giovani alla moda.
4
Teatro di Roma.
5
Esclamazione di piacere e di
desiderio.
6
Vedi il Son…
7
Messieurs les cocus.
8
Usa prudenza e soffre.
1712. Una fettina de Roma
Quello è Ssant’Antonin de Portoghesi.
Sta strada larga è la Scrofa,
1
miledi;
che vva a Rripetta e ar Popolo, e da piedi
termina a Ssan Luviggi de Francesi.
Ècchesce
2
a la Stelletta,
3
e cqui, llei vedi,
trova leggni pe ttutti li paesi.
Qua ss’entra a Ccampo-Marzo.
4
E ll’antri mesi?
5
L’antri mesi er Ziggnore li provedi.
Quell’è er teatro Palaccorda; e cquelli
che stanno un po’ ppiú ggiú, ssò ddu’ palazzi,
chiamati de Negroni e de Cardelli.
Ecco er palazzo de Fiorenza; e infatti
ce sta er Cònzole; e llà er Palazzo Pazzi,
6
dove una vorta sc’ereno li matti.
11 ottobre 1835
1
Così detta da una piccola scrofa che getta acqua.
2
Eccoci.
3
Albergo di vetture.
4
Il Campo-Marzio degli antichi.
5
E
gli altri mesi?
6
Fabbrica appartenuta già, come si crede, alla famosa famiglia de’ Pazzi di Firenze.
1713. La riliggione der tempo nostro
Che rriliggione! è rriliggione questa?
Tuttaquanta oramai la riliggione
conziste in zinfonie, ggenufressione,
seggni de crosce, fittucce a la vesta,
1
cappell’in mano, cenneraccio in testa,
pessci da tajjo, razzi, priscissione,
bbussolette,
2
Madonne a ’ggni cantone,
cene a ppunta d’orloggio,
3
ozzio de festa,
scampanate, sbasciucchi,
4
picchiapetti,
parme,
5
reliquie, medajje, abbitini,
6
corone, acquasantiere e mmoccoletti.
E ttratanto er Vangelo, fratel caro,
tra un diluvio de smorfie e bbell’inchini,
è un libbro da dà a ppeso ar zalumaro.
7
11 ottobre 1835
1
Fettucce che le donne scampate da qualche malore proprio o altrui, o da qualunque altra disgrazia, sogliono per voto
attaccare a una veste di prammatica.
2
Bussolette da questua nelle chiese.
3
Cene di vigilia, col timore della mezzanotte.
4
Baciucchi.
5
Palme.
6
Piccolissimi scapolari benedetti.
7
Al salumaio.
1714. La pietra de carne
Mojje mia mojje mia, che ha rriccontato
che ha rriccontato er medico ar padrone!
Ggnente meno ch’è usscita un’invenzione
d’un certo sor Girolimo Segato,
ir quale sor Girolimo ha ppijjato
tanti pezzi de carne de perzone,
e ccià ffatto a Bbelluno un tavolone
tutto quanto de màrmoro allustrato.
Senti, Vincenza, e nnu lo dí
1
a ggnisuno:
volémo méttese
2
un fardello addosso
e zzitti zitti annàccene
3
a Bbelluno?
Chi ssa, Vvincenza mia, che cquer ziggnore
nun fascessi
4
er miracolo ppiú ggrosso
d’impietritte
5
la lingua uguale ar core?
6
13 ottobre 1835
1
Non lo dire.
2
Vogliamo metterci.
3
Andarcene.
4
Non facesse.
5
D’impietrirti.
6
Come il cuore.
1715. Er prete de la Contessa
Tra Vviterbo, Bbaggnaja, Vitorchiano,
Bbomarzo, Viggnanello e cquer contorno
lei sce stiede du’ mesi,
1
e ar zu’ ritorno
portò a Rroma un pretoccolo tarpano.
2
Questo, p’er taffio
3
e un pavoletto ar giorno
la serve da bbuffone e ccappellano,
e la diverte co le carte in mano
da doppo colazzione a mmezzoggiorno.
Ar tôcco
4
in punto ha da passà in cappella,
méttese
5
la pianeta e stà aspettanno
6
er commido
7
de lei su la pradella.
8
Pòi figuratte
9
quann’è stato un’ora
morennose
10
de fame e sbavijjanno,
le segrete c’affibbia
11
a la siggnora.
13 ottobre 1835
1
La padrona ci stette due mesi.
2
Rustico, goffo.
3
Per le cibarie.
4
A differenza de’ Toscani, che pel tocco intendono
l’un’ora pomeridiana, i Romani vogliono dire il primo tocco della campana di mezzodì, poiché non contano essi le ore
che di 24 in 24, da una ad un’altra avemaria.
5
Mettersi.
6
Stare aspettando.
7
Il comodo.
8
Predella.
9
Puoi figurarti.
10
Morendosi.
11
Che applica.
1716. Er principio
Ne l’entrà ccor messàle in zagristìa
e nner ridallo
1
ar chirico Mazzola,
2
dico: «Cosa vò ddí,
3
ppadre Mattia,
In principio eratverbo?» «Eh sor Nicola»,
disce er frate, «in che ddà sta fantasia?».
(e bbasciava la crosce de la stola).
Dico: «Ebbè ddunque?». Disce: «Andiamo, via,
vò ddí cch’era in principio una parola».
«E sta parola che ccos’era?», dico.
Disce: «Era inzomma quer ch’era a un dipresso
la santa riliggione a ttemp’antico».
Dico: «E cchi sse n’intenne de sti guai?
Ner principio era una parola, e adesso
è un chiacchierà cche nun finissce mai!».
17 ottobre 1835
1
Nel ridarlo, nel renderlo.
2
«Chierico Mazzola», dicesi per ischerno ai chierici delle sagristie.
3
Vuol dire.
1717. Er parto de la mojje de Mastro Filisce
Bbasta, a fforza d’erlíquie
1
e dd’aggnusdei
sopr’a la panza, arfine stammatina
verzo diesciòra
2
ha ppartorito Nina,
e ha fatto un maschio ppiú ggrosso de lei.
Dico la verità, ssora Ggiustina,
io n’ho ffatti a sto monno ventisei,
ma pprima d’ariassiste
3
ppiú ccolei
ne vorebbe arifà ’n’antra duzzina.
4
Se
5
discorre che cquella craturaccia
doppo nov’ora
6
de prèmiti e ddojje,
s’è appresentata ar búscio
7
co la faccia.
Llí immezzo, díllo tu, Mmastro Filisce,
quer gruggnetto der fijjo de tu’ mojje
nun pareva un’immaggine in cornisce?
18 ottobre 1835
1
Di reliquie.
2
Verso dieci ore.
3
Di riassistere.
4
Ne vorrei rifare un altra dozzina.
5
Si.
6
Nove ore.
7
Si è presentata al
buco.
1718. La donna gravida
Io nun zo ccosa v’annate scercanno
co l’arzà ttutt’er giorno tanti pesi.
Nun zapete che state in zette mesi?
Ve volete sconcià ccome l’antr’anno?
Ggià ssete avvezza in quell’antri paesi
dove se porta lo spadino e ’r panno;
1
ma cqui ccerte fatiche nun ze fanno:
cqua nnoi semo romani e nnò arbanesi.
Quest’aria nun è aria da villani.
Noi nun zemo facchini, io ve l’ho ddetto:
noi pe ggrazzia de ddio semo romani.
Er crima nostro è un crima bbenedetto
indove oggi te scarmi?
2
ebbè ddomani
sta’ ppuro scerta
3
che tte metti a lletto.
19 ottobre 1835
1
Nelle terre delle provincie più vicine a Roma usano le donne di raccoglier le treccie attorno a un lungo spillo di
argento, chiamato spadino, e di coprirsi il capo con un panno di lino ripiegato in varie foggie.
2
Ti scalmani.
3
Sta pure
certa.
1719. L’incoronazzione de Bbonaparte
E ddoppo che cquer povero cojjone
de Chiaramonti abbandonò er governo
pe annà a Ppariggi in ner cor de l’inverno
currenno
1
tanto che cciarzò er fiatone,
2
er zu’ fijjo, er zu’ caro Napujjone,
ch’er diavolo lo frigghi in zempiterno
ne la peggio padella de l’inferno,
je fesce bbontà ssua sta bbell’azzione.
Tra un Deus, un ajjo, un toro, e Mmeo m’intenne,
e un Dommino a jjuvanni e mme festina,
s’incoronò da sé!, ddeograzzia ammenne.
3
Che rrazza de creanze, eh? cche mmodestia!
Eppoi ppe ggionta,
4
je vortò la schina
5
senza dijje né asino bbestia.
6
24 ottobre 1835
1
Correndo.
2
Ci alzò il fiatone: ne rimase ansante.
3
E così terminò.
4
Per giunta.
5
La schiena.
6
Senza dirgli motto.
1720. Cattive massime
1
mmassime cattive. Nun me piasce
a mmé de véde
2
disprezzà la ggente.
S’ha da trattà cco ttutti ggentirmente
chi li su’ ggiorni li vò vive in pasce.
3
Fijja, a sto monno un omo ch’è ccapasce
de fà un sgarbo a un antr’omo, è un inzolente,
è un screanzato, nun merita ggnente,
è un omo da sfuggí ccome la bbrasce.
4
Perché cquello va in chiesa la matina
rubbanno quarche orloggio o ffazzoletto
c’entra de stajje
5
a ffà ttanta marina?
6
Bbisoggna compatillo, poveretto.
Cosa disce er proverbio, sora Nina?
7
«Ama l’amico tuo cor zu’ difetto».
24 ottobre 1835
1
Sono.
2
Di vedere.
3
Li vuol vivere in pace.
4
La brace.
5
Di stargli.
6
Gridargli tanto addosso.
7
Signora Caterina.
1721. La matta che nun è mmatta
1
Jerzéra Amalia
2
in ne la parte d’Anna
me mannò ttanto la corata
3
in giro,
che mme fasceva ritené er respiro,
me fasceva tremà ccome una canna.
Che ddiavola de donna! A un zu’ sospiro
v’intontite,
4
la vista ve s’appanna,
paréte un reo c’aspetta la condanna,
un omo che jje dichino: te tiro.
Che ne so! sse
5
fa bbianca, se fa rrossa,
muta finosomía, càmmia
6
la vosce,
diventa fina fina, grossa grossa...
Cosa, inzomma, da vénnese in galerra:
7
cosa da fasse
8
er zeggno de la crosce,
e ssalutalla co un ginocchio a tterra.
27 ottobre 1835
1
Elle est folle: dramma di Melesville, tradotto da Gattinelli figlio.
2
La prima attrice della compagnia Mascherpa,
signora Amalia Bettini, nella parte di lady Anna Harleigh.
3
Le viscere.
4
Vi instupidite.
5
Si.
6
Cambia.
7
Vendersi.
8
Farsi.
1722. La vedova dell’ammazzato
Bbe’ tte l’hanno ammazzato: ma, ccommare,
nun era peggio de morí
1
in priggione?
Fijja, bbisoggna fasse
2
una raggione:
nissuno pò mmorì ccome je pare.
L’affare de la morte è un cert’affare
che nun ze spiega.
3
Vedi Napujjone
ch’è stato quer ch’è stato? Ebbè, er padrone
de la terra nun morze
4
immezz’ar mare?
Chi la pò pprevedé sta morte porca?
Se more
5
a lletto suo, a lo spedale,
in guerra, all’osteria, sur una forca...
Certe cose le regola er Ziggnore.
La morte è in man de Ddio. Se
6
sa, ffijjola,
dove se nassce e nnò ddove se more.
29 ottobre 1835
1
Di morire.
2
Farsi.
3
Non si spiega.
4
Non morì.
5
Si muore.
6
Si.
1723. La vedova dell’ammazzato
Pe cconzolamme
1
eh oggnuno me conzola:
«E ddatte pasce,
2
e nun piaggne, Sabbella,
3
e che vvòi fà?...».
4
Ma intanto io poverella
sento ’na mano che mme striggne in gola.
Se
5
fa ppresto a infirzà cquarche pparola
quanno la man de Ddio nun ce fraggella.
Tutti sò bboni a ppredicà, ssorella,
ma la disgrazzia mia la sento io sola.
Chi lo poteva immagginà che ffossimo
a ccerti tempi de morí scannati
pe amà er Ziggnore e ppe ffà bbene ar prossimo?
Lo sa adesso er mi’ povero marito
che, in sconto forzi
6
de li mi’ peccati,
è ffinito accusí ccom’è ffinito.
20 gennaio 1843
1
Per consolarmi.
2
Datti pace.
3
Non piangere, Isabella.
4
Che vuoi fare.
5
Si.
6
Forse.
1724. Villa Bborghese
Llí cc’è ttrattoreria dove godete
bbon locale, aria uperta e bbella vista;
e in tutta libbertà ppranzate a llista
sino c’avete fame e avete sete.
Llí, ttutti inzieme, la regazza, er prete,
l’omo, la donna, er nobbile, l’artista,
er medico, er curiale, er computista,
fate caggnara, cantate e rridete.
Poi ve n’annate ar lago e ppe la villa,
e dda per tutto trovate chi mmaggna,
chi ggiuca a ppalla, chi ccurre e cchi strilla.
Cqua sse
1
bballa a l’usanza der paese,
là er pallone,
2
l’orchestra, la cuccaggna...
Viva er core der Prencipe Bborghese!
31 ottobre 1835
1
Si.
2
Il globo aerostatico.
1725. Er caval de bbronzo
E ddàjjela cor trotta e ccor galoppa!
1
Io v’aritorno a ddí, ppadron Cornelio,
ch’er famoso caval de Marc’Urelio
un antro po’ ccasca de quarto o schioppa.
2
Er zor Don Carlo Fea, jjeri, e nun celio,
ce stava sopra a ccianche
3
larghe in groppa,
e strillava: «Si
4
cqua nnun z’arittoppa
se
5
va a ffà bbuggerà ccom’un Vangelio».
6
L’abbate aveva in mano un negroscopico
7
e ssegguitava a urlà ppien de cordojjo:
«Cqua cc’è acqua, per dio! questo è rritropico».
8
Disce inzomma che ll’unica speranza
de sarvà Marc’Urelio in Campidojjo
è er fajje una parèntisi
9
a la panza.
1° novembre 1835
1
E dàgli, e seguita a dire che trotta e che galoppa.
2
Poco mancava che cadesse, ecc., o scoppiasse.
3
Gambe.
4
Se.
5
Si.
6
Cioè: «veramente, senza dubbio».
7
Microscopio.
8
Idropico.
9
È il fargli una paracentesi, ecc. Difatti, il famoso cavallo
erasi col tempo riempiuto di acqua e minacciava di crollare. L’abate Fea, commissario vigilantissimo delle antichità,
vi fece riparare.
1726. Er mejjo e er peggio
Stateme a ssentí bbene: è mmejjo ar monno
perde
1
ner faticà cquadrini e ppeggno,
tirà lo schioppo e mmai nun cojje
2
a sseggno,
méttese
3
a ggalla e ccalà ssempre a ffonno.
È mmejjo lavorà ssenza un ordeggno,
tené un turaccio quadro e un búscio
4
tonno,
ggiucà pp’er prim’estratto e usscí er ziconno,
avé ccortel de scera
5
e ppan de leggno.
È mmejjo d’annà a lletto quann’hai fame,
maggnà er presciutto pe smorzà la sete,
cuscinà in batterie cor verderame.
È mmejjo sbatte
6
er muso a le colonne,
dormí cco un frate e lliti cco un prete
che innamorasse
7
de vojantre
8
donne.
3 novembre 1835
1
Perdere.
2
Cogliere, colpire.
3
Mettersi.
4
Buco.
5
Cera.
6
Battere.
7
Innamorarsi.
8
Voi altre.
1727. Le smammate
1
Díllo, visscere mie de ste pupille:
di’, ccore, chi vvò bbene a Mmamma sua?
Uh ffijjo d’oro! E cquanti sacchi? Dua?
Du’ sacchi? E Mmamma sua je ne vò mmille.
No, bbello mio, nu le toccà le spille:
sta’ attenta, sciscio,
2
che tte fai la bbua.
Oh ddio sinnóe! Oh ppòvea catúa!
3
S’è ppuncicato la manina Achille!
Guarda, guarda er tettè,
4
ccocco mio caro...
Bbe’, er purcinella, sí... Nno, er barettone...
5
Ecco la bbumba,
6
tiè... Vvòi er cucchiaro?
Ôh, zzitto llí, cché mmó cchiamo bbarbone,
e vve fo pportà vvia dar carbonaro
che vve metti
7
in ner zacco der carbone.
3 novembre 1835
1
Smancerie, vezzi di madre.
2
Cicio: parola vezzeggiativa.
3
Oh dio signore, oh povera creatura! (che il popolo dice
cratura). Queste parole sono qui scritte senza la r, perché così in Roma si suol parlare ai bambini.
4
Cane.
5
Berrettone.
6
Bumba, è pe’ bambini «tuttociò che si bee».
7
Vi metta.
1728. La colómma
1
de mamma sua
Nun è vvero, commare, che sta fijja,
nò pperch’è ffijja mia, ma è un pezzo d’oro?
Ôh in questo tanto, pe ssarvà er decoro,
è inutile, ggnisuno l’assomijja.
Checca, nun fo ppe ddí, cchi sse la pijja,
nun è vvero, Luscía?, trova un tesoro.
Nun conossce antro
2
che ccasa e llavoro;
pare inzomma una madre de famijja.
Pe ddivozzione poi!... C’è Ffra Ssincero
che vorebbe sonajje le campane.
Che angelo, eh commare? nun è vvero?
Lei je facci una ruzza co le mane,
e vvederà ssi
3
ne capissce un zero.
Eh, a ccasa nostra nun ce
4
pputtane.
novembre 1835
1
Colomba.
2
Altro.
3
Se.
4
Non ci sono.
1729. L’urtimo bbicchiere
Dunque la fin der pranzo nu la sai?
Un po’ ppiú sse
1
pijjaveno a ccazzotti.
Pe ’na mezza parola se sò
2
rrotti
che gguai a llui si cciaritorna,
3
guai!
«Nò», strillava er padrone, «nò, mmai, mai:
caluggne de vojantri patriotti:
4
li Dottori sò stati ommini dotti,
e Ggesucristo j’è obbrigato assai».
E cquello risponneva: «Eh, Monziggnore,
abbadi come parla. Io nun zò
5
aretico,
ma ppoteva sbajjà ppuro
6
un Dottore».
«Che?», rrepricava l’antro:
7
«ggnente, ggnente:
lei, siggnore, è un gismatico,
8
è un asscetico,
9
un uteràno
10
marcio, un biscredente».
11
5 novembre 1835
1
Si.
2
Si sono.
3
Se ci ritorna.
4
Di voi altri settari.
5
Non sono.
6
Pure.
7
L’altro.
8
Scismatico.
9
Scettico.
10
Luterano.
11
Miscredente.
1730. Chi era?
Questo ve posso dí, cch’io ho incontrato
er mortorio ar canton de la Corzía,
1
co ssei torce, ’na mezza compaggnia,
venti frati e otto preti ortre ar curato.
Der restante è una bbella porcheria
st’usanza der cadavero incassato.
Oh vvedete si
2
un morto trapassato
nun z’abbi da capí cchi bbestia sia!
Drento una cassa che nun cià ggrillanna,
3
né llibbroni, né ggnente, oh vva’ a rrisponne
4
si cche rrazza de morto Iddio ve manna!
5
Armeno
6
chi ha ddu’ deta
7
de scervello
ciavería da fà mmette
8
pe le donne
una scuffia e ppell’ommini un cappello.
6 novembre 1835
1
Corsia di Piazza Navona.
2
Se.
3
Non ci ha, non ha, ghirlanda.
4
A rispondere.
5
Vi manda.
6
Almeno.
7
Due dita.
8
Ci
avrebbe da far mettere.
1731. Er pranzo da nozze
Sentite cosa avessimo
1
da pranzo.
Zzuppa a mminestra cor brodo di pollo
der pollo allesso: arrosto di ripollo...
2
Ah, un passo addietro: ci fu ppuro
3
ir
manzo.
Pessce fritto pescato a pporto d’Anzo
4
co ggobbi e ppezzi de merluzz’a mmollo:
ummido d’un crapetto
5
senza ir collo,
c’affogò
6
ttutti e nn’arrestò
7
d’avanzo.
Una pizza, un cappone di galerra,
che ppell’ommini nostri fu una cosa
che cci saríano annati sotto terra.
Frutti, miggnè,
8
’na frittata roggnosa,
cascio e fformaggio;
9
e tterminò la guerra
s’un piattón di confetti de la sposa.
6 novembre 1835
1
Avemmo.
2
Pollo nuovamente: altro pollo.
3
Pure.
4
Anzio.
5
Capretto.
6
Che satollò esuberantemente.
7
Ne restò.
8
Bigné.
9
Cacio e formaggio. Il popolo chiama cacio quel del latte della pecora, il pecorino nostrano, e nome di
formaggio al parmegiano, ossia lodigiano.
1732. Er pilàro
1
Sto correttor de stampe
2
che ccorregge
li latini ar zomàro in d’un porcile,
disce che ll’arte der pilaro è vvile
com’è vvile la greta che l’arregge.
3
Eh, ssi
4
ar Monno voléssino protegge
li talenti e l’innustria, er fà le pile
diventerebbe un’arte siggnorile
quant’er mistiere de lo scrive e llegge.
5
Va’ a ccérca allora er principio dell’arte!
Neppuro Napujjone era un Ziggnore
e ccor tempo se fesce
6
Bbonaparte.
E Rroma? In vita mia l’ho ssempre intesa
nata da quattro ladri senz’onore;
e mmó è ssanta e cc’è er capo de la cchiesa.
8 novembre 1835
1
Il pignattaro.
2
Questo censore.
3
La creta che la regge.
4
Se.
5
Dello scrivere e leggere.
6
Si fece.
1733. L’Avocato Cola
Ma eh? Cquer povero Avocato Cola!
Da quarche ttempo ggià ss’era ridotto
che ssí e nnò aveva la camìscia sotto,
e jje toccava a ggastigà la gola.
Ma ppiuttosto che ddí cquela parola
de carità, ppiuttosto che ffà er fiotto,
1
se venné
2
ttutto in zette mesi o otto,
for
3
de l’onore e dd’una ssedia sola.
Mó un scudo, mó un testone, mó un papetto,
se maggnò,
4
ddisgrazziato!, a ppoc’a ppoco
vestiario, bbiancheria, mobbili e lletto.
E ffinarmente poi, su cquela ssedia,
senza pane, senz’acqua e ssenza foco,
ce serrò ll’occhi e cce morí dd’inedia.
5
8 novembre 1835
1
Piuttosto che andar lagnandosi.
2
Si vendette.
3
Fuor.
4
Si mangiò.
5
Così fu trovato l’avvocato Carlo Cola dopo alcuni
giorni dacché non erasi più veduto.
1734. Li conti co la cusscenza
1
Da un par de mesi in qua sto sor Giuanni
me dà gguai e mme scoccia li cojjoni.
Dunque bbisognerà cche lo bbastoni;
e cquasi quasi è mmejjo che lo scanni.
A nnoi. Quant’anni ha er Papa? Ha ssettant’anni.
Va bbene: è vvecchio. Settant’anni bboni
2
3
un passaporto pell’antri carzoni,
4
tanto ppiú ssi ssò
5
uniti anni e mmalanni.
Tempo, amico. Per ora te sopporto;
ma ssi
6
er Papa dà ggiú,
7
ddove te trovo
te lasso freddo. Er conto è ccorto corto.
Meno, scappo, sò ppreso, er Papa more,
viè er concrave, se
8
crea er Papa novo,
fa le grazzie, e mme n’esco con onore.
10 novembre 1835
1
Coscienza.
2
Settanta anni compiuti.
3
Sono.
4
Per gli altri calzoni: per l’altro mondo.
5
Se sono.
6
Se.
7
Declina in
salute.
8
Si.
1735. Lo spiazzetto de la corda ar Corzo
1
Prima
2
la corda ar Corzo era un supprizzio
che un galantomo che l’avessi
3
presa
manco era bbono ppiú a sserví la cchiesa,
manco a ffà er ladro e a gguadaggnà ssur vizzio.
Finarmente li preti, c’hanno intesa
la raggione, in quer po’ de frontispizzio
4
ce fanno arzà una fetta de difizzio;
5
ma cchi ll’arza, pe mmé, bbutta la spesa.
Come se po’
6
ttrovà ggente bbalorda
che vvojji mette
7
er letto indove un giorno
passava propio er trave co la corda?
A mmé mme parerebbe a un bon bisoggno
de vedemme oggni sempre er boja attorno,
e cqueli laggni de sentilli in zoggno.
12 novembre 1835
1
Il tormento della corda si dava nel bel mezzo della via del Corso.
2
A’ tempi di prima.
3
L’avesse.
4
In quel poco di
spazio.
5
Di edifizio.
6
Si può.
7
Che voglia mettere.
1736. La lettrícia
1
S’io fussi
2
Re, ss’io fussi Imperatore,
s’io fussi Papa, voría fa
3
una lègge,
4
c’a la commedia indove quella legge
5
nun ciavessi d’annà
6
cchi avessi
7
er core.
Disce: correggi. E ccosa vòi corregge,
8
si
9
è ttutto quanto un zacco
10
de dolore?
Sangozzi,
11
piaggnistèi, smanie, furore...
Nun ce s’arregge,
12
via, nun ce s’arregge.
Ma la commedia nun zarebbe ggnente:
er peggio male
13
è cquela prima donna,
14
c’òpre bbocca e mmorite d’accidente.
È ttanta strazziavisscera
15
costei,
ch’io me la pijjerebbe con zu’ nonna
16
c’ha ffatto la su’ madre pe ffà llei.
17
12 novembre 1835
1
La Lettrice, dramma francese ridotto pel teatro italiano da Giacomo Ferretti.
2
S’io fossi.
3
Vorrei fare.
4
Il nome legge
è dal volgo pronunciato con entrambe le e larghe.
5
Dove colei legge.
6
Non ci avesse da andare.
7
Chi avesse.
8
Vuoi
correggere.
9
Se.
10
Sacco.
11
Singhiozzi.
12
Non ci si regge.
13
Il peggior male.
14
Amalia Bettini.
15
È tanto straziaviscere.
16
Con sua nonna.
17
Per far lei.
1737. Semo da capo
Currete, donne mie; currete, donne,
a ssentí la gran nova c’hanno detto:
c’a la Pedacchia, ar Monte, e accant’a gghetto
arïoprono l’occhi le Madonne.
1
La prima nun ze sa,
2
ma jj’arisponne
quella puro de Bborgo e dde l’Archetto.
Dunque dateve, donne, un zercio
3
in petto,
e ccominciate a ddí ccrielleisonne.
Oh ddio: che ssarà mmai st’arïuperta
4
doppo trentasei anni e mmesi d’ozzio?
Bbattajje, caristie, rovina scerta.
5
Se troveno
6
però ccert’indiscreti
che vvanno a bbisbijjà che sto negozzio
è un antro bbutteghino
7
de li preti.
17 novembre 1835
1
Già nel tempo della repubblica francese in Roma fu creduto da infiniti fanatici di vedere le Madonne delle pubbliche
vie aprir gli occhi, girarli, e versar lagrime. Nel 1835, avvicinandosi il colera al nostro Stato, alcuni o creduli o
impostori cominciarono a sparger voce della rinnovazione di un tanto miracolo.
2
Non si sa.
3
Un selce.
4
Questo
riaprimento.
5
Rovina certa.
6
Si trovano.
7
È un altro mezzo di traffico.
1738. Er padre de Ghitanino
1
Sor oste, una fujjetta der piú pprezzo,
e evviva sempre er Governo papale!...
Bbravo, padron Cammillo... nun c’è mmale.
Presto, corpo de Ggiuda!, un antro mezzo.
Bbono, pe Ccristo! e vvali quer che vvale,
e Ddio sce lo mantienghi per un pezzo...
Bbono! e accidenti a mmé ssi lo bbattezzo.
Sú, alegramente, cqua, n’antro bbucale.
Viva er Papa, e ’r malocchio nun ce pòzzi.
Ggiú, a la salute de la Santa Cchiesa.
Vino, cazzo! Aló, bbeve, Tuttibbozzi,
2
tocca, fijjo, e ddà ssotto inzin che vvòi.
Trucchia, sagrato!, e nun badà a la spesa,
ché adesso a Rroma commannamo noi.
19 novembre 1835
1
Il Cavaliere Gaetano Moroni, già barbiere di frate Mauro, ora primo «aiutante di Camera» di Papa Gregorio. Il signor
Rocco, padre di questo grande di Corte, conservate le sue prime abitudini, segue a frequentare le bettole, dove tiene
appuntino il linguaggio che qui gli è attribuito; e la sera, tornando al Vaticano, picchia alle colonne del gran peristilio,
credendole la porta di casa. Il secondo figlio del vecchio Moroni è Vincenzo, detto «Vincenzino del Papa», il quale,
sotto la direzione del fratello «Gaetanino», ha l’onore di radere i peli santissimi dal mento di Sua Beatitudine. Una
sera, giuocando egli «all’anello» in una società di Roma, fu detto a chi riteneva l’anello di portarlo a colui che faceva
la barba al porco. Colui lo portò a Vincenzino che non conosceva. Di ciò nacque uno scompiglio, e la casa ne fu presa
di mira siccome un nido di «carbonari».
2
«Tuttibbozzi», soprannome del terzo figlio del nostro Moroni. Imbianchino
di professione si è veduto innalzato alla dignità di pittore de’ Palazzi Apostolici, tenuta in peggiori tempi da un certo
Raffaello di Urbino. Egli ha difatti imbiancato da capo a fondo il Vaticano e il Quirinale, ricoprendo di una bella
mezzatinta alcuni affrescacci de’ fratelli Zuccheri, che esistevano sotto una «vortica» (cosí il Tuttibbozzi chiama la
«volta») nel giardino di quest’ultimo palazzo. Suole egli, mentre fischia e lavora, tenere in capo un berretto di carta, in
un lato del quale è scritto: «Evviva Gregorio XVII», nell’altro: «Evviva la casa Moroni»; e di dietro: «Accidenti a li
Giacobbini». Desideriamo che questi cenni biografici possano passare alla posterità insieme con la gloria del nostro
amatissimo Pontefice e Padre. Dio guardi.
1739. La mano reggia
Avanzanno
1
la Cammera una bballa
de quadrini da un Duca trappolaro
je spidí
2
ttre ccurzori cor un paro
de schertri
3
in scuderia pe ppiggnoralla.
Entrò infatti er zinèdrio in ne la stalla,
e azzecca un po’ cche cce trovò? Un notaro,
che svitato er zu’ bbravo calamaro
j’incartò una protesta calla calla.
Privileggi, arme, titoli, patente!,...
inzomma li tre ppoveri curzori
ciànno
4
perzo l’impiego alegramente.
Ecco er Governo der zagro Colleggio!
Quanno sce
5
de mezzo li siggnori,
tradillo è mmale e nnun tradillo è ppeggio.
20 novembre 1835
1
Avanzando.
2
Gli spedì.
3
Carabinieri. Vedi la nota... del Son...
4
Ci hanno.
5
Ci sono.
1740. Li troppi ariguardi
Ma cche ppassione avete, sor’Ularia,
1
de tené ssempre sta finestra chiusa?
Nu la sentite cqui cche ariaccia uttusa?
2
Eh vvia, uprite, rinovate l’aria.
S’intenne:
3
un corp’umano che nun usa
d’avé l’aspirazzione nescessaria,
l’antimosfera je se
4
fa ccontraria,
e ssi
5
ppoi s’accerota nun ha scusa.
Ecco da che ne nassce, sciorcinata,
che vv’è vvienuta l’istruzion de fedico:
6
dall’aria che vve sete nimicata.
Aria e ssole sce
7
vonno: io ve lo predico,
perché vve vedo stà ttroppa attufata.
8
Dov’entra er zole, fía,
9
nun entra er medico.
25 novembre 1835
1
Signora Eulalia.
2
Ottusa.
3
S’intende.
4
Gli si.
5
Se.
6
L’ostruzione di fegato.
7
Ci.
8
Chiusa.
9
Contrazione di figlia.
1741. L’amore de le donne
L’amore d’una donna io te lo do
a uso de quadrini e ssantità;
credilo sempre metà ppe mmetà.
Pijjelo, e ttira via come se pò.
1
Er bene che llei disce che tte vò,
e ttutte le sscimmiate
2
che tte fa,
quarche vvorta ponn’èsse
3
verità,
e cquarche vvorta e un po’ ppiú spesso nò.
Indove l’occhio tuo nun pò vvedé
ssi
4
cce n’è un po’ de meno o un po’ de ppiú,
quint’azzecca,
5
Matteo, quanto sce n’è.
Co le donne hai da fà ccome fai tu
quanno bbevi favetta pe ccaffè:
striggni le labbra, e bbon zuàr monzú.
3 dicembre 1835
1
Si può.
2
Moine.
3
Esser.
4
Se.
5
Vallo o indovinare.
1742. Lo strufinamento de la Madonna
Se pò ddà ssu la terra una tetraggine
compaggn’a la Madonna der Croscifero?
Sor pittore mio caro, io ve lo spifero:
1
schiavo sempre a la vostra cazzacciaggine.
Co cquer naso affilato come un pifero,
co cquer color de sugo de burraggine,
pare er ritratto (sarvanno
2
l’immaggine)
de la mojje arrabbiata de Luscifero.
St’assomijjanza me fa ttanto stacolo
3
ch’io che mme trovo in mano de scirusico
guasi ho scrupolo a cchiedeje
4
un miracolo.
Sai che
5
rraggione ha llei? ch’io nun zò eretico,
che nun ho ppresscia d’arimane
6
musico,
e cche cquesto è er mi’ anno crimatetico.
7
10 dicembre 1835
1
Ve la snocciolo, ve la canto.
2
Salvando.
3
Ostacolo.
4
Chiederle.
5
Quale.
6
Rimanere.
7
Climaterico.
1743. Ch’edèra?
1
Quanno Adamo azzardò cquella maggnata,
nun usava salame né ppresciutto,
e mmanco se conniva
2
co lo strutto
in gnisuna viggijja commandata.
Dunque è una cosa vera e cconcertata
3
che cquer c’ar monno ha rruvinato tutto
nun ha ppotuto èsse antro
4
c’un frutto.
Ma cquale poi? Cqui sta la bbuggiarata.
5
Chi vve disce una mela, chi una pera,
chi una nespola: e intanto de sti matti
gnisuno è bbono a indovinà cch’edèra.
Io ggiurería
6
pe mmé cche dda la mojje
lui pijjassi
7
una fica, perché infatti
se coprí cquel’affare co le fojje.
25 dicembre 1835
1
Che era?
2
Si condiva.
3
Accertata.
4
Essere altro.
5
Difficoltà.
6
Giurerei.
7
Pigliasse.
1744. Le funzione de Palazzo
Si
1
er Papa fussi
2
un pescator de rete
e pportassi
3
da sé la naviscella,
se potería
4
sperà ssú a la Cappella
quarche ppostuccio pe cchi ha ffame e ssete.
Ma, ffratèr caro, er zanto Padre è un prete,
e ttiè ar culo una scerta caccarella,
5
che ppe noantri
6
ggente poverella
le su’ funzione sò ttutte segrete.
Tu accostete
7
a uno sguizzero
8
papale,
e tte dà in petto un carcio de libbarda,
9
che tte fa ttommolà ggiú ppe le scale.
La carità ccristiana è una bbusciarda.
10
Cqua cchi ha, è; e cchi nun ha, Ppasquale,
ar monno d’oggidí mmanco se
11
guarda.
25 dicembre 1835
1
Se.
2
Fosse.
3
Portasse.
4
Si potrebbe.
5
Una certa caccarella, cacca: orgoglio.
6
Noi altri.
7
Accostati.
8
Svizzero.
9
Alabarda.
10
Bugiarda.
11
Si.
1745. L’assaggio de le carote
1
Ciarlanno in compaggnia succede spesso
c’uno o ll’antro
2
de quella compaggnia
nun zai da quer che ddisce ar temp’istesso
s’abbi o nun abbi er don de la bbuscía.
Tu allora pe scoprí che bbestia sia,
di’ un buscïone da restajje impresso;
e ssi
3
cquello è bbusciardo, Zaccaria,
vederai che cciattacca
4
e tte viè
5
appresso.
Una vorta io ne fesce
6
l’esperienza
cor carzolaro antico der padrone,
che sparava gran buggere in credenza.
Dico: «È arrivato er re de Princisvalle».
Disce: «Lo so, mm’ha ddato ordinazzione
de venti para de papusse
7
ggialle».
26 dicembre 1835
1
Il saggio delle menzogne.
2
Altro.
3
Se.
4
Ci attacca.
5
Ti viene.
6
Ne feci.
7
Pantofole.
1746. Le cuncrusione
1
de la Rescèli
2
Oh cche ttempi! oh che scannoli! Un Convento
Francescano, una Regola de’ frati,
cristiani, bbattezzati e ccresimati,
e ammoniti
3
d’oggn’antro
4
sagramento,
s’hanno da mette
5
in una Roma, drento
d’una cchiesa, turcacci annegati,
a impuggnà li misteri ppiú spiegati
de l’assenza
6
de Ddio, tutti e ttrescento!
Disce che in tutto st’Ordine ggiudío
nun ze
7
trovò cche un povero novizzio
che avessi
8
core de difenne
9
Iddio!
Me fa spesce
10
der Papa, che ppermetti
11
simile infamie, e ppoi roppi
12
er servizzio
a sti quattro cazzacci de bbaffetti.
27 dicembre 1835
1
Le conclusioni di teologia, tenute da uno studente francescano.
2
Vedi la nota... del Son...
3
Muniti.
4
Di ogni altro.
5
Mettere.
6
Essenza.
7
Non si.
8
Avesse.
9
Di difendere.
10
Mi fa specie.
11
Permetta.
12
Rompa.
1747. Nino e Ppeppe
1
a le Logge
«Sicché, Ppeppe, ste logge tante bbelle
essenno fatte cor colore fino,
se pò ppuro
2
ggiurà ssenza vedelle
che l’ha ddipinte Raffael Durbino».
«De che ppaese sarà stato, eh Nino,
st’affamoso pittore Raffaelle
«Pe mmé, ho inteso chiamallo er Peruggino».
«Dunque era de Peruggia: bbagattelle!
A l’incontro er padrone de Venanzio,
ch’è un pittore moderno, lo fa èsse
3
d’un paesetto che sse
4
chiama Sanzio».
«Vorrai dí Ccalasanzio. Ebbè, lo scropi
si
5
è vvero o ffarzo, da le bbocche istesse
de quelli in porteria de li Scolopi».
6
29 dicembre 1835
1
Giovanni e Giuseppe.
2
Si può pure.
3
Essere.
4
Si.
5
Se.
6
Gli Scolopi sono chierici regolari instituiti da S. Giuseppe
Calascanzio, che professano d’istruire fanciulli.
1748. Li ggeloni
1
E speri de guarí
2
dda li ggeloni
pe vvia
3
che tte sce
4
fai tanti sciappotti,
5
o cquanno, co rrispetto, te sei cotti
li piedi come un paro de capponi?
Fijja, tu tte li medichi a ccazzotti,
6
e ffai male a ddà rretta a li cojjoni.
Ce ll’ho io solo li conzijji bboni
pe li ggeloni sani e ppe li rotti.
Antro, padre,
7
ch’er zego
8
de Spoleto,
e ttant’antri sciafrujji
9
de rimedi!
Te lo do io. Reggina, er gran zegreto.
Le guariggione astabbile
10
e ssicure
s’ottiengheno appricannose
11
a li piedi
un impiastro de fravole
12
mature.
31 dicembre 1835
1
I pedignoni.
2
Di guarire.
3
Per motivo.
4
Ti ci.
5
Ciappotti: miscugli di cose disordinate.
6
A sproposito.
7
Altro, padre!
È ben altro, ecc.
8
Servo.
9
Imbrogli. Vedi la nota 5.
10
Guarigioni stabili.
11
S’ottengono applicandosi.
12
Fragole.
Er còllera mòribbus
Converzazzione a l’osteria de la ggènzola
indisposta e ariccontata
co ttrentaquattro sonetti, e tutti de grinza
1749. [Er còllera mòribbus]
Bbasta, o sse
1
chiami còllera o ccollèra,
io sce ggiuco
2
la testa s’un baiocco
che sta pidemeria
3
sarvo me tocco,
4
cqua da noi nun ce viè, sippuro
5
è vvera.
Nun zentite l’editto? che cchi spera
ne la Madon de mezz’agosto è un sciocco
si
6
nn’ha ppavura? E cce vò ddunque un gnocco,
sor Marchionne, a accorasse
7
in sta maggnera.
8
Disce: ma a Nninza
9
fa ppiazza pulita.
Seggno che cqueli matti mmaledetti
nun ze
10
sanno avé ccura de la vita.
S’invesce de cordoni e llazzaretti
se sfrustassino
11
er culo ar Caravita,
12
poteríano bbruscià ppuro
13
li letti.
4 agosto 1835
1
Si.
2
Ci giuoco.
3
Questa epidemia.
4
Salvo dove mi tocco.
5
Seppure.
6
Se.
7
Accorarsi.
8
In questa maniera.
9
Nizza.
10
Non si.
11
Si sfrustassero.
12
Oratorio notturno in Roma, dove gli uomini si danno la disciplina al buio.
13
Pure.
1750. [Er còllera mòribbus]
Quanno parli accusí ccore mio bbello,
fai capí cche l’editto nu l’hai letto;
perché er Vicario in quer lenzòlo ha ddetto
ch’er collèra è un bravissimo fraggello;
1
e cche er Ziggnore se
2
serve de quello
e cce lo manna
3
appunto pe ddispetto,
pe vvia
4
che Rroma è ddiventata un ghetto
d’iniquità ppiú nnere der cappello.
Rroma ha pprecarivato:
5
ecco er motivo
che la peste viè avanti pe le poste
pe nnun lassàcce
6
un zecolaro vivo.
Tu aspèttetela puro pe le coste,
7
e vvederai ch’er Papa, mastr’Olivo,
sarverà appena Ghitanino
8
e ll’oste.
4 agosto 1835
1
È un vero e assoluto flagello.
2
Si.
3
Ce lo manda.
4
Pel motivo.
5
«Ha prevaricato»: parole dell’editto del Vicario.
6
Per
non lasciarci, lasciarvi.
7
Tu aspettetela pure per la persona.
8
Gaetano Moroni, primo aiutante di camera di S. S.
1751. [Er còllera mòribbus]
Oh annateve a rripone,
1
oh state quieti,
c’avete torto marcio tutt’e ddua.
Dar tett’in giú
2
sta collera è una bbua
3
che ddà de piccio
4
a ssecolari e a ppreti.
Ha ttempo er Crero a ffà nnovene e asceti
de sette ladri: monziggnor la Grua
5
aricconta c’a Spaggna, a ccasa sua,
fu un mascello, e pijjò ttutti li sceti.
Sapete, sor Olivo e ssor Marchionne,
chi, cquanno mai,
6
se pò ssarvà
7
la pelle?
Sapete chi? vve lo dich’io: le donne.
Perché a Rroma le donne, o bbelle o bbrutte,
spesciarmente le vedove e zzitelle,
8
amiche de San Rocco
9
guasi tutte.
6 agosto 1835
1
Oh andatevi a riporre: andate via, ecc.
2
Umanamente parlando.
3
È un male, è una calamità.
4
di piglio.
5
Uno dei
deputati della commissione speciale di sanità pel colera.
6
Al più.
7
Si può salvare.
8
Sono.
9
San Rocco è il nome di un
ospedale di ostetricia. Molte donne vanno ivi a sgravarsi in segreto. Erasi in Roma sparsa opinione che le donne
incinte andassero esenti dal contagio colerico.
1752. [Er còllera mòribbus]
Pijji un grancio,
1
Sciriàco,
2
abbi pascenza.
A Rroma tanto,
3
è inutile, per dia!
4
Sc’è la bbeata Vergine Mmaria
e l’Angelo custode che cce penza.
Eppoi te vojjo fà ccapasce, senza
tante sciarle der cazzo. Er Casamia,
che nun è stato mai trovo
5
in buscia,
di’, l’ariporta o nnò st’appestilenza?
Ste raggione me pareno raggione.
E, a la peggio, te credi ch’er governo
nun pijji quarche ggran precavuzzione?
A bbon conto er decane de Der Drago
6
disce che sse farà ’na priscissione;
e vvederai che ss’inibbisce er lago.
7
7 agosto 1835
1
Prendi un equivoco.
2
Ciriaco.
3
In quanto a Roma.
4
Per dia, invece di per dio: mezzo giuramento.
5
Trovato.
6
Il
servitor decano del cardinale Del Drago.
7
Allagamento del Circo Agonale, che si usa in tutti i sabati e nelle
domenichhe d’agosto. Si credeva che quella umidità potesse nuocere in simile circostanza; ma poi non fu il lago
vietato.
1753. [Er còllera mòribbus]
Senti, Tribbuzzio:
1
a ddilla
2
cqui, a rrigore,
io sto ccor zor Marchionne e cco Cciriàco,
perché ssò ddar curato de Subbiaco
che mmòribbus siggnifica se more.
3
De resto der collèra io me ne caco;
e avenno inteso a ddí ppiú d’un dottore
ch’er rimedio è lo stà de bbon umore,
maggno, ingrufo,
4
spasseggio e mm’imbriaco.
Chi è ssuddito fedele e bbon cristiano,
s’ha da lassà ddirigge, e ffà ssortanto
5
quello che vvede praticà ar zovrano.
Te ggiuro da quer povero Sirvestro
che ssò,
6
cch’io stimo st’infruenza quanto
er padroncino mio stima er maestro.
10 agosto 1835
1
Tiburzio.
2
A dirla.
3
Si muore.
4
Ingrufare. vale: «coire».
5
Deve lasciarsi dirigere a fare soltanto.
6
Che io sono.
1754. [Er còllera mòribbus]
Eh! a cche sserveno mai tanti conforti?
È ita pe nnoantri disgrazziati.
Sapete chi hanno fatti deputati
si er collèra vierà? Pprímoli e Ttorti.
Questi tra lloro se
1
ggià accordati
che la povera ggente se straporti
2
ar lazzaretto, indov’escheno morti
tutti quelli che cc’entreno ammalati.
E li ricchi staranno in ne l’interno
de casa lòro, curati e assistiti
da un medico e un piantone der governo.
Oh annate a ccrede
3
ch’er Vangelo poi
abbi torto discenno
4
all’arricchiti:
Vè vòbbisis, ciovè bbeati voi!
16 agosto 1835
1
Si sono.
2
Si trasporti.
3
Andate a credere.
4
Abbia torto, dicendo.
1755. [Er còllera mòribbus]
Tutto va bbe’
1
ma cqui li cardinali
bbiastimeno
2
e sse troveno
3
imbrojjati
perché la truppa nun pò ddà ssordati
da mannalli
4
a gguarní li littorali.
Dunque vonno ch’er popolo s’ammali
quanno la forza sc’è? Ssiin’ammazzati!
E nun ciànno
5
un esercito de frati
co li loro fetenti ggenerali?
E Ppassionisti, e Scolopi, e Tteatrini,
6
e Ppavolotti, eppoi Domenicani,
eppoi Serviti, eppoi Bbenedettini,
eppoi tante e ttant’antre bbaraonne!
7
Bbasta de lassà stà
8
li Francescani
pe nun fà rribbellà ttutte le donne.
17 agosto 1835
1
Va bene.
2
Bestemmiano.
3
Si trovano.
4
Mandarli.
5
E non ci hanno, ecc.: e non hanno.
6
Teatini.
7
Tante altre
baraonde. Baraonda è «quantità confusa di cose e di persone, che si rimescolano insieme.
8
Lasciar stare.
1756. [Er còllera mòribbus]
Pe l’appunto, a pproposito de frati,
curre la sciarla mó
1
ggnente de meno
2
ch’er collèra è l’affetto
3
d’un veleno
bbono da fà mmorí ttutti li Stati.
Ir quale er monno
4
s’è scuperto pieno
de funtane e de pozzi avvelenati
da sti servi de Ddio nostr’avocati
pe bbuggiaracce a tutti a ccel zereno.
5
Io perantro
6
papeggio,
7
e ssò rregazzo
de fregammene
8
assai; ché ppe sta strada
lòro, per dio, nun me la fanno un cazzo.
A mmé nun me s’inzeggna sto latino.
Sull’acqua ponno fà cquanto j’aggrada,
purché nun zia
9
d’avvelenamme er vino.
17 agosto 1835
1
Corre ora la voce.
2
Niente di meno.
3
L’effetto.
4
Vale a dire che il mondo.
5
Per rovinarci tutti come va.
6
Peraltro.
7
Faccio come fa il Papa.
8
Di ridermene.
9
Non sia.
1757. [Er còllera mòribbus]
Disce: sce vò alegria. Sí, ccor un male
che ffa ’ggni ggiorno discidotto mijja!
Ce poterà stà alegro un cardinale,
ma nnò un povero padre de famijja.
Vedesse
1
cascà mmorti ar naturale
mó la mojje, mó un fijjo e mmó una fijja,
com’è vvero er peccato è un carnovale
d’annacce
2
a sbeffeggià cchi sse ne pijja!
Saría
3
curioso de sapé, ssi
4
Llotte
lassava fijji immezzo a la Bbettàpoli,
si ttrincava lui poi tutta la notte.
Chi la penza da omo è er Re de Napoli,
che cconzijjato da perzone dotte
5
cche ppe un anno siino tutti scapoli.
18 agosto 1835
1
Vedersi.
2
Da andarci.
3
Sarei.
4
Se.
5
Vuole.
1758. [Er còllera mòribbus]
10°
Anzi, ar padrone mio j’ha ppropio scritto
da Bbologgna un zenzale de salame
che essennose
1
scuperto in ne l’Iggitto
che ppe l’Uropa sto collèra infame
viè ffora da li polli dritto dritto,
e ppò ancora infettà ll’antro
2
bbestiame,
er Re de Napoli ha mmesso un editto
che ss’ammazzi ’ggni sorte de pollame.
Ma ppare che cquer povero Bertollo
3
abbi fatto una lègge da cazzaccio
che in ner zu’ reggno nun ce resti un pollo.
E ssai io che pproggnostico je faccio?
Che in quer frufrú
4
jje tireranno er collo
puro
5
a llui pe ccappone
6
o gallinaccio.
19 agosto 1835
1
Essendosi.
2
L’altro.
3
Bertoldo.
4
In quella confusione, in quel tumulto.
5
Pure.
6
In quel tempo era il Re di Napoli
creduto inabile a generare.
1759. [Er còllera mòribbus]
11°
Sentite st’antra
1
de quer Re Ccoviello.
Tra li su’ Stati e li Stati Romani
mó ccià ffatto tirà ttutt’un cancello,
pe nnun fà ppassà ppiú mmanco li cani.
Bbast’a ddí cche cquer povero Angrisani
2
fu affermato ar confine de Portello,
3
sibbè pportassi
4
du’ napolitani
che jje vanno
5
du’ cause in appello.
Lui chiunque trapassa li confini,
fussi
6
magaraddio
7
Ponzio
8
Pilato,
vò cche ffacci
9
la fin de l’assassini.
Saria bbella ch’er Papa, c’ha ppenzato
d’abbandonacce
10
e annà a Mmonte-Casini,
11
sce morissi
12
un tantino fuscilato.
19 agosto 1835
1
Quest’altra.
2
Gerente di una diligenza fra Roma e Napoli.
3
Portella.
4
Sebbene portasse.
5
Ai quali vanno, ecc.
6
Fosse.
7
Magari, anche.
8
Ponzio, pronunciato con entrambe le o chiuse.
9
Vuol che faccia.
10
Di abbandonarci.
11
Montecassino.
12
Morisse.
1760. [Er còllera mòribbus]
12°
Ôh er Re de Francia poi, disce er padrone,
nun fa ste bbuggiarate de sicuro,
e nun spenne
1
quadrini in gnisun muro,
né ffratta, né ccancello, né pportone.
Pe llui sc’è Iddio c’ha da penzà ar futuro
e cquanno esscí er collèra da Tullóne
2
sai lui che ddisse? «Oh ffutre! oh ssacranone!
Vien le collèrre? favorischi puro».
3
Questi
4
Rre de garbo, ommini rari,
da nun mette
5
li sudditi in spavento
e da nun fajje
6
ruvinà l’affari.
Perché ppoi sto collèra, o ffora o ddrento,
7
fatto c’abbi er zu’ corzo, fijji cari,
è una spesce
8
d’un cammio
9
ar zei per cento.
19 agosto 1835
1
E non ispendere.
2
Tolone.
3
Favorisca pure.
4
Sono.
5
Da non mettere.
6
E da non fargli, non far loro, ecc.
7
Comunque
si voglia.
8
Specie.
9
Cambio.
1761. [Er còllera mòribbus]
13°
Fa ccusí er zor Gianfutre? E er nostro frate
fusajjaro
1
e mmercante de stuppini
2
n’ha pprese tutte quante le pedate,
ché pp’er collèra nun vò ddà cquadrini.
Sai c’ha ddetto a Bbernetti e a Ccammerini?
3
Che li quadrini, a ccose piú avanzate
lui li farà ccacà a sti bbagarini
de bbanchieri e a le case intitolate.
4
E de sti Papi ce se disce intanto
che sse fanno e sse
5
metteno in palazzo
pe spirazzion de lo Spirito ssanto?
De che? Spirito ssanto a sti Neroni?
A sti ggiudii?
6
Spirito ssanto un cazzo:
Spirito ssanto un paro de cojjoni.
20 agosto 1835
1
Fusagliaro: venditor di lupini.
2
Stoppini, lucignoli.
3
I Cardinali Bernetti e Gamberini, segretarii di Stato, che pei
primi divisero fra loro gli affari esteri e gl’interni.
4
Titolate.
5
Si.
6
Giudei.
1762. [Er còllera mòribbus]
14°
Zíttete llí, sboccato:
1
pparole
da dísse
2
queste ccusí a la sicura?
Nu lo sai che qui pparleno le mura?
Ma cche davero
3
vòi ggiucatte
4
er zole?
Si tte
5
sente quarcuno che jje dole,
poverettaccio te! Nun hai pavura
che tte mannino a Ttermini
6
addrittura,
a ggiucà cco le pale e le cariole?
Te ne vo’ annà ttu ppuro
7
in ne la schiera
dell’antri
8
galeotti esercitanti
a ffà la priscissione p’er collèra?
Eppuro
9
l’hai veduti tutti quanti,
incatenati, a rritornà in galera
co cquattro torce e ’r croscifisso avanti.
10
20 agosto 1835
1
Sono.
2
Da dirsi.
3
Davvero.
4
Vuoi giuocarti.
5
Se ti.
6
Termini è il nome della piazza ove sorgono le rovine delle
Terme di Diocleziano.
7
Te ne vuoi andar tu pure.
8
Degli altri.
9
Eppure.
10
La funzione che qui si ricorda è di storica
verità. I galeotti ebbero gli esercizi di penitenza onde ottenere da Dio pietà per loro e per noi. Nell’ultimo giorno delle
sacre funzioni ricevettero tutti la eucaristia, nel forte S. Angiolo, e quindi così santificati furono ricondotti
processionalmente e in catene al loro bagno ne’ vecchi granai dell’Annona alle Terme.
1763. [Er còllera mòribbus]
15°
Ce sò
1
arfine arrivati finarmente
a ffà ttutte l’usanze a la francese.
Nun z’ha da seppellí ppiú nne le cchiese
la carne bbattezzata de la ggente!
Antro che mmó
2
sta Pulizzia fetente
s’è accorta che pproggiudica
3
ar paese?
E ddar tempo d’Adamo all’antro mese,
4
cosa j’aveva fatto? un accidente?
Vedé bbuttà li poveri cristiani,
li nostri padri, le nostre crature
5
ner campaccio, per dio, come li cani!
Pe la moda e le su’ caricature,
s’ha da mette
6
la lègge a li Romani
de spregà ttante bbelle sepporture!
21 agosto 1835
1
Ci sono.
2
Altro che ora, solamente adesso.
3
Arreca pregiudizio.
4
È circa un mese che il terrore del cholera ha fatto
finalmente riconoscere il reo pregiudizio, per cui la inumazione nei cimiteri si riguardava come una empia
profanazione.
5
Creature.
6
S’ha da mettere.
1764. [Er còllera mòribbus]
16°
Che bbisoggno sc’è ppoi de scimiteri
pe sseppellí? Sò ttutt’erba bbettonica,
oggniquarvorta è aritornato jjeri
quer Fra Bbennardo che gguarí la monica.
1
Nun zai
2
che llui co la su’ bbrava tonica
se n’è ito a ddí ar Papa che nun speri
d’empilli,
3
e tte j’ha ffatto una canonica
4
perché sse sta a ppij
5
ttanti penzieri?
Lui sce ggiura e spergiura ch’er collèra
fin che sta a Rroma lui sc’è ttropp’ostacolo
che cc’entri, e l’aspettallo
6
è una ghimera.
7
E, a la peggio che ssia, su’ riverenza
metterà mmano a un pezzo de miracolo
pe ffallo
8
aritornà vvia de fughenza.
9
21 agosto 1835
1
La monaca, che si disse da lui miracolosamente guarita da una cronica e mortale afagia, mercé l’ingollamento di un
bicchier d’acqua con un pezzo di pane ivi immerso, fu suor Maria Beatrice di S. Carlo Borromeo delle perpetue
adoratrici del Sacramento, già al secolo Flaminia Belli e sorella di un G. G. Belli che s’impaccia di scriver versi
italiani ad un tempo stesso e non italiani.
2
Non sai.
3
Di empirli.
4
Intemerata.
5
Si sta a prendere.
6
L’aspettarlo.
7
Chimera.
8
Per farlo.
9
Di fuga.
1765. [Er còllera mòribbus]
17°
Io poi, regazzi mii, saranno vere
tante terrori cc’ariccontate,
ma, o ppezzi de vangeli o bbuggiarate,
nun me ne vojjo dà ggnisun penziere.
Vienghi,
1
nun vienghi, sciarimedi
2
er frate,
nun ciarimedi, lo porti er curiere,
3
nu lo porti... pe mmé c’è bbon bicchiere
da passà ffiliscissime ggiornate.
Tutta sta gran pavura d’ammalamme?
4
E cche gguaio sarà? Ttanto una vorta
o pprest’o ttardi ho da stirà le gamme.
5
Mica è una cosa nova che sse more;
6
e ttoccassi
7
a mmé ppropio a uprí la porta,
l’èsse
8
er primo, per dio, sempre è un onore.
agosto 1835
1
Vengo.
2
Ci rimedi.
3
Il corriere.
4
Di ammalarmi.
5
Gambe.
6
Si muore.
7
E se toccasse.
8
L’essere.
1766. [Er còllera mòribbus]
18°
E cquello che ddisceva Titta
1
Papi,
ch’er collèra ha ppavura a annà
2
ppe mmare?
Sentirete che bbuggera, compare,
e ssi cc’è da fidasse de sti ssciapi!
3
Io mó er collèra a Pponte Quattro-capi
3b
ho inteso da un zorgente
4
militare
che ggià ha ffatto mortissime caggnare
5
ggnente meno
6
c’all’isola de Crapi.
7
Dunque lui p’er marittimo sce viaggia:
perch’io credo c’all’isole navale
a un dipresso sce s’entri da la spiaggia.
Come poi viè cquer zervitore ingrese
je vojjo
8
ssi
9
un’isola è un locale
che sse pòzzi
10
isolà ccome un paese.
31 agosto 1835
1
Giambattista.
2
Andare.
3
E se c’è da fidarsi di questi imbecilli.
3b
Nome venutogli da alcuni ermi di Giano
quadrifronte ivi collocati.
4
Sergente.
5
Moltissimo strepito.
6
Niente meno.
7
Di Capri.
8
Gli voglio dire, domandare.
9
Se.
10
Si possa.
1767. [Er còllera mòribbus]
19°
Sapete? er fijjo de Monzú Bboietto
1
ha scuperto che un po’ de corallina
è la vera e fficaccia
2
mediscina
pe gguarí sto fraggello bbenedetto.
Ma gguarda un po’ cchi cce l’avessi detto!
Che cquello che cce daveno in cuscina
co la pappa coll’ojjo la matina
fussi
3
bbono da fà ttutto st’affetto!
4
Eh! a ccolazzione n’ho mmaggnata tanta
ne le pizzette fritte io da cratura!
E ppe li vermini è una mano santa.
Dunque er collèra è un vermine addrittura.
Ebbè ssi mmó
5
sto vermine sciagguanta,
6
nun annamo
7
ppiú un cazzo in zepportura.
31 agosto 1835
1
Monsieur Boyer fils de Nîmes.
2
È la vera ed efficace.
3
Fosse.
4
Questo effetto.
5
Se ora.
6
Ci agguanta, ci afferra.
7
Non
andiamo.
1768. [Er còllera mòribbus]
20°
Ggià è scartato er rimedio der Bojetto.
Adesso tutto er gran preservativo
conziste in un tantin d’argento-vivo
drent’una penna che sse
1
porta in petto.
C’è pperò cchi lo ggiudica noscivo;
e ar fijjo der padrone der giacchetto
un medico gnobbatico
2
j’ha ddetto
che ppò offenne er zistemo indiggestivo.
3
E cch’er vero segreto che ss’è ttrovo
4
è appricasse
5
a lo stommico de fora
un cordoncino co un baiocco novo.
Er rimedio è assai commido,
6
ma intanto
bbisoggneria sapé sta cosa ancora:
si
7
ha da toccà la pelle o ll’arma o er zanto.
8
2 settembre 1835
1
Si.
2
Omiopatico.
3
Che può offendere il sistema digestivo.
4
S’è trovato.
5
Applicarsi.
6
Comodo.
7
Se.
8
Arma e santo
sono chiamate le due facce delle monete nel marroncino e in altri consimili giuochi del popolo.
1769. [Er còllera mòribbus]
21°
È una sscena! Cqua oggnuno ha er zu’ segreto.
Chi vvò
1
er cannello, chi vvò la patacca,
2
chi er làvudon,
3
chi er thè, chi una casacca
de fanella,
4
chi er vischio de l’abbeto:
5
uno canfora, uno ojjo, e un antro
6
asceto:
questo vò che sse dormi
7
co ’na vacca:
quello disce ch’er male nun z’attacca
a le donne che in corpo abbino er feto...
8
Sta vertú cche ppò avé la gravidanza
mó ha ccressciuta la rabbia in ne le donne
de fasselo
9
infilà ddrent’a la panza.
Per cui mariti, amichi e confessori
nun arriveno a ttempo a ccorrisponne
10
a ttante ordinazzione de lavori.
1° settembre 1835
1
Chi vuole.
2
La moneta.
3
Il laudano.
4
Di flanella.
5
Dell’abete.
6
Un altro.
7
Si dorma.
8
Pronunciasi colla e stretta.
9
Di
farselo.
10
Corrispondere.
1770. [Er còllera mòribbus]
22°
È vvero, è vvero: l’ho ssentito io
predicallo
1
da un prete all’Orfanelli.
2
Disce: «Er collèra viè,
3
ccari fratelli:
prepàrete a mmorí , ppopolo mio.
Ma ppuro conzolàmose,
4
ché Iddio
ner visitacce
5
co li su’ fraggelli,
quarchiduno n’accettua
6
de quelli,
e ssi
7
ammazza er nipote, assorve er zio.
Semprigrazzia, ssce sò
8
pprove sicure
ch’Iddio le donne gravide le sarva
pe vvia
9
de quele povere crature».
10
Ccusí ddisse la predica, fijjole.
Cqua nun ze
11
tratta de fiori de marva:
a bbon intennitor poche parole.
17 settembre 1835
1
Predicarlo.
2
Nella chiesa di S. Maria in Aquiro, appartenente al Collegio Salviati, detto degli Orfani.
3
Viene.
4
Ma
pure consoliamoci.
5
Nel visitarci.
6
N’eccettua.
7
E se.
8
Ci sono.
9
Per riguardo.
10
Creature.
11
Qua non si.
1771. [Er còllera mòribbus]
23°
Io me sò
1
stato zzitto inzin’adesso
pe ffà pparlà sta bbella compaggnia.
Mó vvojjo crede che mme sii promesso
2
doppo quelle dell’antri
3
er dí
4
la mia.
Volenno arraggionà, st’ammalatia,
ciovè sta colla-morbida, a un dipresso
pe cquer che ssento dí pare che ssia
un’usscita che vvadi pe ssuccesso.
5
Bbè, la diarella,
6
ossii la cacarella,
tutti sanno che vviè
7
da debbolezza
d’intestibbili
8
oppuro
9
de bbudella.
Quanno sta verità ss’è bben capita,
o er male nun ze piija,
10
o ss’arippezza
11
co ’na bbona fujjetta
12
d’acquavita.
8 settembre 1835
1
Mi sono.
2
Ora voglio credere che mi sia permesso.
3
Degli altri.
4
Il dire.
5
Che vada per secesso.
6
La diarea.
7
Che
viene.
8
Di intestini.
9
Oppure.
10
Non si piglia.
11
Si rappezza, si rimedia.
12
Foglietta.
1772. [Er còllera mòribbus]
24°
Cqua nun c’entra fujjetta né bbucale:
questo è affare de lettre e dde bbijjetti.
Mó un professor de storia ar naturale
1
scrive da Francia ar Cardinal Bernetti,
dove disce accusí: «Ssor Cardinale,
si
2
a ttutto er giorno quinisci
3
l’inzetti
4
nun zò
5
arrivati a Rroma a pportà er male,
lei per antri
6
sei mesi nu l’aspetti».
Tutto dunque er pericolo cqui ddura
sin a mmezzo settembre a mmezza-notte:
sonata che cquell’è, Rroma è ssicura.
A mmezzo marzo poi forze vieranno
7
antri
8
bbijjetti de perzone dotte
pe spostà er male e prologallo
9
a un anno.
8 settembre 1835
1
Di storia naturale. Dicesi che fosse il signor Alessandro Moreau de Jonnès.
2
Se.
3
Quindici.
4
Gl’insetti.
5
Non sono.
6
Per altri.
7
Forse verranno.
8
Altri.
9
E prorogarlo.
1773. [Er còllera mòribbus]
25°
Furtunato chi aveva, co sta jjella,
1
generi cojjoniali
2
in magazzino,
come cacàvo,
3
zzucchero, cannella,
ojjo de Lucca, spirito de vino...
E li mercanti? pe ccristallo fino!
V’abbasti
4
sto tantin de bbagattella,
che in tutta Roma, a ppagallo
5
un zecchino
nun ze trova
6
ppiú un parmo de fanella.
7
E li sori
8
spezziali, eh, cc’antra bbega?
9
Hanno vennuto
10
pe ttre vvorte er costo
li ppiú rrancidi fonni
11
de bbottega.
Semo llí:
12
ssi er collèra a nnoi sce cosce,
13
a cquell’antri
14
je pare un ferragosto.
Nun tutt’er male ar monno
15
viè ppe nnòsce.
16
13 settembre 1835
1
Con questa fatale sciagura.
2
Coloniali.
3
Caccao.
4
Vi basti.
5
A pagarlo.
6
Non si trova.
7
Flanella.
8
E i signori.
9
Eh,
che altra faccenda, che altro negozio.
10
Venduto.
11
Fondi.
12
Siamo lì.
13
Ci cuoce, ci duole.
14
A quegli altri.
15
Al
mondo.
16
Viene per nuocere.
1774. [Er còllera mòribbus]
26°
Inibbí
1
le commedie?! E in che maggnera
2
v’immagginate sta lèggiaccia infame?
Tanto bbene,
3
sor faccia de tigame,
4
s’opre er teatro, e sta notizzia è vvera.
Un povero garzon de faleggname
che ciabbusca du’ pavoli
5
pe ssera,
pe nnun morí ddomani de collèra
s’averebbe oggi da morí de fame?
Nun ve pòzzo negà cc’ar zor Paterno
6
je fa er culo un tantin de lippe-lappe,
7
io però ddico che cce vince un terno.
Perché, famo er collèra che vvienisse,
8
co ttutta la pavura in ne le chiappe
chi rresta vivo vorà ddivertisse.
9
30 agosto 1835
1
Inibire.
2
In qual maniera.
3
Sicuramente.
4
Di tegame.
5
Ci busca, ci guadagna due paoli.
6
Giovanni Paterni,
impresario dell’opera.
7
Sta alquanto in orgasmo.
8
Facciamo, supponiamo che il cholera venisse.
9
Vorrà divertirsi.
1775. [Er còllera mòribbus]
27°
Ôh, vve porto una nova. Du’ paini
hanno detto in bottega che stasera
1
s’è asviluppato un russio
2
cor collèra
a la locanna de monzú Ppiastrini.
3
Disce che de llí intorno li viscini
sò ddiventati statue de scera;
e er Ggoverno ha spidito all’affrontiera
4
pe llevà li cordoni a li confini.
C’è cchi vvò
5
che cce sii quarche speranza
che sto russio de cristo abbi diverzi
vermini solitari in ne la panza.
Ma er medico ch’è ito a ddenunziallo,
lui li su’ passi nun vò avelli perzi,
6
e ssostiè cch’è un collèra da cavallo.
7
8 settembre 1835
1
Fu il 5 settetibre 1835.
2
Un Russo.
3
Pestrini.
4
Alla frontiera.
5
Vuole.
6
Non vuole averli perduti.
7
Cholera assai
violetto; come pur dicesi febbre da cavallo, ecc.
1776. [Er còllera mòribbus]
28°
Perché nnun c’ereno antri
1
guai, stasera
scappeno fora cor collèra a Ancona.
Mó, ammalappena
2
una campana sona,
sona a mmorto, e sto morto è de collèra.
Sarà ccrepata ar piú cquarche pperzona
de fonghi, o dde lumache o ffichi o ppera...
Ebbè, ddich’io, sc’era bbisoggno, sc’era,
de tutta sta chiassata bbuggiarona?
Nun zerve, cqua er collèra, sor Rimonno,
3
se lo vanno a ccercà ccor moccoletto:
lo chiameno, per dio!, propio lo vonno.
Quer ch’è ccerto è cc’a Ancona li facchini
se moreno
4
de fame, e mme l’ha ddetto
’na riverea
5
de Monziggnor Pasquini.
6
22 agosto 1836
1
Altri.
2
Appena.
3
Signor Raimondo.
4
Si muoiono.
5
Una livrea: un servitore.
6
Monsignore Asquini, allora delegato
apostolico in Ancona.
1777. [Er còllera mòribbus]
29°
Antro
1
che Ancona! quer futtuto male,
malgrado li rigori der cordone,
dava de griffo
2
a ccentomila Ancone,
senza er congeggno
3
der dottor Vïale.
Nun zapete
4
che llui cor cannocchiale
vedde
5
er collèra in forma de dragone,
e ggnisun antro medico cojjone
aveva mai scuperto st’animale?
Che bbrutta bbestia! Ha un par de corna armate
com’er demonio: porta l’ale: è ppiena
d’artijji, e nnera poi com’un abbate.
Figurete
6
che ssorte de sfraggello
7
ha da fà in corpo a un pover’omo, appena
je s’arriva a ccaccià ddrent’ar budello!
29 settembre 1836
1
Altro.
2
Dava di piglio.
3
Se non era l’ingegnosa operazione.
4
Non sapete.
5
Vide.
6
Figurati.
7
Flagello.
1778. [Er còllera mòribbus]
30°
Oh ssentite mó st’antra bbuffonata
c’ha ffatto a Ancona er zor dottor Cappello.
Va cco un cappuccio in testa, e sott’a cquello
tiè un guazzarone de tela incerata.
Sopr’un occhio sce porta uno sportello
de vetro, e in mano un fasscio d’inzalata.
De grazzia, e da ch’edè
1
st’ammascherata?
Da pajjaccio, da Cola o da Coviello?
Bbasta, lui co sta bbella accimatura
se
2
presenta a l’infermi accap’a lletto
pe sballalli
3
ppiú ppresto de pavura.
Defatti appress’a llui passa er carretto,
e straporta ppiú mmorti in zepportura
che nun tiè
4
er Papa cardinali in petto.
31 agosto 1836
1
E da che è.
2
Si.
3
Per ispacciarli.
4
Non tiene.
1779. [Er còllera mòribbus]
31°
Chi vvò pperzeverasse
1
dar collèra
er medicasse
2
è inutile, Luviggi.
In st’impiastri e llavanne e zzuffumiggi
è un cojjone er cristiano che cce spera.
La mediscina che ppò ffà pprodiggi
è la Madonna, e la Madonna vera
è cquella tar
3
Madonna furistiera
de la medajja nova de Pariggi.
Però, ssi
4
la medajja nun è ovale,
la grazzia, fijjo, nun ze pò arisceve,
5
e in cammio
6
de fà bbene faría male.
De resto, o vvino bbianco, o vvino rosso,
ggnente, nun ciabbadà.
7
Ttu mmaggna e bbeve,
8
bbasta che pporti la medajja addosso.
23 settembre 1836
1
Chi vuol preservarsi.
2
Il medicarsi.
3
È quella tal.
4
Peraltro, se.
5
Non si può ricevere.
6
E in cambio.
7
Niente, non ci
badare.
8
E bevi.
1780. [Er còllera mòribbus]
32°
«Bbe’? cquanno s’arïoprono le porte
de sta povera Ancona sfraggellata
«Er quattro de novemmre, ha detto Tata,
1
sarvo sia caso
2
de quarc’antra
3
morte».
«E cche discevi de messa cantata
sotto-vosce a Mmattia? ridillo forte».
«Discevo che sse
4
canta pe la sorte
che ssan Ciriàco
5
suo l’abbi sarvata».
«E cche jj’è ssan Ciriàco?» «Protettore».
«E da che ll’ha pprotetta?» «Dar fraggello.
«E li morti?» «E li vivi, sor dottore?».
6
«Spieghete».
7
«E in certi casi accusì bbrutti
vòi
8
miracolo grosso ppiú de quello?»
«Sarebb’a ddí’?» «Che nun zò
9
mmorti tutti».
30 ottobre 1836
1
Papà, babbo.
2
Salvo il caso.
3
Di qualche altra.
4
Si.
5
S. Cirìaco, protettore d’Ancona.
6
Signor dottore, quasi
«temerario».
7
Spiègati.
8
Vuoi.
9
Non sono.
1781. [Er còllera mòribbus]
33°
Er collèra sta a Nnapoli, fratelli,
e sta a Ggaeta e in tre o cquattr’antri lochi,
e ppe ttutto li morti nun zò ppochi
e ll’imballeno a sson de campanelli.
Inzomma, ecchesce cqua,
1
fijji mii bbelli,
ciaritrovamo
2
immezzo tra ddu’ fochi.
’Ggna penzà
3
ddunque a ddiventà bbizzochi
pe mmorí ccom’e ttanti santarelli.
Mó ttocca a cqueli poveri cafoni,
e inzin che ccianno
4
sta pietanza addosso
nun ze
5
maggna ppiú un cazzo maccaroni.
Oggi o ddomani poi toccherà st’osso
de rosicallo a nnoi. Bbe’, ssemo
6
bboni
e llassamo fà
7
a Ddio ch’è ssanto grosso.
1° novembre 1836
1
Eccoci qua.
2
Ci ritroviamo.
3
Bisogna pensare.
4
E insino a che ci hanno, a che hanno, ecc.
5
Non si.
6
Siamo.
7
E
lasciamo fare.
1782. [Er còllera mòribbus]
34°
Ma ttutt’a ttempi nostri! E ccaristía,
e llibbertà, e ddiluvi, e ppeste, e gguerra,
e la Spaggna, e la Francia, e ll’Inghirterra...
Tutt’a li tempi nostri, Aghita
1
mia.
Adesso ha da vení sto serra-serra
de porcaccia infamaccia ammalatia,
pe sturbà Rreggno
2
e pportaccese via
3
quer povero Scetrulo de la Scerra.
4
Puro
5
pe Ppurcinella meno male:
chi sta ppeggio de tutti è Ggesucristo
c’ha pperzo
6
la novena de Natale.
Hai tempo a ffà ppresepî e accenne artari:
7
questo è er primo Natale che ss’è vvisto
senza manco un boccon de piferari.
8
24 dicembre 1836
1
Agata.
2
Il Regno di Napoli è chiamato assolutamente Regno.
3
E portarcisi via.
4
Cetrulo (Pulcinella) della Cerra.
5
Purtuttavia.
6
Che ha perduto.
7
Accendere altari.
8
Non fu dato accesso nel nostro Stato ai pifferai, gente regnicola, che
vengono ogni anno a far novene.
1783. Marta e Mmadalena
«Ma Ggesucristo mio», disceva Marta,
«chi cce pò arregge
1
ppiú cco Mmadalena?
Lei rosario, lei messa, lei novena,
lei viacrúsce... Eppoi, disce, una sce scarta!
2
Io nott’e ggiorno sto cqui a la catena
a ffà la serva e annàmmesce a ffà squarta,
3
e sta santa dipinta su la carta
nun z’aritrova mai cc’a ppranzo e a ccena».
«Senti, Marta», arispose er Zarvatore,
«tu nun zei deggna de capí, nnun zei,
che Mmaria tiè la strada ppiú mmijjore».
4
E Mmarta: «Io nun ne resto perzuasa;
e ssi ffascess’io puro com’e llei,
5
voría vedé
6
ccome finissi casa».
7
5 gennaio 1836
1
Chi ci può reggere.
2
E poi si diche uno ci va in collera!
3
Andarmici a fare squartare, cioè: «andarne a morire».
4
«Maria optimam partem elegit».
5
E se facessi io pure com’ella fa.
6
Vorrei vedere.
7
Come finisse, come andrebbe a
finire la casa nostra.
1784. La maggnera de penzà
1
Io lo conosco er vostro sintimento,
sora Carlotta, e de che ggusto sete.
Abbasta che vve vienghi avanti un prete
voi ve n’annate in èstisi
2
ar momento.
Perché vvoi, fijja cara, ve credete
c’a un omo che smaneggia er zagramento
je se possi
3
co ttutto er fonnamento
mette
4
in mano la vita e cquant’avete.
Ecco, a l’incontro io povero infilisce
5
me penzo che sta gran bona connotta
6
sii tutto un coloretto de vernisce.
Ar prete, in quant’a mmé, ssora Carlotta,
io nun je credo mai che cquanno disce:
«Dommino nun zò ddiggno» e sse scazzotta.
7
5 gennaio 1836
1
La maniera di pensare.
2
In estasi.
3
Gli si possa.
4
Mettere.
5
Infelice.
6
Condotta.
7
E si batte il petto.
1785. L’assarti
1
Si
2
cqua ddura accusí, ssò
3
affari seri,
nun ze pò annà ggiranno
4
ppiú de notte;
perc’ortre
5
a lo spojjà mmeneno bbòtte
e sbudelleno spess’e vvolentieri.
Ma cche cce stann’a ffà
6
ttante marmotte
de scentomila e ppiú ccherubbiggneri?
7
Aspetteno li ladri a li quartieri,
come fussino fichi
8
o pperacotte?
L’obbrigo lòro è bbatte
9
lo stradale
cercann’addosso a ttutti e in oggni sito,
e cchi ha ll’arma, portallo ar tribbunale.
E nnun badà cchi è sporco e cchi è pulito,
ché, pper esempio, pur un cardinale
poterebb’èsse
10
un ladro travistito.
6 febbraio 1836
1
Gli assalti.
2
Se.
3
Sono.
4
Non si può andar girando.
5
Perché oltre.
6
Ma che ci stanno a fare.
7
Carabinieri: guardie di
polizia.
8
Fossero.
9
Battere.
10
Potrebb’essere.
1786. Er pontificabbile
1
Ho vvisto finarmente sta funzione
der Papa, e ho ppreso posto appena ggiorno.
Ma inzomma a mmé nnun m’è piasciuta un corno,
e mm’è pparza
2
una bbella cunfusione.
Pe ttre ora ’na folla de perzone
nun féscen’antro che ggirajje
3
attorno
e llí tte lo vistirno e arispojjorno,
come fussi
4
un pupazzo
5
de cartone.
La mitria
6
poi!... co quella fu er ber gioco:
je l’averanno messa e aricacciata
un centomila vorte a ddívve
7
poco.
Sai quanto saría mejjo, sciorcinata!,
8
quann’è aridotta
9
a nun trovà mmai loco,
de lassajjela
10
in testa imbollettata!
6 febbraio 1836
1
Il pontificale.
2
Mi è paruta.
3
Non fecero altro che girargli.
4
Fosse.
5
Fantoccio.
6
Mitra.
7
A dirvi.
8
Disgraziata!
9
Quando è ridotta.
10
Di lasciargliela.
1787. Er lalluvióne
1
der paesetto
Cresscenno a ccorpo d’occhio
2
er gran fraggello
che ttutta la campaggna era un torrente,
li villani a cquer risico vidente
3
s’aggnédeno
4
a ssarvà ss’un pontiscello.
Ma stati un quarto d’ora in mezz’a cquello,
ecchete
5
a li du’ capi la corrente
che tte li serra llí, ppovera ggente,
come stàssino
6
in cima a un naviscello.
Stretti come ssaràche
7
in ner barile,
strillaveno; e ttratanto er zor Proposto
l’assorveva da sopra ar campanile.
Dar campanile, sí: ccosa ridete?
Nun ze sa? In oggn’incontro er mejjo posto
8
sempr’è stato e ssarà cquello der prete.
6 febbraio 1836
1
L’alluvione.
2
Crescendo a colpo d’occhio.
3
Evidente.
4
Si andarono.
5
Eccoti.
6
Stassero.
7
Specie di pesci salati.
8
Il
miglior posto.
1788. Er fervorino de la predica
Ner fervorino, a sserví bbene Iddio
e inziememente
1
sparaggnasse
2
er fiato,
sapete che sse
3
fa, ppadre curato?
Nu lo sapete? Ve l’inzeggno io.
Se comincia a strillà: «Ppopolo mio,
eccolo cqua, cquer Cristo disgrazziato.
Lo vedete si
4
ccome è ddiventato
che nun pare ppiú llui?». E sto pío-pío
5
s’allonga inzino che la ggente piaggne.
Allora abbasta a spalancà la bbocca
e cco le bbraccia a ffà spazzacampaggne.
Accusí er prete, che nun è ccojjone,
scanza fatica; e cquela ggente alocca
li verzacci
6
li pijja pe rraggione.
7
6 febbraio 1836
1
E insieme.
2
Risparmiarsi.
3
Si.
4
Se.
5
Questo cicaleccio.
6
Versacci per «visacci», «gestacci sconci».
7
Li piglia per
ragioni. Così usava il R.mo Missionario apostolico Monsign. Giardoni. Allorché il popolo compunto gridava
Misericordia, egli continuava la mimica di braccia e di bocca; e il popolo diceva: è vero, Gesù mio, è vero.
1789. La folla pe le lettre
1
Cor gruggno
2
a la ferrata de la posta
strillavo: Arfonzo Sceccarelli; e intanto
un abbataccio che mme stava accanto
me sfraggneva cor gommito una costa.
Io me storcevo; e armeno er prete santo
m’avessi
3
detto: nu l’ho ffatto apposta.
Ggnente: lui llí co la su’ faccia tosta
m’aripeteva er rèscipe oggni tanto.
Ar fine dico: «Eh sor abbate, cazzo!...».
Disce: «Silenzio». «Che ssilenzio, dico:
chi ssete
4
voi?». E llui: «Sò
5
de Palazzo».
Capite? se ne venne co le bbrutte.
Sò de Palazzo! Ma ggià, a Rroma, amico,
sta raggione che cqui
6
sserve pe ttutte.
8 febbraio 1836
1
Per le lettere.
2
Col viso.
3
Mi avesse.
4
Chi siete.
5
Sono.
6
Questa ragione qui.
1790. L’incontro de mi’ mojje
Ner tornà a ccasa Margherita mia
(che cchi ssa ddove diavolo era stata
pe vvení ttutta rossa e scapijjata
da quele parte a or de vemmaria)
io l’incontrai viscino a Ppescaria,
che pijjanno de furia una svortata
se
1
trovò immezzo propio a un’immassciata
2
de vacche, e nnun fu a ttempo a scappà vvia.
Ar védese
3
accusí ffra cquele corna
strillò: «Mmarito mio!!». «Siggnora cresta»,
4
io rispose, «a cquest’ora s’aritorna?».
Bbasta, ha rraggione
5
che nun c’era er toro
e cche le vacche ar color de la vesta
se la créseno forze
6
una de lòro.
8 febbraio 1836
1
Si.
2
Ambasciata, cioè «branco».
3
Al vedersi.
4
Bizzarra, umorino. ecc.
5
Ebbe fortuna.
6
Se la credettero forse.
1791. La morte de Madama Lettizzia
A ttutta sta gginía de Napujjoni
figurateve un po’ ccosa j’importa
si
1
cquela vecchia de la madre è mmorta:
funerali de ggnocchi e mmaccaroni.
Sce
2
faranno un tantino li piaggnoni
co lo scoruccio e la bboccaccia storta;
e appena che ssarà ffor de la porta
s’anneranno a spartí li su mijjoni.
Poi bbasta a rricordà cchi ffu er fratello
de sti bboni regazzi, pe ddiscíde
3
che ccos’abbino in core e nner cervello.
Ma la madre, dirai, l’arricchí llui.
L’arricchí llui, lo so; ma mme fai ride:
4
lui l’arricchí ppe li finacci sui.
8 febbraio 1836
1
Se.
2
Ci.
3
Per decidere.
4
Mi fai ridere.
1792. Er tempo de francesi
Un po’ ppiú cche ddurava Napujjone
co quell’antri Monzú scummunicati,
Roma veniva a ddiventà Ffrascati,
Schifanoia, o Ccastel-Formicolone.
E ssedute, e ddemanio, e ccoscrizzione,
ggiuramenti a li preti e a l’avocati,
carc’in culo a le moniche e a li frati,
case bbuttate ggiú, cchiese a ppiggione...
Li monziggnori in Corzica o a Ssan Leo:
li vescovi oggni sempre sur pitale
pe la paura de cantà er Tedèo:
er Papa a Ffontebbrò: Mmontecavallo
vòto; San Pietro vòto; e un Cardinale
nun lo trovàvio
1
ppiú mmanco a ppagallo.
2
8 febbraio 1836
1
Non lo trovavate.
2
A pagarlo.
1793. A cquela fata de la Ssciuzzeri
1
Sce ne sò
2
state cqui de canterine
da favve
3
tremà in petto la corata;
ma ddoppo intesa st’angela incarnata,
nun c’è rrimedio, s’ha da scrive
4
Fine.
Tiè una vosce ch’è un orgheno: è aggrazziata
ner gestí, ppiú de diesci bballerine:
ha ccerte note grosse e ccerte fine
c’una che vve n’arriva è una stoccata.
Disse bbene la fía
5
de Ggiosaffatte
su in piccionara
6
co ppadron Margutto:
Sta donna me va ttutta in zangue e llatte.
E a cchi er zu’ canto je paressi
7
bbrutto
bbisoggna ch’er Ziggnore j’abbi
8
fatte
l’orecchie foderate de presciutto.
9 febbraio 1836
1
Amalia Schùtz Oldosi veramente prodigiosa cantatrice, per l’opera I Puritani di Bellini, nel romano teatro di
Tordinona.
2
Ce ne sono.
3
Da farvi.
4
Scrivere.
5
La figlia.
6
È il paradis dei Francesi, il lubion de’ Lombardi.
7
Paresse.
8
Gli abbia.
1794. L’urtimo ggiorno de carnovale
Ho ccapito, ho ccapito, fra Ppasquale:
li soliti discorzi scojjonati.
Ggià, ggià, cquanti cristiani in carnovale
se
1
vanno a ddivertí, ttutti dannati.
Io nun ve negherò cche o bbene o mmale
de sti ggiorni nun fiocchino peccati;
ma cche starebbe a ffacce
2
er tribbunale
de pinitenza de vojantri frati?
Oh ttu ppredica, via: oh ccanta, canta.
A ste cose nemmanco sce se penza.
3
otto ggiorni che ssò
4
contr’a cquaranta?
Bbe’, a ttutt’oggi oggni sorte de schifenza,
5
e ddomatina scénnere
6
e acqua-santa
e sse
7
fa la bbucata
8
a la cusscenza.
16 febbraio 1836
1
Si.
2
A farci.
3
Neppur ci si pensa.
4
Che sono.
5
Di schifezza.
6
Cenere.
7
Si.
8
Il bucato.
1795. L’editto su le feste
1
Hai ’nteso che ccarezze hanno intimato
a cchi opre bbottega in ne le feste?
Caristie, guerre, terremoti, peste,
e antre
2
a ggenio suo der Vicariato.
O cchiese o spezziarie: fora de queste
drento Roma ha da stà ttutto serrato.
Guai chi sse move!
3
guai chi ppijja fiato!
guai chi pporta un zomaro co le sceste!
4
E nnò mmuli, e nnò bbovi, e nnò mmajali...
Inzomma a ’ggni paràfrico
5
sc’è scritto
quarche ccosa de bbestie o dd’animali.
Vedi un po’ ssi
6
de bbestie è nnescessario
de parlanne
7
sei vorte
8
in un editto,
e ssette co la firma der Vicario!
21 febbraio 1836
1
Editto sull’osservanza delle feste, pubblicato dal cardinale D. Carlo de principi Odescalchi (Vicario di Gregorio XVI)
il 18 febbraio 1836, e ritirato il dí 20, secondo il consueto stile del Goventuo pontificio. Questo editto, farà epoca per
la sua singolarità, e resterà famoso non meno che l’altro celebre emanato nel 1831 dal cardinale Tommaso Bernetti,
Segretario di Stato dello stesso Pontefice, contro i ribelli, e come il celeberrimo del cardinale Antonio Pallotta, Legato
a latere di Leone XII, per la estirpazione de’ malviventi nella provincia di Marittima e Campagna. Anzi, circa la
faccenda de’ flagelli, ora meritati ora immeritati da questa Santa Città, è bene di confrontare le parole del nostro
odierno editto sulle feste e di quella dell’anno 1835 sul cholera.
2
Ed altre.
3
Chi si muove.
4
Un somaro colle ceste.
5
Ad ogni paragrafo.
6
Or vedi se.
7
Di parlarne.
8
Sei volte.
1796. L’editto su le feste
Ecco: a ppunta de ggiorno, sor Mattia,
ve piantate a la bbéttola: sce
1
state
fin che sse
2
chiude a ssedisci sonate;
e a ssedisci ve s’opre l’osteria.
3
a vventi in punto l’osterie serrate?
4
E a vvent’ora sc’è ggià la trattoria.
Ariusscite de cqui a la vemmaria?
5
E ggià cquel’antre dua
6
spalancate.
E mmica lo dich’io: parla l’editto.
Leggetelo, e vvedete, avenno
7
testa
si
8
cc’è rraggione de stà
9
ttanto affritto.
10
Inzomma cqua la concrusione è cquesta,
che in parole latine sce sta scritto:
Vennero l’osti a ccojjonà la festa.
11
27 febbraio 1836
1
Ci.
2
Si.
3
Sono.
4
L’orario indicato in questi versi è riferito al punto del mezzodí italiano, che intorno alla data della
pubblicazione dell’editto (18 febbraio) cadeva sulle ore 18. Quindi le 16 ore e le 20 ore, vogliono rappresentare le 10
antimeridiane e le 2 antimeridiane, espresse nell’editto per due ore avanti il mezzodí per due ore dopo, onde dare una
norma fissa ad un popolo ignaro dell’orologio astronomico. Quindi per gli altri tempi dell’anno si dovrà qui sostituire
un altro computo d’ore romane colla stessa scala di relazione al mezzodí.
5
All’ave-maria.
6
Quelle altre due sono.
7
Avendo.
8
Se.
9
Di stare.
10
Afflitto.
11
Fra le citazioni bibliche del nostro editto si legge questa dei Treni di Geremia, I,
c, 7: Venerunt hostes ejus, et deriserunt Sabbatha ejus.
1797. L’incennio ne la Mèrica
1
Naturale,
2
er zor diavolo sc’istiga
ce tenta sempre a ffà ccose da forca:
se tiè
3
ppe ttutto una vitaccia porca;
e a la fine er Ziggnore sce gastiga.
Lui se la sbriga presto, se la sbriga,
e cquanno sce se
4
mette eh nun ze sporca.
5
Cos’è ssuccesso a la scittà d’Agliorca?
6
S’è abbrusciata, per dio!, com’una spiga.
Che ha ffatto? Forzi
7
nun ha ffatto ggnente.
E Iddio forz’anche l’ha mmannata a ffoco
pe li peccati de quarc’antra
8
ggente.
Li ggiudizzi de Ddio chi l’indovina?
Pò èsse
9
perché a Rroma quarche ccoco
ha ppelato de festa una gallina.
10
21 febbraio 1836
1
L’incendio nell’America.
2
Naturalmente.
3
Si tiene.
4
E quando ci si.
5
Non si sporca, cioè: «non fallisce».
6
Alla città
di Nuova-York.
7
Forse.
8
Di qualche altra.
9
Può essere.
10
Vedi i due antecedenti sonetti intitolati: L’editto su le feste.
1798. Er rifresco der zor Giachemo
1
Serva sua, siggnor Giachemo. È ppremesso?
2
Se pò entrà?
3
Ccome va la partoriente?
Oh mmanco male, via, nun zarà ggnente.
Dio la conzòli co mmill’antri
4
appresso.
E er pupetto? Che nnome j’hanno messo?
Perché, inzomma, vedenno tanta ggente,
me vojjo figurà nnaturarmente
che ll’hanno, dico, bbattezzato adesso.
E cchi ha aúto,
5
s’è lléscito, l’avvanto
6
d’èsse
7
er compare? Ih, gguardi, er zor Cassciano!
Me n’arillegro tanto, tanto, tanto.
Dunque lei je lo dàssivo
8
pagano
e llui cor un po’ d’acqua e dd’ojjo santo,
eccolo llí, vve l’ari
9
ccristiano.
22 febbraio 1836
1
Il rinfresco del signor Giacomo.
2
È permesso?
3
Si può entrare?
4
Con mille altri.
5
Avuto.
6
Il vanto.
7
D’essere.
8
Glielo daste.
9
Ve lo ridà.
1799. Er baliàtico de Ggiggio
1
L’ha ssentito er zor Giachemo c’ha ddetto?
Je
2
poteva parlà mmejjo un profeta?
Dunque sur pupo suo lei vivi
3
quieta
come si
4
llei se lo tienessi
5
ar petto.
La stanzia è ggranne e nun è ffatta a ttetto:
er coso
6
de la cúnnola è de seta...
Via, quer ciumaco
7
sta, ssiggnora Teta,
8
com’un fijjo de re, ccom’un papetto.
Bbast’a ddí ssi in che mmano s’aritrovi
9
che infinamente
10
un par
11
de vetri rotti
sò stati ggiubbilati
12
e mmessi novi.
Quanno sce sò
13
de mezzo ommini dotti,
sora commare mia, questo j’approvi
14
che quer che ffanno nun pò annà a ccazzotti.
15
2 marzo 1836
1
Si allude al figlio di Giacomo Ferretti. Questi, di ritorno da Frascati, dove lasciò a balia il bambino, rassicurò la
moglie con parole conformi a quelle dei versi.
2
Le.
3
Viva.
4
Se.
5
Tenesse.
6
Coso: parola di ogni significazione presso
il volgo.
7
Nome accarezzativo.
8
Teresa.
9
Per mostrare in quali mani si ritrovi, basti il dire che, ecc.
10
Fino, sino.
11
Un
paio.
12
Rimossi.
13
Ci sono.
14
Le provi.
15
Non può andar male.
1800. Ar zor abbate Montanella
1
La vò ssenti la gran notizzia? Aspetti.
Dimenica ventuno de frebbaro
è nnato a ttredisciora, a ggiorno chiaro,
un pupetto ar zor Giachemo Ferretti.
Lei nun pò ffasse
2
idea si cquanto è ccaro
co cquella bbocchettuccia e cquell’occhietti,
e cquelle guance uguale
3
a ccusscinetti,
e cquer culetto che ppare un callaro.
4
Luneddí a ssera poi er zor Piovano,
tra un monno
5
de confetti e dde ggelati,
lo chiamò Ggiggio
6
e lo fesce cristiano.
Ce sò stati sonetti? Ce sò stati.
Chi ffu er compare? Er zor Giggio Cassciano.
E mmo er pupo che ffa? Zzinna
7
a Ffrascati.
22 marzo 1836
1
Il dottissimo abate Montanelli, ex-religioso dell’ordine de’ predicatori. Gli fu spedito questo sonetto a Vienna.
2
Non
può farsi.
3
Eguali.
4
Una caldaia.
5
Un mondo, una quantità grande.
6
Luigi.
7
Sta poppando.
1801. Un quadro d’un banchetto
Ve vojjo ariccontà, ssora Pressede,
un bèr quadro c’ho vvisto stammatina.
C’era un vecchio sdrajato, e stava a vvede
1
co un zacco d’occhi
2
a ppassce
3
una vaccina.
E cc’era puro
4
un giuvenotto a ssede
co un ciufoletto a ffà una sonatina,
che in testa e ddar carcaggno d’oggni piede
je spuntava un par d’ale de gallina.
Mentre che gguardo... sento un mommorío:
5
m’arivorto,
6
e un Ziggnore tosto tosto
7
disce: «Chi è sta vacca, core mio?».
E una siggnora, che jje stava accosto
lí ppronta pronta j’ha arisposto: «Io».
E vvoi cosa averessivo
8
risposto?
24 febbraio 1836
1
A vedere.
2
Con una infinità d’occhi.
3
A pascere.
4
Pure.
5
Mormorio.
6
Mi rivolgo.
7
Duro duro, serio serio.
8
Avreste.
1802. Er capitolo
Li frati ereno trenta; e ffra ccostoro
venuto er giorno de creà er guardiano
prima pranzorno, eppoi doppo lo spano
1
calorno in fila tutt’e ttrenta in coro.
E llí, a uno a uno, oggnun de lòro
(comincianno, s’intenne,
2
dar piú anziano)
co una cartina siggillata in mano
annò a fficcalla in un bussolo d’oro.
Fatto questo se
3
venne a la lettura:
fra Mmatteo, fra Ttaddeo, fra Bbenedetto,
fra Elia, fra Bbeda, fra Bbonaventura...
Inzomma un doppo l’antro
4
un terremoto
de nomacci, e ’r guardiano nun fu eletto,
perché ttutti li frati ebbeno
5
un voto!
7 marzo 1836
1
Il mangiamento.
2
S’intende.
3
Si.
4
Altro.
5
Ebbero.
1803. La morte de Fieschi
A ddodisciora
1
er venardí a mmatina
der giorno disciannove de frebbaro
quer porco frammasone carbonaro
de Fieschi annò a morí a la quajjottina.
Disce però che cce sputava amaro
perché jj’era in ner core una gran spina
d’avé d’abbandonà una scerta
2
Nina
3
che llui l’amava co un affetto raro.
Nun ce fu ttanta Nina o ttanta Nena:
lui bbisoggnò cche sse fascessi
4
sotto
e scontassi
5
er dilitto co la pena.
Uh!... cc’è ggnisuno
6
cqua cche jj’arieschi
7
de sapé ddimme si
8
cco cquer birbotto
ciabbi ggnente che ffà
9
Mmonziggnor Fieschi?
10
8 marzo 1836
1
«Dodici ore», alla italiana.
2
Certa.
3
Nina Lassave.
4
Si facesse.
5
Scontasse.
6
Nessuno.
7
Che gli riesca.
8
Se.
9
Ci abbia
niente che fare, alcun rapporto.
10
Maestro di camera di Gregorio XVI.
1804. Li ritratti de lujjo
Sor mannatàro mio der Tibberino,
1
lei nun zo ccosa diavolo se peschi
d’annà cchiedenno un pavolo pe Ffieschi
e ppe Mmorè, Bboirò, Bbesscè e Ppeppino.
2
Ar monno d’oggi se
3
starebbe freschi
a ppagà ddu’ bbajocchi oggni assassino!
Me pare a mmé cc’a vvolé ddà un lustrino
4
pe’ ttutt’e ccinque, ebbè ppuro arincreschi.
5
Capisco, so
6
rritratti; ma, cojjoni!,
nun ciaccommida
7
a nnoi de fà ste spese
pe stasse
8
a ccontemprà ccinque bbirboni.
Cinque vassalli un giulio! è ccosa bbuffa,
quanno c’avémo poi for de le cchiese
cinque Santi a bbajocco e ’r Papa auffa.
9
8 marzo 1836
1
Parole dirette al camminatore della Direzione del giornale Il Tiberino, che andava offrendo un foglio coi ritratti de’
condannati del 28 luglio 1835, pel prezzo di un paolo.
2
Fieschi, Morey, Pepin, Boireau e Bescher.
3
Si.
4
Un grosso, o
mezzo paolo d’argento.
5
Pure rincresca.
6
Sono.
7
Non ci accomoda.
8
Per istarsi.
9
Precise parole di un girovago
venditore di stampe, che spacciava un rame con 5 santi canonizzati da Pio VII, e fra quelli il Papa canonizzatore.
1805. La festa der Papa
Oggi ch’è ssan Grigorio, ossii la festa
der Papa, le Minenze che lo sanno
cúrreno
1
tutti a ddajje er murtossanno,
2
perché l’usanza de la Corte è cquesta.
Sta commedia a Ppalazzo è ggià la sesta,
pe vvia
3
ch’entrato er Papa in ner zest’anno
questa è la sesta vorta che cce vanno
a rillegrasse
4
e a rròppeje la testa.
«Mille de ste ggiornate, Padre Santo»
dicheno com’e nnoi; e ccom’e nnoi
er Papa ghiggna e rrisponne: «Antrettanto».
Mille de ste ggiornate: ecco er prisciso
che rrèscita la bbocca. Er core poi
je sciaggionta
5
der zuo: in paradiso.
12 marzo 1836
1
Corrono.
2
Ad multos annos.
3
Pel motivo.
4
A rallegrarsi.
5
Gli ci aggiunge.
1806. Er fatto de la Con v’entri
1
Oh cquesto nò, nnun dirò mai che Rrocco
sii omo da fà onore ar zu’ paese,
né un zanto da incenzallo pe le cchiese:
Rocco è un birbo, e sti tasti io nu li tocco.
Le mi’ parole nu l’avete intese.
Io discevo accusí cche ssenza un stocco
o antr’arma un omo nun è ttanto ssciocco
d’annà a ffà er ladro a una mileda ingrese.
Tutta poi sta sparata s’è aridotta
a entrà ddrento a lo scuro, e sto gran male
a cquattro sgraffi e una camiscia rotta!
Eh vvia, queste sò ccause der cazzo:
2
cose da pènne
3
avanti ar tribbunale
d’un scopator segreto de Palazzo.
13 marzo 1836
1
Si vuole che Lady Conventry impiegasse Rocco, suo facchino di credenza, in altre più umane fatiche. Accaduta fra
loro in una notte di febbraio 1836, una certa scena di percosse, nella quale Milady perdé due denti posticci, fu Rocco
accusato di tentato assassinio. La verità al suo luogo.
2
Da nulla.
3
Da pendere.
1807. Er bene der Monno
’Gni po’ de bbene a nnoi ggentaccia bbassa
ce pare un paradiso a ccel zereno:
ma a li siggnori, pòi
1
fàjjela grassa
quanto te pare, è ssempre zzero e mmeno.
Tu ssai la differenza che cce passa,
Muccio, da un fiasco vòto a un fiasco pieno.
Là ssona un fil de vin che cce se lassa;
e cqua un bucale
2
nun fiata nemmeno.
3
Piú le ggente sò ggranne,
4
e ppiú a le ggente
je s’aristriggne er Monno. A li sovrani,
a cquelli poi je s’aridusce a ggnente.
Pe un re ’ggni
5
novo acquisto, iggni
5
tesoro,
è cquer de prima. Sti bboni cristiani
se credeno
6
pe ttutto a ccasa lòro.
14 marzo 1836
1
Puoi.
2
Un boccale.
3
Neppur si fa udire.
4
Sono grandi.
5
Ogni.
6
Si credono.
1808. Er Beato Arfonzo
Cqui cc’è ppoco da ride
1
e ffà er buffone,
perché er beat’Arfonzo de liquori
2
è stato un zanto cor marcio e ll’onori,
e ffasceva miracoli a ttastone.
Questo ve posso dí cche in occasione
c’aveva un certo male o ddrento o ffori,
pe ariméttelo in cianca
3
li dottori
j’ordinorno un arrosto de cappone.
Che ffa er zanto! Siccome j’arincressce
de roppe
4
la viggijja, arza la mano
sur pollo arrosto, e lo straforma in pessce.
Ccusí cco uno scanzetto de cusscenza
da omo de talento e bbon cristiano
maggnò a ssu’ modo e ffesce l’ubbidienza.
14 marzo 1836
1
Da ridere.
2
Di Liguorio.
3
Per rimetterlo in gamba.
4
Di rompere.
1809. Papa Grigorio a li scavi
«Bbene!», disceva er Papa in quer mascello
1
de li du’ scavi de campo-vaccino:
«bber búscio!
2
bbella fossa! bber grottino!
bbelli sti serci!
3
tutto quanto bbello!
E gguardate un po’ llí cquer capitello
si
4
mmejjo lo pò ffà uno scarpellino!
E gguardate un po’ cqui sto peperino
si nun pare una pietra de fornello!».
E ttratanto ch’er Papa in mezzo a ccento
archidetti e antiquari de la corte
asternava er zu’ savio sintimento,
la turba, mezzo piano e mmezzo forte,
disceva: «Ah! sto sant’omo ha un gran talento!
Ah, un Papa de sto tajjo è una gran zorte!».
15 marzo 1836
1
In quel macello.
2
Bel buco!
3
Questi selci.
4
Se.
1810. Er peggno in campaggna
Appunto a sto proposito, l’antr’anno,
verzo la fin de ggiuggno, er mi’ padrone
trovò ccerti majali a fajje
1
danno
ne la tenuta sua de Roncijjone.
Bbe’, azzeccàti
2
che ll’ebbe in contrabbanno
e ffàttili schiaffà
3
tutti in priggione,
ecco che vviè ddar Vescovo un commanno
che jje ne vadi a rrènneje raggione.
Va, e Mmonziggnore co la su’ podagra
fa un zarto
4
e ddisce: «E a llei chi jj’ha imparato
de mette
5
mano su la Robba sagra?».
«Scusi», disce, «ho ccreduto inzín’a jjeri
che llei finora avessi
6
conzagrato
sempre somari e nnò animali neri».
15 marzo 1836
1
A fargli.
2
Presi.
3
Cacciare.
4
Salto.
5
Di mettere.
6
Avesse.
1811. L’affare spiegato
Finarmente ho ssaputo com’è ito
er fatto che vvoi sempre ariccontate
de quer tale ch’entrò ttutto ferito
a Ssan Francesco, e nun ze
1
mosse un frate.
Furno
2
diesci e nnò ssette cortellate,
e in tutte quante sce capeva un dito;
e io co st’occhi mii l’ho arincontrate
3
su la schina e li petti der vistito.
E è vvero che cchiedeva confessione
strillanno ajjuto ajjuto ché mme moro;
ma er convento a nun curre ebbe raggione.
Sissiggnora,
4
per dio, n’ebbe d’avanzo;
perché è ccaluggna
5
che stassino
6
in coro:
queli servi de Ddio staveno a ppranzo.
16 marzo 1836
1
Non si.
2
Furono.
3
Le ho riscontrate.
4
signora dicesi tanto a femmine che a maschi.
5
Calunnia.
6
Stassero.
1812. La festa mia
Nun me dite Ggiuseppe, sor Cammillo,
nun me dite accusí, cché mme sc’infurio.
Chi mme chiama Ggiuseppe io je fo un strillo
e è ttutta bbontà mmia si
1
nun l’ingiurio.
Sto nome cqui, nnun me vergoggno a ddíllo,
me pare un nome de cattiv’ugurio!
2
Sortanto a ssentí ddí
3
Ppeppe Mastrillo!
4
Nun zaría mejjo
5
d’èsse nato espurio?
6
E dde Ggiusepp’ebbreo? che! sse cojjona?
7
Calà ggiú ddrent’ar pozzo com’un zecchio,
8
e imbatte
9
in quela porca de padrona!
E ssi
10
ppijjamo quell’antro
11
coll’ S,
sto San Giuseppe poi, povero vecchio,
tutti sanno che ccosa je successe.
19 marzo 1836
1
Se.
2
Di cattivo augurio.
3
Soltanto a sentir dire.
4
Fu, com’è noto, un famoso masnadiere.
5
Non sarebbe meglio.
6
D’essere nato spurio?
7
Si burla?
8
Come una secchia.
9
E imbattere.
10
Se.
11
Quell’altro.
1813. L’indoratore
E adesso, sissignora, ar mi’ compare
je s’è mmessa una pietra immezzo ar core
perch’io lasso er mistier d’indoratore
e mme metto a sserví! Che ccose rare!
Ggià cqui er zerví nnun è ccattivo affare;
eppoi, o ppiú mmejjore o ppiú ppeggiore,
nun zò
1
ppadrone de fà er zervitore
e pportà la lenterna a cchi mme pare?
A ttempi de mi’ nonno scertamente
2
l’arte de l’indorà ffruttava assai;
ma mmò ccosa t’indori? un accidente?
Li secolari nun danno lavoro
perché ssò
3
ppien de debbiti e de guai,
e a ccasa de li preti è ttutto d’oro.
19 marzo 1836
1
Non sono.
2
Certamente.
3
Sono.
1814. Er Cardinal protettore
Da quer pittore ggiú ppe lo stradale
tra Ssant’Iggnazzio e ’r Colleggio Romano,
che pper arme e rritratti è un artiggiano
che in tutta Roma nun ze dà l’uguale,
jeri sce
1
stava in mostra un cardinale
e sse
2
scopriva un bon mijjo lontano
da la mozzetta de scarlatto, e in mano
er zolito spappiè
3
dder momoriale.
Io m’accosto ar pittore e lo saluto.
Dico: «E pperché sto coso è ssenza testa?».
Disce: «Je l’ho rraschiata e jje la muto».
4
Allora un pasticcetto
5
co li guanti
disce: «Lo lassi stà
6
ssenza de questa,
perché ccosí ss’arissomijja a ttanti».
19 marzo 1836
1
Ci.
2
Si.
3
«Carta», giuocando sulla parola francese papier.
4
È uso di Roma che alle immagini dei defunti cardinali
protettori, i luoghi protetti facciano cambiare la testa sostituendovi per economia quella del successore.
5
Un
zerbinotto.
6
Lo lasci stare.
1815. L’omo de monno
Le conosco per aria io le perzone,
e nnu le porto in groppa,
1
nu le porto.
Scusateme, er discorzo è ccorto corto:
chi ffa er birbo, io lo tiengo pe un briccone.
Nun zo,
2
ppenzerò mmale, averò ttorto,
forzi
3
me sbajjerò, sarò un cojjone,
ma mme la stiggnerebbe
4
viv’e mmorto
che ll’omo è ffijjo de le propie azzione.
Io ve parlo da povero iggnorante,
perché ccredo c’ar monno l’azzionacce
siino sempre l’innizzio
5
der birbante.
Nun c’è bbisoggno d’èsse
6
ito a scola
pe ddí cche ssi
7
oggni cosa tiè
8
ddu’ facce
l’omo de garbo n’ha d’avé una sola.
20 marzo 1836
1
Non le adulo.
2
Non so.
3
Forse.
4
La sosterrei tenacemente.
5
L’indizio.
6
D’essere.
7
Se.
8
Tiene.
1816. Er regazzo in zentinella
Embè? vviengo, sí o nnò? M’opri, Luscia?
Nun te chiedo antro
1
che sta vorta sola.
Che ppaur’hai? te dico una parola
in piede in piede e mme ne torno via.
Tíreme
2
er zalissceggne
3
Luscïola;
sbríghete, che mmommó
4
è la vemmaria
der giorno, e ll’arba
5
ce pò ffà
6
la spia.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come?! è ppeccato er parlà da viscino?
Oh ttu, ccristiana mia, sei mórto
7
addietro,
e cconfonni accusí ll’acqua cor vino.
Si
8
ttu cchiudi a ddispetto der Vangelo
la tu’ porta ar tu’ prossimo, san Pietro
te serrerà ppoi lui quella der celo.
20 marzo 1836
1
Altro.
2
Tirami.
3
Il saliscendo.
4
Or ora.
5
L’alba.
6
Ci può fare.
7
Molto.
8
Se.
1817. Ar zor dottor Maggiorani
Sapenno ch’io so llegge,
1
er mi’ padrone
m’ha mmesso in mano sto cartolaretto,
2
m’ha arigalato un grosso, eppoi m’ha ddetto
che vve venissi a llegge sto sermone.
Ma llui ha ppreso un cazzo pe un fischietto,
perch’io, sor Carlo mio, nun
3
un cojjone.
Io j’ho ddato un’occhiata in ner portone,
e ho ffatto
4
tra de mé: cquesto è un zonetto.
Nun c’è cche ddí, cquest’è un zonetto longo,
e nnò un zermone,
5
perché in cima a quello
ce vò
6
er testo latino cor ditongo.
Bbasta inzomma, o ssonetto o rritornello,
io, sor dottore mio, me caccio er fongo
7
e, ssia quer che sse
8
sia, ve lo spiattello.
24 marzo 1836
1
Sapendo che io so leggere.
2
Allude al sermone intitolato La casa nuova, scritto in occasione che il Maggiorani mutò
abitazione.
3
Non sono.
4
Ho detto.
5
Sermone non è altro pel nostro popolo fuorché il panegirico pel Gesù Bambino in
Natale. Tutti poi i componimenti poetici sono sonetti.
6
Ci vuole.
7
Mi cavo il cappello.
8
Si.
1818. La cuscina der Papa
Co la cosa
1
ch’er coco m’è ccompare
m’ha vvorzuto fà vvéde
2
stammatina
la cuscina
3
santissima. Cuscina?
Che ccuscina! Hai dapporto de mare.
Pile, marmitte, padelle, callare,
cossciotti de vitella e de vaccina,
polli, ova, latte, pessce, erbe, porcina,
caccia, e ’ggni sorte de vivanne rare.
Dico: «Pròsite
4
a llei, sor Padre Santo».
Disce: «Eppoi nun hai visto la dispenza,
che de grazzia de Ddio sce n’è antrettanto».
Dico: «Eh, scusate, povero fijjolo!,
ma ccià
5
a ppranzo co llui quarch’Eminenza?».
«Nòo», ddisce, «er Papa maggna sempre solo».
25 marzo 1836
1
Per la circostanza.
2
Mi ha voluto far vedere.
3
Cucina.
4
Prosit.
5
Ci ha, ha.
1819. La cantina der Papa
Mentre stavo guardanno la cuscina
e ppenzavo lassú ccome se maggna,
1
è passato er zor Prospero Cuccaggna
cionnolanno le chiave de cantina.
E nnoi appresso. Che vvòi vede,
2
Nina!
Nun ce la pò, pper dio, piazza de Spaggna.
E llí ccipro, e llí orvieto, e llí ssciampaggna,
e mmàliga, e ggenzano, e ggranatina...
«Brungia»,
3
dico, «che bbona libbreria!
Che bell’archivio d’editti e de bbolle!
Che oratorio! Che bbrava sagristia!
E ssenza ajjuto de todeschi e rrussi
se po’
4
er Papa assciugà ttutte st’impolle?».
5
Disce: «Tra ppranzo e mmessa? Eh, cce ne fussi!».
6
25 marzo 1836
1
E pensavo come lassù si mangia.
2
Che vuoi vedere.
3
Il romano, da prugna fa brugna; e questo, scambiato
scherzevolmente in brungia, fa servire ad esclamaziomie di maraviglia nelle circostanze ridevoli.
4
Si può.
5
Queste
ampolle?
6
Ce ne fosse!
1820. Una sciavatta
1
Eppuro,
2
voi che ffate tanto er dotto
e ssapete de lettra e de latino,
che ssete
3
er brodoquamqua
4
de Pasquino
e avete letto er libbro che tt ssotto:
5
voi che ddate li nummeri p’er lotto
co cquer po’ de cacchetta
6
d’indovino;
voi che ppe cquanto è llongo er Babbuino
7
ve chiàmeno er zor chicchera cor bòtto;
ve farò vvéde che ssete
8
una crapa,
9
e cche a llodavve
10
er popolo v’adula.
Come se
11
chiama la scarpa der Papa?
Ahàa, ssor pichimèo,
12
nu lo sapete?
Ve lo diremo noi. Se chiama mula.
E pperché mmula? Perché er Papa è un prete.
26 marzo 1836
1
Una ciabatta.
2
Eppure.
3
Siete.
4
Il protoquamquam.
5
A chi dimandi molti perché si suol rispondere il libro dei perché
stare sotto il cul di Pasquino.
6
Arroganza.
7
La contrada del Babuino.
8
Siete.
9
Una capra, uno stolido.
10
A lodarvi.
11
Si.
12
Signor pigmeo.
1821. Le speranze der popolo
Ggià, ll’úrtima che mmore è la speranza.
Ma ddoppo che ss’è ddetto Un Papa frate,
io nun zo ccosa diavolo sperate:
forzi
1
quarche mollica quanno pranza?
Sperà bbene da lui? co cquela panza?
co cquela faccia fra er tre e’ r cinque?
2
Oh annate,
3
annate, fijji mii: ste bbuggiarate
ar monno d’oggi nun zò
4
ppiú dd’usanza.
La Santità de sto Nostro Siggnore
lo sapete a cche ppenza? A vvive
5
quieto
senza dolor de testa e mmal de core.
Lui a nnoi sce se tiè
6
ttutti derèto,
7
e, ar piú, sse n’aricorda pe ffavore
quanno maggna la sarza co l’asceto.
8
26 marzo 1836
1
Forse.
2
Fare il tre e il cinque: faccia di quattro, cioè faccia di c... Ci vergogniamo a dirlo.
3
Oh andate.
4
Non sono.
5
A vivere.
6
Ci si tiene.
7
Di dietro.
8
La salsa coll’aceto.
1822. Er zettàrio condannato
Sí, è mmale de somaro e ccavalletto!
Lui era scritto a una settaccia occurta
1
e ppe cquesto er Governo nu l’inzurta,
je fa una grazzia a ffuscilallo in petto.
Sarvallo?! e ccome? Io, Momo,
2
te l’ho ddetto:
si
3
aveva modo de pagà una murta,
via, tanto e ttanto la Sagra Conzurta
l’averebbe trovato er vicoletto.
4
Ma un omo senza un zanto che l’ajjuti,
un disperato che nun cià
5
un quadrino
lo condanneno tutti li statuti.
Poi, se fuscila
6
in de la schina,
7
Momo?
Fuscilannolo in petto, anche assassino
pò ddí
8
cche vva a mmorí da galantomo.
26 marzo 1836
1
Occulta.
2
Girolamo.
3
Se.
4
Il mezzo-termine.
5
Ci ha: ha.
6
Si fucila.
7
Nella schiena.
8
Può dire.
1823. Er deserto
Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d’annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
1
Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo
fà ccast dda un norcino a la ritonna.
2
3
ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
4
Imbatte ammalappena
5
in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com’un ojjo,
6
che ssi
7
strilli nun c’è cchi tt’arisponna!
Dove te vorti
8
una campaggna rasa
come sce sii
9
passata la pianozza,
10
senza manco l’impronta d’una casa!
L’unica cosa sola c’ho ttrovato
in tutt’er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.
26 marzo 1836
1
A questo proquoio.
2
Alla Rotonda.
3
Fare.
4
E non vedere una fronda, un albero.
5
Imbattersi appena.
6
Come un olio.
7
Se.
8
Ti volti.
9
Ci sia.
10
La pialla.
1824. Li scopatori imbrojjati
Piano, fijjoli mii, co sto scopà.
A sto paese io nun zò nnato mo.
1
Ho ccinquant’anni in groppa, e mmanch’io so
quer che sse possi e nunn ze possi fà.
Viè Mmonziggnore de le Strade e vvò
che sse scopi pe ttutta la scittà.
Scappa
2
er Vicario e vve sce fa llegà:
quello disce de sí, questo de no.
Scopate, nun scopate, e nno, e ssí...
Chi diavolo l’intenne? Bberzebbú?
Io pe mmé ancora nu li so ccapí.
Quanno quer che ppe un prete è una vertú
per un antro
3
è un dilitto da morí,
a cchiunque dai retta hai torto tu.
27 marzo 1836
1
Non sono nato adesso.
2
Vien fuori.
3
Altro.
1825. Le donne litichíne
1
Sonetti 3
Indov’èlla, indov’èlla
2
sta caroggna
c’ha la ruganza
3
de menà a mmi’ fijja?
Essce
4
fora, animaccia de cunijja
5
e vvederai si cciò
6
arrotate l’oggna.
7
Nò, llassateme stà, ssora Sciscijja:
8
nun me tené, Mmaria, c’oggi bbisoggna
c’a cquella bbrutta sfrízzola d’assoggna
9
me je dii du’ rinnacci a la mantijja.
Va’, vva’, ppuzzona
10
da quattro bbajocchi:
bbrava, serrete drento, mmonnezzara
11
de scimisce, de piattole e ppidocchi.
Ma aritórnesce,
12
sai, facciaccia amara?
Ché cquant’è vver’Iddio te caccio l’occhi
e li fo ruzzolà
13
ppe la Longara.
14
27 marzo 1836
1
Litigiose.
2
Dov’è dov’è?, quasi dove è ella, dov’è ella?
3
L’arroganza.
4
Esci.
5
Di coniglio, ed essendo femmina le
dice coniglia.
6
Se ci ho: se ho.
7
Le unghie.
8
Signora Cecilia.
9
Gli sfrizzoli sono quelle pellicole mezzo asciutte che
rimangono della sugna dopo colatone il grasso strutto.
10
Bagascia.
11
Sozzona.
12
Ritornaci.
13
Rotolare.
14
La Lungara,
contrada in Trastevere.
1826. Le donne litichíne
«A cchi le man’addosso?! Ruffianaccia
der zangue tuo,
1
cco mmé ste spacconate?
2
Nun m’inzurtà,
3
pe ssant’Antonio Abbate,
ché tte scasso l’effiggia de la faccia.
Sti titoli a le femmine onorate?
Scànzete,
4
Mea, nun m’affermà
5
le bbraccia:
fammeje scorticà cquela bbisaccia
larga come la sporta der zu’ frate.
Che tte penzi? de fà cco cquer ccornuto
de tu’ marito?...». «Ah strega fattucchiera,
pijja sú ddunque». «Oh ddio! fermete:
6
ajjuto!».
«Nò, nnò, tte vojjosto culo grinzo
com’un crivello, e sta panzaccia nera
piú sbusciata, per dio, der cascio
7
sbrinzo».
7 marzo 1836
1
Della tua figliuola o delle figliuole.
2
Con me queste iattanze?
3
Non m’insultare.
4
Scansati.
5
Fermati.
6
Cacio.
1827. Le donne litichíne
Ch’edè sto tatanài?
1
Stamo
2
a la ggiostra?
Lassa stà cquela donna, vassallona.
E vvoi, sora scucchiaccia
3
bbuggiarona,
arzàteve da terra, e a ccasa vostra.
E cche, ssangue de ddio!, sta strada nostra
è ddiventata mó Piazza Navona?
4
Oggni ggiorno, pe ccristo, una canzona!
Sempre strilli, bbaruffe e cchiappe in mostra!
Me fa spesce
5
de voi che ssete
6
vecchia,
e ddate un bel’essempio ar viscinato.
Sú, a ccasa, o vve sce porto pe un’orecchia.
Vvoi poi, sor’arpia, pe ddio sagrato!,
nun me chiamate ppiú mmastro Nardecchia
si
7
un’antra vorta nun ve caccio er fiato.
27 marzo 1836
1
Che è questo strepito?
2
Stiamo.
3
Mento lungo, aguzzo.
4
Sulla qual piazza si tiene mercato.
5
Mi fa specie, maraviglia.
6
Siete.
7
Se.
1828. Er zegréto
Ner fà a l’amore un goccio de segreto
quanto è ggustoso nun potete crede.
1
Piú assai der testamento pe un erede,
piú assai de li piselli co l’aneto.
Fàsse l’occhietto,
2
stuzzicasse
3
er piede,
toccasse
4
la manina pe ddereto,
5
spasseggià ppe li tetti e pp’er canneto
mentre er prossimo tuo sta in bona fede;
dasse
6
li rigaletti a la sordina,
7
annà scarzi
8
e a ttastone a mmezza notte
eppoi fàcce l’indiani la matina...
Io voría chiede
9
a le perzone dotte
per che mmotivo quer passa-e-ccammina
e cquele furberie sò accusí jjotte.
10
30 marzo 1836
1
Credere.
2
Farsi l’occhiolino.
3
Stuzzicarsi.
4
Toccarsi.
5
Per di dietro.
6
Darsi.
7
Di soppiatto.
8
Andare scalzi.
9
Io vorrei
chiedere.
10
Sono così ghiotte.
1829. Le donne a mmessa
«Sposa,
1
è bbona la messa?» «È bbona, è bbona».
«Bbe’, mmettémose
2
cqua, ssora Terresa...».
«No, Ttota
3
io vado via, che ggià ll’ho intesa».
«Bbe’ llassateme
4
dunque la corona».
«Sposa, fàteme sito». «Io me sò
5
ppresa
sto cantoncello pe la mi perzona».
«Dico fateve in là, ssora minchiona:
che! ssete
6
la padrona de la cchiesa?».
«E in che ddanno
7
ste spinte?» «Io vojjo er loco
pe ssentí mmessa». «Annàtevelo a ttrova».
8
«Presto, o mmommó vve fo vvedé un ber
9
gioco».
«Oh gguardate che bbell’impertinenza!
Se
10
sta in casa de Ddio e manco ggiova.
Tutti vonno campà dde propotenza».
30 marzo 1836
1
Il nome generico che si a qualunque donna incognita è quello di sposa. Questo vocabolo pronunciasi colla o
stretta.
2
Mettiamoci.
3
Antonia.
4
Lasciatemi.
5
Mi sono.
6
Siete.
7
Che voglion dire.
8
Andatevelo a trovare.
9
Un bel.
10
Si.
1830. La pantomína
1
cristiana
Quanno er popolo fa la cummuggnone
2
er curioso è lo stà in un cantoncino
esaminanno oggnuno da viscino
come asterna
3
la propia divozzione.
Questo opre bbocca e cquello fa er bocchino,
chi sse scazzotta
4
e cchi spreme er limone,
5
uno arza la capoccia ar corniscione
e un antro s’inciammella
6
e ffa un inchino.
E cchi spalanca tutt’e ddua le bbraccia:
chi ffa ttanti d’occhiacci e cchi li serra:
chi aggriccia er naso e cchi svorta
7
la faccia.
Ggiaculatorie forte e ssotto-vosce,
basci a la bbalaustra e bbasc’in terra,
succhi de fiato
8
e sseggni de la crosce.
30 marzo 1836
1
Pantomíma.
2
La comunione.
3
Esterna.
4
Si percuote.
5
Giunge le mani stringendole.
6
S’inciambella: si curva.
7
Volta,
torce.
8
Succiamenti di fiato.
1831. Er grosso a Bbervedé
1
«Io un grosso, tu un grosso, quella un grosso,
e pperché sta vecchiaccia de San Zisto
2
ha da avé avuto un pavolo, pe ccristo?
Pe li bbell’occhi sui cor cerchio rosso?»
«Che! ssete sceca?
3
Nu l’avete visto
ch’ero gravida?» «Tu, rrospa de fosso?!
Co cqueli quattro carnovali addosso?
E cchi tte porti in corpo? L’anticristo?»
«Zzitta llí, bbrutta serva de Pasquino.
Ggià ho ttrentun’anno solo; eppoi, sorella,
oggni donna pò mméttese
4
un cusscino».
«Quann’è cquesto eri gravida sicuro.
Dímmelo a ttempo, ché, ssibbè
5
zzitella,
sta gravidanza la trovavo io puro».
6
30 marzo 1836
1
Nell’anniversario dell’incoronazione del Pontefice regnante, si dispensa un grosso di argento a tutti che vadano a
prenderlo nella gran corte di Belvedere in Vaticano. Le donne incinte hanno doppia largizione.
2
Chiamasi di S. Sisto
un ospizio pe’ vecchi. Quindi alle persone molto annose dicesi vecchio o vecchia da S. Sisto.
3
Siete cieca?
4
Può
mettersi.
5
Sebbene.
6
Pure.
1832. La carità ddomenicana
M’è stato detto da perzone pratiche
che nun zempre li frati a Ssant’Uffizzio
tutte le ggente aretiche e ssismastiche
le sàrveno
1
coll’urtimo supprizzio.
Ma, ssiconno li casi e le bbrammatiche
pijjeno per esempio o Ccaglio o Ttizzio,
e li snèrbeno a ssangue in zu le natiche
pe cconvertilli e mmetteje ggiudizzio.
Lí a sséde
2
intanto er gran inquisitore,
che li fa sfraggellà ppe llòro bbene,
bbeve ir
3
zuo mischio e ddà llode ar Ziggnore.
«Forte, fratelli», strilla all’aguzzini:
«libberàmo sti fijji da le pene
de l’inferno»; e cqui intiggne li grostini.
30 marzo 1836
1
Salvano.
2
A sedere.
3
Ir per «il»: sforzo di parlar gentile, dicendosi veramente dai Romaneschi er.
1833. Er capezzale
Er confessore, ar zòlito peccato,
che un po’ mmeno o un po’ ppiú ttutti l’avemo,
me tiè oggni vorta sto discorzo sscemo,
e nnun capissce che cce sprega er fiato.
«E ar capezzale sce n’accorgeremo,
e ar capezzale guai chi ss’è ostinato,
e ar capezzale è ttutto ariggistrato,
e ar capezzale sciariparleremo...».
1
Tutte le sante feste una canzona!
Ma er capezzale lo bbúggero io:
er capezzale a mmé nun me cojjona.
Da cqui avanti appen’entro a lo spedale
dico ar zervente: «Sor zervente mio,
levateme de cqui sto capezzale».
30 marzo 1836
1
Ci riparleremo.
1834. Er Miserere de la Sittimana Santa
Sonetti 2
Tutti l’ingresi de Piazza de Spaggna
nun hanno antro
1
che ddí ssi cche ppiascere
è de sentí a Ssan Pietro er miserere
che ggnisun’istrumento l’accompaggna.
Defatti, cazzo!, in ne la gran Bertaggna
e in nell’antre cappelle furistiere
chi ssa ddí ccom’a Rroma in ste tre ssere
Miserere mei Deo sicunnum maggna?
Oggi sur maggna sce sò stati un’ora;
e ccantata accusí, ssangue dell’ua!,
2
quer maggna è una parola che innamora.
Prima l’ha ddetta un musico, poi dua,
poi tre, ppoi quattro; e ttutt’er coro allora
j’ha ddato ggiú: mmisericordiam tua.
31 marzo 1836
1
Altro.
2
Dell’uva.
1835. Er miserere de la Sittimana Santa
Ah ah ah! ssur miserere poi
Caro sor Giammaría, dite a l’ingresi
e a tutti li todeschi e li francesi
ste du’ parole ch’io mó ddico a voi.
Quelli chiccherichí
1
cc’avete intesi
sopra er zicunnum maggna è un tibbidoi
2
c’userà fforzi
3
in nell’antri
4
paesi,
si
5
vvolete accusí, mma nnò da noi.
Sicunnum maggna! ma ccazzo! a sto monno
pe cquelli quattro essempi che sse védeno,
6
maggna er primo, me pare, e nnò er ziconno.
Cosa viè
7
poi? Manifestasti micchi;
e sti micchi chi ssò?
8
Cquelli che ccredeno
a ste sciarle, ch’er boja se l’impicchi.
31 marzo 1836
1
Quei canti fioriti, gorgheggi, trilli, ecc.
2
È un nonsocché.
3
Forse.
4
Negli altri.
5
Se.
6
Si vedono.
7
Viene.
8
E chi sono
questi micchi? Uomini semplici.
1836. Li pinitenzieri de San Pietro
1
Me sce sò ttrovo io
2
quanno a Tturlonia
quer zampietrino vecchio cor braghiere
j’ha detto: «Vede lei sor cavajjere?
questo è ir confessionario de Pollonia».
3
Er Duca allora j’ha rrisposto, Antonia:
«Perché è cchiuso e nun c’è ppinitenziere?».
Disce: «Perché cquell’animacce nere
nun vengheno ppiú a ffà sta scirimonia.
E cche! llei nu lo sa che li Pollacchi
fino dar trenta nun zò ppiú ccristiani?
Ma lassammò fà a Ddio e a li cosacchi».
Disce: «E quello chi è?» «Ppadre Francesco
Sgraffígner, de li Frati Livetani,
4
che sta ar zu’ posto a sbatteccà
5
in todesco».
6
31 marzo 1836
1
Ogni lingua d’Europa ha il suo apposito confessionale, contrassegnato con iscrizione in metallo. In ciascun
confessionale poi si annicchia un penitenziere, con davanti una lunga verga, o altrimenti bacchetta, investita della
virtù di cancellare ipsofacto i peccati veniali ad ogni picchiata sul capo del peccatore che si presenta genuflesso a
quella facile espiazione. Pei peccati mortali non la va cosí a buon mercato.
2
Mi ci sono trovato io.
3
Pro polonica
lingua.
4
Olivetani.
5
A sbacchettare.
6
Pro germanica lingua.
1837. La Tirnità de Pellegrini
1
Ma la gran folla, la gran folla, sposa,
2
in quella Tirnità de Pellegrini!...
Se stava un zopr’all’antro:
3
era una cosa
da favve intorcinà
4
ccome stuppini.
Ma a vvedé le paíne e li paíni!...
Uhm, la ggente der monno io nun zo,
5
Rrosa,
quanno che nnun ze spenneno
6
quadrini
com’ha da èsse
7
mai ttanta curiosa.
S’è svienuta un’ingresa furistiera,
che Ddio lo sa ssi
8
arriverà a ddimani.
Pareva una cuccarda ggialla e nnera.
Eppoi che cce se vede,
9
sposa mia?
Maggnà e bbeve
10
du’ preti e ddu’ villani:
gusto che ppòi levatte
11
a oggn’osteria.
31 marzo 1836
1
La Trinità de’ Pellegrini: ospizio, dove i pellegrini sono mantenuti per tre giorni. Nelle sere più solenni della
settimana santa ivi è concorso di curiosi, per vederli cenare serviti dai confratelli in sacco rosso, color di polmone, fra
i quali per affettata umiltà si annoverano principi e talora anche piccoli sovrani.
2
Pronunziato coll’o chiusa.
3
Si stava
un sopra all’altro.
4
Da farvi rintorcere.
5
Non so.
6
Non si spendono.
7
Essere.
8
Se.
9
Che ci si vede.
10
Mangiare e bere.
11
Che puoi levarti.
1838. La messa in copia
Nun è pprete er zor Conte, sora Checca,
ma vvistito in pianeta a la pretina,
sta a l’artàre in cappella oggni matina
un’ora a ccelebbrà la messa secca.
1
E bbisoggna sentí ccome s’imbecca
queli ssciroppi de lingua latina:
e bbisoggna vedé ccome s’aîna
2
cor caliscetto, e ccome se lo lecca!
Pe ccirimonie poi e ppe ssegrete
manco er decane
3
der Zagro Colleggio
faría mejjo de lui la sscimmia a un prete.
Ma nun conzagra! Eh nnun è cquesto er peggio,
perché in ner cunzumà,
4
sposa,
5
vedete,
che ar meno nun commette un zagrileggio.
31 marzo 1836
1
«Messa secca» dicesi quella messa celebrata da alcuni divoti per imitazione.
2
Si affaccenda.
3
Il decano, il Cardinal
decano.
4
Nel consumare.
5
«Sposa» deve pronunziarsi colla o chiusa.
1839. Er zantissimo de Monte-Ccavallo
Santissimo! Er zantissimo, me pare,
doverebb’èsse
1
er zolo sagramento,
ciovè cquer galantomo che sta ddrento
ar cibborio indorato de l’artàre.
E a Rroma ciarigaleno,
2
compare,
un zantissimo novo oggni momento,
un zantissimo senza fonnamento
c’ha ssantissimo inzino quel’affare.
Tutti sti lecca-culi e lleccazampe
je dànno der zantissimo pell’ossa
co la lingua e la penna e cco le stampe.
Ma ccome va a ffiní? Quann’è ccrepato,
ammalappéna è sscento in ne la fossa,
sto santissimo poi manco è Bbeato.
31 marzo 1836
1
Dovrebb’essere.
2
Ci regalano.
1840. La bbenedizzione der Zàbbito Santo
1
È vvenuto, è vvenuto er zor Curato
a bbenedí la casa; e de raggione
me s’è ppreso er papetto
2
che jj’ho ddato,
come fussi
3
un acconto de piggione.
Nun zo,
4
ppare che un prete conzagrato
a cquer papetto o ppavolo o ttestone
5
avessi
6
da strillà: «Llei s’è sbajjato:
noi nun vennémo
7
le bbenedizzione».
8
La cosa annería bbene, si
9
nnoi fossimo
l’acquasantàri; ma li preti, Aggnesa,
nun zò ccapasci a ffà un inzurto ar prossimo.
Pe cquello che sso io, nun c’è mmemoria
de ste risposte agre; e ppe la Cchiesa
tutti li sarmi
10
finischeno in groria.
2 aprile 1836
1
Del Sabato Santo.
2
Due paoli.
3
Fosse.
4
Non so.
5
Tre paoli.
6
Avesse.
7
Non vendiamo.
8
Le benedizioni.
9
Andrebbe
bene, se.
10
Salmi.
1841. La regazza in fresco
1
Eh, ttu nu li conoschi li mi’ guai:
si
2
ssospiro sospiro co rraggione.
Nun zai che dda scinqu’anni quer birbone
me tiè ssempre in parola? eh, nu lo sai?
E sta’ cquieta, e ddà ttempo, e vvederai,
e adesso è ttroppa calla la staggione,
e mmó nnun ze guadaggna... In concrusione
sta ggiornata de ddio nun spunta mai.
E accusí sse
3
va avanti: aspetta, aspetta,
oggi e ddomani, oggi e ddomani, e ancora
me dà er bon beve
4
e mme porta in barchetta.
Mó avémio
5
da sposà ppe ottobbre, e cquanno
fóssimo
6
ar fin d’agosto, scappò ffora
a cchiède
7
un’antra pròloga
8
d’un anno.
2 aprile 1836
1
La ragazza lusingata.
2
Se.
3
Si.
4
Il buon bere: mi traccheggia.
5
Ora avevamo.
6
Fummo.
7
A chiedere.
8
Un altra
proroga.
1842. Er prete
Ar momento c’un omo se
1
fa pprete
sto prete è un omo ggià ssantificato;
e cquantunque peccassi,
2
er zu’ peccato
vola via com’un grillo da una rete.
Er dí ssanto a cchi pporta le pianete
è ccome er carcerà cchi è ccarcerato,
come scummunicà un scummunicato,
com’er dí
3
a cquattro ladri: «In quanti sete?».
4
Certe cose la ggente ricamata
nu le capissce, e ffra nnoantri soli
se pò ttrovà la verità sfacciata.
5
Sortanto da noantri stracciaroli
se sa cchi è un prete. La crasse allevata
6
pijja sempre li scesci pe ffascioli.
7
3 aprile 1836
1
Si.
2
Peccasse.
3
Come il dire.
4
In quanti siete?
5
Aperta, limpida.
6
La classe elevata.
7
I ceci per fagiuoli.
1843. Le confidenze
«Te vojjo dí una cosa in confidenza;
maa!... mme capischi
1
«Me
2
fo mmaravjja.
Pe ssegretezza io? che! ssò
3
Cciscijja?
4
Oh, in quant’a cquesto poi, pe la prudenza...».
«Bbe’, ddunque hai da sapé cc’oggi Vincenza
scerca
5
a nnòlito
6
un letto pe la fijja».
«Ah? la fa sposa?!
7
E cchi ppijja? chi ppijja?»
«Eh un ciocco grosso:
8
un facchin de credenza».
«Ohò! ttutti sti fumi finarmente
sò iti
9
a svaporà cco un facchinaccio?»
«Ma ddunque tu nun zai?»
10
«No, nnun zo ggnente».
«Quela regazza... è un po’ pproggiudicata...
11
Abbasta,
12
io je
13
amica, e ssi tte
14
faccio
sti discorzi...». «Eh cche ddubbi! Ôh, addio, Nunziata».
3 aprile 1836
1
Mi capisci?
2
Mi.
3
Sono.
4
Cecilia.
5
Cerca.
6
A nolo.
7
Sposa si pronunzia coll’o chiuso.
8
Un gran personaggio.
9
Sono
andati.
10
Non sai.
11
Pregiudicata.
12
Basta.
13
Le sono.
14
Se ti.
1844. La vedova der zervitore
Sto nné in celo né in terra, Madalena.
Ciarle quante ne vòi, bbone parole...
Ciò
1
rrimesso a cquest’ora un par de sòle,
2
e cc’ho avuto? un testone
3
ammalappena.
Sai chi ccrede a le lagrime? Chi ppena.
Sai chi ppenza ar malanno, eh? Cchi jje dole;
ma nnò chi è ggrasso, nò cchi ha rrobba ar zole,
nò cchi ss’abbòtta a ppranzo e ccrepa a ccena.
Doppo tant’anni de servizzio! un vecchio,
Siggnor Iddio, che l’ha pportato in braccio!
Uno che jj’era ppiú cc’un padre! Un specchio
d’onestà!... Eppuro
4
a un omo de sta sorte
je se fa cchiude
5
l’occhi s’un pajjaccio
senza una cari ddoppo la morte!
3 aprile 1836
1
Ci ho.
2
Suole di scarpe.
3
Tre paoli.
4
Eppure.
5
Gli si fa chiudere.
1845. Er male compenzato dar bene
Eppoi nun ho da dí cquanto sei fessa!
1
Tu ffídete
2
de mé, cche de raggione
sopr’a la nostra santa riliggione
ne saperà ppiú un prete c’un’ostessa.
E ddon Narciso jerassera stessa
m’ha ddetto in cammerino der Farcone
3
che cqualunque peccato ha rrimissione
pe li meriti soli d’una messa.
Pe una messa se smove
4
er paradiso;
e un angelo pò mmette
5
mille diavoli
com’e rrigajje
6
in un timbàl de riso.
Dunque coraggio; eppoi co ppochi pavoli
famo
7
cantà una messa a ddon Narciso,
e ssarvàmo
8
la capra co li cavoli.
3 aprile 1836
1
Testarda.
2
Fidati.
3
L’osteria del Falcone.
4
Si muove, si commuove.
5
Può mettere.
6
Regaglia: viscere di polli in
guazzetto.
7
Facciamo.
8
Salviamo.
1846. Er merito
Merito dite? eh ppoveri merlotti!
Li quadrini ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli sò bboni, sò bbelli,
sò ggrazziosi sò ggioveni e ssò ddotti.
A l’incontro noantri
1
poverelli
tutti schifenze,
2
tutti galeotti,
tutti deggni de sputi e de cazzotti,
tutti cucuzze in càmmio de scervelli.
3
Fa’ ccomparí un pezzente immezzo ar monno:
fussi magàra
4
una perla orientale,
Presto cacciate via sto vagabbonno.
Tristo chi sse
5
presenta a li cristiani
scarzo
6
e ccencioso. Inzíno pe le scale
lo vanno a mmozzicà ppuro
7
li cani.
3 aprile 1836
1
Noi altri.
2
Sozzi, gente da letamaio, spregevoli, ecc.
3
In cambio di cervelli.
4
Fosse magari.
5
Si.
6
Scalzo.
7
Pure.
1847. L’immassciata bbuffa
1
Cosa me n’ho da intenne
2
io de l’usanze
de sti conti e mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce sò
3
entrato jjeri
pe ttirà ll’acqua e ppe scopà le stanze.
È vvenut’uno co ddu’ bbaffi neri
longhi come du’ remi de paranze:
4
disce: «Sò ir cacciator di munzú Ffranze
che mmi manna
5
a pportà li su’ doveri».
Dico: «Ebbè ddate cqua». Ddisce: «Che ccosa?».
Dico: «Che! sti doveri che pportate».
Nun me s’è mmesso a rride
6
in faccia, Rosa?
Guardate llí cche ppezzo d’inzolente!
Che ne so de st’usanze scojjonate
7
che sti loro doveri nun zò ggnente?
8
aprile 1836
1
L’ambasciata ridicola.
2
Da intendere.
3
Ci sono.
4
Paranze o paranzelle: barche da pesca.
5
Manda.
6
Ridere.
7
Stravaganti.
8
Non sono niente.
1848. La mollichella a ggalla
Ohé, llassa er lavore, Fidirica,
e vviè
1
un momento cqua, ffamme er piascere.
2
Viè a vvede
3
sto pezzetto de mollica
che bber giuchetto fa ddrent’ar bicchiere.
Quann’è immezzo se move
4
co ffatica
come fussi
5
una dama o un cavajjere;
ma appena arriva accost’ar vetro, amica!,
se
6
mette a ggaloppà ccom’un curiere.
7
Zitta, sta’ attenta mó: gguarda che ffiacca!
8
Occhi a la penna veh!
9
... mmó vva ppiú fforte...
Ecco!... l’hai visto, di’, ccome s’attacca?
Sto sciníco
10
de pane che ss’è mmosso
nun paro
11
tutto io, pasciocca mia,
12
quanno ar vedette
13
me t’affiaro
14
addosso?
4 aprile 1836
1
Vieni.
2
Fammi il piacere.
3
Vieni a vedere.
4
Si muove.
5
Fosse.
6
Si.
7
Come un corriere.
8
Quale lentezza!
9
Attenzione,
sai?
10
Cinìco: bricioletto.
11
Non paio, non sembro.
12
Mia bella.
13
Al vederti.
14
Mi ti avvento.
1849. La commuggnone
1
in fiocchi
Naturale: oggi è la siconna festa
de pasqua, e ttutti quanti li curati
vanno a pportà ccor bardacchino in testa
la commuggnone in fiocchi all’ammalati.
Nissuno ve lo nega che ssii questa
bontà de preti e ccari dde frati.
Perantro
2
fra cquell’ua sc’è mmorta agresta,
3
né abbasta un fiore pe infiorà li prati.
Voi me chiamate a mmé ttroppo sofistico
perché mm’azzardo a ggiudicà a lo scuro
fin la dispenza der pane ucaristico.
Nun parlo de quer pane io, fratel caro,
io dico ch’er bon core saría puro
4
de dispenzà cquell’antro
5
der fornaro.
4 aprile 1836
1
Comunione.
2
Peraltro.
3
Fra quell’uva c’è molto agresto.
4
Sarebbe pure.
5
Quell’altro.
1850. L’ammalatìa de mi’ mojje
La cratura sta bbene, la cratura:
quer che ssia la cratura sta bbenone.
La madre è cquella che ffa ccompassione
sino ar medico stesso che la cura!
Antro
1
che ttirature
2
e convurzione!
3
Ha un concorzo
4
de sangue che jje dura
sin da quanno fu messo in prelatura
quer cazzaccio der fijjo der padrone.
È ppropio un male d’arrestacce
5
astúpidi.
Cqua ssanguiggne locabbile,
6
cqua nneve,
e cqua bbaggnimaría, cqua ssemicúpidi...
7
È tutt’erba bbettonica, zi’ Nena.
8
Qua nun c’è antro che possi arisceve
9
una grazzia de Santa Filomena.
10
4 aprile 1836
1
Altro.
2
«Tirature», mal di nervi: parola che in Roma è nella bocca di tutti.
3
Convulsioni.
4
Un corso.
5
Da restarci.
6
Locali.
7
Semicupi.
8
È tutto un nulla, zia Maddalena.
9
Non c’è altro, fuorché possa ricevere.
10
Santa di nuova
invenzione nelle catacombe.
1851. L’arma de Papa Grigorio
Ecco l’arma der zanto fratiscello
c’oggi commanna su nnoantri
1
alocchi.
Ce sò ttre stelle sott’a un gran cappello
co ddu’ cordoni in crosce e un par de fiocchi.
Poi sc’è un càlisce d’oro, e in cima a cquello
’na cometa che ppare che cc’imbocchi;
2
e de cqua e de llà cce sta un uscello
3
che cce
4
guarda a l’ingiú co ttanti d’occhi.
Lo so, oggn’arma ha er zu’ bber
5
siggnificato:
questo però ttrovatelo da voi,
ch’io pe sti studi cqui
6
nun ce sò nnato.
Io ve dirò una cosa che nun sbajja,
ciovè
7
cch’er Papa, dassi
8
retta a nnoi,
arzerebbe tre ppiggne e una tenajja.
9
4 aprile 1836
1
Noi altri.
2
Ci entri, vi cada dentro.
3
Un uccello.
4
Ci, vi.
5
Il suo bel.
6
Per questi studi, il qui è ripieno.
7
Cioè.
8
Qualora dasse.
9
«Pign e «tanaglia». Si suol dire agli avari imperocché la pigna cede a stento il suo frutto, e la
tanaglia ritiene fortemente ciò che ha già preso.
1852. Le gabbelle
Ah, ddunque, perché nnoi nun negozziamo
e nnun avémo manco un vaso ar zole,
lei vorebbe cunchiude
1
in du’ parole
che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur pane che mmaggnamo,
sur panno de le nostre camisciole,
sur vino che bbevémo, su le sòle
de le scarpe, e sull’ojjo che llogramo.
2
Le pagamo, per dio, su la piggione,
sur letto da sdrajacce,
3
e su li stijji
che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e sta vergna
4
è la ppiú ddura)
pe ppij mmojje e bbattezzà li fijji
e pper èsse bbuttati in zepportura.
5 aprile 1836
1
Conchiudere.
2
Sull’olio che logoriamo.
3
Da sdraiarci.
4
Questa iattura.
1853. La Bbonifiscenza
Pe la passion de Ddio, zitto, Luviggi,
nun mentovamme ppiú bbonifiscenza.
1
Sto nome che jje danno è un’apparenza,
è una nebbia, è un odor de zzoffumiggi.
Se mànneno a accat
2
ttanti prodiggi
de bbon custume e ttant’arche d’asscenza,
3
e sse sscialacqua poi la providenza
pe ffà ggiucà la prencipessa Ghiggi!
4
Cinquanta scudi ar mese de penzione
a ’na vecchiaccia fràscica de vizzi
5
pe mmétteli
6
s’un asso ar faraone.
Una che ttanto bbutta quanto pijja!
Che ss’è ffatta impeggnà ddar zu’ Patrizzi
7
er trerreggno d’un Papa de famijja!
8
5 aprile 1836
1
Non mentovarmi più beneficenza.
2
Si mandano a questuare.
3
Di scienza.
4
Chigi.
5
Fradicia di vizii.
6
Per metterli.
7
Patrizi, il maestro di casa dei principi Chigi, scoperto poi ladro e fuggito di Roma.
8
Il triregno di Alessandro VII.
1854. Ar zor Abbate Bbonafede
Dite ch’è rraro ppiú cc’a vvince
1
un terno
che un pover’omo che mmore ammazzato
nun ze
2
trovi coll’anima in peccato
e nnun scivoli ggiú ddritto a l’inferno.
A l’incontrario er reo che ll’ha scannato
e mmore pe le mano der governo,
è cquasi scerto com’adesso è inverno
che ttrova er paradiso spalancato.
Sarà ddunque curiosa all’antro monno
3
che cchi de cqua ha pportato er proggiudizzio
se vedi
4
a ggalla, e cchi ll’ha avuto, a ffonno.
Sarà ccuriosa ar giorno der giudizzio
che er primo stii tra ll’angioli, e ’r ziconno
5
cor diavolo che vv’entri in quer zervizzio.
5 aprile 1836
1
A vincere.
2
Non si.
3
All’altro mondo.
4
Si veda.
5
E il secondo.
1855. La strolomía
Nun j’è vvienuta mó la fernesia,
1
invesce
2
de ggiucà a mmercant’in fiera,
3
d’aritirasse
4
in cammera ’ggni sera
soli soli a studià dde strolomía?
5
Jer notte
6
da la santa vemmaria,
senza nemmanco un straccio de stadera,
se mésseno a ppesà ll’antimosfera
7
cor un vetro che sta ssu la scanzia.
Pesà ll’aria! ma eh? Bbe’ cche ppadroni
8
nun zarebbe una cosa nescessaria
de dàjje la patente de bbuffoni?
Eh ssi ll’aria pesassi,
9
addio scibbaria!
Pe una libbra de carne o mmaccaroni
se
10
pagherebbe dodiscionce d’aria.
23 settembre 1836
1
Frenesia.
2
Invece.
3
Mercante in fiera: giuoco di carte molto usato in Roma.
4
Di ritirarsi.
5
Di astronomia.
6
Ieri a
notte.
7
L’atmosfera.
8
Benché padroni.
9
Se l’aria pesasse.
10
Si.
1856. La faccia der Monno
C’è inzíno chi ssostiè ch’er Monno è ttonno,
1
eppuro
2
nun è ttonno un accidente.
3
Tutt’è pperché a le cose scerte ggente
4
nun ce vonno arifrette,
5
nun ce vonno.
Pe ttutto o sse
6
salissce o sse va a ffonno:
de cqui a Ccivitavecchia solamente
sce sò
7
ssette salite e ssette sscente:
8
dunque, che tte ne pare? è ttonno er monno?
Va’ a Ssan Pietro-Montorio, a Mmonte-Mario,
ar Pincio, a Ttivoli, a Rrocca-de-Papa...
sempre sce
9
troverai quarche ddivario.
Tonno davero se pò d
10
un cocommero,
una palla de cuppola, una rapa,
una scipolla, un portogallo, un gnómmero...
11
23 settembre 1836
1
Tondo.
2
Eppure.
3
Non è tondo affatto.
4
Certe genti.
5
Riflettere.
6
Si.
7
Ci sono.
8
Discese.
9
Ci.
10
Si può dire.
11
Un
gomitolo.
1857. Er bon governo
Un bon governo, fijji, nun è cquello
che vv’abbotta l’orecchie in zempiterno
de visscere pietose e ccor paterno:
puro
1
er lupo s’ammaschera da aggnello.
Nun ve fate confonne:
2
un bon governo
se sta zzitto e ssoccorre er poverello.
Er restante, fijjoli, è tutt’orpello
pe accecà ll’occhi e ccomparí a l’isterno.
3
Er vino a bbommercato, er pane grosso,
li pesi ggiusti, le piggione bbasse,
bbona la robba che pportàmo addosso...
Ecco cos’ha da fà un governo bbono;
e nnò ppiàggneve
4
er morto, eppoi maggnasse
5
quant’avete, e llassavve
6
in abbandono.
25 settembre 1836
1
Pure.
2
Non vi fate confondere.
3
All’esterno.
4
Piangervi.
5
Mangiarsi.
6
Lasciarvi.
1858. Certe parole latine
Una sce n’ho ppur’io guasi
1
compaggna.
Quanno annài cor padron de zi’ Pascifica
2
a Tterni indove er marmo se pietrifica,
3
eppo’ a Ssisi
4
e a la fiera de Bbevaggna,
in chiesa, doppo er canto der Maggnifica,
5
dimannài a un pretozzo de campaggna:
«Quer parolone fescimichimaggna,
6
sor arciprete mio, cosa siggnifica?».
L’abbate je pijjò un tantin de tossa,
7
poi disse: «Fescimichimaggna, fijjo,
vò ddí in vorgare:
8
Me l’ha ffatta grossa».
Dico: «E ccosa j’ha ffatto, eh sor curato?»
«Ôh, ccerti tasti», disce, «io ve conzijjo
de nun toccalli; e cquer ch’è stato è stato».
26 settembre 1836
1
Quasi.
2
Di zia Pacifica.
3
Allude alle stalattiti delle Marmore.
4
Ad Assisi.
5
Magnificat.
6
«Fecit mihi magna».
7
Di
tosse.
8
Vuol dire in volgare.
1859. Er ceroto de Papa Grigorio
O pp’er troppo tabbacco, oppuro a ccaso,
o ppe cquarche mmotivo ppiú ppeggiore,
fatt’è ch’è un anno c’a Nnostro Siggnore
je s’è appollato un canchero in ner naso.
Lui sce teneva un cerotin de raso;
ma mmó Ssu’ Maestà l’Imperatore
j’ha spidito da Vienna un professore,
1
che nun ne pare troppo apperzuaso.
Sto scirusico novo, ch’è un todesco,
j’ha ddetto: «Padre Santo, pe sti mali
ce vò aria, riposo e vvino fresco».
2
Sentite ch’ebbe er Papa ste parole,
rispose: «Bbravo, de tanti animali
lei solo sci toccò ddove sci dole.
15 ottobre 1836
1
Questa voce corse per la città, ma in realtà il chirurgo che nascose per qualche tempo il male del naso pontificio fu
un prussiano, famoso curatore di nasi, il quale trovavasi a Roma per suo diporto. Ebbe dal Papa, a cose fatte, una
tabacchiera d’oro brillantata e piena di gregorine.
2
Satira maligna e bugiarda di qualche irriverente dell’arte medica.
Il professore non poteva fare la terza ordinazione come contraria alla salute, tutte tre insieme molto meno,
stanteché Sua Santità aveva di già familiari quegli spedienti.
1860. Chi fa, ariscéve
Sonetti 2
De quanti bbelli fatti oggi ho ssentiti
spiegà ssu la Scrittura
1
io ve ne posso
cqua ssu ddu’ piedi ariccontà er piú ggrosso
da favve arimané mmezz’intontiti.
2
Disce dunque c’appena li Sdrelliti
3
terminorno er passaggio der Mar rosso,
scappò ffora un mijjon de Malessciti
4
che ttutti assieme j’appiommorno
5
addosso.
Iddio se la seggnò sta bbrutt’azzione,
6
perché allora l’ebbrei j’ereno amichi
e aveveno la vera riliggione.
Fatti dunque passà cquattroscent’anni,
disse a Ssaulle: «Va’, e de sti nimmichi
nun ce restino ppiú mmanco li panni».
7
29 ottobre 1836
1
Nella chiesa del Gesù.
2
Attoniti.
3
Gl’israeliti.
4
Di Amaleciti.
5
Gli (loro) piombarono, ecc. «Venit autem Amalec, et
pugnabat contra Israel in Raphidim». (Exod., cap. XVII).
6
«Bellum Dei erit contra Amalec a generatione in
generationem». (Ibid.).
7
«Et dixit Samuel ad Saul: - Me misit Dominus, ut ungerem te in regem super populum eius
Israel. Nunc ergo audi vocem Domini. Haec dicit Dominus exercituum: Recensui quaecumque fecit Amalec Israel,
quomodo restitit ei in via cum ascenderet de Aegypto. Nunc ergo vade, et percute Amalec, et demolire universa eius:
non parcas ei, et non concupiscas ex rebus ipsius aliquid; sed interfice a viro usque ad mulierem, et parvulum atque
lactantem, bovem et ovem, camelum et asinum». - Questo passo bellissimo del libro I, cap. XV, dei Re, siccome prova
della imperscrutabile giustizia di Dio, fa eccellente riscontro, alla solidarietà di Adamo con tutti i suoi discendenti.
1861. Chi fa, ariscéve
1
Saulle dunque, in nome der Ziggnore,
scannò inzino le crape
2
e le vitelle;
ma, o ffussi
3
pe avarizzia o ppe bbon core,
prese er re Agaggo e jje sarvò la pelle.
4
E ecchete
5
er profeta Samuelle
che lo chiama idolatro e ttraditore,
6
e jj’intima ch’er reggno d’Isdraelle
passerà a un zu’ viscino ppiú mmijjore.
7
Poi disce: «Indov’è er Re, cche ttu ssarvassi?».
8
E ’r poverello je se fesce avanti,
tremanno peggio de li porchi grassi.
9
Allora Samuelle, a ddenti stretti,
je disse: «Mori»; e in faccia a ttutti quanti
arzò
10
un marraccio
11
e lo taj pezzetti.
12
29 ottobre 1836
1
Riceve.
2
Capre.
3
Fosse.
4
«Et apprehendit Agag regem Amalec vivum,... et pepercit Saul et populus Agag». (Reg., I,
cap. XV).
5
Ed eccoti.
6
«Quasi peccatum ariolandi est repugnare, et quasi scelus idolatriae nolle acquiescere». (Reg., I,
cap. XV).
7
«Scidit Dominus regnum Israel a te hodie, et tradidit illud proximo tuo meliori te». (Ibid.).
8
Dov è il re che
tu salvasti? «Adducite ad me Agag regem Amalec». (Ibid.).
9
«Et oblatus est ei Agag pinguissimus et tremens». (Ibid.).
10
Alzò.
11
Coltellaccio un po’ simile ad una scure.
12
«Et in frusta concidit eum Samuel. (Ibid.).
1862. Er ritorno da Castergandorfo
1
Circa a vventitré e un quarto er Padre Santo
s’affermò a bbeve
2
a Ttor-de-mezza-via;
3
poi rimontò in carrozza e ffesce
4
intanto:
«Sú, ggiuvenotti, aló,
5
ttiramo via».
Me crederai, si
6
tt’aricconto in quanto
arrivò a Rroma? Ebbè, a la vemmaria
gia stava a ccasa e sse tieneva accanto
er zolito bbucal de marvasia.
7
Era tanto quer curre scatenato
c’a Pporta San Giuvanni lo pijjorno
8
per un zommo Pontescife scappato.
E mmó averessi
9
da vedello adesso
come ride ar zentí
10
cquanti in quer giorno
pissciorno sangue pe ttenejje
11
appresso.
31 ottobre 1836
1
Castel Gandolfo, sul Lago Albano: villeggiatura ordinaria dei Papi.
2
Si fermò a bere.
3
Osteria e posta.
4
Disse.
5
Viene dal francese allons.
6
Se.
7
Malvasia. Qui il nostro romanesco è male informato. Doveva dire: marsala.
8
Pigliarono.
9
Avresti.
10
Al sentire.
11
Tenergli.
1863. Le gabbelle de li turchi
Un tar munzú Ccacò, cch’è un omo pratico
e Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
pe vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico
dove nun ce commanneno Francesi,
ricconta che in sti bbarberi paesi
’ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico
1
che sse paga sei mesi de testatico
pe pprologà
2
la vita antri sei mesi.
Dunque disce er Francese che ssiccome
ar Governo der Papa indeggnamente
3
nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
c’è ggran speranza che jje vienghi
4
in testa
de mette sopra er fiato de la ggente
’na gabbella turchina uguale a cquesta.
19 novembre 1836
1
Sgarbato, incitativo.
2
Per prorogare.
3
Espressione ironica di tal quale umiltà, di cui si fa molto uso.
4
Gli venga.
1864. Li ggiudizzi
Pe ggiudicà da ommini, Ghitano,
e nun bévese tutto com’alocchi,
le cose s’ha da védele coll’occhi
e ttoccalle a un bisoggno co le mano.
A ddà rretta a le sciarle de li ssciocchi
cerchi er mare, e cch’edè?
1
ttrovi un pantano;
e li scudi contati da lontano
da viscino diventeno bbaiocchi.
Presempio
2
l’avocato mi’ padrone
sentirai cche scrive bbene; e cquello
fa invesce rospi e zzampe de cappone.
A l’incontro er copista, poverello,
nu ne parla ggnisuno, e in cuncrusione
ha un ber caratterino stampatello.
21 novembre 1836
1
E che è?
2
Per esempio.
1865. Mastro Grespino
1
Sonetti 2
Stretti?! Ma gguardi llì, stanno attillati
che jje fanno un piedino ch’è un piascere.
Sòle schiette, se sa,
2
ppelle sincere:
3
stivali, e nno zzànnoli
4
de frati.
Che ccosa se ne fa, ssor cavajjere
de quelli fanfaroni
5
squatrassciati
6
che ddoppo un’ora o ddua che ll’ha ccarzati
je diventeno un par de sorbettiere?
Sbatti
7
er piede, accusí, ffacci de questo:
8
ma ggià, er vitello come sente er callo
9
cede da lui medémo
10
e ppijja er zesto.
11
Oggi e ddomani ar piú cche sse li mette,
lei sti stivali cqui pposso accertallo
che jj’anneranno sú ccom’e ccarzette.
30 novembre 1836
1
Crispino: nome comune de’ calzolai.
2
Si sa.
3
Sono.
4
Sandali.
5
Goffi oggetti.
6
Deformi per larghezza.
7
Sbatta, batta.
8
Faccia di questo: faccia in questo modo, come faccio io.
9
Il caldo.
10
Medesimo.
11
Piglia il sesto.
1866. Mastro Grespino
Larghi sti bbordacchè?!
1
Llavoro a ttanti
e oggnuno li vò ggranni ppiú de quelli.
Quanno lei commannava du’ bbudelli,
sor Conte mio, poteva dillo avanti.
Questi ar meno je vanno com’e gguanti
senza che cce se
2
sforzi e ss’appuntelli:
nun c’è ar meno bbisoggno de mettelli
a ffuria de sapone e de tiranti.
Nu la sente che ppasta de gammàle?
La prim’acqua che vviè cquesto aritira;
e, ssi strozza,
3
o nun j’entra o jje fa mmale.
Carzi commido,
4
carzi: er tropp’è ttroppo.
Eppoi pe ffà er piedino se sospira
co li calli e ssoprossi e sse
5
va zzoppo.
30 novembre 1836
1
Brodequins: borzacchini.
2
Ci si.
3
Dal verbo strozzare. Qui significa però stringere eccessivamente, mercé una
strozzatura in qualche punto dello stivale.
4
Calzi comodo.
5
Si.
1867. Li padroni bbisbètichi
Dichi
1
a la tu’ padrona ch’è indiscreta?
oh ssenti er mi’ sor Conte quant’è ccaro.
Disce: «Vàmme a ccrompà
2
cqui dar libbraro
la pianta de la ssedia de Gaeta».
3
Dunque io me crese
4
de fà mmejjo, Teta,
5
d’annà ppiuttosto a cchièdela ar zediaro.
Disce: «Io nun venno
6
st’erbe, fratèr caro:
le tie
7
er zempriscista coll’abbieta».
8
Curro
9
dar zempriscista: ebbè cquer manico
de panza
10
disce: «Fijjo mio, ste piante
forzi
11
sce l’averà ll’orto bbottanico».
Inzomma, a ffàlla curta, Teta mia,
nun trovai ggnent’affatto; e cquer gargante
12
quanno c’aritornai, me cacciò vvia.
2 dicembre 1836
1
Dici.
2
Comperare.
3
Dell’assedio di Gaeta.
4
Mi credetti.
5
Teresa.
6
Non vendo.
7
Terrà.
8
Bieta.
9
Corro.
10
«Manico di
pancia»: voce spregiativa della serie di minchione, ecc.
11
Forse.
12
Uomo di mala fede, o ingiusto.
1868. Ar zor Lesandro Tavani
Servo de Vusustrissimo. Io sò
1
cquello,
che pprima de le feste ebbe l’onore
d’incontrallo davanti ar friggitore
senza manco cacciammeje
2
er cappello.
Che aveva da sapenne
3
un scarpinello
4
de st’antra premissione
5
der Ziggnore
che llei ortre
6
de medico e ddottore,
fussi puro
7
tenente e ccolonnello.
8
Che ne sapevo io povera cratura
9
ch’er Papa manna
10
mó ccontr’er nimmico
’n esercito de medichi in muntura?
S’io n’avevo un barlume da lontano
(je lo dico cor core, je lo dico),
je vienivo a bbascià ppuro la mano.
30 dicembre 1836
1
Sono.
2
Senza neppure cavarmele.
3
Saperne.
4
Ciabattino.
5
Di quest’altra permissione.
6
Oltre.
7
Pure.
8
Nominato
tenente-colonnello, congiuntamente all’ufficio di Ispettore sanitario delle truppe pontificie. Vedi qui appresso il son.
intit.: Ar zor prof. Pavolo Baròni.
9
Creatura.
10
Manda.
1869. Ar zor professor Pavolo Baròni
1
S’ariverissce, sor dottor Baròni.
Eh? cche ddirà? Cce chiamerà vvillani
pe avé ffatto un sproloquio
2
ar zor Tavani,
3
e a llei finora un ber
4
par de cojjoni.
5
Cosa vò!
6
co sti tempi bbuggiaroni
chi ha ppotuto ggirà? mmanco li cani.
Ccusí,
7
oggi e ddomani, oggi e ddomani,
sò sscivolati
8
ggià ddu’ mesi bboni.
Bbasta, speramo che llei nun ce meni;
9
e ssimmai je piascessino
10
l’inchini,
n’avémo er collo e ’r cuderizzo
11
pieni.
Sor professore mio, Dio lo distini
a ttrovà dapertutto mal de reni,
cianche
12
rotte e mill’antri
13
cancherini.
16 marzo 1837
1
Distintissimo chirurgo, creato direttore della sanità militare col grado di colonnello.
2
Lunga cicalata.
3
Vedi qui
avanti il son. intit.: Ar zor Lesandro Tavani.
4
Bel.
5
Cioè: «nulla».
6
Vuole.
7
Così.
8
Sono sdrucciolati via.
9
In senso di
«percuotere».
10
E se mai le piacessero.
11
Osso sacro.
12
Gambe.
13
Mille altri.
1870. L’amiscizzia vecchia
Oh cquesto poi lo posso dí in cusscenza,
1
e ho ttant’in mano da dànne
2
le prove,
ch’io sò ott’anni e ccammina pe li nove
che, bbontà ssua, conosco Su’ Eminenza.
Sapete voi che cquann’era Eccellenza
e io stavo de casa a Ccacciabbove,
3
veniva sempre co ccamìsce
4
nove
per avelle cuscite da Vincenza?
Appena entrato me disceva: «Bbiascio
tiè, vva’ ar teatro». Eh cche bbravo siggnore!
Inzomma èrimo
5
propio papp’e ccascio.
6
Anzi una sera, pe llevamme
7
er vizzio
d’aringrazzià, mme fesce inzin l’onore
de mannàmmesce
8
a ccarci in quer zervizzio.
3 gennaio 1837
1
Coscienza.
2
Darne.
3
Una contrada di Roma.
4
Camicie.
5
Eravamo.
6
Amici intrinseci.
7
Per levarmi.
8
Mandarmici.
1871. La commare
Indove? Ah sta commare, sta commare!...
Giudizzio, veh! bbadamo a nnoi, sor coso,
perché ccommare è un c ppiricoloso,
e ppò ssuccede
1
quarche bbrutt’affare.
Ggià cco ttutte ste visite, me pare
de vede storce e mmasticà
2
lo sposo;
3
e nun vorría,
4
si
5
ddiventa ggeloso,
che cciannàssi
6
per aria er zor compare.
Lanzi bbalordi:
7
se pò èsse
8
amico
senza tanti ronneggi
9
e ssenza tanti...
Abbasta, so bbe’ io cosa me dico.
Sí, er zan Giuvanni,
10
sí: ma ssai che ssanti
11
che ssemo noi? Dunque nun zerve un fico
che mme te bbutti co le man’avanti.
12
3 gennaio 1837
1
Succedere.
2
Storcere, masticare, fare mal viso, brusca cera.
3
Pronunzia la o stretta.
4
Vorrei.
5
Se.
6
Ci andasse.
7
Scuse magre, affettata semplicità.
8
Si può essere.
9
Ronneggi, giri in volta.
10
Il san Giovanni: il comparatico.
11
«Semplici», in senso ironico.
12
Buttarsi colle mani avanti per non cadere indietro: proverbio che vale: «addurre scuse
troppo sollecite e inopportune».
1872. L’amore e l’accordo
«Che cc’entra mó sto discorzo ridicolo?
Cià cche ffà
1
ccom’er Papa co le rape».
«C’entra, sora cardèa,
2
perché cce cape,
e cqua nun zerve de svortamme vicolo».
3
«Ma, ssor E,
4
cce saria ggnente pericolo
che vvoi co ttutte ste sfuriate ssciape
pijjàssivo
5
le pecore pe ccrape
6
o er búscio
7
de quer coso
8
p’er bellicolo?»
9
«Io ve dico accusí,
10
ssora pettegola,
c’aràmo
11
dritto, e vve parlo sur zerio;
e cch’io
12
stufo, e vve servi de regola».
«Aramo dritto, eh? bbrava la bbestia!
Nun pare de sentí fra Vvituperio
predicà la vertú de la modestia?».
13
3 gennaio 1837
1
Ci ha che fare.
2
Signora caldea: stupida.
3
Voltarmi vicolo: canzare il proposito del discorso.
4
Signor E: modo
beffardo di chiamare qualcuno.
5
Pigliaste.
6
Capre.
7
Buco.
8
Coso: nome di disimpegno attribuito ad ogni oggetto. Qui
sta per... la verecondia non permette il dirlo.
9
Umbilico.
10
Così.
11
Ariamo.
12
Sono.
13
Proverbio.
1873. Er ritratto der Papa
Lo so da Tanislao, che cco la cosa
1
c’ha a Ppalazzo un fratello scopatore,
è ar caso de conossce
2
sora sposa,
3
tutti li peti
4
de Nostro Siggnore.
Lui sce farà un tantino de scimosa,
5
se sbajjerà
6
ssur nome der pittore;
ma in fonno er fatto è vvero, sora Rosa,
com’è vvero che vvoi fate l’amore.
M’ha ariccontato dunque Tanislao
ch’er Papa s’è vvorzuto
7
fà er ritratto
pe ddon Carlo e mmannajjelo a Bbirbao.
8
Ma ssiccome è rriusscito un brutto quadro,
ner mentre s’incassava er Papa ha ffatto:
9
«Propio me ne vergogno com’un ladro».
3 gennaio 1837
1
Pel motivo.
2
Di conoscere.
3
Signora sposa. Spósa pronuncialo colla o chiusa.
4
Tutti i minuti particolari.
5
Ci farà un
pocolino di giunta. Cimosa è il vivagno dei tessuti.
6
Si sbaglierà, semplicemente: «sbaglierà».
7
Si è voluto fare.
8
Mandarglielo a Bilbao.
9
Ha detto.
1874. La bbefana
Jerassera er baggeo
1
de la padrona
venne ar tardi a pportajje la bbefana,
e jje diede ’na scatola che ssona,
’na saviggnea
2
de smarto
3
e ’na collana.
Bbe, azzécchesce
4
sta fiandra
5
bbuggiarona.
Disce: «Oh cquesto poi nò: ssuono
6
romana,
ma ll’amiscizzia de la mia perzona
nun zi ottiè ccor dà ll’acqua a la funtana».
E llui? A sta scappata arrepentina
parze
7
la tartaruca de zi’ Nèna
quanno aritira er collo in ne la schina.
Allora lei, pe llevallo de pena,
s’arivortò a la donna; disce: «Nina,
riponete sta robba e andate a ccena».
6 gennaio 1837
1
Qui significa: «l’elegante, il languente».
2
Una sevigné.
3
Smalto.
4
Azzeccaci: indovinaci cosa fa questa, ecc.
5
Furba,
maliziosa.
6
Affettazione di sono.
7
Parve.
1875. L’ammalaticcio
«Come va, ssor Loreto?» «Sempre male:
pòi bbuttamme
1
per terra cor un deto».
2
«Ma, in zostanza, c’avete?» «Eh, lo spezziale
disce ch’è un male che sse chiama abbèto».
3
«Ve dà ffastidio de salí le scale
«Antro si mme lo dà!
4
cce vo
5
l’asceto».
«Ebbè, affare de nerbi,
6
sor Loreto,
tutt’affetto
7
der tempo. E a lo spedale
ce sete stato?» «A mmé?! ddímme cojjone!
8
Nun zai c’a lo spedale sce se
9
more?»
«Avete mille e ppoi mille raggione.
10
Lassate fà,
11
lassate fà ar Ziggnore;
e vvederete a la bbona staggione
si
12
ttornate a ddà ssú mmejjo d’un fiore».
13 gennaio 1837
1
Puoi buttarmi.
2
Con un dito.
3
Abete per «diabete».
4
Altro se me lo dà! Me lo certamente.
5
Ci vuole.
6
Nervi.
7
Effetto.
8
Fossi pazzo.
9
Ci si.
10
Ragioni.
11
Lasciate fare.
12
Se.
1876. L’incontro der decane
«Ôh, vve trovo a la fine. È un’ora bbona,
sor Titta
1
che vve scerco dapertutto
pe ppijjacce
2
la solita cacona,
3
come ve piasce a vvoi, de vin’assciutto».
«Nun trattenemme, Andrea, ché mmom
4
ssona
mezzoggiorno e in cuscina ho da fà ttutto;
e pprima ho da ggirà ppe la padrona
a ordinà ppe stasera er mezzo-lutto».
«Perché?» «Pp’er ballo da l’imbassciatore».
«Ma mmezzo-lutto che vvò ddí, ssor Titta
«Che! nu lo sai? Vò ddí mmezzo dolore.
Quanno una vedovella sderelitta
5
vò acconcij
6
la conveggnenza e ’r core,
va a bballà mmezz’alegra e mmezz’affritta».
18 gennaio 1837
1
Signor Giambattista.
2
Per pigliarci.
3
Imbriacatura.
4
Or ora.
5
Derelitta.
6
Vuol conciliare.
1877. Er passo de le carrozze
«Quante carrozze pe Strada Papale!
Chi è cquesto che jje porteno l’ombrello
co ddu’ fiocchi appoggiato a un ancinello?»
1
«È un papastro». «E ssarebbe
2
«Un cardinale».
«Dite, e cquel’antro
3
in carrozzino?» «Quale?»
«Là, ccor fagotto pavonazzo.. . »
4
«Ah, cquello
è un prelato che ttorna dar mascello».
5
«E cch’edè
6
sto mascello?» «Er tribbunale».
«E sta siggnora in carrettella?» «Questa
è una puttana da scento monete,
c’ha ddritto de passà ppe ddonna onesta».
«Cqua in timonella
7
chi cce va?» «Un dottore».
8
«E in sta bbastarda un préncipe?» «No, un prete».
«E llí a cquattro cavalli?» «Un fornitore».
18 gennaio 1837
1
Uncinello.
2
Cioè?
3
Quell’altro.
4
I servi dei prelati portano, per insegna della dignità de’ padroni che sono in
carrozza, un fardello di seta violacea.
5
Macello.
6
Che è?
7
Vettura a un solo cavallo.
8
Un medico.
1878. A pproposito
«A pproposito, disce, de sceroti,
er naso der zor Màvuro
1
è gguarito?»
«Sí», ddisce, «Iddio sta vorta ha esäudito
er cammeriere, l’oste e li nipoti».
«Ma», arispose er decane
2
de Devoti,
«j’è arrestato
3
un nasone accusí ardito,
che ppare Purcinella travistito
da Papa, e ccurre vosce che cciarroti».
4
«Uh, a proposito», fesce
5
Ggiuvenale,
«l’amico pe ’na certa cacarella
6
pe st’anno nun vò mmaschere, e ffa mmale».
Cqua sse n’usscí Ggervaso: «Oh cquest’è bbella!
Me pare bbuffa assai ch’er carnovale
lo provibbischi propio Purcinella».
20 gennaio 1837
1
Mauro Cappellari, alias Gregorio XVI.
2
Il servitor decano.
3
Gli è restato.
4
Ci arroti: ne frema.
5
Disse.
6
Paura.
1879. Er Carnovale der 37
Sonetti 2
Oggi ar fine per ordine papale
cor protesto
1
e la scusa der collèra,
ma ppe un’antra
2
raggione un po’ ppiú vvera
3
er Governo ha inibbito er carnovale.
Dunque nun c’era d’arifrette
4
ar male
de chi vvenne
5
le mmaschere de scera?
dunque nun c’era da penzà, nnun c’era,
all’abbiti
6
d’affitto, eh sor piviale?
7
E nnoantri
8
che ffamo
9
li confetti
e ttant’e ttanti che ccampeno un mese
cor trafico de lochi e mmoccoletti?
Ah! cqui, ppe lo scacarcio
10
de sto Santo
senza viggijjallàmpene accese,
Roma, pe ddio, s’ha d’aridusce
11
un pianto.
20 gennaio 1837
1
Pretesto.
2
Altra.
3
I timori indomabili di Sua Santità.
4
Da riflettere.
5
Vende.
6
Abiti.
7
Si parla a Nostro Signore.
8
Noi
altri.
9
Facciamo.
10
Timidità.
11
Da ridurre.
1880. Er Carnovale der 37
Che? ha inibbito le mmaschere, bbuffoni,
pe vvia che
1
in sti tempacci incollerati
l’ommini nun ze fussino ammalati?
Sí, ddàtelo a d’intenne
2
a sti cojjoni.
Dunque come se spiega che da Prati
3
se vedeva de drento a li bbastioni
’na càccola
4
de sedisci cannoni
5
caricati, attaccati e ppreparati?
Co ste pírole
6
cqui, ccrape
7
futtute,
co sti bbelli ssciroppi de scerase
se conzerva li popoli in zalute?
Tiè cquer zervo de Ddio ’na coratella
8
che cce faría spianà ppuro le case
quanno je se toccassi
9
una pianella.
23 gennaio 1837
1
Acciocché.
2
Ad intendere.
3
I prati che circondano le fosse del Castello S. Angiolo.
4
Una bagattella.
5
Quanti il
Governo ne ha in traino.
6
Pillole.
7
Capre: gente da poco.
8
Certe viscere.
9
Gli si toccasse.
1881. Sant’Agustino lo mett’in dubbio
1
Questo poi, verbigrazzia, nun zaprei...
pe bbriosa, pe ggiovene, pe bbella,
cqui ssò cco vvoi:
2
ma cquer che ssia zitella
3
nun basta, sposa, che lo dichi lei.
Lei crede de pijjacce pe ccardei,
4
e io tiengo ’na scerta coratella
5
che jje direbbe
6
in faccia: «Puttanella,
nun te fà dder paese che nun zei».
7
Nun ze fussino
8
visti, eh?, li traghetti
9
co cquer munzú che la trovò in ciavatte
10
e l’empí ttutta-quanta de merletti?
Avé le corna a ttempo suo, pascenza;
ma annassele
11
a ccercà bbelle che ffatte
nun me pare che ssii troppa prudenza.
29 gennaio 1837
1
Modo proverbiale nelle cose dubbiose.
2
Sono del vostro parere.
3
In quanto all’esser zitella.
4
Di pigliarci per babbei.
5
Tengo un certo coraggio.
6
Le direi.
7
Non ti attribuire ciò che non ti conviene.
8
Non si fossero.
9
Sotterfugi.
10
Ciabatte.
11
Andarsele.
1882. La mammana in faccenne
«Chi ccercate, bber fijjo?» «La mammana».
«Nun c’è: è ita a le Vergine
1
a rriccojje».
2
«Dite, e cquanto starà? pperché a mmi’ mojje
je s’è rrotta mó ll’acqua ggiú in funtana».
«Uhm, fijjo mio, quest’è ’na sittimana
che jje se ssciojje
3
a ttutte, je se ssciojje.
Tutte-quante in sti ggiorni hanno le dojje:
la crasse
4
arta, la bbassa e la mezzana».
«E cche vvor dì
5
sta folla?» «Fijjo caro,
semo ar fin de novemmre; e ccarnovale
è vvenuto ar principio de frebbaro.
Le donne in zur calà la nona luna
doppo quer zanto tempo, o bben’o mmale
cqua d’oggni dua ne partorissce una».
31 gennaio 1837
1
In Via delle Vergini, così detta dal nome di un convento di monache.
2
Raccogliere.
3
Gli si scioglie, cioè: «viene loro
il prurito di fare la tale o tal’altra cosa». Qui s’intende quale.
4
Classe.
5
Vuol dire.
1883. Er niverzario
1
de l’incoronazzione
Povero Papa mia! fu ttant’affritto
de concèdesce
2
er corzo e li fistini
3
vòti de Purcinelli e Traccaggnini,
4
e ascrívesce
5
le mmaschere a ddilitto,
che ssubbito ordinò cco un antr’editto
ch’er Monte-de-pietà ssenza quadrini
aridassi
6
li peggni piccinini,
acciò er popolo ssciali
7
e sse
8
stia zzitto.
La quale er Zanto Padre pe ffà ffronte
a la spesa, nò ttutta ma pporzione,
penzerà lui d’aringretànne
9
er Monte.
Defatti co cquer core da Sanzone,
je mannò,
10
cché ll’ha ssempre bbell’e ppronte,
quattro mijjara de bbon’intenzione.
4 febbraio 1837
1
L’anniversario.
2
Di concederci.
3
Festini.
4
Arlecchini.
5
Ascriverci.
6
Ridasse.
7
Goda.
8
Si.
9
Di rintegrarne.
10
Gli
mandò.
1884. Er Mercante pe Rroma
Sonetti 2
Ma llei lo vedi
1
al lume: osservi er baggno
de la tinta: conzideri la lega
de li colori, corpo de ’na strega!
guardi che cqualità, ppe ssan Pistaggno!
Lei l’attasti in ner zito de la piega
2
si
3
sto cambricche nun pare un fustaggno.
E nnun zò mmica le tele de raggno
de sti ladri mercanti de bbottega.
La robba forte bbisoggna pagalla;
e cco sta robba cqua cce se faría
4
un tammurrello da ggiucacce
5
a ppalla.
Tre ppavoli?! cuccú!
6
cquesto se venne
7
du’ testoni la canna, sposa
8
mia:
e ar monno chi ppiú spenne,
9
meno spenne.
6 febbraio 1837
1
Veda.
2
Qui si sottintendono le parole e veda, o simili.
3
Se.
4
Ci si farebbe.
5
Da giuocarci.
6
Interiezione di rifiuto, di
beffe, ecc.
7
Si vende.
8
Pronuncia colla o stretta.
9
Spende.
1885. Er Mercante pe Rroma
Arto sei parmi e un terzo ariquadrato.
Spiegatelo: nun pare una tovajja?
Bber fazzoletto! E ar telaggio nun sbajja.
Quest’è acciaro, per dio! ferro filato.
Una piastra, e lo lasso a bbommercato.
Che?! A ssei ggiuli sto capo nun ze
1
tajja.
Costa a mme ppiú de nove a Ssinigajja
da povero cristiano bbattezzato.
Si
2
vvoi trovate chi vve facci er calo
manco d’un ette sott’ar prezzo mio,
da quell’omo che ssò
3
vve l’arigalo.
Chi è cche vve lo dà ppe cquattr’e mmezzo?
er giudío? Dunque annate
4
dar giudío,
ma ssarà un scarto: lo condanna er prezzo.
6 febbraio 1837
1
Non si.
2
Se.
3
Sono.
4
Andate.
1886. Er mercantino a Ccampo-de-fiore
1
Cosa volévio?
2
una rezzòla
3
fina?
Peppe, cala quel mazzo. A vvoi, fijjola:
eccove cqua un brillante de rezzòla
che ppò pportalla in testa una reggina.
Aibbòo,
4
nnun c’è ccottone, aibbò, sposina:
la mantengo pe ttutta capicciola.
5
L’ultimo prezzo? Una parola sola;
e a ttanto l’ho vvennute stammatina.
Sentite, o la pijjate o la lassate,
faremo un scudo perché sséte
6
voi.
Bbe’, ppss, vvenite cqua, ccosa me date?
Un quartino!
7
è un pò ppoco, bbella mia.
Nun ze
8
cambia moneta: sta ppiú a nnoi...
Abbasta, nun ve vojjo mannà vvia.
6 febbraio 1837
1
Campo de’ Fiori, una delle piazze di mercato.
2
Volevate.
3
Reticella da testa.
4
Oibò.
5
Bavella.
6
Siete.
7
Oggi è
moneta di convenzione, e sta per cinque paoli. Una volta era una piccola moneta d’oro del valore di 1/4 di zecchino.
8
Non si.
1887. Lo spazzino
1
ar caffè
Averò ddetto un sproposito grosso:
ne dichi
2
adesso un antro
3
puro
4
lei.
Diammine! ôh mmanco poi fussimo ebbrei:
pe sti prezzi che cqui, ppropio nun posso.
Eppuro è avolio!
5
Pijji questa d’osso,
caro siggnore, e jje la do ppe ssei.
Via, me creschi un papetto,... nun zaprei...
Ciaggionti
6
du’ carlini... un giulio... un grosso...
Rifretti
7
che ssò
8
ggeneri de Francia.
Spacchi er male pe mmezzo: dia un testone,
e sservirà pe ffà la prima mancia.
Via, nun vojjo c’arresti
9
disgustato:
compenzeremo in d’un’antra occasione.
Màa!, nnun lo dica, veh, ccos’ha ppagato.
6 febbraio 1837
1
Girovago mercante di minutaglie.
2
Dica.
3
Altro.
4
Pure.
5
Avorio.
6
Ci aggiunti, per ci aggiunga.
7
Rifletta.
8
Sono.
9
Che resti.
1888. Lo staggnaro a mmercato
Sarà ccaro; ma un cuccomo de staggno
tirato com’e cquesto a ppulimento,
nun fo pper
1
cche ll’ho ffatt’io, ma in cento
lei nu
2
ne trova a Rroma uno compaggno.
Guardi che llustro! e cquer ch’è ffora è ddrento.
Credi puro
3
c’appena io sce
4
guadaggno
pe vvive,
5
e llei co ttanto ppiú sparaggno
6
pò ffà
7
cconto c’ha un cuccomo d’argento.
La robba ch’essce dar negozzio mio,
nun zia
8
mai pe vvantamme,
9
è rrobba bbona
e llavorata cor timor de Ddio.
Eppoi questo è un discorzo corto corto:
lei vadi,
10
ggiri pe Ppiazza Navona,
ma a pprezzo uguale nun me facci torto.
6 febbraio 1837
1
Dire.
2
Non.
3
Creda pure.
4
Ci.
5
Per vivere.
6
Risparmio.
7
Può fare.
8
Non sia.
9
Vantarmi.
10
Vada.
1889. Li moccoletti der 37
Sonetti 2
Ebbè, appena passati li cavalli
dovunque s’accenneva moccoletti
una carca
1
de marri
2
e ppasticcetti
3
de carièra curreveno a ffischialli.
Da le bbotteghe in zú ffino a li tetti
guai chi nun vorze
4
subbito smorzalli!
Sassate a le perziane e a li cristalli
che ffioccaveno ggiú ccom’e cconfetti.
Cacciorno
5
le carrozze a bbastonate,
serrorno
6
porte, sfassciorno
7
lampioni...
Me pareveno furie scatenate.
E li cherubbiggneri
8
e li dragoni?
Co le loro guainelle
9
sfoderate
ce fescero la parte de cojjoni.
8 febbraio 1837
1
Calca.
2
Popolani.
3
Cittadini eleganti.
4
Volle.
5–6-7
Cacciarono, serrarono, sfasciarono.
8
Carabinieri, milizia di polizia,
succeduti ai gendarmi del Governo francese.
9
Spade, sciabole, ecc.
1890. Li moccoletti der 37
Ma ssi
1
lo díco io, ma ssi
1
lo dico
che cquarche gghetto
2
aveva da succede.
E ssi cqua sse
3
va avanti su sto piede
nun ce n’ha da restà manco un ciníco.
4
Eppuro,
5
sce
6
scommetto c’a l’amico
7
nun j’hanno detto un cazzo
8
com’aggnede;
9
e llui se ne sta a ccasa in bona fede
credenno tutto com’ar tempo antico.
Io vedde,
10
usscenno dar Gesú,
11
una strisscia
de paíni
12
c’annava tarroccanno,
e ffesce
13
tra de mè: cqua nun è llisscia.
Nun avé da capí sti preti zzoccoli
che, llevate le mmaschere, pe st’anno
s’aveva da levà ppuro
14
li moccoli!
8 febbraio 1837
1
Se.
2
Tumulto.
3
Si.
4
Neppure un briciolo.
5
Eppure.
6
Ci.
7
Al Papa.
8
Affatto.
9
Come andò.
10
Vidi.
11
Verso sera, ne’
giorni di carnevale, è in quella od altre chiese solenne esposizione della eucaristia.
12
Cittadini in abito non plebeo.
13
Dissi.
14
Pure.
1891. L’appiggionante servizziose
1
«Salute che ccampane!
2
v’ho bbussato
inzinenta
3
ar zolaro cor bastone!...».
«Stavo sur tetto a rripijjà un piccione
che da jjerzéra impoi m’era scappato.
E cche vvolévio?»
4
«V’avevo chiamato
perch’è ssonata la bbinidizzione,
e ïo tiengo
5
la pila in ner focone
c’ancòra, grazziaddio, nun ha schiumato».
«Bbe’?» «Vve volevo dí ddunque una cosa:
s’inzin
6
che ttorno me sce
7
state attenta.
Me sce lo date un occhio eh sora Rosa?»
«E pperché nnò? Llassate puro
8
uperto,
ch’io quanto tiro addietro la pulenta
e ssceggno.
9
Ma ssí, ssí, vviengo de scerto».
10
9 febbraio 1837
1
Compiacenti.
2
Orecchie dure.
3
Sino.
4
Volevate.
5
Tengo.
6
Se fin.
7
Mi ci.
8
Pure.
9
Scendo.
10
Vengo di certo.
1892. Lo scatolaro
Sonetti 2
Eh, ir ziggnore si vede c’ha vviaggiato:
ha sscerto
1
una gran bella tabbacchiera!
Radica der Perú, rradica vera,
e nnò lleggno dipinto e invernisciato.
Lei oggi cqua in vetrina m’ha llevato
ir capitale ppiú mmejjo che cc’era;
nun zi dubbiti, no: ppe la scerniera
so bbe’ io si cche ottone sciò
2
addoprato.
Stenta? Ma mme fa ride!
3
è rrobba nova.
Eppoi la ggente nun zi pijja in gola.
Io ste scatole cqui jje le do a pprova.
Lei vadi puro,
4
lustrissimo mio,
lei dormi
5
quieto su la mi’ parola;
e in oggni caso, ssò ssempre cqua io.
6
10 febbraio 1837
1
Scelto.
2
Ci ho.
3
Mi fa ridere.
4
Vada pure.
5
Dorma.
6
Son qua io, cioè per cambiarla se mai, ecc.
1893. Lo scatolaro
Io mó nun m’aricordo er come e ’r quanno
j’ho vvennuta la scatola: me scotta
de sentí cche jj’ho ffatto er contrabbanno
d’appoggiajje un lavore de ricotta.
Lo capisco pur’io che qui cc’è ddanno
ne la scerniera; ma cchi ssa cche bbòtta
ha avuto in ner cuperchio!: l’averanno
fatta cascà pper terra e jje s’è rrotta.
La scatola era sana. Eppoi, chi ha ll’occhi,
quanno che ccrompa
1
l’ha da uprí, bber fijjo.
Er monno nun è ffatto pe li ssciocchi.
Mó è sfracassata, sí: chi vve lo nega?
Ma io la marcanzia nu
2
l’aripijjo
una vorta ch’è usscita da bbottega.
10 febbraio 1837
1
Compra.
2
Non.
1894. L’arisoluzzione de don Mariotto
Quant’a mmé bbuggiarallo don Mariotto,
ma in questo nun je so nnegà rraggione.
Ste femminacce sò ttante
1
portrone
che cce vorebbe l’ojjo der cazzotto.
2
La predica è intimata a ddiscidotto?
Bbe’, spesso spesso sona er campanone
de ventuna, e ste fremme
3
bbuggiarone
ancóra nun ze métteno er cappotto.
Oggi ha ddetto però: «Pper dina nora!,
a mmontà in pulpito io sò
4
ssempre pronto,
e llòro pe scovasse
5
nonziggnora.
A mmé sta storia nun me torna conto.
Ma da cqui avanti, ammalappena
6
è ll’ora,
la prima donna che vviè in chiesa io monto».
20 febbraio 1837
1
Sono tanto.
2
L’olio, ecc. cioè: «pugna, percosse».
3
Flemme, per «pigre».
4
Sono.
5
Scovarsi.
6
Appena appena.
1895. Er nobbile de fresca data
Import’assai si
1
ha ffatto er friggitore
e ssi
1
è stato a la pietra in pescaria!
Er príffete
2
è la vera siggnoria
chi ha cquadrini cquaggiú ssempre è un ziggnore.
Disce: «Ma a ccasa sua, sia che sse
3
sia,
nun ce càpita un cane, e cce se
4
more
de pizzichi».
5
E cche ffa? Sto disonore
j’intraviè ppe la su’ spilorceria.
6
Lui cominci un po’ a spenne
7
e a ddà da pranzo,
e ttroverà l’appartamento pieno;
e ssi vvò amichi n’averà d’avanzo.
Minestra, diesci piatti, cascio e ffrutti,
eppoi vedi la folla! Ar men’ar meno
li cardinali cianneríeno
8
tutti.
20 febbraio 1837
1
Se.
2
Il danaro.
3
Si.
4
Ci si.
5
Di noia.
6
Avarizia, sordidezza.
7
Spendere.
8
Ci andrebbero.
1896. Er primo gusto der Monno
1
Sentite, sposa:
2
er nun zudasse
3
er pane,
lo stà in ozzio ar focone in ne l’inverno,
er vince un amb’al lotto e mmejjo un terno,
l’avé ppieno er cammino de bbefane,
er beve auffa,
4
er cojjonà er Governo
e ffàlla in barba ar fisco e a le dogane,
lo sguazzà ttra un diluvio de puttane
che nun abbi pavura de l’inferno,
l’èsse
5
appraudito, er diventà ssiggnore,
prelato, cardinale, santo padre...
6
ttutti gusti che vve vanno ar core.
Ma de tanti ggnisuno s’assomijja
manco per ombra ar gusto c’ha una madre
d’èsse cresa
7
sorella de la fijja.
20 febbraio 1837
1
Del mondo.
2
Pronunziato colla o stretta.
3
Il non sudarsi, ecc.
4
Il bere a ufo, gratis. Vedi su ciò la nota... del Son...
5
L’essere.
6
Sono.
7
D’essere creduta.
1897. Chi la fa, l’aspetta
1
«Scusateme, sape’
2
, ssora Nunziata:
v’appunto una parola e scappo via».
«Commannateme, sora Nastasia».
«Dite un po’: cquanno fate la bbucata?»
3
«Nun vedete? è ggià bbell’e ppreparata
la callàra
4
pe bbulle
5
la lesscía».
6
«Dico perché cciò
7
un po’ de bbiancheria...
Volemo fàlla tutta una tuttata?».
8
«Volentieri; ma... è ppiena la tinozza...
Anzi fàtem’annà
9
ssinnò
10
la robba
pijja troppo de covo
11
e mme s’incozza».
12
«Ho ccapito. Ma ggià cquesto succede
a cchi ggratta le schine co la gobba.
13
Abbasta, chi nun more s’arivede».
14
22 febbraio 1837
1
Vedi il seguente.
2
Sapete.
3
Il bucato.
4
Caldaia.
5
Per bollire, in significazione attiva.
6
La lisciva.
7
Ci ho: ho.
8
Vogliamo fare tutto un insieme?
9
Fatemi andare.
10
Altrimenti.
11
Piglia di covo, cioè: «acquista mal odore per lo
stagnar soverchio del liquido.
12
Le sozzure la penetrano.
13
A chi blandisce i maligni.
14
Proverbio.
1898. Le montaggne nun z’incontreno
1
«Eh sora Nastasia». «Cosa ve dole?»
«Inzomma? eh sora Nastasia!». «Che vv’essce?»
«Presto, ché vv’ho da dí cquattro parole».
«A nnoi, sentimo cosa sò ste pressce».
«Me fate mette
2
du’ matasse ar zole?»
«Magara,
3
bbella mia; ma mm’arincressce
ch’er tetto serv’a mmé». «Vvia, sò
4
ddua sole...».
«Sí, un po’ ppiú in là: cquanno la luna cressce».
«Ma ssapete che ssete
5
una cosaccia?»
«Tirate er fiato a vvoi:
6
ggiucate er zei».
7
«Sí, una scontenta,
8
e vve lo dico in faccia».
«Nun z’aricorda ppiú de quel’affare?
Quer che llei fesce a nnoi noi famo
9
a llei.
Oggni nodo viè ar pettine,
10
commare».
22 febbraio 1837
1
Le montagne non s’incontrano: proverbio. Vedi il sonetto precedente.
2
Mi fate mettere.
3
Magari.
4
Sono.
5
Siete.
6
Ritorcete su voi l’ingiuria.
7
Giuocate il sei, cioè «sei tu ciò che dici a me».
8
Discortese.
9
Facciamo.
10
Proverbio.
1899. Le grazziette de Mamma
Forca, leva dar crino sta cratura:
mòvete, che tte stroppi in zempiterno.
Portelo a spasso, portelo a l’inferno,
portelo a ffiume e affoghete addrittura.
E bbarbottesce,
1
sai, bbrutta figura?,
che tte pijjo p’er collo e tte squinterno.
Uh tte potessi véde
2
in zepportura!,
me parerebbe d’avé vvinto un terno.
Quanno che schiatti vojjo fà un pasticcio
de maccaroni, e un triduvo a ssant’Anna
per avemme
3
levata da st’impiccio.
Questa è l’aricompenza, eh?, de le pene
de ’na povera madre, che s’affanna
vassalla infame, p’educatte
4
bbene?
23 febbraio 1837
1
Borbottaci.
2
Vedere.
3
Avermi.
4
Per educarti.
1900. Oggni uscellaccio trova er zu’ nido
Sò cco vvoi:
1
è un cosaccio,
2
è un ancinello,
3
pe ttutto indove va ciarleva
4
bbòtte,
tutt’er monno lo tiè pp’er zu’ zzimbello,
tutti-quanti lo manneno a ffà fotte:
bbe’, eppuro
5
quer cojjon de mi’ fratello
nun vede per antr’occhi, e sse n’iggnotte
6
quante je ne pò ffà. Ggià, cquanno quello
pijja a cconfet
7
uno, bbona notte.
Si jje disce c’un asino ha vvolato
lui se la bbeve subbito, e cce ggiura
come fussi er vangelio der curato.
Io ppe mmé, nnun c’è ccaso, ho ggran pavura
che cquer bbirbone me l’abbi stregato
e jj’bbi fatto fà cquarche ffattura.
25 febbraio 1837
1
Sono del vostro avviso.
2
Personaccia, sgarbataccio.
3
Accatta-brighe.
4
Ci rileva, per semplicemente «rileva».
5
Eppure.
6
Se ne inghiotte.
7
Piglia a proteggere, a benvedere.
1901. Li dilettanti del lotto
Sonetti 3
Ma cc’asstrazzione!
1
arrabbieli! saette!
Guasi sce ggiurería
2
che sto scontento
o le mi’ palle nu le mette drento,
o cche le sa scanzà ssi cce le mette.
Giuco da un anno dua tre e ottantasette,
co la promessa amb’uno e terno scento:
3
ciaffogo
4
sempre er mi’ lustrin
5
d’argento;
e cquanno sémo llí nnun vinco un ette.
Quattro nummeri drent’a la ventina!
Eppoi nun dite ccose accordate!
Dar capo viè la tiggna,
6
Caterina.
Ecchele cqua: ccinquantadu’ ggiucate
senza un nummero. Eppuro la cartina
cor terno scritto me la diede er frate!
7
25 febbraio 1837
1
Che estrazione!
2
Ci giurerei.
3
La promessa è la indicazione, che si fa sulla schedola della giuocata, della cifra della
vincita corrispondente al valor della posta. Ambo uno promette uno scudo: terno cento promette cento scudi: ma v’è
poi l’augumento del venti per cento agli ambi e dell’ottanta ai terni.
4
Ci affogo.
5
Mezzo paolo.
6
Proverbio.
7
I frati,
massimamente i francescani mendicanti, hanno grande riputazione di maghi.
1902. Li dilettanti del lotto
«C’hai ggiucato?» «Ottantuno pe ssiconno».
1
«Bbono: me piasce. Io sce ll’ho ddrent’a un terno
e a ’n’ambo; e pprima che ffinischi inverno,
nun c’è ccaso, ha da usscí, ccascassi
2
er monno».
«La figura de nove, sor Rimonno,
ha da fà st’anno sospirà er governo.
Vedi ch’er ventisette lo chiuderno
3
pe Ffiorenza, e ppe Rroma l’arivònno?»
4
«Te sbajji,
5
Checco
6
mio: quello è er zimpatico
de l’antr’anno: pe cquesto è er discidotto.
De ste regole cqui ssei poco pratico».
«Bbe’, è ffigura de nove quello puro.
7
E in tutta la seguenza, o ssopra o ssotto,
pe ssei mesi sc’è er nummero sicuro».
25 febbraio 1837
1
Per secondo estratto.
2
Cascasse il mondo.
3
Lo chiusero. Quando le poste raccolte sopra un numero, o un ambo, o un
terno qualunque, ecc., superano una certa mèta prestabilita, il di piú vien restituito ai giuocatori, annullandone i
giuochi: e allora dicesi esser chiuso il numero, ecc.
4
Lo rivogliono.
5
Ti sbagli, per «sbagli».
6
Francesco.
7
Pure.
1903. Li dilettanti del lotto
Come diavolo mai me sò
1
accecato
a nun capí la gàbbola der mago!
Ma ssenti: l’incontrai sabbito
2
ar lago;
3
disce: «É da jjeri che nun ho mmaggnato».
Lo porto all’osteria: lui maggna: io pago:
l’oste sparecchia; e ddoppo sparecchiato
er mago pijja un cane llí accucciato
4
e jje lega la coda co uno spago.
Io fo un ambo: tre er cane, e ccoda ar nove.
Ebbè, azzécchesce
5
un po’? ppe pprim’astratto
6
viè ffora com’un razzo er trentanove.
Ma eh? ppoteva dàmmelo ppiú cchiaro?
Nun l’avería
7
capito puro
8
un gatto?
L’avevo da legà, pporco-somaro!
26 febbraio 1837
1
Mi sono.
2
Sabato.
3
In ogni sabato e domenica di agosto si allaga artificialmente la Piazza Navona.
4
Cucciato.
5
Azzeccaci: indovinaci.
6
Estratto.
7
L’avrebbe.
8
Pure.
1904. Li gatti dell’appiggionante
Ma ddavero davero, eh sora Nina,
1
nun volemo finìlla co sti gatti?
Jerzera me sfassciorno quattro piatti:
oggi m’hanno scocciato una terrina.
2
Uno me te
3
dà addosso a la gallina:
l’antro
4
me
5
sporca li letti arifatti...
E oggnisempre bbisoggna che commatti
6
a ccaccialli a scopate da cuscina.
7
Ecco, er pupo
8
oggi ha er gruggno sgraffiggnato.
9
E pperché ho da soffrí ttutti sti guasti?
P’er vostro luscernario
10
spalancato?
Quanno le cose sò ddette una, dua,
tre e cquattro vorte, me pare c’abbasti.
Lei se tienghi
11
li gatti a ccasa sua.
27 febbraio 1837
1
Caterina.
2
Zuppiera.
3
Mi ti.
4
L’altro.
5
Mi.
6
Che io combatta: che mi affanni.
7
Cucina.
8
Il bambino.
9
Graffiato.
10
Abbaino.
11
Si tenga.
1905. La nipote pizzuta
1
Ma ssentitela llí cquela mmerdosa
2
si
3
ccome sce protenne
4
e ffa la donna!
È un baiocco, pe ddio!, tra ccascio e ffronna,
5
e vvò mmette er zu’ bbecco
6
in oggni cosa.
Ce parte
7
cor parlà de fasse sposa...
8
Dà ssu la vosce a la madre, a la nonna...
Sputa sentenze... E indove se la fonna
tanta cacca
9
e arbaggia sta mocciolosa?
E nun zerve co mmé cche vve vortate
tutt’impipirizzita
10
e bbarbottanno,
ch’io, bbe’ cche
11
zzia, ve pijjo a sculacciate.
Che ne so! ssi vve fussivo mai creso...
12
A vvoi ve tocca de discorre quanno
pissceno le galline:
13
avet’inteso?
1° marzo 1837
1
Ardita.
2
Personcina di pochissima età e di niun conto.
3
Se.
4
Ci pretende.
5
Tra cacio e fronda.
6
E vuol mettere il suo
becco: vuole interloquire.
7
Si avanza, si fa lecito.
8
Di farsi sposa: colla o chiusa.
9
Vanità.
10
Tutta viva di stizza.
11
Benché.
12
Se vi foste mai creduto.
13
Modo proverbiale.
1906. Er marito pascioccone
1
Sí mme vò
2
bbene?! povero Cammillo!
Quell’omo io je potrebbe sfraggne l’ova
in faccia. A mmé nun me sta bbene a ddíllo,
ma un marito ppiú bbono nun ze trova.
In zett’anni che ll’ho, mmai uno strillo!
mai un tíret’-in-là! ’Ggni cosa nova
ch’essce a Rroma è ppe mmé: cqualunque grillo
me viè, llui me lo leva, o cce se
3
prova.
La sera poi ch’è stracco, poveretto,
pe ffàmme
4
divertí, ffesta o nnun festa
me conzeggna ar compare, e llui va a lletto.
E ppe cquesto, ecco llí, ssora Vincenza,
j’arïessce oggni affare che ttiè in testa,
e ’r Ziggnore je dà la providenza.
5
2 marzo 1837
1
Uomo di pasta eccellente, trattabilissimo.
2
Se mi vuole.
3
Ci si.
4
Per farmi.
5
Vedi il sonetto seguente.
1907. Er zor Cammillo
1
E bbene, e bbene: e ddàjjela
2
cor bene.
Io nun dico de nò, pe ddio de leggno!
ma jje ne vojjo inzin’a un certo seggno,
e sserro l’occhi
3
pe nun fà ppiú sscene.
Doppo ch’Iddio lo sa ssi
4
cquante pene
me pijjo sempre pe sto bbell’ordeggno:
5
doppo che llei pò ddí
6
ccome m’ingeggno
pe mmantenejje
7
le budelle piene,
nun passa ggiorno senza quarche vvojja,
come le piastre io le zzappassi a ssome.
Ah! ll’omo è un gran cardeo
8
quanno s’ammojja.
Oggi madama vò ir caffè cor latte!
Io, sciorcinato
9
stò a cquadrini come
sant’Onofrio a ccarzoni, e llei ce bbatte.
10
14 marzo 1837
1
Vedi il precedente.
2
E dagliela, cioè: «e ttorna» sempre sullo stesso proposito.
3
Dissímulo.
4
Se.
5
Ordigno per
«suggetto».
6
Può dire.
7
Per mantenerle.
8
Imbecille.
9
Tapino.
10
Batter di cassa, o semplicemente battere, batterci,
vale: arrogarsi petulantemente la ragione avendo il torto.
1908. Er compositore de la stamparia
Grazzie, n’avemo trenta, è er fin der mese:
lo so, ssí,
1
è er giorno c’ha da usscí er giornale.
E ssi nun essce? è ppeccato mortale?
fina er monno? subbisseno le cchiese?
Sí vve
2
state a pijjà ttutte ste sscese
de capo,
3
finirete a lo spedale.
Un giorno ppiú, uno meno, è ppoco male.
Tutte-quante le smanie a sto paese!
Mica è ppoi pane: mica è ggran
4
che ccasca.
Oggi o ddomani nun fa ppreggiudizzio:
nun zò
5
ccose che ppassino bburrasca.
Er giornale se lega
6
ar fin dell’anno:
dunque... Ebbè, ss’oggi vengheno a l’uffizzio
lassateli vení: cce torneranno.
3 marzo 1837
1
Se.
2
Se vi.
3
Affanni, pensieri, sollecitudini.
4
Grano. In questa frase il popolo usa veramente l’apocope da noi
adoperata. In generale ripeteremo che tutto quanto si legge ne’ versi del 996 è della schietta prosa de’ Romaneschi.
5
Non sono.
6
Si lega.
1909. El cappellaro
«È in ordine, sí o nò, questo cappello?»
«Quale?» «Il cappello bianco». «Ah, ssissiggnora.
1
Checco,
2
venite cqua: ccacciate fora
quel tutto-lepre. Nò cquesto... nò cquello...».
«Orsú, non dite piú bugie, fratello...».
«Via, dunque, el zu’ cappello se lavora».
«Vediamolo». «L’ha in mano l’orlatora».
«Mandateci». «Eh, el regazzo sta al fornello...».
«Ho capito». «Ma llei sii perzuasa,
sor cavajjere, ch’el cappello è ppronto,
e ddomatina je lo manno a ccasa».
«Lo stesso mi diceste l’altra festa».
«Lei nun ce penzi ppiú: llei facci conto
com’el cappello ggià ll’avessi
3
in testa».
4 marzo 1837
1
Sì signore. Il popolo l’usa sempre in femminino.
2
Francesco.
3
L’avesse.
1910. L’imbiancatore
Doppo che jje finii l’imbiancatura
ar mezzanino, ar terzo piano e ar quarto,
quel’assassino da mazzola e squarto
me negò ttutto in faccia; e mmó lo ggiura.
Che vvòi!
1
me sce pijjai ’n’arrabbiatura
che, avessi visto, sartavo tant’arto.
Poi me sò
2
ddato pasce; e ssi cce scarto
3
è affetto de l’abbile che mme dura.
Un mijjonario! un bizzoco! un marchese!
un nipote e ffratel de cardinale!
Accidenti che rrazza de paese!
Quanno servi le ggente duzzinale
nun te fanno improntà mmanco le spese;
e un nobbile lo sciti e nnun te vale.
4 marzo 1837
1
Vuoi.
2
Mi sono.
3
Se ci prorompo in ira: se do in escandescenze.
1911. La pavura
S’abbuscò una pavura, una pavura,
che vvenne a ccasa com’un spiritato.
Pareva, a vvédelo, un panno lavato,
un morto esscito da la sepportura.
Io fesce
1
quann’entrò: «Cche ccos’è stato?
che vv’è ssuccesso, sor Bonaventura?
Nun è ggnente:
2
mannateve
3
addrittura
sto vino ggiú ccor carbone smorzato».
Ve sce fòssivo trova,
4
sor’Irene!
Sudava freddo: nun j’era arimasta
’na gòcciola de sangue in ne le vene.
Eh? un omo accusí ttenero de pasta
sentí
5
strilli e rrumori de catene!...
Eppoi disce uno er zangue je se guasta!
4 marzo 1837
1
Feci per dissi.
2
Niente.
3
Mandatevi.
4
Vi ci foste trovata.
5
Sentire.
1912. Le piggionante sussurrone
«Dico, ditem’un po’, ssora commare,
ch’è ssuccesso cquassú? ffate la ggiostra?»
«Sora minchiona, stamo a ccasa nostra
e vvolémo zzompà
1
cquanto sce pare».
«Ma inzomma cqui da noi pe ccausa vostra
viè ggiú er zolaro». «Povere somare!,
ji fa mmale ir rimore!»
2
. «E ste caggnare,
dico, in che ddànno,
3
sora bbrutta mostra?»
4
«Drento a sti muri cqui ssemo padrone
de stà alegre e ggodé ccome sciaggarba.
5
Pagàmo, casomai, bbona piggione».
«Bbe’, bbe’, ddomani ve farà la lègge
er Presidente...».
6
«E cce darà de bbarba.
Uggnuno ha er zanto suo che lo protegge».
7
4 marzo 1837
1
Saltare.
2
Affettato civilismo di discorso in modo di sarcasmo. Ji fa mmale ir rimore. Altrimenti avrebbe detto Je fa
mmale er rumore, o anche er rimore.
3
Dànno, dal verbo dare: «cosa significano queste cagnare?».
4
Femminino di
mostro.
5
Ci aggarba.
6
Presidente di polizia del rione.
7
Modo proverbiale.
1913. La cuscína de sotto
«Sor’Antonia, ch’edè
1
ttutto sto fume?»
«Gnente, sor’Anna: còscio
2
le bbrasciole».
«Guardate cqui! nnun ce se vede lume!
v’acceca!, ve fa ppiaggne!, appanna er zole!».
«E vvoi serrate». «Che bbelle parole!
Come, si le finestre sò un sfassciume?
Eppoi nun viè da le finestre sole:
puramente er zolaro è un frascicume».
«E vvoi dunque incollatesce la carta».
«Starebbe fresca! Eh allora...». «Ôh, allora, allora
nun me seccate e annateve a ffà squarta.
Ciamancherebbe mó ppuro er ritosto,
3
c’adesso pe ddà ggusto a la siggnora
nun ze potessi
4
mmanco l’arrosto!».
5 marzo 1837
1
Che è?
2
Còscio: cioè còcio, per io «cuoccio» o «cuoco».
3
Ci mancherebbe mo pur questo di giunta, ecc.
4
Non si
potesse fare.
1914. Un gran guaio grosso
Ma cche! er zor don Taddeo nun je l’ha scritta
la disgrazzia der fijjo der padrone?!
No, nno cquello ammojjato: er ziggnor Titta
1
che ttir’avanti pe l’avocazzione.
2
Eh, una sera c’aggnede
3
su in zuffitta
a ccercà la padella der focone,
cascò ppe la scaletta a ttommolone
4
e sse róppe
5
er carcaggno de man dritta.
6
Inzomma, a ffàlla curta, infiamma infiamma,
in cap’a un mese, nun ce furno santi,
7
bisoggnò vvení ar tajjo de la gamma.
Che jje ne pare, eh? ppovero fijjolo?
C’è er vantaggio però cche dda cqui avanti
farà la spesa d’un stivale solo.
4 marzo 1837
1
Giambattista.
2
Per l’avvocatura.
3
Che andò.
4
Dal verbo tombolare.
5
Si ruppe.
6
Il calcagno destro.
7
Non ci fu
rimedio.
1915. Er padrone bbon’anima
È ito in paradiso. Morze
1
jjeri,
povero galantomo, in d’un assarto
d’àsima
2
a ttredisciora
3
men’un quarto
quann’io stavo ssciacquanno li bbicchieri.
Tutto pe ccausa de st’infame apparto
de li letti da dà
4
a li granattieri.
Eh, sposa
5
mia, sò
6
stati li penzieri,
che ffanno peggio de mazzola e squarto.
Nun c’è rrimedio,
7
lui, fin dar momento
che pprincipiò a rrimette
8
de saccoccia
parze
9
un pezzo de lardo a ffoco lento.
S’era arrivato a strugge
10
a ggoccia a ggoccia
che in ne li panni sce bballava drento
come una nosce
11
secca in ne la coccia.
12
4 marzo 1837
1
Morì.
2
D’asma.
3
A tredici ore.
4
Da dare.
5
Pronunziata colla o chiusa.
6
Sono.
7
Non v’è replica: è certo.
8
A rimettere.
9
Parve.
10
Struggere.
11
Noce.
12
Nel guscio.
1916. L’erede
Me dimannate er padroncino mio
che vvita fa da quanno è rricco-maggna?
1
Spenne e spanne a la sceca,
2
e arisparaggna
3
su le limosine e ’r zalario mio.
Er giorn’istesso che jje morze
4
er zio
e pprincipppe llui quela cuccaggna,
attaccò un leggno e sse n’annò in campaggna,
lassanno er morto ne le man de Ddio.
Passata poi ’na sittimana o ddua
tornò a Rroma cor velo sur cappello.
Ma cche ppiaggneva? l’animaccia sua?
Sai dove sò
5
le lagrime? in scurtura
scritte sin che ne vòi
6
co lo scarpello
sopr’er cuperchio de la sepportura.
4 marzo 1837
1
Riccone.
2
Spende e spande a la cieca.
3
Risparmia.
4
Gli morì.
5
Sono.
6
Vuoi.
1917. Er deposito p’er padre
’Na lastra de Carrara,
1
lavorata,
de sei parmi
2
su cquattro, e ttutta un pezzo.
’Na fasscia de sbardijjo
3
impomisciata
longa de ventisei, larga un’e mmezzo.
Duscento lettre e ’na crosce staccata
for der pitaffio, co ’na riga immezzo,
arte du’ onc’e mmezza avantaggiata,
a ttre bbajocchi l’una, urtimo prezzo.
Nove scudi la tavola de marmo:
sei le lettre e la crosce; e lo sbardijjo
quínisci e mmezzo, a ssei pavoli er parmo.
4
ttrenta scudi e ccinquanta bbajocchi.
Ecco la spesa c’ha impiegata er fijjo
pe assciugasse
5
le lagrime dall’occhi.
5 marzo 1837
1
Di marmo bianco di Carrara.
2
Palmi.
3
Bardiglio.
4
Sono.
5
Per asciugarsi.
1918. La frebbe maggnarella
1
Quer che ssia l’appitito, a Ssarafino
sta’ ccerta ch’er maggnà nnun j’arincressce.
Jerzera se sparí
2
un piatton de pessce
che ssarebbe abbastato pe un burrino.
Lui men de tre ppaggnotte nun ze n’essce;
e lo vedessi come trinca er vino!
Naturale: ha ddu’ spalle da facchino...
È er zu’ tempo: se sa, ccarne che ccressce.
Va’ dd’un cosscetto
3
cosa sc’è arimasto!
Che cce volemo fà? llassa che mmaggni.
Nun ze pò ttrattené: ppropio è de pasto.
Li fijji de salute è ttempo perzo
4
er dijje abbasta:
5
6
ttutti compaggni.
Nun farebbeno ar monno antro
7
c’un verzo.
6 marzo 1837
1
Dicesi di chi mangia molto e spesso aver lui la febbre mangiarella.
2
Si sparì: si divorò: fece sparire.
3
La coscia di un
capretto o agnello.
4
Perduto.
5
Il dirgli (dir loro) basta.
6
Sono.
7
Altro.
1919. La cunculina
1
rotta
Uhm, chi l’ha vvista mai la cunculina?
Chi ne sa ’na patacca
2
de sto fatto?
Io nu l’ho rrotta: sarà stato er gatto;
oppuramente
3
er vento, o la gallina.
Io?! ma llei dichi a Ggaspero ch’è mmatto,
perch’io sò stata tutta la matina
sempr’in funtana pe la siggnorina,
e in ner redrè
4
nun ce sò
5
entrata affatto.
E cche ne so cchi ll’ha rriappiccicata?
Sí, ppe ssciacquà ll’ho ssciacquat’io ll’ho, ma er coco
è un busciardaccio a ddí ch’io l’ho sfassciata.
Se sbajja
6
lui: prima d’annà in funtana,
ce posso mette la mano sur foco,
che ss’era sana l’ho llassata
7
sana.
6 marzo 1837
1
Concolina, catinella.
2
Chi ne sa una bocciata?
3
Oppure.
4
Nel retrait.
5
Non ci sono.
6
Si sbaglia, sbaglia.
7
Lasciata.
1920. Er conto de le posate
Eccole tutte cqui nne la sarvietta
come l’ho ttrove.
1
Io doppo sparecchiato
c’ho aripassato er conto, ho aripassato,
ciamancava
2
un cucchiaro e una forchetta.
E llei crede a Lluscía? Si sta sciovetta
bbutta la bbroda
3
addoss’a mmé ha sbajjato.
Ma ggneente:
4
io nun capisco; io nun zò
5
stato,
e nnun vojjo abbozzacce
6
una saetta.
7
Sta faccenna sarà ccome sto lujjo
che ssuccesse l’affare der grisolito
der padrone, e cce fu cquer battibbujjo.
8
De quello puro
9
ggià sta bbona pezza
10
dava la colpa
11
a mmé ssiconn’er zolito,
eppoi s’aritrovò ffra la monnezza.
12
6 marzo 1837
1
Trovate.
2
Ci mancava.
3
Getta la colpa.
4
Niente. Vi si son poste due e onde insinuare il modo della pronunzia, che in
questa occasione deve prolungare la e quasi fosse doppia.
5
Non sono.
6
Non voglio abbozzarci, cioè: «tacermivi,
tollerare».
7
Affatto, per nulla.
8
Altercazione clamorosa.
9
Pure.
10
Cattivo suggetto.
11
Colpa.
12
Immondezza.
1921. Er bicchieraro a la Ritonna
1
Lei vedi
2
sto bbicchiere si jje piasce.
Quanto vò ddà?!
3
Un carlino?! eh, nun c’è mmale.
Questo a bbuttallo sta un papetto, e vvale
cinque bbelli lustrini a la fornasce.
Eppuro s’avería da fà ccapasce
4
ch’è un bicchiere che ppare un urinale.
Eppoi sto vetro cqua, ssor principale,
nun je crepa nemmanco in ne la bbrasce.
Quell’omo mio, p’er costo d’un carlino,
lei pò ppuro
5
provà dda li todeschi,
nun ce pijja un bicchier da mezzo vino.
Un carlino! eh, ffarebbe
6
un ber
7
negozzio.
Co sti guadaggni staressimo freschi!
È mmejjo d’annà a spasso e de stà in ozzio.
6 marzo 1837
1
Piazza della Rotonda.
2
Veda.
3
Vuol dare.
4
Eppure si avrebbe da capacitare.
5
Può pure.
6
Farei.
7
Bel.
1922. La disputa ar caffè
Sere addietro, ar caffè, ddisse un paino
1
pien de peli ar barbozzo: «Er Re de Francia,
disce, ha abbuscato una gran brutta mancia
a rubbasse
2
lo sscetro a ssu’ cuggino».
«Come?!», arispose un vecchio cor cudino:
3
«Iddio j’ha mmess’in mano la bbilancia
d’Uropa,
4
e llui farà apparà
5
la guancia
a cchiunque in ner monno è ggiacubbino».
L’antro j’annava
6
a rrepricà de core;
ma er vecchio furbo je serrò la bbocca
discenno: «Er Re de Francia è un Zarvatore».
7
Allora er giuvenotto arzò la vosce:
«È vvero», disce; «e ppe cquesto je tocca
la corona de spine eppoi la crosce».
11 marzo 1837
1
Paino è «chiunque vesta con fogge non plebee».
2
A rubarsi.
3
Codino: coda di capelli.
4
Europa.
5
Parare.
6
Gli andava.
7
Salvatore.
1923. Er fijjo d’oro
Che ttalento de fijjo! Uh bbenedetto!
Je spunteno le grazzie co li denti.
C’è la commare che nn’ha ffatti venti
e cce ggiura ch’è un angelo, un folletto.
Eccolo, ancora me s’attacca ar petto,
sí e nnò vva ssolo, e ggià ddisce accidenti.
Ha ttrenta mesi a mmaggio, e, ssi
1
lo senti,
bbiastima,
2
fijjo mio, com’un ometto.
Lui pe strada ’ggni bbrécciola
3
che ttrova
nun pò ttiralla ché jj’amanca er fiato,
ma bbisoggna vedé ccome sce prova.
Si ttanto me dà ttanto
4
appena nato,
da granne ha da vení ’na cosa nova:
ha da dà rresto
5
a ttutto er viscinato.
11 marzo 1837
1
Se.
2
Bestemmia.
3
Breccia, per «sassolino, pietruzza».
4
Giustissima regola del tre.
5
Ha da dar brighe.
1924. La correzzion de li fijji
Tiè,
1
ccane; tiè, ccaroggna; tiè, assassino:
tiè, ppijja sú, animaccia d’impiccato.
Nò, ffío
2
d’un porco, nun te làsso inzino
che cco ste mane mie nun t’ho stroppiato.
E zzitto, zzitto llí, cche ssi’ ammazzato:
quietete, o tte do er resto der carlino.
Ah nnun t’abbasta? A tté, strilla caino
dunque pe cqueste sin che tt’essce er fiato.
E vvoi cosa sc’entrate, sor cazzaccio?
Je sete padre? Questo è ssangue mio,
è mmi’ fijjo, e sso ío quer che mme
3
faccio.
Quanto va cche l’acchiappo
4
pe le zzampe
e vve lo sbatto in faccia? Oh a vvoi, per dio!,
avemo messo er correttor de stampe!
11 marzo 1837
1
Tieni.
2
Figlio, pronunziato in una sola sillaba.
3
Mi.
4
Lo afferro.
1925. Le truppe de Roma
Che rrabbia è de sen sti forestieri
de tremmonti,
1
che, ssenz’èsse
2
romani,
arriven’oggi ar Popolo,
3
e ddomani
ne sanno ppiú de li romani veri.
Vedi, dua de sti bbrutti sciarlatani
pe la ppiú ccurta l’ho ssentiti jjeri
4
mmale de li nostri bberzajjeri,
5
civichi, capotori
6
e zzampoggnani.
7
Disce: «Futtre! aver nixe dissciprina».
Nun ze chiama uprí bbocca e ddajje fiato
er parlà a sta maggnera,
8
eh Caterina?
S’informino, canajja sscemunita.
La dissciprina cqui ’ggni bbon zordato
9
va a ddàssela
10
’ggni sera ar Caravita.
11
11 marzo 1837
1
D’oltremonti.
2
Senza essere.
3
La porta del popolo, per cui si entra in Roma dal nord.
4
Dire.
5
Bersaglieri, specie di
birri un po’ inciviliti.
6
Capitori, truppa capitolina, composta di artieri di Roma.
7
Zamboniani, del reggimento
Zamboni.
8
A questa maniera.
9
Soldato.
10
Darsela.
11
Oratorio notturno.
1926. L’amiche d’una vorta
Quant’è cche nun ce sémo ppiú vvedute?
Sicúro che ssarà cquarc’anno e anno!
Le cose de sto monno, eh? ccome vanno!
Ciaritrovamo
1
tutt’e ddua canute.
C’alegrione c’avemo godute!
Ma! ll’anni, fijja, passeno volanno.
Io? nun c’è mmale, nò. Chi? Ffiordinanno?
2
Sí, ppe ggrazzia de Ddio, venne
3
salute.
Nanna? s’è ffatta monica; e la storta
ha ppijjato marito. Chi? la madre?
Nu lo sapévio?
4
poverella! è mmorta.
Nòo, nnun ciàbbita
5
ppiú Ttitta
6
cqui accosto:
è ito in Borgo. Dite: e vvostro padre?
Campa?! Oh gguardate si
7
cche vvecchio tosto!
12 marzo 1837
1
Ci ritroviamo.
2
Ferdinando.
3
Vende.
4
Non lo sapevate?
5
Non ci abita.
6
Giambattista.
7
Se.
1927. Li connimenti
1
Sí, è bbona la cuscina
2
co lo strutto;
anzi lo strutto er barbiere m’ha ddetto
ch’è un connimento che ffa bbene ar petto
come fa er pepe c’arifresca tutto.
S’addatta a li grostini cor presciutto...
ar pollame..., a l’arrosto de lommetto...
3
a lo stufato..., all’ummido..., ar guazzetto...;
ma addoprallo in ner fritto è un uso bbrutto.
Vòi frigge
4
er pessce co lo strutto?! Eh zzitto.
Er pessce-fritto in nell’òjjo va ccotto:
l’òjjo è la morte sua p’er pessce-fritto.
Che mmaggnà da stroppiati!
5
io ne sò mmatto.
E gguarda er Papa, che davero è jjotto:
6
ce se lecca li bbaffi com’un gatto.
12 marzo 1837
1
Condimenti.
2
Cucina.
3
Lombetto: taglio di carne dalla parte lombare de’ piccoli quadrupedi.
4
Vuoi friggere, ecc.
5
Che mangiare delizioso!
6
Ghiotto.
1928. Er mal de petto
Ggnente,
1
coraggio, sor Andrea. Si
2
è mmale
d’arifreddore, se
3
pijja una rapa,
se cosce
4
su la bbrascia,
5
poi se capa,
e sse maggna a ddiggiuno senza sale.
Le rape, sor Andrea, sò ppettorale.
6
E bbe’ cche
7
ppare una materia ssciapa
pijja un dorcetto ch’è un maggnà da Papa,
e vve libbera poi da lo spezziale.
Ecco llí la tintora: ebbe una tossa,
màa! ddite puro
8
de quelle maliggne,
inzino a ffà la sputarola rossa.
Ebbè, er medico a ffuria de sanguiggne
e io de rape, co ttutta sta sbìossa
9
la tiràssimo
10
fòra; e mmó aritiggne.
11
13 marzo 1837
1
Niente.
2
Se.
3
Si.
4
Cuoce.
5
Brace, bragia.
6
Sono pettorali.
7
Benché.
8
Pure.
9
Mal grado di tanta furia di morbo.
10
Tirammo.
11
Ritinge.
1929. La mojje dell’ammalato
Sta mmale, male, male; e ssi la caccia
1
pò attaccà er voto. È un pezzo: è da st’istate,
che
2
sse
3
pijjò un’infirza de scarmate
4
pe cquer mazzato vizzio de la caccia.
Strilla c’ha ne le gamme e nne le bbraccia
tutte le cungiunture addolorate.
E a mmé mme tocca a ffajje
5
le nottate,
che tte ggiuro, Maria, ch’è una vitaccia.
Eh, ccosa disce er medico? Quer torzo
disce ch’è rromatísimo: ecco tutto;
e cche l’ammalatia vò ffà er zu’ corzo.
Sempr’accusí: ’na minestrina e un frutto.
Pe ddajje
6
forza io poi sciaggionto
7
un zorzo
d’acquavita o un tantin de vin assciutto.
14 marzo 1837
1
Se la cava.
2
Quando.
3
Si.
4
Una serie di riscaldazioni.
5
Fargli.
6
Dargli.
7
Ci aggiungo.
1930. La visita all’ammalato
Come stai oggi, Meo?
1
Peggio? E de fianco
pòi vortattesce?
2
Nòo? Ddrent’ar bucale
ciài
3
acqua? Bbe’. E tt’assisteno sto bbranco
de serventacci cqui dde lo spedale?
Meo, tiè
4
sto maritozzo.
5
Eh? ccom’è bbianco!
Niscónnetelo
6
sott’ar capezzale.
Te lo maggni a mmarenna.
7
Aú,
8
nemmanco
fussi veleno te farebbe male.
Meo, fídete de mé: nnun te fa ggnente.
Nun vedi, Meo, si
9
cche ppasta liggèra?
Si’ scerto, Meo, che nun te tocca un dente.
Ah bbisoggna che vvadi,
10
c’oramai
se fa ttardi e mm’aspetta la drughiera.
11
Oh addio, Meo mio: ciarivedemo,
12
sai?
15 marzo 1837
1
Bartolomeo.
2
Voltartici.
3
Ci hai.
4
Tieni.
5
Specie di pane condito con olio, zucchero, anaci, ecc., prima di cuocerlo.
6
Nasconditelo.
7
Merenda.
8
Interiezione negativa.
9
Se, particella di ripieno.
10
Che io vada.
11
Droghiera.
12
Ci rivediamo.
1931. La toletta de la padrona
Li congressi de lei co Ppetronilla
1
ppropio un ride
2
da slocasse
3
l’ossa.
Ce vò
4
ppiú arte pe appuntà una spilla
che ppe rregge li bbarberi a la smossa.
5
E ffa ttrippa,
6
e sbrillenta,
7
e nun attilla,
8
e strozza,
9
e ffa bboccaccia, e cc’è ’na fossa...
Er color verde sbatte,
10
er giallo strilla,
11
er rosso? è ttroppo chiasso: er bianco? ingrossa...
Eppoi, ggira e rriggira, se finissce
co l’andriè
12
nnero, o de lana o de seta,
perché er nero, se sa, ddona
13
e smagrissce.
Smagrissce? Uhm, parerà in un tippe-tappe,
14
ma ttu vva’ ccor passetto a mmente quieta,
e ssi ssò
15
cchiappe trovi sempre chiappe.
26 marzo 1837
1
Sono.
2
Ridere.
3
Slogarsi.
4
Ci vuole.
5
Mossa.
6
Rigonfia.
7
Cede, si rilascia.
8
Non aderisce alla persona.
9
Stringe.
10
Mortifica il natural colore delle carni.
11
Disarmonizza con offesa dell’occhio.
12
Si finisce coll’andrienne.
13
Favorisce
il color della pelle.
14
In un momento di confusione.
15
Se sono.
1932. Li cavajjeri de la fame
1
Bisoggna ch’er zor Papa e sti bbuffoni
der zu’ Sagro Colleggio de somari
oggiggiorno nun abbino antri
2
affari
che de venicce
3
a rróppe
4
li cojjoni.
Nu l’hai inteso, eh?, l’editto a li Chiavari
5
su la pracca
6
da dàsse
7
a l’accattoni?
Che ssemo diventati? postijjoni?
sbirri, guardiecampestre, mannatari?!
8
E pperché nu la metteno sta pracca
in petto a ttante nuvole de frati
che pponno questuvà ssenza patacca?
E pperché sto bber
9
mobbile moderno
nun z’apprica
10
a li ladri appatentati
che sgrasseno
11
pe cconto der Governo?
10 aprile 1837
1
Cioè i poveri autorizzati alla questua mercé la decorazione di una placca ellittica di ottone da portarsi in petto, sulla
quale è improntata la leggenda di questuante in Roma. Ma poi questuano anche i non decorati, come in Roma deve
accadere.
2
Altri.
3
Venirci.
4
Rompere.
5
Contrada di Roma.
6
Placca.
7
Darsi.
8
Inservienti delle confraternite, detti
mandatari.
9
Bel.
10
Si applica.
11
Verbo derivato da grassatore o grassazione.
1933. Er civico de corata
1
Stamo
2
immezz’a ’na macchia, Caterina,
e nnò in d’una scittà ddrent’a le mura.
T’abbasti a ddí cc’a Ssan Bonaventura
me sciassartonno
3
a mmé jjer’a mmatina.
Pavura io?! de che! Ppe cristallina!
Un omo solo m’ha da fà ppavura?
M’aveva da pij senza muntura
lui, e ppoi ne volevo una duzzina.
Quanno me venne pe investí, mme venne,
io pe la rabbia me sce fesce
4
rosso;
ma ccosa vòi!,
5
nun me potei difenne.
6
E archibbuscio, e ssciabbola, e bbainetta!...
Co sta bbattajjeria
7
d’impicci addosso,
com’avevo da fà, ssi’
8
bbenedetta?
25 aprile 1837
1
Coraggioso.
2
Stiamo.
3
Mi ci assaltarono.
4
Mi ci feci.
5
Vuoi.
6
Difendere.
7
Con questa batteria, quantità.
8
Che tu sia,
ecc.
1934. Er tumurto de Terrascina
Disce che ppe la fame a Tterrascina
avenno fatto un po’ de ribbejjone,
er Vescovo j’ha ddato le missione
predicanno diggiuno e ddissciprina.
E, ffra ll’antre,
1
una sera a la marina
un de li missionari, er piú vvorpone,
calatose li panni dar groppone,
2
se cominciò a ssonà cquarche ppappina.
3
«Lassateme», strillava a un maniscarco,
ch’era zzompato a ddisarmajje er braccio:
«vojjo morí ppe vvoi, cqui, ssu sto parco».
«No, ppadre, abbasta», risponneva quello,
che ppe ffajje la parte der pajjaccio
j’aveveno ariempito er caratello.
9 maggio 1837
1
Fra le altre.
2
Schiena.
3
Si cominciò a dare qualche colpo (di disciplina).
1935. Er viatico de l’antra notte
Notte addietro, ar quartier de la Reale
de San Pietro, le scento sintinelle
strillòrno all’arme!, e a lo strillà de quelle
er tammurro bbatté la ggenerale.
Pènzete
1
er Papa! Bbutta l’urinale,
e in camíscia e ssì e nnò cco le sciafrelle
2
va a li vetri; e cche vvede, Raffaelle?
Passà immezz’a ddu’ torce er Prencipale.
Cor naso mezzo drento e mmezzo fora,
che ttanto inzin’a cqui llui sce s’arrischia,
fa
3
allora: «Eh bbuggiarà!, ppropio a cquest’ora!».
Povero frate! è ttanto scacarcione
4
che ssi
5
una rondinella passa e ffischia
la pijja pe ’na palla de cannone.
21 maggio 1837
1
Pensati.
2
Ciafrelle: pianelle.
3
Dice.
4
Pusillanime.
5
Se.
1936. La priscissione a Ssan Pietro
E immezzo ar buggerio
1
de Bborgo-Novo,
che ttutta la marmajja de l’urione
2
je s’affollava intorno ar carrozzone
strillanno: «Pane, o vve scannamo ar covo»,
credi ch’er Papa pòzzi avecce trovo
3
gusto d’annà ddimani in priscissione?
«Corpusdommine o nnò», ddisse Nasone,
4
«pe st’anno io me ne frego,
5
e nnun me movo».
Disce: «Er guaio è c’ho mmesso le collètte
contro l’acqua che bbuggera
6
er paese.
Ah! er core me disceva: nu le mette.
7
Bbasta», disce, «Iddio vede er mi’ spavento,
e ffarà ddiluvià mmezz’antro mese
pe mmannamme
8
una scusa de stà ddrento».
9
24 maggio 1837
1
Tumulto.
2
Rione.
3
Possa averci trovato.
4
Sua Santità.
5
Me ne rido: non voglio saperne.
6
Devasta, rovina.
7
Non le
mettere.
8
Mandarmi.
9
Di star dentro. L’atmosfera però fu serena; e mancato così al Pontefice quell’onesto
disimpegno, andò egli borbottando in processione mentre faceva dispensare pane gratis al Colosseo. Vedi il sonetto
intitolato Una cosa chiama l’antra.
1937. La caristía der 37
Sonetti 2
Bbe’, cc’è la caristía; ma indov’è un fatto
da poté ddí cch’er Papa nun ce penza?
Dimani ar Culiseo
1
fa la dispenza
de pane auffa,
2
e lo sa ppuro
3
er gatto.
Venardí ppubbricò ’n’antra Eminenza
de Santa Cchiesa, e ffu mmonziggnor Matto
de San Filippo.
4
Cresscé
5
ddunque un piatto;
6
e cquesto uggnuno lo pò ddí in cusscenza.
Conzidera de ppiú li don Miccheli
e li don Carli
7
ch’er zant’omo ajjuta
da bbon padre de tutti li fedeli:
pe cconossce
8
la tela da ste mostre
nun c’è bbisoggno de gran mente astuta,
perché ttutto se
9
paga a spese nostre.
24 maggio 1837
1
Al Colosseo.
2
Aufo, gratis. Nel giorno del Corpus Domini, 25 maggio 1837. Fu creduto e detto dai maligni che
quella dispensa di pane in tal giorno tendesse ad allontanare dalla processione del Vaticano il basso popolo, del quale
attualmente il Papa diffida forse altrettanto che de’ liberali, perché chiede pane e si ammutina con molta facilità.
3
Pure.
4
Monsignor Luigi Amat di San Filippo, sardo di Cagliari, creato cardinale nel concistoro di venerdí 19 maggio
1837.
5
Accrebbe.
6
Nome dell’assegnamento cardinalizio di scudi 4500 annui.
7
Don Michele di Braganza e don Carlo
di Borbone.
8
Per conoscere, distinguere.
9
Si.
1938. La caristía der 37
Sempre accidenti
1
ar Papa! sempre inzurti!
2
Eh zzitti, zzitti: che ddiavol’avete!
Aspettate er bon tempo e mmaggnerete.
Li mesi nun ze sa cquanto sò ccurti?
3
Nu lo sentite cos’ha ddetto er prete?
«Arispettate li ggiudizzi occurti
de Ddio, fijjoli; e nun fate tumurti,
si vve lassa morí de fame e ssete».
4
Però, er prete ha rraggione verbo fame;
ma, cquer che ssia la sete, sta minestra
la poteva lassà ddrento ar tigame.
5
Me pare a mmé ’na gran parola ssciocca,
quanno se pò vvedé
6
da la finestra
c’oggni minuto ne vié ggiú una bbrocca.
7
24 maggio 1837
1
Imprecazioni di accidenti.
2
Insulti.
3
Non si sa quanto son corti?
4
Se vi lascia ecc. Si allude a certe minacce
dell’editto di penitenza pubblicato in maggio 1837 dal Cardinal Vicario. Appoggiansi esse a un bel passo del
Deuteronomio (cap. XXVIII), cioè: «Eo quod non servieris Domino Deo tuo in gaudio cordisque laetitia propter rerum
omnium abundantiam, servies inimico tuo quem immittet tibi Dominus, in fame, et siti, et nuditate, et omni penuria: et
ponet iugum ferreum super cervicem tuam, donec te conterat». Sono da vedersi in tutto il codice del Deuteronomio
molte altre eleganti formule di maledizione.
5
Cioè: «questo proposito poteva tralasciarlo».
6
Si può vedere.
7
Infatti la
causa della carestia consisteva tutta nelle stemperate piogge della stagione.
1939. Le commediole
Quello der Portogallo, che sse disce
1
re, sta a Rroma a ccredenza, e cciarza
2
trono.
3
Quello de Francia pubbrica er perdono
eppoi strilla: «Ah mmundiú! mmó ssò ffilisce».
4
Quel’antro de li Greghi, ch’è er piú bbono,
se farebbe arros ssu la scinisce
5
p’er zu’ popolo; e intanto nun disdisce
le truppe che Ppapà jje mannò in dono.
6
Lo Spaggnolo dilibbera la Spaggna
a ccannonate;
7
e Ssuarfa romano
8
piaggne er fraggello de la fame e mmaggna.
9
Misúreli accusí ’na quarta rasa
e una corma,
10
per dio!,
11
ssempre un grano;
e ffanno tutti er teatrino in casa.
25 maggio 1837
1
Si dice.
2
Ci alza.
3
Don Michele I di Braganza e Alcantara alzò trono pel baciamano del San Michele 1836. Fu a porte
chiuse, ammessi i soli di lui confidenti, presi fra i più screditati cittadini di Roma e innalzati al grado di ciambellani e
grandi dignitari di corte.
4
Il re Luigi Filippo di Borbone, proclamata per necessità la generale amnistia politica (sotto
alcune riserve fondamentali), abbracciò il suo ministro guarda-sigilli esclamando scenicamente: «Enfin je suis
heureux!».
5
Ciníce : carbone trito o carbone di ramuscelli.
6
Otone di Baviera, re dell’Ellade, ha pel riposo de’ suoi
amatissimi sudditi prorogato clementemente di altri quattro anni il soggiorno de’ reggimenti bavari sul territorio
greco.
7
Don Carlos di Borbone massacra i diletti figli del suo cuore, onde liberarli dalla oppressione del regime
costituzionale sotto le di lui dolci cognata e nipote, Cristina e Isabella.
8
Sualfa: nome d’ironica intelligenza.
9
Si allude
alla carestia prodotta dalle convulsioni atmosferiche di questo anno e del precedente. La Santità di Gregorio XVI non fa
che gemerne pei tipi della R. C. A.
10
Colma.
11
Sono.
1940. La vitaccia de li Sovrani
Semo arrivati a un tempo, sor Giascinto,
che, ppiú o mmeno, sti poveri Sovrani
ce li tratteno peggio de li cani;
e cquarc’onore che jje fanno è ffinto.
Ché ssi nun fussi
1
pe cquer po’ d’istinto
c’hanno de commannà ssu li cristiani,
oppuramente
2
pe rrispetti umani,
ggnisuno
3
in trono ce staría dipinto.
Vive,
4
per cristo, sempre immezz’ar foco!
Io nun vorébbe èsse
5
sovrano, manco
6
me fascessino
7
re, cche nun è ppoco.
Ve pare, cazzo, piccolo cordojjo
quer rispi ccor vassallume accanto,
sempre nimmichi come l’acqua e ll’ojjo?
8
26 maggio 1837
1
Se non fosse.
2
Oppure.
3
Nessuno.
4
Vivere.
5
Non vorrei essere.
6
Neppure se.
7
Mi facessero.
8
Olio.
1941. Er zor Diego acciaccatello
1
È vvero, è vvero, povero sor Diego!
oggi v’ho ttrovo
2
un po’ ammalorcicato.
Ve sete un tantinello ssciapinato:
3
me state mosscio, sì, nnun ve lo nego.
Èrivo
4
un anno fa ttant’inquartato,
5
e mmó pparete un moccolo de sego!
Uhm, ppe mmé ccerti nimmi
6
io nu li spiego,
e nu li spiegherìa
7
manco er curato.
Animo, via, nun ve sce fate bbrutto:
ve mentovo er curato, solamente
perch’è ssolito in chiesa a spiegà ttutto.
Ma gguardatelo llì! nnun ce s’accora?!
Statem’alegro, sú, nnun zarà gnente.
Come disce?
8
In un’ora Iddio lavora.
26 maggio 1837
1
Malsano, tristanzuolo.
2
Trovato.
3
Sciupinato: deperito.
4
Eravate.
5
Robusto membruto.
6
Enimmi.
7
Spiegherebbe.
8
Come si dice? Come dice il proverbio?
1942. La commuggnon
1
de bbeni
Ve s’aricorda a vvoi de quer misciotto,
2
de quello scannataccio
3
verd’e mmezzo
4
c’aggnéde
5
via dar cardinal Arezzo
pe ggrattapanza,
6
ggiucatore e jjotto?
7
Sí, cquer busciardo.
8
Ebbè, ssàbbit’a otto
me se
9
presenta cqua ttutto d’un pezzo,
10
e mme disce onto onto:
11
«Ch’edè
12
ir prezzo
di sti granelli?» «Ôh, avete vint’al lotto,
che vve vedo in lumaca?»,
13
je fesc’io.
14
Disce: «Zzh».
15
Dico: «State accommidato?».
16
E llui: «Bbasta accusí: ccampo der mio».
«Nun zerv’antro,
17
munzú», ddico: «ho mmaggnato.
18
Vita cummune come piasce a Ddio.
Me n’accorgo dar brodo ch’è stufato».
27 maggio 1837
1
Comunione.
2
Miciotto, miciottello: meschino, male in arnese.
3
Disperataccio.
4
Squallido, lurido. Mézzo, cioè
«vizzo», si pronunzia con le zz aspre come vezzo.
5
Che andò.
6
Poltrone.
7
Ghiotto.
8
Bugiardo.
9
Mi si.
10
Ritto ritto.
11
Con affettata disinvoltura.
12
Che è.
13
Orologio.
14
Gli dissi io.
15
No.
16
Siete a servizio?
17
Non serve altro.
18
Ho
compreso.
1943. Er Pangilingua
Nò, nnò, ddoppo quer gran spropositone
nun je diedi antro
1
tempo, nun je diedi.
Vortai strada de bbòtto e mme n’aggnedi,
2
senza volé ppiú vvede
3
priscissione.
Preti! ministri de la riliggione!
c’hanno sempre er Vangelio tra li piedi!
che cciangotteno
4
ppiú Ppassî e ppiú Ccrèdi
che nun tiè ppurce addosso un can barbone!
De sta tinta se stroppia
5
er Pangilingua?
sto bber fior de resíe
6
vanno cantanno,
che jje se pòzzi
7
inverminí la lingua?
Incollato?! Che mmoras incollato!
8
Ho ssempre intes’a ddí
9
da trentun’anno
che Ccristo in crosce sce morí inchiodato.
28 maggio 1837
1
Altro.
2
Me ne andai.
3
Vedere.
4
Borbottano.
5
Di cotal modo si storpia.
6
Eresie.
7
Gli si possa.
8
Moras incolatus.
9
Dire.
1944. Li cani d’un prete
«E ste ggioie de cani ve tenete?
E annate»,
1
dico, «a ccaccia co st’attrezzi?
Che vve ponno affermà
2
sti cascappezzi
’na tartaruca ar piú ssotto le rete?»
«Eppuro questi», m’arispose er prete,
«sti du’ caggnacci cqui, nnun ce sò
3
pprezzi
che li ponno pagà, pperché ssò
3
avvezzi
a nnun straccasse mai pe ffame o ssete.
Eppoi, sibbè
4
rroggnosi o cche sse sia»,
disce, «nun troverai cani in eterno
da potejje
5
stà appetto a ppulizzia».
Dico: «Eh cquann’è ppe ppulizzia, don Tale,
6
mannateli a l’uffizzi der Governo,
du’ cani ppiú ddua meno è ppoco male».
28 maggio 1837
1
Andate.
2
Fermare.
3
Sono.
4
Sebbene.
5
Potergli, per «poter loro».
6
Appellazione generica di persona della quale non
si conosca o non vogliasi declinare il nome.
1945. Er rimedio pe lo Stato
Nun zerve, caro lei, che cce s’infochi.
Piano: lei senti la raggione, senti.
1
A mmé mme pare che in sta tor-de-vènti
se vōjji
2
la miseria e cce se ggiochi.
Come! hanno a Rroma e in centomila lochi
tanti servi de Ddio pe li conventi,
tutti capasci de fà un diesci o vventi
miracoloni ar giorno, a ddínne
3
pochi...
E pperché nun je fanno un ber rapporto
de li bbisoggni presenti e ffuturi?
Perché inzomma er discorzo è ccorto corto:
uno c’ha li miracoli sicuri,
tanto j’è d’aridà la vita a un morto
quanto creà un mijjon de pezziduri.
30 maggio 1837
1
Senta.
2
Si voglia.
3
Dirne.
1946. L’abbonnanza pe fforza
Pe lo scacarcio
1
intanto, mastr’Ipolito,
c’un giorn’o ll’antro je cacciamo l’occhi,
2
er zor Grigorio
3
er pan da du’ bbaiocchi
ce l’ha ffatto arifà
4
ssiconno er zolito.
Giàa, ttutt’incetto: tutto manipolito.
Nun c’è ggrano! No, eh? Ppoveri ssciocchi!
Si
5
nun c’è ggrano sce
6
bboni stocchi.
Si nun ce ll’hanno lo pijjino a nnolito.
7
Disce:
8
chi sse
9
fa ppecora a sto monno
er lupo se la maggna. Dunque addosso.
10
L’urioni
11
hanno d’avé cquello che vvonno.
Mó cc’avemo imparato la scoletta
12
vederai la vaccina a mmezzo-grosso,
e er vino a ddu’ cudrini la fujjetta.
13
30 maggio 1837
1
Paura.
2
Vedi il sonetto intitolato La priscissione de’ San Pietro.
3
Gregorio XVI.
4
Rifare. Il Governo per mantenere
questa mèta spendeva ogni giorno 800 scudi. Sono curiosità governative da conoscersi i due editti 22 maggio e
giugno. Fra le altre cose, il primo diceva aversi riscontri sicuri che dalle Marche abbondevole grano sarebbe presto
venuto. Il secondo diceva aversi riscontri sicuri che dalle Marche, difettose di grano, non ne sarebbe venuto, e perciò
doversi chiamare dall’estero.
5
Se.
6
Ci sono.
7
Nolo.
8
Dice il proverbio.
9
Si.
10
Dunque diamo addosso.
11
I rioni.
12
Il
comodo sistema.
13
A due quattrini la foglietta. Il quattrino è 1/5 di baiocco.
1947. Una cosa chiama l’antra
1
Da cqui avanti oggni vorta che ssentite
ch’essce er Papa e sse
2
sona le campane,
uprite bbocca e ddite puro,
3
dite:
«In sto momento se dispenza er pane».
4
E cquanno sentirete che sto cane
de Governo spaggnotta,
5
ariuprite
la bbocca e ddite che nun zò
6
llontane
le trottate der Papa e le su’ ggite.
Er Papa ha d’annà a spasso e a le funzione;
nun c’è ddunque antro
7
mezzo pe llevasse
8
er popolo datorno, e vva bbenone.
E cche ffa ssi sse vòteno
9
le casse?
Si
10
Ddio serra una porta opre un portone.
11
A ttutto s’arimedia co le tasse.
31 maggio 1837
1
Altra.
2
Si.
3
Pure.
4
Entrato il Papa in gran costernazione pel sospetto di qualche moto popolate, faceva dar pane gratis
quando usciva, e sempre in luoghi i più distanti da quelli dov’egli soleva recarsi. Vedi il Sonetto intitolato
L’abbonnanza pe forza, e l’altro ivi citato alla nota 2.
5
Spaccia pane.
6
Non sono.
7
Altro.
8
Per levarsi.
9
E che rileva se
si vuotano, ecc.
10
Se.
11
Proverbio.
1948. Er fattarello de Venafro
1
Quanno dunque sia vero sto rifresco
che li poveri frati cappuccini
fanno mó da serafichi assassini
pe le macchie in onor de san Francesco,
d’ogg’impoi pe ssarvà ppelle e cquadrini
dal loro amor-der-prossimo fratesco
me serro a ccatenaccio; e ssippuro
2
esco
nun passo ppiú da Piazza Bbarberini.
3
E nun zerve de dimmelo
4
nemmeno
c’ar convento de Roma, o bbene o mmale,
ciàbbita
5
un Cardinal
6
che li tiè
7
a ffreno.
Pe ddavve
8
quarch’idea de li rispetti
ch’hanno pe Ssu’ Eminenza er Cardinale
ve posso aricordà li bbucaletti.
9
31 maggio 1837
1
Presso Venafro, nel Regno di Napoli, un convento di cappuccini, travestendosi, assaliva e derubava sulla pubblica
strada. Recentemente uccisero nella macchia di Torcino il canonico don Alessandro Del Prete insieme col cocchiere
di lui, dopo avergli imposto una taglia di 30.000 ducati pel riscatto. La forza s’impadroní degli assassini. Erano frati
sacerdoti, col Padre Vicario del convento fra essi.
2
Seppure.
3
Dove in Roma è il convento dei cappuccini.
4
Dirmelo.
5
Ci abita.
6
Il cardinale Ludovico Micara, cappuccino, creatura di Leone XII.
7
Tiene.
8
Darvi.
9
Creato cardinale dal Papa,
questi gli conservò la dignità di generale dell’Ordine, che poco prima egli stesso aveagli conferita, conculcando le
prerogative del Capitolo. Pel governo tirannico del Cardinal generale i frati lo presero un giorno a colpi di boccali in
refettorio. Ora non è più generale, ma dimora in convento.
1949. Un ber quadro a sguazzo
1
Quanno vojjate véde
2
un quadro raro,
màa! un quadro propio a cciccio
3
sor Cammillo,
lei se ne vadi ar vicolo der Grillo
nummero trentasei sur zaponaro.
4
Bbe’, llí cc’è ar muro un purgatorio chiaro
dipinto color d’ostia da siggillo;
e ttramezzo a le fiamme e a lo sfavillo,
che ppare una fuscina de chiavaro,
ce sò
5
ott’anime sante, e ssopr’a cquelle
du’ angeli coll’abbiti de festa
che vvòteno du’ gran brocche de stelle.
Sí, stelle, stelle, sí, pparlo sur zerio;
e ddu’ bbrocche de stelle su la testa,
dico, ve pare poco arifriggerio?
31 maggio 1837
1
A guazzo.
2
Vedere.
3
Perfetto. Equivale al comme il faut de’ fancesi.
4
Sul saponaio.
5
Ci sono.
1950. Er campanone de Monte-scitorio
S’è ccrepato, fijjoli, er campanone
der tribbunale; e ddéven’èsse
1
stati
tutti li mappalà
2
cche jj’ha mmannati
3
chi ha aúto torto co l’avé rraggione.
E ccome mó sse chiamerà
4
l’abbati
a sgrassà
5
li crienti in quel macchione?
Come se sonerà nne le funzione
e nne li temporali scatenati?
Conzolateve, fijji: er tesoriere,
doppo avé bbestemmiato un mes’e mezzo,
a la fine ha cchiamato un der mestiere;
e jj’ha ddetto cor zolito su’ stile:
«Favorischi, sor ladro: ch’edè
6
ir prezzo
pe rrifà la campana ar campanile?».
7
5 giugno 1837
1
Debbono essere.
2
Imprecazioni, maledizioni.
3
Gli ha mandati.
4
Si chiamerà.
5
Sgrassare, corruzione di grassare,
verbo formato da grassatore.
6
Che è: qual è.
7
Il profondo ministro dell’erario di S. Chiesa, monsignore Antonio Tosti,
chiamato monsignor Telegrafo in grazia di due lunghe e irrequiete braccia, pretendeva che per riguardi economici si
dovesse fondere la nuova campana sul campanile stesso, cosicché compiuto appena il processo della fusione, non
mancasse che battezzare la campana, agitare il battaglio e suonare.
1951. Un detto de detto
Ho ssentito mó ppropio de risbarzo
1
(màah! mmosca, veh! nun me ne fate utore)
che Llui, Su’ Santità Nnostro Siggnore
spesso se scola un quartarolo
2
scarzo.
Sarà fforzi
3
una sciarla c’hanno sparzo...
Sibbè,
4
cquanno er zant’omo sta d’umore,
un bicchiere de quello ppiú mmijjore
je va ggiú ccome un giuramento farzo.
Eppoi... se sa..., le feste de natale...
le pasque... che sso io... li corpusdommini...
er cristiano lo vò
5
cquarche bbucale.
Dunque a nnoi nun sta bbene er criticallo:
perché er Papa è un gran re de galantommini.
Si
6
bbeve, è sseggno che ccià ffatto er callo.
5 giugno 1837
1
Di rimbalzo.
2
Una quarteruola di barile.
3
Forse.
4
Sebbene.
5
Vuole.
6
Se.
1952. L’amiscizzia der monno
Dico: «Eccellenza, se pò avé
1
l’onore?...»
«Ôh addio», disce: «che ffate, Fidirico?».
Dico: «Er zolito mio: fo er zervitore».
Disce: «E cco cchi?» «Ccor mi’ padrone antico».
«Come!», disce, «ho ssentito che sse more
2
de fame, e ancora tiè ffamijja?» «Eeh», ddico,
«mó ss’è arifatto ricco; e ppiú mmaggiore
c’a cqueli tempi che llei j’era amico».
Disce: «Ma ccome! si mme venne a cchiede
3
du’ scudi un anno fa! Cquesta è ’na prova...».
«E llei», dico, «sor Conte, je li diede?»
«Ma inzomma», disce, «come va sta nova?».
Dico: «Un zio morto l’ha llassato erede».
Disce: «Ho ppiascere assai: lo verrò a ttrova».
4
6 giugno 1837
1
Si può avere.
2
Ch’egli si muore.
3
Se mi venne a chiedere.
4
Trovare.
1953. Le maggnère che ttúfeno
1
No; ssi ffussi venuto, disce:
2
«Nino,
3
m’impresti un giulio? m’arigali un grosso?»,
io je lo davo; perch’io, quanno posso
fà un zervizzio,
4
lo fo, ssor Giuacchino.
Ma cquer véde
5
uno che tte zzompa
6
addosso,
disce: «Sscirpa,
7
per dio!, cqua sto lustrino»,
8
che sserve?,
9
io me sce sento un rosichino
10
che staría quasi pe sputacce
11
rosso.
Guarda che bbell’usanze bbuggiarone!
Protenne
12
li quadrini da la ggente
senza chièdeli
13
prima co le bbone!
Una vorta st’azzione
14
da villani
l’usaveno du’ sceti
15
solamente:
l’assassini de strada e li sovrani.
11 giugno 1837
1
Le maniere che spiacciono.
2
Se fosse venuto e avesse detto.
3
Giovanni.
4
Fare un piacere.
5
Ma quel vedere.
6
Ti salta.
7
Vedi la n. del Son...
8
Mezzo paolo d’argento.
9
In poche parole, insomma, assolutamente, ecc.
10
Stizza.
11
Starei quasi
per sputarci.
12
Pretendere.
13
Chiederli.
14
Queste azioni.
15
Due ceti.
1954. Er modello
1
Lei entri in d’uno studio de pittore
e llodi quarche cquadro terminato:
sente subbito dí:
2
«Ggrazzie, siggnore;
ma cche vvò vvede?
3
è ttutto prossciugato.
Eppoi sta ttroppo male assituato:
a sto lume che cqui
4
ppropio sce more.
Manco se scrope
5
com’è ddiseggnato:
nun ce se pò ccapì mmanco er colore.
Che jje ne pare? Ggià, è ’na prima prova...
E l’impasto? er maneggio der pennello?
Dichi
6
la verità, ccome lo trova?
A li mi’
7
quadri io nun je do apparecchio
d’avvelature. Llà, lo guardi in quello:
je farà ppiú ffigura in ne lo specchio».
11 giugno 1837
1
Agevolmente s’intenderà che qui parla un di coloro i quali servono di modello agli artisti.
2
Dire.
3
Che vuol vedere?
4
A questo lume. Il che qui è un ripieno.
5
Neppure si scopre.
6
Dica.
7
A miei.
8
Velature.
1955. Le rassomijjanze
Er Conte è arto e ’r mi’ padrone è bbasso:
lui
1
ha er capello griscio
2
e ’r Conte bbionno:
uno tiè er viso ovato
3
e ll’antro
4
tonno:
l’amico è smirzo
5
e ’r zor Marchese è ggrasso:
er primo arriva un daïno, e ’r ziconno
pijja fiato e sse
6
sventola a ’ggni passo:
uno se chiama Ggiorgio, uno Tomasso:
quello pare er nipote e cquesto er nonno:...
eppuro
7
tutt’e ddua, sora Francesca,
s’hanno d’assomijjà ccom’e ggemmelli,
come propio du’ gocce d’acqua fresca;
pe vvia
8
che la padrona, ch’è una quajja
arisonata,
9
ar praticà cco cquelli
li pijja uno pell’antro e cce se
10
sbajja.
11 giugno 1837
1
Lui assolutamente significa: «il padrone».
2
Grigio.
3
Ovale.
4
Altro.
5
Smilzo.
6
Si.
7
Eppure.
8
Per motivo.
9
Scaltra,
maliziosa.
10
Ci si.
1956. La perpetuvella
1
de la ggiuventú
Sonetti 2
È inutile. Una donna, inzin ch’è vviva,
sibbè ss’aricordassi
2
de Maumetto,
sibbè ffussi ppiú antica der brodetto,
lei nun vò èsse
3
mai vecchia o stantiva.
4
Tu gguarda una tardona
5
quann’arriva
a la commedia
6
e appizza
7
in ner parchetto:
subbito te s’affaccia ar parapetto;
e ppiú ssò
8
ll’anni ppiú ccressce l’abbriva.
9
Si
10
ppoi pe un schiribbizzo
11
de sant’Anna,
sta mossciarella
12
è ggravida a cquell’ora
ch’era tempo de mette l’eslocanna,
13
fin che ddura quer po’ de gravidanza,
pe pprim’operazzione a l’usscí ffora
manna avanti
14
la fede de la panza.
19 giugno 1837
1
La perpetuità.
2
Sebbene si ricordasse.
3
Ella non vuole essere.
4
Stantia.
5
Di tarda età: attempata.
6
Al teatro.
7
Entra.
8
Sono.
9
L’abbrivo.
10
Se.
11
Capriccio.
12
Appassita.
13
Di mettere l’est-locanda.
14
Manda avanti.
1957. La perpetuvella de la ggiuventú
Tant’ è,
1
ppadron Girolimo: voi dite
un pezzo de Vangelio spiccicato.
2
Pe le donne le fede der curato
dar ventiscinqu’in zú ssò
3
attaccalite.
Loro credeno
4
quanno sò vvistite
5
e ttiengheno
6
er pellame
7
inammidato
e ddu’ libbre de stoppa in zur costato,
che vvoi la lor’età nnu la capite.
Vedi la mojje de quer pampaluco
der zor Taddeo? Pe ffà
8
da fresca-donna,
se
9
porta sempre a spasso er fijjo sciuco.
10
E cchi nun cià
11
ccrature
12
piccinine
che jje sii
13
madre, o, a la ppiú peggio, nonna,
va a ffàssele
14
imprestà dda le viscine.
19 giugno 1837
1
Così è.
2
Identico.
3
Dai 25 anni in su sono ecc.
4
Esse credono.
5
Sono vestite.
6
Tengono.
7
La pelle.
8
Per fare.
9
Si.
10
Ciuco: piccolo.
11
Non ci ha: non ha.
12
Creature.
13
Alle quali sia.
14
A farsele.
1958. La fede de bboni custumi
Ma ccompare! Andrea mia! che ssi’
1
ammazzato;
che ppòzzi
2
cascà ffreddo d’accidenti;
e tte sce
3
metti a ffà sti comprimenti
pe avé la fede der loro attestato?
La vòi
4
la fede su ddu’ piedi?
5
Senti:
tu nun hai da spregacce
6
tanto fiato.
Tu vva’ e ddijje accusí:
7
«Ppadre curato
fora
8
la carta der boni-viventi».
9
E ssi
10
er prete t’azzarda ’na parola
si tte fa la caroggna
11
e ’r caca-dubbi,
12
dàjje de piccio,
13
Andrea: píjjel’in gola.
È ora de finílle ste caggnare.
14
Abbasta
15
c’un cristiano nun arrubbi,
16
de fede ne pò avé cquante je pare.
20 giugno 1837
1
Che tu sia.
2
Che tu possa.
3
Ti ci.
4
La vuoi.
5
Al momento.
6
Sprecarci.
7
Digli così.
8
Fuori: qui subito.
9
Boni-venti,
beni-viventi boni-vivèniti, ecc., cioè: di buona vita.
10
Se.
11
Il restìo.
12
Il perplesso.
13
Adunghialo, afferralo.
14
Baronale.
15
Basta.
16
Non rubi.
1959. La sartora scartata
Dove vado? a ppescà ’n’antra
1
sartora
pe la padrona; che cquanno se
2
ficca
quarch’ideaccia cqui,
3
tanto lammicca
4
e ttanto fa cche la vò vvede fora.
5
Cor tajjo
6
de Rosina
7
la siggnora
disce che ir zuo bber petto nun ci spicca.
8
Lei la robba davanti la vò rricca
pe ssoverchià le zzinne de la nora.
Si
9
nun z’ajjuta a ccusscinetti e a zzeppe
lei vò stà agretta assai:
10
su le su’ coste
sc’è ppassato coll’asscia san Giuseppe.
11
Tiè
12
ddu’ pellacce che ppàreno
13
gozzi
de pollastri, e, a ssentílla,
14
a zzinne toste
drento Roma nun c’è cchi cce la pòzzi.
15
20 giugno 1837
1
Un altra.
2
Si.
3
Dicendo queste parole si tocca coll’indice la fronte.
4
Lambicca.
5
La vuole veder fuori: vuol vincerla.
6
Cor taglio.
7
Sartrice di alta rinomanza in Roma.
8
Spicca in senso di comparisce vantaggiosamente.
9
Se.
10
Ella vuol
star male assai.
11
Modo proverbiale.
12
Tiene.
13
Pajono.
14
A sentirla.
15
Possa.
1960. Le vite
Che ddisce? pparlà cco Mmonziggnore?
Sor abbate mio caro, abbi
1
pascenza,
Monziggnore per oggi nun dà udienza
manco venissi
2
ggiú Nostro Siggnore.
Lui ’ggni sàbbito stà in circonferenza
3
co Mmonzú Bbuzzarè
4
lo stampatore,
pe ffà stampà le vite c’oggni utore
5
se scrive
6
pe ddà ggusto a Ssu’ Eccellenza.
Sto gusto lo sa llui cosa je costa;
perché, mmó cche lo sanno, spesso spesso
je spidischeno vite pe la posta.
7
Mó la massima è bbell’e stabbilita:
abbasta che ssii nato, ar monno adesso
chiunque more ha da lassà la vita.
28 ottobre 1837
1
Abbia.
2
Nemmeno se venisse.
3
In conferenza.
4
Boulzaler.
5
Autore.
6
Si scrive, da se stesso.
7
Ciò accade
continuamente a monsignor Carlo Emmanuele Muzzarelli, uditore della S. R. Rota, il quale stimola quasi ogni italiano
che maneggi una penna a scrivere la propria biografia. Morendo poi gli auto-istoriografi, egli ne va pubblicando le
vite su tutti i giornali d’Italia. Nuova specie di mecenatismo.
1961. Er rispetto
Rispetto? se lo meriti, er cojjone.
Se
1
presenta accusí
2
ccom’un vassallo,
e cchi ha, ssant’Iddio, da rispettallo?
Si jje
3
sputen’in faccia hanno raggione.
Io so cche cquanno adesso che ffa ccallo
porto a smove
4
er cavallo der padrone,
dove passo oggni sceto de perzone
me porteno rispetto p’er cavallo.
Lui se vesti
5
com’è da servitore,
e ssarà arispettato e ariverito
e ariscevuto a pparo d’un ziggnore.
Chi avessi
6
allora quarche bbrutt’idea
de fà uno sfrèscio
7
a llui, ccusí vvistito,
doverà arispettà la riverea.
8
9 novembre 1837
1
Si.
2
Così.
3
Se gli.
4
Movere.
5
Si vesta.
6
Avesse.
7
Di fare uno sfregio.
8
Livrea.
1962. Er Padrone padrone
Era da un pezzo c’avevo annasato
1
ch’er zor padrone m’uscellava Ghita.
Dico: «Eccellenza, vado ar Caravita».
2
Disce: «Va’ bbello mio: bbravo, Donato».
Io m’agguatto in cuscina;
3
e appena usscita
la padrona cor zu’ ganzo affamato,
te li pijjo in gattaccia:
4
«Ebbè? ch’è stato?».
Disce: «Ggnente... ggiucàmio
5
una partita».
Dico: «Me pare a mmé cche de sto svario
se ne pò ffà de meno; e ste su’ vojje
nun entreno ner conto der zalario».
Disce: «Se pò ssapé che vve se ssciojje?
6
Oh gguardatelo llí cche ttemerario!
Nun vò cche mmi diverti con zua mojje!».
23 dicembre 1837
1
Subodorato, preso sospetto.
2
Oratorio di divozioni notturne.
3
Mi pongo in agguato, mi celo in cucina.
4
Li prendo sul
fatto.
5
Giocavamo.
6
Si può sapere che vi si scioglie?, cioè: «Si può sapere quali nuove idee vi montano?».
1963. A vvoi de sotto
S’aricconta c’un frate zzoccolante,
grasso ppiú der compar de sant’Antonio,
ner concrude
1
una predica incarzante
sull’obbrighi der zanto madrimonio,
staccò er Cristo dar púrpito, e ggronnante
de sudore strillò ccom’un demonio:
«Eccolo, e vve lo dico a ttutte quante,
eccolo su sta crosce er tistimonio.
Io mó lo tiro in testa inviperito
a cchi ss’è ppresa er ber gusto, s’è ppresa,
de temperà ppiú ppenne a ssu’ marito».
A cquell’atto der frate ’ggni miggnotta...
’ggni donna, vorzi dí,
2
cche stava in chiesa,
arzò le mano
3
pe pparà la bbotta.
23 dicembre 1837
1
Non concludere.
2
Volli dire.
3
Le mani.
1964. L’allonguzzione der Papa
1
Disce che in d’una scerta allonguzzione
2
che ha ffatto er Papa pe ggrattà la roggna
a un Re de fora, c’ha mmesso in priggione
er Vescovo dell’acqua de Cologgna,
3
bbisoggna bbene valutà, bbisoggna,
tra ll’antre,
4
du’ bbellissime espressione,
che llui cià ttanta e ppoi tanta raggione
5
che cchi jje dassi
6
torto è una caroggna.
La Santa Cchiesa lui la chiama Sposa
de l’aggnello; e in st’affare va ar zicuro,
perché ssa cche la pecora se
7
tosa.
Poi verzo er fine disce chiaro e uperto
che la Cchiesa è una viggna. E cquesto puro
8
nun je se pò nnegà.
9
Vviggna è de scerto.
10
6 gennaio 1838
1
«Del resto, aggravandosi ogni giorno più i mali sopra la Sposa dell’Agnello immacolato, non possiamo non eccitare
calorosamente Voi partecipi delle nostre cure per la somma vostra religione e pietà, ad offrire umilmente con Noi
fervorose preghiere al Padre delle misericordie, affinché riguardi propizio dall’eccelso abitacolo de’ cieli la Vigna
piantata dalla sua destra, e clementissimamente da essa allontani la diuturna tempesta». Fine della allocuzione tenuta
da N. S. Gregorio, per divina provvidenza Papa XVI, nel Concistoro segreto del giorno decimo di dicembre 1837.
2
D’una certa allocuzione.
3
Il vescovo di Colonia.
4
Fra le altre.
5
Nelle quali egli ha tanta e poi tanta ragione.
6
Gli dasse.
7
Si.
8
Pure.
9
Non gli si può negare.
10
Vigna è di certo. Qui vigna è vero sinonimo di «cuccagna».
1965. L’aribbartatura der capoccio
O er cucchiere imbriaco o mmal pagato
j’abbi vorzuto,
1
o nnò, ttirà a la pelle;
o un cavallaccio jje se sii ’mbarzato
2
sur timone o fframezzo a le tirelle,
er fatt’è cquesto, padron Raffaelle,
c’annanno
3
a ffà la grazzia a un ammalato
pe la salita de le Tre Ccannelle
er Bambin d’Arescèli
4
ha ribbartato.
5
La cosa in zé mmedéma nun è ggnente,
ma a sti tempi che ppoco sce se
6
crede
va’ cche impressione possi fà a la ggente!
Ggesú Bbambino, inzomma, fa sto sprego
de miracoli, e llui nun ze t
7
in piede!
Prima càrita ssíncipi tabbègo.
8
10 gennaio 1838
1
Gli abbia voluto.
2
Gli si sia imbalzato.
3
Che andando.
4
Il Bambino di Ara-Coeli. La fama de’ suoi miracoli chiama
questo Bambino a visitare qua e gl’infermi disperati di salute; e caccade allorché lo stesso corpo di Cristo nella
eucarestia non gli abbia risanati. I Religiosi zoccolanti lo trasportano in cocchio a passo lento.
5
Ciò avvenne il 4
gennaio 1838.
6
Ci si.
7
Non si tiene, non si regge.
8
Prima charitas incipit ab ego: comodo proverbio popolare.
1966. Perzona che lo pò ssapé
Nò, ccom’è vver’ Iddio nun te canzono.
In ne l’usscí
1
ddar Zegretar-de-Stato
2
oggi a ddu’ ingresi j’ha ddetto un prelato:
«S’accerti che le mmaschere sci suono».
3
Sia ringrazziat’Iddio, sia ringrazziato!
Tutte st’antre funzione io te le dono.
Io, pe mmé, nun c’è ar monno antro
4
de bbono
che ggirà ppe le strade ammascherato.
Perché er Papa nun fa cch’er carnovale
sii da San Stèfino ar ventotto ggiuggno
e da San Pietro poi fin’a Nnatale?
Avería da capí Ssu’ Santità
c’a Rroma co la mmaschera sur gruggno
5
ar meno se pò ddí la verità.
6
17 gennaio 1838
1
Nell’uscire.
2
Segretario di Stato. Apocope usatissima dalla nostra plebe.
3
Ci sono. Modo pretensivo di parlar
corretto.
4
Altro.
5
Sul volto.
6
Almeno si può dire.
1967. Er famijjare sporca-padrone
Pe Ppacca
1
tanto, povero siggnore
co cquela bbella su’ disinvortura
sta ssempre che vve pare una cratura;
2
e bbeato co llui chi è sservitore!
Ma er mastraccio de casa ha un certo core,
tiè un modo de guardà, un’incornatura,
3
che cquanno parla, ve mette pavura
come si ffussi
4
un Re, un Imperatore.
Io nun zo
5
in che maggnera un pidocchioso
6
che scardava
7
la lana a un giulio ar giorno
abbi da èsse
8
tanto superbioso.
Disce: «Ma cco l’essempio c’ha de Pacca
nun z’accorregge?».
9
S’accorregge un corno.
L’umirtà nun è mmale che ss’attacca.
17 gennaio 1838
1
Il cardinale Pacca.
2
Creatura.
3
Un cipiglio.
4
Se fosse.
5
Non so.
6
Miserabile, pezzente.
7
Cardava.
8
Abbia da essere.
9
Non si corregge?
1968. Le lode de la Sora Nanna
Chi tt’ha llodato? Chi?! La sora Nanna?!
Zzitto, pe ccarità! Ddio te ne scampi.
Fijjo, le lode sue sò ccom’e llampi
c’appresso je viè er tono che tte scanna.
Si tte
1
loda un po’ ppiú, cquella te manna
2
in galerra e cce stai sino che ccampi.
Pòi fà cconto c’un giudisce te stampi
la quarella,
3
er proscesso e la condanna.
Un povero cristiano bbattezzato
pò èsse
4
un galantomo quanto vòi:
5
lei lo loda, e l’amico è ccuscinato.
6
Si
7
ppe ssorte, a l’incontro, quela rapa
te bbattezza pe lladro, ôh allora poi
sta’ alegro, fijjo mio: diventi Papa.
24 gennaio 1838
1
Se ti.
2
Ti manda.
3
Quercia.
4
Può essere.
5
Vuoi.
6
Perduto, rovinato.
7
Se.
1969. Er giuramento
Questo nò: in ne l’esàmi er giuramento
se
1
dà a li tistimonî: er reo nun giura.
Io nun ho mmai ggiurato; e sta’ ssicura
che de proscessi ho ggià spallato er cento.
Quer mette
2
un pover’omo in ner cimento
de dí
3
’na verità ccontro natura
saría ’na sscelleraggine addrittura,
peggio che ssi jjessino
4
er tormento.
Si ppoi
5
un proscessante der governo
protennessi
6
incastramme la cusscenza
tramezzo de la forca e dde l’inferno;
tra cquer po’ de pappina e sto ssciroppo,
io bbadería piú ppresto
7
a la sentenza
che vviè
8
pprima c’a cquella che vviè ddoppo.
24 gennaio 1838
1
Si.
2
Quel mettere.
3
Di dire.
4
Se gli dassero.
5
Se poi.
6
Pretendesse.
7
Piuttosto.
8
Che viene.
1970. L’aspèttito
1
de la ggiustizzia
Sonetti 2
Cos’è ll’omo! Ma eh? Cquanno se
2
disce!
Ammanettato fra li preti e ’r boja
avé ccorata
3
quela cara ggioja,
de maggnà
4
vvermiscelli co l’alisce!
Sta ppe scallasse er culo a la scinisce
5
de l’infernaccio e ttiè cquer po’ de foja
de bbiastimà, ffijjaccio de ’na troja
la Madonna co ttutta la cornisce!
Dà ccapocciate... sputa in faccia a Ppiatti,...
6
che ppoi in fin de fine è un monziggnore
che mmanco er Papa j’usería sti tratti.
Làsselo scrapiccià; cché appena more
ce troverà llaggiú ggastiga-matti
che nnun ce se fa un cazzo
7
er bell’umore.
24 gennaio 1838
1
L’aspettazione.
2
Si.
3
Aver coraggio.
4
Giuseppe Venturini, omicida, decapitato impenitente il 24 gennaio 1838. Volle
mangiare lautamente.
5
Sta per riscaldarsi ecc. Cinigia: ma qui più propriamente, nel senso in cui tolgono i Romani
questa parola, s’intende «gli avanzi triti del carbone».
6
Uno degli ecclesiastici che tentarono invano di persuaderlo a
morire cristianamente.
7
Col quale non si fa, ecc.
1971. L’aspèttito de la ggiustizzia
Quanno a vvent’ora e ppiú monziggnor Ciacchi
1
vedde
2
ch’er reo, pe li su’ ggiusti fini,
voleva annà a mmorí ccom’e Ttarghini,
3
e cche ttutti li preti ereno stracchi,
lassò in ner mezzo una partita a scacchi,
e annò a ddí ar Papa: «Sa? cquer Venturini,
co ttutto San Giuvan de Fiorentini,
4
è inutile a sperallo che ss’abbacchi».
5
Er Zanto Padre a sto tremenno avviso,
cacciò ’na chiave maschia da l’interno
d’un bussolotto, e stiede
6
un po’ indisciso.
Poi, pe un impurzo
7
der zu’ cor paterno,
riponenno er chiavon der paradiso
disse: «Tar
8
sia de lui: vadi
9
a l’inferno».
25 gennaio 1838
1
Governatore di Roma.
2
Vide.
3
Giustiziato anni prima, per delitti commessi con mandato della società occulta de’
carbonari e morto impenitente assieme a Leonida Montanari.
4
Non ostante San Giovanni, ecc. Questa è
l’archiconfraternita che assiste i condannati al supplizio.
5
Che si raumili, che ceda.
6
Stette.
7
Impulso.
8
Tal.
9
Vada.
1972. La governante der Governatore
1
Bbrava! evviva la sora Micchelina
co l’armata de tutte le miggnotte!
Facci de grazzia,
2
eh lei: dico, stanotte
s’è inzoggnata mai-mai d’esse reggina?
3
Ma ssa cche jj’ho da dí? Ttiengo una bbotte
de me-ne-frego-tanto ggiú in cantina;
e cqui ar commanno mio sciò
4
stammatina
’na saccocciata de vatt’-a-fà-fotte.
5
Vò ir rispetto! je pijja
6
’na tropèa!
E mme fa spesce
7
a mmé de Monziggnore
che ccavarca
8
sta razza de chinea.
Me fate caccià vvia? sai che ddolore!
Tanto
9
che ffrutta ppiú la riverea
cuanno che nun è ppiú ggovernatore?
10
28 gennaio 1838
1
Monsignor Ciacchi. Nei versi si fa parlare Paolo, il di lui cocchiere.
2
Faccia grazia.
3
Sarebbesi forse sognata d’essere
regina?
4
Ci ho, per semplicemente «ho».
5
Precise parole di Paolo.
6
Gli pigli, per «le pigli, la colpisca, ecc.».
7
Mi fa
specie.
8
Cavalca.
9
Perché poi finalmente.
10
Avvisato per la porpora al prossimo concistoro, dell’8 febbraio 1838.
1973. La caramaggnòla d’Argentina
1
«Zio, prima che ppijjate li bbijjetti
dite un po’, cche vvò ddí ccaramaggnola
«Quanto sei sscemo! Vò ddí ccamisciola,
corpetto-co-le-maniche a ddu’ petti».
«E ccome se po’ ffà
2
cco li corpetti
a ffàcce
3
le commedie, eh zio?» «Bbestiola!
Se fa ccome se fa cco ’na parola
a ffàcce le canzone e li sonetti».
«Ma ddunque sta commedia sarà bbella
«Sarà bbella sicuro, fijjo mio».
«E cce rèscita puro
4
Purcinella?»
«Nò, ccredo che cce resciti Arlecchino.
Armeno Nicolò cce l’ho llett’io,
e cce disceva puro piccinino».
5
29 gennaio 1838
1
Il Conte di Carmagnola, di Alessandro Manzoni, dato nel teatro di Torre-Argentina da Luigi Domeniconi.
2
Si può
fare.
3
Farci.
4
Pure.
5
Il condottiero Nicolò Piccinino. E il figlio di Arlecchino chiamasi Nicolò piccinino, benché
talvolta Nicolò mezza-camisa.
1974. Lo sfrappone
1
Si
2
sséguiti accusí, Cchecco, la sbajji.
Fijjo, co st’impropèvacce piano.
Chi è llesto de lingua e nnò de mano
o la tienghi a stecchetta o sse la tajji.
Uno c’annassi
3
a rregola de rajji
4
credería c’un zomaro marchisciano
se maggnassi
5
un leone sano sano
e un’armata co ttutti li bbagajji.
Certuni a cciarle
6
spazza-campaggne,
eppoi a ffatti se la fanno sotto,
e arrivi ar punto de vedelli piaggne.
7
Er mannatàro ch’era un omo dotto
sai che ddisceva a sti spacca-montaggne?
«Ce vò mmeno a inzurtà cc’a ddà un cazzotto».
1° febbraio 1838
1
Spavaldo.
2
Se.
3
Che andasse.
4
Di ragghi.
5
Si mangiasse.
6
Sono.
7
Di vederli piangere.
1975. La stretta
1
de jjer’a nnotte
Dato er brodo a cquer povero Rimonno,
2
io che ttre nnotte nun ho mmai dormito
m’ero bbuttato ggiú ttutto vistito,
e mme stavo fascenno er primo sonno.
Quanto me sento, dio sagranne monno!,
scotolà
3
pper un braccio e ttirà un dito.
«Chi è?», strillo infuscato e inzonnolito.
Disce: «Arzàteve, tata, ché vve vonno».
Figuràteve io che bbòtta ar core!
Fu ccome uno che mm’avessi
4
detto:
«Curre,
5
Giachemandrèa; tu’ fijjo
6
more».
Poi nun è stato ggnente, lo capisco:
ma intanto llí pper lí, ssor Benedetto,
me parze a mmé cche mme svejjassi
7
er fisco.
4 febbraio 1838
1
Lo spavento.
2
Raimondo.
3
Scuotere.
4
Mi avesse.
5
Corri.
6
Tuo figlio.
7
A me parve che mi svegliasse.
1976. Er disgrazziato
Manco-male: venítesce voi puro.
1
Ma cche! nnun ho rraggione si mme
2
laggno?
Vado, che pposso dí?,... ppe ammazzà un raggno,
do un scivolone e sbatto er naso ar muro.
3
Fo un zervizzio a un amico, e cce guadaggno
un carcio o un scappellotto de sicuro:
me tiro sú ’na carzetta a lo scuro,
e mme viè cco la punta sur carcaggno.
M’essce un ambo, e ho ggiucato er tern’a ssecco:
vojjo scrive
4
er mi’ nome e ffaccio un scasso:
vojjo strucchià la bboccia e ccojjo ar lecco...
Inzomma, si
5
cqui annamo de sto passo,
nun m’amanc’antro a mmé cche ddà de bbecco
6
a ’na paggnotta e mme diventi un zasso.
24 marzo 1838
1
Veniteci a interloquire voi pure.
2
Se mi.
3
Sdrucciolo e batto, ecc.
4
Voglio scrivere.
5
Se mi.
6
Non manca a me altro
che addentare.
1977. E cciò li tistimònî
1
Quanno che er Zanto-padre passò jjeri
pe Ppasquino ar tornà da la Nunziata
2
stava cor una sciurma indiavolata
3
peggio d’un caporal de granattieri.
E ffasceva una scerta chiacchierata
ar cardinal Orioli e a Ffarcoggneri,
che jje stàveno a ssede de facciata
4
tutt’e ddua zzitti zzitti sserî serî.
La ggente intanto strillava a ttempesta;
e llui de cqua e de llà ddar carrozzone
’na bbenedizzionaccia lesta lesta.
Poi ritornava co le su’ manone
5
a ggistí
6
a cquelli; e cquelli co la testa
pareva che jje dàssino
7
raggione.
26 marzo 1838
1
E ci ho i testimonii. Vedi il sonetto seguente.
2
Dalla Chiesa e Archiconfraternita della Vergine Annunziata, dove è
festività il 5 di marzo, e distribuisconsi molte doti alle vergini o zittelle che siano. In simil giorno il Papa assiste al
pontificale cardinalizio nella contigua chiesa di Santa Maria sopra Minerva, appartenente ai Padri domenicani.
3
Con
un fosco cipiglio.
4
A sedere in faccia.
5
Le sue grandi mani.
6
A gestire.
7
Che gli dassero.
1978. Er zervizzio de gala
1
Er zervizzio de gala der Zovrano
è llègge vecchia da ch’er monno è nnato
che nun pòzzi
2
mai èsse
3
traverzato
manco da un primo prencipe romano.
Sin ch’er zervizzio suo nun è ppassato
l’antre carrozze hanno da stà llontano;
e ssi
4
un cavallo j’arrubba la mano
nun è scusa che scusi sto peccato.
Dunque me pare a mmé, ssori paíni,
5
che ssii deggno dell’urtimo supprizzio
quer birbo der cucchier de Pediscini.
Ccusí er Papa, s’è un omo de ggiudizzio,
imparerà
6
a ccucchieri e vvitturini
cosa s’abbusca a rròppeje
7
er zervizzio.
8
26 marzo 1838
1
Vedi il sonetto antecedente. Mentre Gregorio XVI in treno o servizio di gala ritornava il 5 marzo dalla chiesa di Santa
Maria sopra Minerva, la carrozza del cardinale Pedicini Vice-cancelliere di Santa Chiesa attraversò le carrozze del
seguito papale. Trattenuto perciò dal suo corso Gaetano Moroni, camerier pontificio, che occupava il legno del
cardinale Falconieri ammesso nella carrozza del Papa, ricorse al Pontefice contro l’attentato del cocchiere violatore
dell’uso; e ciò non per riguardo a sé, ma per l’amore della carica. Ad onta delle difese del di lui padrone Pedicini, che
adduceva per iscusa la soverchia ardenza de’ suoi cavalli, il temerario cocchiere fu rinchiuso in istretta carcere, e
denudato onde rinviare al Cardinale tutti i di lui panni di livrea.
2
Non possa.
3
Essere.
4
Se.
5
Signori paini. Ogni
cittadino del mezzo ceto è un paino.
6
Insegnerà.
7
A rompergli.
8
Anche l’ano è a Roma detto per decenza servizo.
1979. Er ritratto der zor Filippo
1
N’ho vviste in vita mia de cose bbelle,
ma ccom’e cquesta nò, pe bbio sagrato!
Sto quadro de pittura diseggnato
nu lo faría nemmanco Raffaelle.
L’occhi, er naso, la tinta de la pelle,
er modo de guardà cquann’è inciurmato...
Che sserve?, via, senza tante storielle
è er zor Filippo Zzampi spiccicato.
So cche ss’io fussi un ladro, iddio ne scampi,
ne l’entrà ddrento e in ner vedé cquer coso,
direbbe:
2
«Oh ddio! c’è er zor Filippo Zzampi».
Perché, inzomma, la mojje ch’è la mojje,
spesso spesso, credènnolo lo sposo,
3
je va a ddà bbasci indove cojje cojje.
26 maggio 1838
1
Opera del veneto Pietro Paoletti.
2
Direi.
3
Sposo, pronunciato con le due o chiuse.
1980. La pizza der compare
1
Che ffra er zor Pippo e la commare-d’oro
2
c’era nata un tantino de canizza
3
e cche Mmunzú schizza veleno, schizza,
4
io lo sapevo ggià mmejjo de lòro.
Ma ccredevo che cquanno uno se stizza
5
avessi armeno
6
da sarvà er decoro,
e nun fà a la commare sto disdoro
d’annalla a scredità ssopr’una pizza.
Bbisoggna avé ppe ccristo er caposcerro,
pe mmette
7
s’una pizza aricressciuta
la soprascritta: a la commàr-de-ferro.
8
Guardate llí ssi cche bbella prodezza!
Io so cche cquanno do le pizze a Ttuta
9
ce fo ddipiggne
10
er core co la frezza.
3 giugno 1838
1
Il signor Filippo Z...
2
La signora Teresa F..., la quale era dallo Z... chiamata la Comare d’oro.
3
Astio, ruggine.
4
Schizzar veleno: fremere d’ira.
5
Si adira, entra in collera.
6
Avesse almeno.
7
Per mettere.
8
Lo Z... fece realmente
scrivere a lettere di zucchero queste parole sopra una pizza che portò alla villeggiatura della famiglia F...
9
Gertrude.
10
Ci fo dipingere.
1981. Un paragone
E ttant’è vvero che nnun è bbuscía,
1
che lo porteno inzino le gazzette.
Er Papa jjer’a otto
2
ariscevette
monziggnor Accemette
3
de Turchia.
Questo ve fa ccapí, mmastro Tobbia,
c’oggni paese ar monno ha er zu’ Accemette,
come tiè oggn’osteria le su’ fujjette
e oggni cchiesa ha la propia sagrestia.
Quale scit sse poterebbe arregge
4
senza Montescitorî
5
e ttribbunali
da fà ssentenze e mminestrà la lègge?
6
Ccusí ppuro
7
l’impieghi cammerali,
voi sentirete chi ssa sscrive e llegge
8
che cqua a Rroma e in Turchia sò ttutti uguali.
9
19 giugno 1838
1
Non è bugia.
2
Ieri ad otto: otto giorni addietro.
3
L’equivoco si fonda sulla consimiglianza del titolo di A. C. Met.
(Auditor Camerae Met.) appartenente ad uno de’ giudici prelati del fòro di Roma col nome proprio musulmano
Acmet. E realmente Ahmed Feth Pascià, ambasciadore per la sublime porta presso il re cristianissimo, fu il 12 giugno
1838 accolto dal successore di Urbano II in amorevole e paterna udienza, negata però saviamente al dragomanno di
quello, perché greco scismatico, dovendosi dalla moderna Chiesa Romana preferire l’intiero Maometto a un mezzo
Gesù Cristo, dacché la ristaurazione del 1814 e le sue conseguenze dimostrarono la utilità di qualche concordia tra la
vecchia religione e la nuova politica. Accomiatato dal padre de’ fedeli l’ortodosso islamita, costui trovò l’escluso
dragomanno all’uscio delle stanze pontificie, e con orientale cortesia gli disse: Soomàro. Queste particolarità io seppi
da un novizio cavaliere gerosolimitano, che stava in anticamera facendo il servizio sostituito recentemente alle
disusate carovane del sacro ordine degli Ospitalieri.
4
Quale città si potrebbe reggere.
5
Montecitorio è il palazzo dei
tribunali camerati.
6
E amministrare la giustizia.
7
Pure.
8
Chi sa scrivere e leggere.
9
Son tutti uguali. Moltissimi punti di
eguaglianza si troverebbero ne due governi, incominciando dalla teocrazia e terminando alla corrispondenza che
passa fra Camera e Porta.
1982. Li rivortósi
Chiameli allibberàli o fframmasoni,
o ccarbonari, è ssempre una pappina:
1
è ssempre canajjaccia ggiacubbina
da levàssela
2
for de li cojjoni.
E ppe Ppapi io voría
3
tanti Neroni
che la mannàra de la quajjottina
4
fascéssino
5
arrotalla oggni matina
acciò er zangue curressi
6
a ffuntanoni.
Tu accèttua noantri
7
in camisciola
e li preti e li frati, er rimanente
vacce a la sceca
8
e sségheje la gola.
Perché è mmejjo a scannà cquarch’innoscente,
de quer che ssia c’una caroggna sola
resti in ner monno a impuzzolí la ggente.
2 settembre 1838
1
È sempre la stessa cosa.
2
Da levarsela.
3
Io vorrei.
4
La mannaia della ghigliottina.
5
Facessero.
6
Corresse.
7
Eccettua
noi altri.
8
Vacci alla cieca.
1983. Li penzieri dell’omo
Er chirichetto, appena attunzurato
1
penza a ordinasse
2
prete, si
3
ha ccervello:
er prete penza a ddiventà pprelato;
e ’r prelato, se sa,
4
ppenza ar cappello.
Er cardinale, si ttu vvòi sapello,
5
penza ’ggnisempre d’arivà ar papato;
e ddar zu’ canto er Papa, poverello!,
penza a ggòde la pacchia
6
c’ha ttrovato.
Su l’esempio de quelle perzoncine
’ggni
7
dottore, o impiegato, o mmilitare
penza a le su’ mesate e a le propine.
Chi ppianta l’àrbero, penza a li frutti.
Cqua inzomma, pe rristriggneve
8
l’affare,
oggnuno penza a ssé, Ddio penza a ttutti.
2 settembre 1838
1
Tonsurato.
2
Ordinarsi.
3
Se.
4
Si sa.
5
Se tu vuoi saperlo.
6
Il buon vivere.
7
Ogni.
8
Per ristringervi.
1984. A la sora Teta Zzampi
Ma inzomma, è vvera o nnò, ssora Titina,
1
la nova che mm’è stata ariccontata,
ch’er zor Pippo va ffora a Mmascerata,
a spezzionà la truppa papalina?
Vedi che zzuggna! Oh cquesta sí, pper dina,
che mm’abbruscia e mme passa la corata!
E cchi cce la dà ppiú ’n’antra maggnata,
come l’avemo avuta stammatina?
Ma ppe la santa Vergine Mmaria!
È un gran dí cche cchi ttrova un pezzo d’oro
l’abbi da perde
2
o da bbuttallo via!
Fussi Papa sto povero stivale
3
sentiressivo
4
in pieno concistoro:
«Ir ziggnor Pippo a Rroma, e ggenerale».
23 settembre 1838
1
Signora Teresina.
2
L’abbia da perdere.
3
Nel profferire questa parola si batte il petto.
4
Sentireste, per «udreste».
1985. A la sor’Orzola
Dico, perdonerà, ssor’Orzolina,
si ho vvorzuto arrocchià,
1
ddico, un zonetto,
pe ddàllo a llei dimenic’a mmatina
2
appena ssceggne ggiú, ddico, dar letto.
Lei, dico, ha un tocco de corata in petto,
che ssimmai quarche vverzo nun cammina
scuserà, ddico, un povero pivetto
3
che ccòmpita pe ggrazzia
4
la dottrina.
Io nun zò, ddico, un conte o un cardinale
o cquarc’antra perzona de talento:
la mi’ testa è una testa duzzinale.
Si
5
er mi’ sonetto da un bajocco er cento
zoppica e nun è rrobba pe la quale,
6
bbasta che llei gradischi er comprimento.
18 ottobre 1838
1
Se ho voluto gettar giù, raccapezzare così in grosso.
2
Domenica 21 ottobre 1838, giorno di Sant’Orsola.
3
Ragazzo.
4
Che ha a caro e grazia di compitare, ecc.
5
Se.
6
Non è roba conveniente.
1986. La mi’ causa
Come va la mi’ causa? A cquer che ssento
e vvolenno dà rretta ar mi’ curiale,
me parería che nun annassi male;
ma cquarch’imbrojjo cià da èsse
1
drento.
Jeri me venne a ddí cch’er tribbunale
ha ggià sternato er propio sintimento,
perché cc’è la raggione, e lo strumento
canta a ffavore mio sur capitale.
Sta su’ espressione a mmé nnum me dà ttanta
vojja de ride,
2
perché o llui cojjona
o nnun è cquer gran omo che ss’avvanta.
3
Nu lo vedi che bbestia bbuggiarona?
Venimme
4
a ddí cche lo strumento canta
quanno se
5
sa che uno strumento sona.
21 ottobre 1838
1
Ci ha da essere.
2
Voglia ridere.
3
Si vanta.
4
Venirmi.
5
Si.
1987. La canterina de la Valle
«Ma cche cce trovi in sta madama Grisa,
che ppe vvia
1
che jj’amanca er culiseo
canta da omo e ffa cchiamasse
2
Meo,
3
e ppare un sfrizzoletto o una supprisa
«Che cce trovo?! sce trovo, sor cardeo,
c’ha una vosce, per dio, tonna e ppriscisa.
Sce trovo che ssi
4
ccanta, e cce l’avvisa,
Roma pare che ccurri
5
ar giubbileo».
«Dijje che sse conzòli co l’ajjetto;
perché ssai che pproggnostico je faccio?
Lei sta ar monno ar piú ar piú ’n’antro mesetto».
«Quela donna morí?!
6
ssete un cazzaccio.
Nun lo vedete, ner guardajje in petto,
che ttiè ll’anima chiusa a ccatenaccio?».
7
4 novembre 1838
1
Pel motivo.
2
Fa chiamarsi: si fa chiamare.
3
Vuol dir Romeo.
4
Se.
5
Corra.
6
Morire.
7
Le clavicole sporgenti e molto
visibili nelle donne, sono dal popolo chiamate catenacci.
1988. L’operazzione da la parte der cortile
1
Che vve n’è pparzo?
2
la faccenna è ita
come ve discev’io, core mio bbello?
Co ’na puncicatina de cortello
arièccheve
3
cqua bbell’e gguarita.
E vvederete poi si
4
sta ferita
in fonno ar perzichino o ar callarello
ve farà arivolà ccome un uscello,
e ssi sto tajjo v’aridà la vita.
Nun ce sò ttante sciarle: ir zor Baroni,
viva la faccia sua, è un pezzo grosso
d’accènneje, pe ddio, li lanternoni.
Quanno ve mette lui le man’addosso
fate puro
5
ammanní li maccaroni
pe vvia che sséte
6
ggià a ccavallo ar fosso.
7
7 novembre 1838
1
Dalle parti diretane.
2
Paruto.
3
Eccovi nuovamente.
4
Se.
5
Pure.
6
Poiché siete.
7
Avete vinto, avete superato ogni
ostacolo.
1989. Una svista
Fu ppropio una disgrazzia: j’assicuro
che mm’è ssuccesso senza corpa
1
mia.
Eppoi, chiami er padron de l’ostaria
che jje pò ddí la verità llui puro.
2
Io spasseggiavo for de Porta Pia,
e mme n’annavo accost’accosto ar muro:
anzi era tardi assai, e mme figuro
che stassi
3
pe ssonà la vemmaria.
Viscin’all’oste inciampico
4
in un torzo,
l’ariccojjo,
5
eppoi ordino un bucale;
6
dico: «Sor oste, se pò bbeve un zorzo?».
7
Tratanto cor un atto scasuale
8
tirai ’na torzatona a un cane còrzo
9
e azzeccai ne la groppa a un cardinale.
10
5 febbraio 1839
1
Colpa.
2
Pure.
3
Stasse.
4
Inciampo.
5
Lo raccolgo.
6
Un boccale.
7
Si può bere un sorso?
8
Casuale.
9
Còrso.
10
Fuori la
Porta Pia, come luogo ameno e poco frequentato, amano i cardinali di scendere dai loro cocchi e passeggiare.
Altrettanto fa il Papa.
1990. La festa sua
A pproposito! Adesso che cce
1
penzo,
me pare, si
2
nun sbajjo, che ddimani
a la Minerba
3
li domenicani
accènneno
4
li lumi a ssan Vincenzo.
Figúrete la folla de cristiani
e ssi
2
cche ssorte de concorzo immenzo
annerà ddomatina a ddà l’incenzo
ar zor padre canonico Tizzani!
Ebbè, nnell’incenzallo hanno raggione,
perché cquer Reverènno è un zantarello
e ha ’na testa che mmanco Salamone.
Lui, o cce vadi
5
er ricco o er poverello,
fa bbone grazzie a ttutte le perzone,
e indovunque lo tasti è ssempre quello.
5 aprile 1839
1
Ci.
2
Se.
3
A S. Maria sopra Minerva.
4
Accendono.
5
Ci vada.
1991. «Questo ggià lo sapémio dar decane»
Questo ggià lo sapémio dar decane
che jjeri sposò er prencipe Turloni,
quer prencipe che spenne li mijjoni
pe assiste er poverello e ddàjje pane.
Sippoi stanotte, pe ddiesciora sane,
senza la vesta e ssenza li carzoni,
li du’ sposetti siino stati bboni
lo sa Iddio bbenedetto e le zampane.
La cosa nun è llisscia: io pe mmé ttremo
che cquarche gguaio ce dev’èsse nato,
e che ppresto diranno: «In quanti semo?».
Ar bervedé cc’è ppoco, sor curato.
In cap’a nnove mesi lo vedemo.
Dar brodo se conossce lo stufato.
17 luglio 1840
1992. Comprimento
Io fà vverzi pe vvoi? de carta! aspetta!
Io nun m’impiccio co ccompassi e squadre.
Io nun zo ffà cche ccanzonacce ladre
tajjate ggiú ccoll’asscia o ccoll’accetta.
Si sse trattassi ar piú de vostra madre
ce potería scappà cquarche ssaetta;
ma vvoi sete un bruggnolo de donnetta,
da fà ggirà er boccino ar Zanto Padre.
Voi?! co cquer muso llì?! ddimme cojjone!
Piú ppresto voría védeme st’antr’anno
a Ssan Bartolomeo sur cartellone.
Eppoi nun fo ccome scertuni fanno
che ttutt’er giorno pissceno canzone
manco avessino Appollo ar zu’ commanno.
21 ottobre 1840 – Peppe
1993. A mi’ cuggina Orzola
pe la Santa Befana der 1841
Sora racchietta mia, propio quest’anno
che mm’annate ppiú a ssangue e ppiú a ffasciolo,
nun ho possuto avé mmanco un piggnolo
né un ossetto de morto ar mi’ commanno.
Dall’antra parte io povero fijjolo
che mm’arranchello e ccampo anno-penanno,
che ccosa v’ho da dà ssi nun me scanno?
Scopo casa e vv’appoggio un mostacciolo.
E ssimmài vostra madre, in faccia a mme,
dirà cc’ar zummum pò ccostà un quadrino
e nnun è robba da par vostra o cché,
io j’arisponnerò: «Llei vadi a spasso,
e penzi ch’io nun tiengo er butteghino
pe nnotà ccom’e llei ner brodo grasso».
6 gennaio 1841
1994. «Ahà, rriecco l’acqua! E ’ggni tantino»
Ahà, rriecco l’acqua! E ’ggni tantino,
dico, s’ha da vedé sta bbell’istoria?
’Ggni ggiorno ’na maggnata e ’na bbardoria,
da fà vvení la caristia der vino!
Inzomma, o ariccojjemo la scicoria
o ssemo tanti Prencipi Piommino,
a sto paese cqui, ppare un distino,
tutti li sarmi finischeno in groria.
Chi mme fa spesce a mmé ssò sti screpanti
de sti mastri de scola a la Sapienza,
che llaggiú nun n’abbuscheno poi tanti.
Manco si ll’oro fussi princisbecche!
Ma ggià, daranno fonno a la credenza
de le pascelle e de le laure secche.
2 giugno 1841 - G. G. B.
1995. Ar zor come-se-chiama
1
Disce che vvoi, c’a cquella pascioccona
state in prescinto d’infilà ll’anello,
sete bbono in zur gusto d’un aggnello
e bbello com’un angiolo in perzona.
Ma avete una gran zorte bbuggiarona,
pe la raggione che ssi Iddio, fratello,
v’ha ffatto accusí bbono e accusí bbello,
lei puro è bbella bbella e bbona bbona.
Pe sta vostra bbellezza e bbontà ddoppia
quanno ve vederanno avanti ar prete
tutta la ggente strillerà: «Cche ccoppia!».
Io solo ho da rimane co la sete
de vedevve ché er diavolo me stroppia
e mme tiè a Rroma a cciancicà ssegrete!
19 maggio 1842
1
Allo sposo di Amalia Bettini, la quale poi nella sua lettera di Bologna 23 giugno 1842 mi scrisse chiamarsi Raffaele
Minardi, ed essersi con lui maritata colà il 2 di quel mese.
1996. Er Duca saputo
1
Circa ar zor Duca tu discessi,
2
Nina,
c’un ometto aggiustato
3
come cquello
nun ze trova in ner monno, anc’a vvolello
cercà da San Giuvanni
4
a Tterrascina.
E io te so arisponne
5
stammatina
che cquer nostro sor Duca, poverello,
drent’ar cestone
6
in cammio
7
de scervello
ce tiè ’na provatura marzolina.
8
Quanno jerzera je portò Mmadama
quela tartaruchetta sciuca sciuca,
9
sai che jje disse lui? «Sora salama,
10
sta bbèstia nun zi disce tartaruca,
ma ssi chiama testuccina,
11
si chiama».
Chi le sa ste cazzate?
12
Ir ziggnor Duca.
19 gennaio 1843
1
Saccente.
2
Dicesti.
3
Esatto, assennato.
4
La Basilica di S. Giovanni in Laterano, presso la quale è la porta per cui si
esce per viaggiare verso Terracina.
5
Ti so rispondere.
6
Dentro alla testa.
7
In cambio.
8
Noto formaggio, la cui figura
simiglia sufficientemente un cervello.
9
Ciuca ciuca: piccola piccola.
10
Signora imbecille.
11
Testuggine.
12
Scipitezze,
affettazioni.
1997. Monziggnor de l’Annona e Ggrasscia
Er Monziggnore mio, si
1
nu lo sai,
è ccardinale ar primo concistoro;
e llui cià
2
ggusto in quanto sia decoro,
ma llassa un gran’impiego: ecco li guai.
Pane, ojjo e vvino nun ze crompa
3
mai,
le pile
4
s’ariempieno da loro,
e bbiada e ffieno e ssemmola è un lavoro
5
che cce n’è da rivenne
6
o ppoco o assai.
A le curte, in sta casa bbenedetta
mo nun ze ppijja
7
a ppunta de quadrini
ch’er pepe, er zale e cquarche ffil d’erbetta.
8
E la sala? Sibbè
9
ssenza salari,
noi potemo marcià
10
ccome ppaini
sortanto a rregalíe de bbottegari.
20 gennaio 1843
1
Se.
2
Ci ha.
3
Non si compera.
4
Le pentole.
5
È un movimento, un abbondanza, ecc.
6
Da rivendere.
7
Non si piglia.
8
Maggiorana.
9
Sebbene.
10
Andare, sfoggiare in vesti.
1998. Er Cardinale da vero
Naturarmente è ccosa naturale
c’abbasta a ddajje una squadrata
1
addosso
pe ccapí inzomma da tutto quer rosso
che Ssu’ Eminenza è ppropio un cardinale.
E ggnisuno sarà ttanto stivale
de scannaj una bbruggna
2
inzin’all’osso,
pe ppoi sartà cco ssicurezza er fosso
de discide:
3
è ir tar frutto o ir frutto tale.
Sin c’ha ddunque er color de peperoni
e scarrozza a Ssan Pietr’in Vaticano,
è un cardinal co ttanti de cojjoni.
Metteje
4
poi ’na mazzarella in mano,
dajje ’na camisciola e ddu’ scarponi,
e allora te dirò: cquesto è un villano.
21 gennaio 1843
1
A dargli una guardata.
2
Da scandagliare una prugna.
3
Di decidere.
4
Mettigli.
1999. L’incontro der beccamorto
«Padron Zanti!
1
me sbajjo?» «Ôh ssor Pasquale!».
«Filiscia notte». «Grazzie: bbona sera».
«Che nn’è de tu’ fratello?» «Sta in galera».
«Poveraccio! E ttu’ mojje?» «A lo spedale».
«Vanno bbene l’affari?» «Ah! vvanno male».
«E da quanno?» «Dar tempo del collèra».
«Ma ssento vojji aritornà». «Se spera».
«Me l’ha ddetto un dottore». «E a mmé un spezziale».
«Quanti sta sittimana?» «Eh! appena dua».
«E ll’antra?»
2
«S’annò llisscio».
3
«E ll’antra avanti?»
«Uno, madetta l’animaccia sua!».
«E ttu mmuta parrocchia». «È ttempo perzo».
4
«Ma er curato che ddisce, padron Zanti?»
«Disce quer che ddich’io: semo a ttraverzo».
21 gennaio 1843
1
Colla z aspra, come in prezzo. Sante, nome proprio.
2
E l’altra?
3
Si andò liscio «non si fece nulla». Metafora sorta dal
gergo del giuoco delle bocce.
4
Perduto.
2000. L’occhi der Papa
Chi? er Papa?! Ecco la prima che ne sento.
Propio lui?! Un zant’omo come cquello
pò avé un par d’occhi da mette spavento,
manco fussi un caggnaccio de mascello?!
So cche cquann’era frate ar zu’ convento
l’ho sservito sempr’io da scarpinello,
e nun ciò ttrovo mai sto guardamento
che mm’abbi fatto arivortà er budello.
Ma ggià, ttu ppe un’occhiata che tte danno
un rospo, ’na tarantola o ’na sorca,
te ppissci sotto e scappi via tremanno.
Sai ch’edè ar piú sta pavuraccia porca?
È cc’un Papa tiè ssempre ar zu’ commanno
l’archibbusci, le carcere e la forca.
26 febbraio 1843
2001. L’Urion de Monti
Ggià cch’er Papa ha vvorzuto indeggnamente
fà vvescovo er calonico Tizzani
senza senticce prima un accidente
li su’ poveri fijji montisciani,
bisoggnerà abbozzà, naturarmente,
e ppe ffàcce vedé bboni cristiani
sbiggnà vvia tra le scianche de la ggente
co l’orecchie a l’ingiú ccome li cani.
Questa perantro c’è arrivata all’ossa;
e ccom’è vvero er foco de l’inferno
er Zanto Padre sce l’ha ffatta grossa!
E ppoteranno dí ssempr’ar Governo
li Monti, che jj’è ttocca una gran sbiossa,
e li Ternani, c’hanno vinto un terno.
17 aprile 1843
2002. Er viaggio de Frosolone
Nun dubbitate, no, nnun dubbitate:
nun ve state a ppij tutte ste pene:
nun ve scallate er zangue in ne le vene:
nun dite, fijji mii, ppiú bbuggiarate.
Er Papa è ddritto, er Papa è stato frate:
dunque si spenne a vviaggi, a ppranzi e a ccene,
è sseggno che le cose vanno bbene,
e cc’ar Monte sce fioccheno l’entrate.
Ma ccaso poi che sse vedessi bbrutto,
ggnente pavura! ’Na gabbella nòva,
quarche nnovena, e ss’arimedia a ttutto.
Ccusí armanco si er popolo se laggna,
se laggna a ttorto; e ’r Papa je lo prova
quanno er zant’omo va in carrozza e mmaggna.
1° maggio 1843
2003. La commedia der Trocquato
Dunqu’io jerzera, dopp’avé sserrato,
cenai, me prese sott’ar braccio Nina,
fesce un giretto, eppoi drent’a Argentina
a vvedé sta commedia der Trocquato.
Cristo! un parmo d’ometto, un disperato,
protenne de sgrinfià cco la reggina!
Eh ssi er re lo mannò a la palazzina,
io s’una forca l’avería mannato.
Ma llui ch’er tibbi nun j’annò a ffasciolo,
s’appoggiò un par de cazzottoni in fronte,
e sse fesce per dio com’un cetrolo.
E cquanno aggnede a lliticà ccor Conte?
A ppenzà come mai quer futticchiolo
ciaveva sempre le risposte pronte!
5 maggio 1843
2004. Er corpo der dilitto
Tutte bbusciarderie: la mi’ gallina
è entrata a ccasa vostra e ha ffatto l’ovo.
Da sto punto che cqui nnun m’arimovo:
ve l’ho intesa cantà ddrent’in cuscina.
E cquanno ciò mmannata Crementina
pe ppij ll’ovo mio, nun ce l’ha ttrovo:
seggno che vvoi sete arrivata ar covo
co la vostra santissima manina.
Eh nnun zerve attaccasse a ssanta Nega:
ecco cqua le du’ cocce d’ovo fresco
bbuttate via da voi for de bbottega.
Bbe’ bbe’, llassate aritornà Francesco,
e vvederemo un po’ ssi llui ve frega
peggio de quer che vve fregò er todesco.
10 maggio 1843
2005. La gatta-morta
Sí, ssí, ffídete tu de quel’aggnello,
de quer gneggnè, de quer coscemelova...
Si ttu ssapessi che ordeggnuccio è cquello!
Ma nnu lo pò ccapí cchi nnu lo prova.
Eh cce vò antro che ccacc er cappello
a ’ggni po’ de Madonna che sse trova!
Nun basta er rescità dda santarello
cantanno lettaníe a la Cchiesa-nova.
È un’animuccia quella llí, ppe Ccristo!,
da incollasse su’ padre in carn’e in ossa
e scaricallo ggiú dda Ponte-Sisto.
Saría capasce quela bbona pelle
de cavarcà mmagara a la disdossa
madre, cuggnate, zie, fijje e ssorelle.
10 maggio 1843
2006. Ce sò bbaruffe
Quest’è un fatto: da sí cche sse sposonno
sce passò ssempre inzin’all’ann’appresso
una pasce, una cosa, una..., ma adesso?!
Nun ze ponno ppiú vvede, nun ze pponno.
Lui ’ggni ggiorno se fa ppiú vvagabbonno,
piú scontento, piú bbirbo, ppiú..., e ll’istesso
pòi dí de lei, perché... Ggià, spesso spesso,
se ne danno, iddio sa, ffin che nne vonno.
Inzomma, via, lo scànnolo è arrivato
a un punto, a un punto, che..., ppuro vorría
trovamm’io ne li piedi der curato.
Un curato, capite?... A llui je tocca
d’abbadà ssi... Pperantro, fijja mia,
faccino loro: io nun ce metto bbocca.
11 maggio 1843
2007. Er bardassaccio de mane longhe
Te lo saressi creso? Un pichimeo,
un stronzo, un cirifischio, un reduscelli,
menà le mano, maneggià ccortelli,
e ammazzà ccom’un scribb’e ffariseo!
Ma ddich’io poi perché! Pperché Mmatteo
je disse: «Nun scocciamme li zzarelli!».
E sti fatti che cqui ss’ha da vedelli
in d’una Roma e immezz’a un Culiseo!
Eh? sti cazzetti! Oh vvatt’a ffida, vatte!
Sti sfrizzoli eh? sti tappi, sti mmerdosi,
sti pivieri, per dio!, sti sbusciafratte!
Sbudellà cquer pezzetto de scontento
che ppoteva accuccià ddiesci mengosi
de frati, e ccasomai puro er convento!
12 maggio 1843
2008. Le smosse de quella bbon’anima
«Era morto?» «Era morto». «E arzò le bbraccia?»
«E arzò le bbraccia». «Ma de che! mma indove!».
«Nena mia, quant’è vvero che mmó ppiove
l’arzò ddu’ vorte e sse toccò la faccia».
«Io n’ho vvisti morí da otto o nnove,
e ggnissuno m’ha ffatto sta smossaccia».
«E cquesto che vvò ddí, ssora cazzaccia?
C’è cchi sse move, e cc’è cchi nun ze move.
E nnun zuccede puro all’animali?
Dunque, dico, in che ddà sta maravijja?
Sò affetti de li spiriti vitali.
Vedete inzomma si cche ccaso strano!
E cquer Zanto che ffesce unnisci mijja
tutte d’un fiato e cco la testa in mano?».
12 maggio 1843
2009. La lavannara zzoppicona
Voi me guardate ste scarpacce rotte:
eh, ssora sposa mia, stateve zzitta
che cciò un gelone ar piede de man dritta
che nun me fa rrequià mmanco la notte.
Io sciò mmesso ajjo pisto, io mela cotte,
io sego, io pisscio callo, io sarvia fritta!...
Mó nun ce spero ppiú, ssora Ggiuditta,
sin che l’inverno nun ze va a ffà fotte.
Disce: «E ttu nun girà». Bbelli conzijji!
Sí, stamo a ccasa: eppoi? come se spana?
che abbusco? un accidente che jje pijji?
Ma ccazzo! a mmé cchi mme sce va in funtana?
chi mme ne dà ppe mmantené li fijji?
campo d’entrata io? fo la puttana?
14 maggio 1843
2010. Li fijji a pposticcio
«E ffarai bbene: l’accattà, ssorella,
è er piú mmejjo mistiere che sse dii».
«Nun ciò fijji però, ssora Sabbella».
«Bbe’, tte n’affitto un paro de li mii!».
«E ccosa protennete che vve dii?»
«Un gross’a ttest’er giorno». «Cacarella!
Me pare de trattà cco li ggiudii!».
«Maa, cco cquelli nun zei piú ppoverella!
C’è er maschio poi che ttanto curre e incoccia,
e ppiaggne, e ffiotta, e ppivola cor naso,
che jje li strappa for de la saccoccia».
«E a cche ora li lasso?» «A un’or’ de notte».
«E ssi ppoi nun lavoreno?» «In sto caso
te l’imbriaco tutt’e ddua de bbòtte».
14 maggio 1843
2011. La governante de Monziggnore
De bbotto: sentí ll’aria der paese
e mmorí ffu l’affare d’un momento.
Ma io che vve discevo? Era da un mese
ch’er male a llui je lavorava drento.
Bbono che cco cquer tibbi che jje prese
puro ebbe tempo de fà ttestamento:
che ssinnò stavo grassa io, sor Marchese,
cor nipotaccio suo tanto scontento!
Povero Monziggnore! «E ppiú a Lluscia»,
disce, «je lasso, ortre la paga in vita,
tutta la robba de la stanzia mia.
E ppiú, si la medema se marita,
vojjo che ddar mi’ erede je se dia
cento scudi, e ssii tutta arivestita».
15 maggio 1843
2012. Nove bbèstie nòve
Curre vosce ch’er Prencipe Turlòni
abbi fatto viení nnove camei,
1
che ddisce che ssò ccerti animaloni
de l’antichi paesi de l’Abbrei.
Disce ch’er Papa j’abbi detto: «E llei
che sse ne fa di quelli accidentoni?».
Disce: «Tre l’arivenno, e ll’antri sei
li manno a straportà ccarcia e mmattoni».
Disce: «Ma ccome! nnun ci sò ccavalli,
muli, somari, sor Prencipe mio,
d’addopralli in ste cose, d’addopralli?»
«Oh, Ppadre Santo, sce ne sò di scèrto»,
disce che ll’antro arrepricò, «ma Iddio
vò li camèi
2
pe bbazzicà ir deserto».
15 maggio 1843
1
Cammelli.
2
Pongasi qui l’accento enfatico sulla e di camèi.
2013. La vennita der brevetto
«E cche ssarieno le vostre protese
pe ottanta scudi su la mi’ penzione?
Che me volete dà, ssor Zalamone,
a rripijjalli a ccinque scudi er mese?»
«Ve darò vvintidua bbelli piastroni
tutti in moneta fina del paese,
ve va bbeene? Però ttutte le spese
a cconto vostro, com’è ddi raggione.
«Fregheve, sor giudío, che ggaleotto!».
«Mordivoi, vinticinque, e vve do assai».
«Ladro!». «Bbe’, andiamo, saranno vintootto».
«Tu vvòi pijjamme in gola». «Animo, via,
eccome trenta tonni; e, bbadanai,
ce state meglio voi per vita mia».
16 maggio 1843
2014. Er lionfante
«Pippo, annamo a Ccorea?» «Per che rraggione?»
«Pe vvedé sto lionfante tanto bbello».
«E a nnoi che cce ne frega de vedello?
Va’ a la Minerba e sfoghete, cojjone».
«Ma ddicheno che bballa er zartarello,
sona le zzinfonie, fa ccolazzione,
porta su la propòsscita er padrone,
dorme, tira er cordon der campanello...
Tiè ppoi ’na pelle, che ppe cquante bbòtte
de schioppo je sparassino a la vita
nun je se pò sfonnà». «Cqueste sò ffotte.
L’impito de ’na palla inviperita
è ccapasce a passà ppuro una bbotte,
fussi magaraddio grossa du’ dita».
19 maggio 1843
2015. Tre mmaschi e nnove femmine
De fijji sce n’aveva una duzzina,
ma pperantro l’ha ttutti assistemati.
Giujjo e Llesandro se sò ffatti frati,
Agusto sta in galerra a Tterrascina,
Creria morze l’antr’anno, Sarafina
ha ppijjato un pittore de Frascati,
Verginia sta a sserví co ccert’abbati
che la tiengheno come una reggina.
Filumena è ffattora a Ssant’Urbano,
Briscita annò ppe bbalia co un’ingresa,
e Amaglia scappò vvia co un ciarlatano:
poi viè Fferminia c’aricama in oro;
e ll’antre dua, che ssò Ccrèofa e Tterresa,
nun hann’arte, ma ccampeno da loro.
22 maggio 1843
2016. Er naso
Bbevi, bbevi, se sa,
1
ffussi
2
un colosso
ch’è un colosso, èssi puro apperzuaso,
3
Pio mio, ch’er primo pidiscello ar naso
va in cancherena, e nnun ze sarta er fosso.
Guarda Meo: cominciò ccor naso rosso,
poi je se fesce lustro com’un raso,
mó ccià una bbella piaga, e nun c’è ccaso
che sse la possi scaroggní da dosso.
4
Voantri ggiuvenotti ve fidate
che la gajjardaría c’avete adesso
ve sarvi da le vostre bbuggiarate.
Eppoi ecco llí er Papa: a ttemp’antico
s’allusingava puro lui l’istesso,
5
e ’r
6
naso mó jj’è ddiventato un fico.
23 maggio 1843
1
Si sa.
2
Fosse ancora.
3
Sii pure persuaso.
4
Che se la possa togliere, cacciar via, ecc.
5
Pure egli egualmente.
6
E il.
2017. La fittuccia
A ffuria de strazziasse in ner mistiere
de dormí, mmaggnà e bbeve e nnun fà un cazzo,
s’è arrivato a ffà llargo su a Ppalazzo,
e ll’hanno infittucciato cavajjere.
Lui dunque, che cconossce ir zuo dovere,
de ste fittucce n’ha ccrompate un mazzo,
e a ’ggni vistito, o nnovo o dda strapazzo
ce l’ha ffatte cuscí ddar cammeriere.
Anzi, la cosa je sta ttant’a ppetto
che ppuro a le casacche, o ssane o rrotte,
de sta fittuccia sce ne vò un pezzetto.
E ppresto presto m’averò dda iggnotte
de vedejjel’addosso drent’al letto
cuscita a la camiscia de la notte.
24 maggio 1843
2018. Er ricramo
E a cquer cazzaccio der padron de Rosa
sabbit’a ssera nun je prese er ramo
de portà ar Papa un fojjo de ricramo
su li guai de la ggente abbisoggnosa?
Sai c’arispose er Papa? «Ma cche ccosa!,
che mmiseria, li zoccoli d’Abbramo!
Lei puro
1
ha st’ideaccia stommicosa?
Noi però, ggrazziaddio, ce ne freghiamo.
2
E un’antra vorta che llei viè a Ppalazzo
co sti sturbi in zaccoccia, siggnor tale,
lei stii pur certo che nnun entra un cazzo.
Fino che ir Tesoriere nun zi stracca
di fà ddebbiti e vvenne
3
ir capitale,
staremo sempre in d’un ventre di vacca».
26 maggio 1843
1
Pure.
2
Ce ne ridiamo; non ce ne prendiamo pena.
3
Vendere.
2019. Li teatri de mó
Ste commediacce adesso che sse fanno
a Llibberti e ar Teatro d’Argentina
nun ze ponno soffrí: ppropio nun zanno
né de me né de te, ssora Ggiustina.
Er tempo de svariasse era quell’anno
che cce fu quela bbella pantomina
che Ppajjaccio maggnava, e Ccolombina
j’atturava occhi e bbocca cor un panno,
eppoi rubbava ar padre, eppoi de bbotto
scappava via da casa co Arlecchino
fascenno cascà er vecchio a bboccasotto.
Quelle sò ccose deggne che cce pijji
er parchetto appen’opre er butteghino,
e da portacce a ddivertí li fijji.
10 giugno 1843
2020. Er fruttarolo e l‘Abbate
Ma, ddit’un po’, cce séte o mme sce fate?
E st’assaggi ve serveno oggni sera?
Mó una bbruggna, mó un fico, mó una pera,
mó cquattro vaga d’ua, mó ddu’ patate...
Volevio crompà er banco e cquanto sc’era,
e ttratanto è da un mese c’assaggiate!
A cche ggioco ggiucamo, eh sor abbate!
Questo se chiama un cojjonà la fiera.
A mmé la robba me costa quadrini,
e io nun crompo er pizzutello e ll’ua
pe rrifacce la bbocca a l’abbatini.
È ora de finilla, fratèr caro;
e ccasomai ve bbatte er trentadua
sfamateve de torzi ar monnezzaro.
11 luglio 1843
2021. La Madòn dell’arco de Scènci
1
Sí, dditemel’a mmé cche ggiorn’e nnotte
sce stavo a scotolà
2
la bbussoletta!
Miracoli?! N’ha ffatti una carretta.
Le grazzie poi le scavolava a bbótte.
3
Frebbe,
4
sputi de sangue, teste rotte,
gobbi, secchi, ssciancati... Poveretta!
Pareva che cciavessi
5
una riscetta
pe ttutti li bbastardi e le miggnotte.
6
Eppoi s’ha da sentí cquarche ccazzaccio:
«Ma ccome si pò ffà ttutto st’inferno,
co un goccio d’ojjo e un fir di carcinaccio?».
Come se fa?! Mma ppozziat’èsse fritti!
E ccome fanno quelli der Governo
che ammazzeno li cani co l’editti?
7
20 luglio 1843
1
Immagine in tela, situata presso l’arco del Palazzo Cènci. La fama di taumaturga fu da essa acquistata ex abrupto
nello scorso giugno per merito di un muratore poltrone, che, fintosi storpio e poi risanato per virtù di quella, divenne
egli stesso un oggetto di ammirazione, buscando di belli e buoni quattrini dalla pietà dei credenti. Sparsasi appena fra
i devoti la notizia del prodigio, trasse tosto su quel luogo infinita torba d’infermi, e non è a dire se il popolo entusiasta
li predicasse tutti esauditi. Sbucarono intanto da ogni parte zelanti scotitori di bossoletti, accattando limosine per
Maria Santissima, limosine il cui provento saprà la Beata Vergine in qual mani ed usi andassero a terminare.
Stabilironsi contemporaneamente sotto il prodigioso simulacro tre sinistre facce di popolani, che, assisi in contegno di
gravi triumviri, innanzi a un descaccio ricoperto da una tovaglia d’osteria, cominciarono a spacciare immaginette,
bambagia intrisa nell’olio della votiva lampada, e raschiatura della sacra muraglia: ogni cosa a un baiocco per cartina;
mentre altri pii loro confratelli girovaghi scorreano per la intera città gridando a tutta gola: Èccheve l’orazzione,
èccheve er vero ritratto de’ la Madòn dell’Arco de’ Scènci, tanta miracolosa. Pel quale rapido smercio andarono in
breve spogliate le officine di quante vi giacessero vecchie e ammuffite madonnelle a bulino, e non importa di qual
figura e di qual nome o invocazione; ché anzi facilmente s’intrusero nel religioso mercato e Sanfilippi e Sanfranceschi
e Santantoni d’ogni abito e regola. Fervea la santa opera da due o tre giorni, allorché finalmente per la prudenza del
Cardinale Vicario venne di notte rimossa la immagine dalla sua parete, e collocata nella vicina chiesa di Santa Maria
del Pianto, ove continuò per breve altro tempo ad attirare il concorso de’ postulanti e lo scandalo delle grida, finché a
poco a poco cadde in dimenticanza la Vergine benedetta, non che la storia de’ suoi miracoli.
2
Ci stavo a scuotere ecc.
3
Le versava a botti.
4
Febbri.
5
Ci avesse: avesse.
6
Bagasce.
7
All’avvicinarsi della più calda stagione si provvede per
editto alla uccisione de’ cani vagabondi onde preservare il popolo dal pericolo dell’idrofobia. Pubblicata la stampa, il
Governo, come credesse distrutti i cani col solo fatto della pubblicazione, di null’altro più suole occuparsi, e al
termine dei giorni estivi i cani trovansi piuttosto moltiplicati.
2022. Er cammerata de li Siggnori
E ttu pparli co mmé dde li Siggnori?!
co mmé cche cce fo vvita tutto l’anno?
co mmé cche ll’ho oggnisempre ar mi’ commanno?
co mmé cche li conosco drent’e ffori?
Fijjo, io so le gattacce indove vanno,
li nomi de li loro creditori,
le panchiane c’affibbieno, l’onori
c’arrubbeno, le trappole che ffanno...
Bast’a ddí cc’oggni ggiorno che ffa Iddio
sto ccor Conte, e cce sto ccor mi’ decoro,
ché indove che vva llui sce vado io.
E cquann’hanno rïarto, Madalena,
me vederessi sempre llí cco lloro
ne la stanzia der pranzo o dde la scena.
29 luglio 1843
2023. La compassion de la commare
Chi? cchi è mmorto? er zor Checco?! Oh cche mme dichi!
Me fai rimane un pizzico de sale.
E de che mmal’è mmorto, eh?, dde che mmale?
Ma ggià, de che! de li malacci antichi.
Ggesusmaria! chi vvò ssentì Ppasquale
quanno lo sa, cch’ereno tanti amichi!
Ma ggià, er zor Checco, Iddio lo bbenedichi,
l’aveva, veh, una scera de spedale.
E cc’ha llassato? me figuro, stracci.
E la mojje che ddisce, poverella?
Sò ffiniti, eh?, li ssciali e li Testacci.
Vedova accusì ppresto! Ma ggià, cquella!
Nun passa un mese che, bbon pro jje facci,
va cco un antro cornuto in carrettella.
30 luglio 1843
2024. L’arisoluzzione
Oh ttu ccanta! sò ssorda, sora Bbona.
Fiato spregato, via, parole ar vento.
Quietateve, o vv’appoggio er comprimento
de piantavve cqui ccome una minchiona.
È inutile: ciò ffatto er giuramento:
avessi da impeggnamme la corona,
quell’assassino e cquella su’ puzzona
ciànno da stà: li vojjo vede drento.
Che! mm’ha ppijjat’a ggode er zor Giuanni?
E abbozza, e sserra un occhio, e ffa’ la ssciota...
Voressivo c’aspetti che mme scanni?
E cche ccosa se penza sto stivale?
Ar fin de fine j’ho pportat’in dota
trenta bbelli piastroni sur zinale.
1° agosto 1843
2025. ’Na ssciacquata de bbocca
Disce: vanno pulite. Ebbè? cce vanno:
Chi ha ddetto mai de nò? cchi vve lo nega?
Ma sta painería come se spiega
cor culetto scuperto de l’antr’anno?
Disce: cìanno quadrini. Ebbè? cce ll’hanno:
sò rriccone: la grasscia je se sprega.
Ma Ddio sa cco cche bbuscio de bottega
fanno quer po’ de guadaggnà cche ffanno.
Eh rrïuprisse l’occhi er zor Filisce!
Povero padre! povero cojjone,
che le credeva l’àrbera Finisce!
Saranno, veh ddu’ regazzucce bbone.
Cqui nnun ze fa ppe mmormorà: sse disce
pe ddí cche ssò ddu’ porche bbuggiarone.
4 agosto 1843
2026. Sentite che ggnacchera
Io me ne vado dunque in Dataria.
Me presento a un abbate: «Abbia pascenza»,
dico, «voría du’ righe de liscenza
pe sposà mmi’ cuggina Annamaria».
Disce: «Fijjolo, si chiama dispenza».
«Basta», dico, «sia un po’ cquer che sse sia...».
Disce: «E ir zuo nome?». Dico: «Er mio? Tobbia».
«E ir casato com’è?» «Schiatti, Eccellenza».
«Ggià llei», disce, «lo sa: ppe li cuggini
ci vò sseiscentonovantotto scudi,
quarantasei bbajocchi e ttre cquadrini».
Figuret’io come me fesce in faccia!
Io credevo tre ggiuli iggnud’e ccrudi
com’er permesso p’er fuscil da caccia.
6 agosto 1843
2027. L’accordi
A ssei ora tu ppiantete ar cantone
der drughiere llà in faccia; e ccrede puro
che ggnisuno te scopre de sicuro
pe vvia che cce dà l’ombra der lampione.
Ammalappena poi dorme er padrone
io traopro un spirajjo de lo scuro.
Tu vva’ allora a la larga, e mmuro-muro
scivola adasciadascio in ner portone.
Ma abbada, veh, nnun vení ssú, Ppasquale,
infino che nun zenti er zeggno mio.
Quann’io raschio tu appizza pe le scale.
Fa’ cquattro capi, e ar resto ce penz’io:
entramo... eppoi, se sa, cche cc’è de male?
Ce salutamo e cce discemo addio.
6 agosto 1843
2028. Le ficcanase
Cosa vedi, eh? cche ffa?... ddi’, scopri ggnente?
Traòpri un antro po’ cquelo sportello.
Che? cc’è un paino? indov’èllo? indov’èllo?
Mannaggia! nun ze vede un accidente.
Ecco, ecco, viè avanti: e cquant’è bbello!
Chi ddiavolo sarà?... Ma cche pparente!
Uh, vva’, vva’, lui je stuzzica un pennente...
Lei jessu le deta er mazzarello...
Che ffiandra! e nnun ce fa l’innoscentina?
Sta ffresco er zor milordo! oh llui scià ddato!
Vederà llui si è ssemmola o ffarina!
S’è ccacciat’er cappello!... mó sse caccia...
Statte zzitta, nun ride... Uh!... cche ppeccato!
Ciànno serrata la finestra in faccia.
7 agosto 1843
2029. Tra er càncher’e la rabbia
Me bburli?! invesce de sposà Ccarlotta
l’ha ppiantata e sse pijja Nannarella?
Eh, cquesta puro è ’na bbona zitella:
nun dubbità cch’è ’na cosuccia jjotta.
Io le donne le guardo a la connotta:
nun bado a cchi è ppiú bbrutta o cchi è ppiú bbella.
Cqua ssemo tra la bbrascia e la padella:
Carlotta tiggne e Nnannarella scotta.
L’ho ssempre detto io: quer Zebbastiano
tanto fa, tanto disce e ttanto ggira
c’a la fine dà er muso in ner pantano.
Lui se lassa accecà ddar tira-tira;
e nun capissce er povero gabbiano
che ppo’ un giorno se piaggne e sse sospira.
9 agosto 1843
2030. Er regazzo de bbottega
Ôh, ssor mastro, tenetevel’a mmente:
io nun me vojjo scorticà li piedi.
Voi ve sbajjat’assai: quanno ciaggnedi,
sonava mezzoggiomo a Ssan Cremente.
Bbe’, cquanto stiedi a ttornà? cquanto stiedi?
Che?! un’ora?! Un cazzo: nun è vvero ggnente.
Voría che mme pijjassi un accidente
si cce curze nemmanco un par de crèdi.
De che?! ddar Culiseo a Ssan Giuvanni
ce se va e cce se viè ccor un minuto?
Ce se va cco la freggna che vve scanni.
Eppoi, senza sto scànnolo futtuto,
si ssete stufo, a mmé mme sa mmill’anni
d’annammene e vvedé cchi è ppiú ccocciuto.
9 agosto 1843
2031. L’innustria der mestiere
Ve do pprima du’ essempi, eppoi me spiego.
Che addopra in ne le cammere er pittore?
colori senza colla. Er muratore?
dà ccarcia senza carcia e ssenza sprego.
Er cerarolo spaccia all’aventore
cannelotti coll’anima de sego.
Fin quer zervo-de-ddio de mastro Diego
lavora leggno fresco e sse fa onore.
Ecco: io dunque, che ssò mmatarazzaro,
m’ingeggno co le scímisce, e a ’ggni letto
ar men’ar meno sce ne ficco un paro.
Lassa che ppoi la scimiscetta covi,
e in cap’a un mese o ddua co sto ggiuchetto
vedi si ffai li matarazzi novi.
13 agosto 1843
2032. Le carrozze a vvapore
Che nnaturale! naturale un cavolo.
Ma ppò èsse un affetto naturale
volà un frullone com’avesse l’ale?
Cqui cc’entra er patto tascito cor diavolo.
Dunque mó ha da fà ppiú cquarche bbucale
d’acqua che ssei cavalli, eh sor don Pavolo?
Pe mmé ccome l’intenno ve la scavolo:
st’invenzione è ttutt’opera infernale.
Da sí cche ppoco ce se crede (dímo
la santa verità) ’ggni ggiorno o ddua
ne sentimo una nova, ne sentimo.
Sí, ccosa bbona, sí: bbona la bbua.
Si ffussi bbona, er Papa saría er primo
de mette ste carrozze a ccasa sua.
15 novembre 1843
2033. Le fattucchieríe
Quant’è vvero, Micchele, che ssò vvivo,
quer prete a mmé mme puzza de stregone:
va in certi loghi e cco ccerte perzone
ch’io nu l’arrivo a intenne, nu l’arrivo.
Tiè un cannello de vetro e argento vivo
attaccat’a un rampino in d’un cantone,
e ’ggni ggiorno sce pijja condizzione
der tempo bbono e dder tempo cattivo.
È ccapasce de divve: «Domatina
vò ttirà vvento, vò ffà ttemporale»;
e ’r pretaccio futtuto sc’indovina.
Abbasta, er zor abbate abbi ggiudizzio,
ch’io nun ce metto né ppepe né ssale
casomai d’accusallo a Ssant’ Uffizzio.
15 novembre 1843
2034. Li collarini
Quanno avevo da mette quer regazzo
pe cchirico
1
a Ssan Chirico e Ggiuditta,
2
fesce
3
ar barettinaro: «Padron Titta,
ciavete un collarino da strapazzo?».
Lui opre la vetrina de man dritta
e mme dà un collarino pavonazzo.
Dico: «Eh sto coso nun me serv’a un cazzo:
lo vojjo nero io, sor faccia affritta».
Disce: «Che?! nnero?! uhm! caro ve costa.
Neri a sti tempi, indove li trovate?
Li neri mó bbisoggna falli apposta.
Mó nnun useno ppiú de sto colore;
perc’adesso oggn’abbate, appena è abbate,
è abbate ippisi-fatto
4
e mmonziggnore».
20 novembre 1843
1
Per chierico.
2
Santi Quirico e Giuditta, chiesa di Roma.
3
Feci: dissi.
4
Ipso-facto.
2035. Er tartajjone arrabbiato
Che cche annàte ssspaargènno ch’ìo me-mméno
sch-schia-sschiàffi e ppuu-ppúggni a Mmà-Mmarìa?
Chi-cchì v’iinfórma si a cca-ccàsa mia
cé-cee-cce-céno o nnu-nnu-nnún ce-céno?
Co-ccome dìte cch’io rru-rrúbbo er fièno
e bbia-bbiastìmo all’o-ll’o-ll’ooòsterìa?
Fi-ffinìtela un po’ dd-e fà ll-a spìa,
o vve bb-úggero a ccè-cce-ccèl zeréno.
Me mme spiègo cchia-cchiàro, sooór trommétta?
Abb-abbadàte a li faattàcci vóstri,
oo cc’è un ber bba-bbastóne cheé vv’aspètta.
E ddí-ddìtelo pú-puu-ppúro a cquélle
sch-sch-scrofàcce, a cque-cque-cquélli móstri
de le vò-vvo-vvo-vvòo-vvostre sorèlle.
23 novembre 1843
2036. La Scerriti
1
Cert’è che sta Scerriti, sor Cammillo,
tra ffiori a cceste e scartafacci a bbótte
da du’ora inzinent’a mmezza notte,
sartò in zur gusto de ’na purcia o un grillo.
Ma cc’a ’ggni zzompo meritassi un strillo
da sti guitti fijjacci de mignotte,
saría faccenna de mannà a ffà fotte
loro e cchiunque s’azzardassi a ddillo.
Eh da cqui avanti appena pisscia un cane,
che ssiino bbuggiarati in zempiterno,
se sfogheranno a ffuria de campane.
A mmé cchi me fa spesce è dder Governo,
che invesce, cazzo, de fa ccresce er pane,
avería da impedí ttutto st’inferno.
autunno 1843
1
Per la beneficiata della ballerina Cerrito in autunno 1843, al Teatro Aliberti.
2037. La caccia provìbbita
Ma tte possi ingozzà mmille detali
de seme staggionato de dolori!,
le lègge chi le fa? li monziggnori.
Le lègge chi le fa? li cardinali.
Che spesce dunque de li mi’ stivali,
si er banno su la caccia è usscito fori
quanno ggià sti futtuti cacciatori
aveveno spariti l’animali?
L’antro mese sc’è stato concistoro:
li cardinali novi in conzeguenza
doveveno penzà a li casi loro.
Senza un spiduccio d’uscelletti, senza
quer po’ de svojjatura e dde ristoro,
se poteva fà un pranzo da Eminenza?
4 marzo 1844
2038. A oggnuno er zuo
Ma inzomma, de che ccosa se lamenta?
Da che pparte j’ho pperzo de rispetto?
Ch’edè st’inzurto che llei pijja a ppetto
che ne vò ammazzà vventi e fferí ttrenta?
Tutt’è cche mmarteddí, ggiú ppe la sscenta
de la Salita de Cresscenzi, ho ddetto
ch’è ’na cristiana che nnegozzia in Ghetto
de carnaccia, de tinche e de pulenta.
Disce: «Ma cquesto me viè a ddí mmignotta».
Bbe’ cquann’anche arrivassimo a sto nome,
io nun pòzzo capí pperché jje scotta.
Chi a mmé mme disce Oste, io me ne grorio.
E er dí pputtana a llei sarebbe come
chiamà Ssu’ Santità Ppapa Grigorio.
21 giugno 1844
2039. La partenza der primo bbattajjone
«Quanti ereno?» «...Un zeiscento». «E ttu, l’hai visti?»
«Je sò ito anzi appresso da la gujja
der Popolo inzinent’a Ppapa Ggiujja
co ttre ccompaggni mii puro fochisti».
«Pènzete, eh? l’accidenti e li peccristi!».
«Eh ffurno ppiú cc’a ppasqua l’allelujja».
«E le sgrinfie?» «Fasceveno una bbujja
da intontí li tammurri e li bbannisti».
«Perantro, co sto callo, poverini!...».
«Ggiàa, sta ggente j’arriva mezza morta».
«Ortre er risico poi de l’assassini».
«Ah in quant’a cquesto no; pperché a la Storta,
sibbè cche nun portassino quadrini,
se disce che ppijjaveno la scorta».
22 giugno 1844
2040. L’arrivo der riggimento
Malappena arrivato er riggimento
se presentò a ccavallo er generale
discenno: «Fijji, o state bbene o mmale,
v’avete da purgà tutt’e sseiscento».
De fatti, er giorn’appresso, lo spezziale
portò un callaro e ccert’acquaccia drento,
e, un sgummarell’a ttesta, in d’un momento
dispennò ssin ar fonno er capitale.
Poi, doppo avelli conzolati tutti,
disse: «Pe nnun trovavve in quarch’incastro,
oggi e ddomani nun ze mmaggna frutti».
Trenta scudi importorno li purganti,
ma in ner conto che ddiede er quartier-mastro
c’era: e ppiú ar votacantera antrettanti.
4 luglio 1844
2041. Er Papa a Ssan Pietro
Jeri er Papa fasceva, sor Chiappini,
la su’ visita ar Zanto Sagramento,
e sse ne stava llí ttutto contento
tramezz’a cquela frega de cusscini,
ma ggià da un’ora sce covava drento;
e cquelli sganganati papalini
se storceveno come bburattini
quann’er ferretto j’è un po’ ttroppo sscento.
Arfine er Monziggnor Cirimoggnere
se fesce apposta sscivolà l’uffizzio
da puttanone vecchio der mistiere.
E er Papa? Sartò ssú, ppijjo l’abbriva,
e sse n’aggnede a ccasa a ppriscipizzio.
Azzeccatesce un po’? Bbravo: dormiva.
5 dicembre 1844
2042. Er Papa a Ssan Pietro
Me sce sò ttrovo io puro: anzi in ner vede
quer bon zervo de Ddio ccusí ariccorto,
che ppareva un cadavero de morto,
ammazzato pe ccausa de la fede;
fesce a la mojje de Matteo lo storto,
che stava ar pizzo d’un pilastro a ssede,
dico: «Nun pare llí, ssora Presede,
Cristo che facci l’orazzion’all’orto?».
Ste parole l’intese un berzitello,
che gguardava ’ggni cosa, appiccicato
co la panza a li ferri der cancello.
Disce: «Fijjolo, ve sete sbajjato.
Voi chiacchierate de passione, e cquello
s’inzoggna le ricchezze de lo Stato».
5 dicembre 1844
2043. Er pane per antri denti
Pe ppiascemme, cojjoni si mme piasce!
Che ggraffiona, pe ddio, che ttraccaggnotta!
bianca ppiú de la carcia e la ricotta:
co ddu’ rossi che ppareno du’ bbrasce!...
Nun zò cquesti li guai: quer che mme scotta,
ppiú cche ssi stassi immezzo a ’na fornasce,
è de vedella, e de lassalla in pasce;
ché, ppe ddisgrazzia mia, nun è mmiggnotta.
Quella scerca marito; e ppe sposalla
o cce vò rrobba ar zole o bbaiocchelle,
perché de casa sua sta ttoppo calla.
Che sò ttre giulî ar giorno, Raffaelle?
De car’e ggrazzia sce se pò strappalla,
e sse ne vanno in tacchie e gguaïnelle.
6 dicembre 1844
2044. Er fijjo maschio
Bbe’? A li discorzi che mmó avemo intesi,
sor’Artomira, sce sò nnòve bbone.
È vvienuto er maschietto eh sor Zimone?
Se vederà sti lanternoni accesi.
Viè, ccocco mio... Salute come pesi!
E cquesto cqui vvò ddiventà un Zanzone!
Ma davero che ppezzo de fijjone!
Nun pare una cratura de tre mmesi?
Guarda si cche ccapelli appena nato!
Senti che ccarne toste e scrocchiarelle!
Eh cquesto se pò ddí bbell’e allevato.
E ccome fissa! e ccome striggne! e ccome
succhia er deto! Ve scortica la pelle.
E sse chiama? Pasquale? Un gran ber nome!
8 dicembre 1844
2045. La fijja ammalorcicata
Io nun zo ppiú cche ffamme. Una regazza
che inzin’a ccarnovale, sora Ghita,
pijjava foco come l’acquavita
e ttutt’er giorno me bballava in piazza!
’Na fijja che ggnisuno la strapazza,
s’ha da èsse accusí arinzinichita,
sscelonita, anniscita, intontolita,
come vienissi mó dd’un’antra razza!
Nun dorme guasi mai, nun ha ppiú ggusto
de maggnà, rridà ffora, se viè mmeno,
je cressce er corpo, je fa mmale er busto...
Povera fijja! povera cratura!
Sapessivo, commare, quer che ppeno!
Ah! de scerto cqui cc’è cquarche ffattura!
8 dicembre 1844
2046. Dar tett’in giú
«Parlanno co li debbiti arispetti,
dico, diteme un po’, ssete zitella?».
Disce: «Eh... ddar tett’in giú...». Dico: «Sorella,
perché mm’arisponnete a ddenti stretti?».
E llei zzitta. «Ebbè», ddico, «sti rospetti
v’escheno fora o nnò, ccocca mia bbella?».
Disce: «Eh... dar tett’in giú...». Dico: «Sabbella,
famm’er zervizzio, lassa stà li tetti».
Je volevo in zostanza a sta sciufeca
fà ccapí cch’io nun ero una cratura
da pijjamme una mojje a ggatta-sceca.
Ma, inzomma, nun ciò avuto antra risposta:
e sott’a sti su’ tetti ho ggran pavura
che cce sii quarche bbuggera niscosta.
9 dicembre 1844
2047. La cojjonella de la ssciabbolotta
Io nun zò bbella, e nnun zò ttanta ssciorna
d’avé le protenzione de sta nana.
Ma nemmanco me credo una bbefana,
e nun me pare de portà le corna.
E ssi mme torna a ccojjonà, mme torna,
quela bburzuggna spaporchiaccia cana,
troverà li cazzotti a la romana
e ppronto casomai chi jje li sforna.
Sgorgia spappina! Lei?! co cquela faccia?!
co cquer paro de zzèrule de scianche
e co cquelli du’ chìfene de bbraccia?!
Mora canizza! E a mmé mme dà la guazza?
lei, che ppe ffàsse le pellacce bbianche,
se le dipiggne come una pupazza!
9 dicembre 1844
2048. Li miracoli der pelo
L’avete vista la siggnora Tuta
come s’è ttutta arimpipirizzita?
come s’è ddata a l’amorosa vita?
E nun je s’ha dapporca futtuta!
Lei tante cianarie, faccia ggialluta,
e a mmé mme tocca de morí ingriggnita!
Ma io me chiamo sempre Margherita:
io nun ciò ggnisun Zanto che mm’ajjuta.
Senza er zu’ San Grigorio Tammaturgo
chi nun ha ggnisun’arte né mmistiere,
li pò ffà ttanti sfarzi, eh? mme la purgo.
Ebbè sto San Grigorio è un furistiere,
è un russio che sse chiama Pietro Bburgo,
e la va a cconzolà ttutte le sere.
9 dicembre 1844
2049. Li comprimenti de le lavannare
«Passa er Papa, eh, Luscía?» «Perché, Vvincenza
«Nu lo vedi si cquanta puzzolana?»
«Care quele fijjacce de puttana!».
«Fússimo fijje tue, bbrutta schifenza».
«Eh regazze, pagamo sta mammana
c’avémo fatta lavorà a ccredenza?»
«Eh scrofa, chi tt’ha ddata la liscenza
d’usscí da Ripa pe vvení in funtana?»
«Pe ffà llogo a llorantre usscímo noi».
«La pulentara è mmatta in ner ciarvello».
«Tirate, zzitellucce, er fiato a vvoi».
«Addio porca da grasso pe l’assóggna».
«Addio vacche da carne de mascello».
«A ffiumaccio, a la chiavica, caroggna».
9 dicembre 1844
2050. Er trafichino ingroppato
È rricco assai. Ggià cquanno mòrze er zio
je lassò er gallinaro sano sano:
poi da vent’anni che ffa l’ortolano
n’ha impozzati, di’ ppuro, un buggerio.
E ssapessi si cquanto è rraffacano!
Pe stiracchià nnun ce la pò un giudio.
Quello è un ometto bbono, te dich’io,
d’avé un mijjaro o ddua ner canterano.
Lui dateje un bajocco ch’è un bajocco:
tanto lo svorta, lo stira, lo stenne,
che cce campa da mó ssin a ssan Rocco.
E arimistica, e imbrojja, e aricutina,
che ddovería stà mmosscio, a cquer che spenne,
e a ccasa sua c’è er latte de gallina.
9 dicembre 1844
2051. La lista de le mance
«Ôh ddunque ripassamo un po’ la lista.
Ha ppagato quer guitto d’avocato?»
«Sí, cc’è er zeggno». «E ll’orefisce?» «Ha ppagato».
«Poi chi antro?» «Er barbiere e ll’arbanista».
«Avanti». «Li ggiudii: don Giammatista:
l’uditore e er notàr der Vicariato:
er conte: er zalumaro: er zor Donato:
er medico: er zartore: er zempriscista...».
«Uh, a pproposito, di’: cquer maggnapane
che ggnisempre sce dà ttanto strapazzo?»
«Quello nu la vò intenne, sor decane».
«Ebbè, vvojantri, si ariviè a ppalazzo,
badate bbene, a sto spilorcio cane,
de nun passajje l’immassciata un cazzo.
9 dicembre l944
2052. L’incontro der ladro
«E cquanno l’incontrassi?» «Verzo sera,
c’aritornavo dar palazzo Pacca».
«E indove?» «Propio avanti a la bbaracca
der friggitore Ambroscio er panzanera».
«Marciava in farde?» «Nò, cco ’na casacca».
«E cche ffaccia t’aveva?» «Uhm, brutta scera».
«Ma, era granne..., piccolo... com’era?»
«Pse, un ometto accusí de mezza tacca...».
«Ma ssei sicuro poi che ffussi quello?»
«Eh, ssenti, amico: si nun era lui,
quer che pportava in mano era er mi’ ombrello».
«E allora tu nu lo pijjassi in petto?!»
«Che vvòi, mannaggia li mortacci sui!,
me se messe a scappà pp’er vicoletto».
9 dicembre 1844
2053. Lo sscialacòre
Piano co sto spregà, Ppavolo mio:
specchiete cqua in ner zòscero de Nena.
Viggne, grotte, osteria, la casa piena
de tutte sorte de grazzia-de-ddio...
E mmó adesso? dimannelo a ttu’ zio:
mó sse commatte er pranzo co la scena.
Mó cch’è vvecchio la sfanga ammalappena
co cquer búscio d’ortaccio in Borgo-Pio.
Pavolo, abbada: nun buttà un conzijjo.
Tu ssciupi troppo co ste porche caggne;
e cquesta è la ppiú ppena che me pijjo.
Fin che cc’è ggrasso te faranno sfraggne,
te sporperanno vivo; e ssí e nnò, ffijjo,
te lasseranno poi l’occhi pe ppiaggne.
9 dicembre 1844
2054. Mastr’Andrea vedovo
Ripijjà mmojje tu?! Ddoppo le pene
diliggerite co cquel’antra vacca?!
Dunque la tu’ pascenza nun è stracca
de pagà le tu’ corna a ppranzi e ccene?
Eppoi, ne l’età ttua, te sta mmó bbene,
cardèo mio bbello, de sposà una stacca?
Sai c’a cquesta je bbruscia la patacca,
e ttu ppoco ppiú ssangue hai ne le vene.
Ggiudizzio, mastr’Andrea: nun curre er risico
d’aribbuttatte in d’un inferno uperto
pe vvive disperato e mmorí ttisico.
Annà a impicciasse co rregazze un boccio!
Zzitto, nun t’inquietà: lo so de scerto
c’hai ggià vvotato er tu’ primo cartoccio.
9 dicembre 1844
2055. La Mamma curiala
Perché ddunque sò sporche le funtane,
sor Presidente, cià cche ffà mmi’ fijja?
Lei, Eccellenza, pijja un grancio, pijja,
e ffa mmale a ddà retta a le puttane.
S’ha da sentí ttutt’e ddua le campane
prima de fà ’no sfrescio a ’na famijja.
Quela santa però ssenza viggijja
forzi sce s’ha da mozzicà le mane.
Già, sta quarella è ttutto rosichino
che la mi’ fijja ha ttrovo a ffasse sposa,
e a llei je tocca de resa ddentino.
Ma llei se pò addannà cquanto je pare,
c’avanti che ffiorischi sta su’ rosa,
eh, cc’è da fichi-fà, ssora commare!
10 dicembre 1844
2056. La regazza lassata
M’era mó ccapitato un conciapelle
fijjo der zervitor de Tammerlicche.
Ebbè, ppe la miseria ho pperzo nicche
e ppartito; e cciò mmadre e ddu’ sorelle!
La dota a mmé?! Cchi mme la dà? Bberlicche?
Chi cciajjuta a nnojantre poverelle?
Le dote de le povere zitelle
toccheno tutte a le regazze ricche.
Tratanto eccheme cqua, ssora Sciscijja:
quest’antro puro me l’ha ffatta tonna:
tutti me vonno e ggnisuno me pijja.
Ma ggià, cquela bbon’anima de nonna
me lo disceva: «Statte quieta, fijja:
ce penzerà er Ziggnore e la Madonna».
10 dicembre 1844
2057. L’accoppatura
Rotta de collo, caroggnaccia strega!
Co cchi ll’ho? ll’ho cco vvoi, sora ssciuerta.
Chi ariserrava la finestr’uperta?
Sta lússcia cqua, cchi l’ha bbuttata? Bbrega?
No, sséte stata voi pe ccosa scerta,
e nnun zerv’attaccasse a ssanta Nega.
Ce sò li tistimoni llí in bottega
der cucchiere der prencipe Caserta.
Ah, llei nun butta mai, fijja d’un cane!
Ccusí ’ggni vorta je cascassi un dente:
ccusí jje se seccassino le mane.
Bbe’, bbe’, mmó vvado a ddí mmezza parola
a ’na scerta perzona, eppoi lei sente
si aripaga cappello e ccamisciola.
10 dicembre 1844
2058. La portrona nova
M’arimanna cqua llei, mastro Matteo,
a ccantavve la solita canzona:
si jje sbrigate mai quela portrona
foderata compaggn’ar canapèo.
Provamosce un tantino er culiseo.
Ah bbenemio che ppacchia bbuggiarona!
Nun ce la pò er zofà cche la padrona
ce voleva accuccià Ggiusepp’ebbreo.
Co sta razza de mobbili a ppalazzo,
che mmaravijja poi si a li siggnori
je viè la vojja de nun fà ppiú un cazzo?
Viva la faccia de chi ccià cquadrini!,
che pponno sfeghetà li servitori
co le chiappe tramezz’a sti cusscini.
10 dicembre 1844
2059. Li ladri pagati
Queste sò zzuggne; e spreghi er fiato, spreghi,
pe ccercà ll’ambo e cciaveressi er terno.
Lassa dí a mmé: ttu cciarli in zempiterno
e ppiú tte vòi spiegà, mmeno te spieghi.
Pe li ladri, de llà cce sta l’inferno;
ma de cqua cche cce vò? cchi tte li leghi.
Dunque, cuncrudo io, si ne l’impieghi
ce stanno ladri, ce li vò er governo.
Me dirai: come sce li vò? Ssò ppronto.
Co ’na mezza parola te capascito,
e vvederai che tte viè bbene er conto.
No cch’er Papa je manni er zu’ bbonprascito;
ma ssi llui sce s’ammaschera da tonto,
quell’antro che ha da dí? Cc’è er patto-tascito.
10 dicembre 1844
2060. Le bbotteghe serrate
Quant’a osservà le feste, sor Ilario,
sò cco vvoi: è de ggiusto: è de dovere.
Ma cche jj’è a Ddio si un oste o un caffettiere
scantina un tantinello in ne l’orario?
Lui se ne ride er Cardinar-Vicario,
perché ssi a llui je se ssciojje er braghiere
cià a ccasa sua bbon coco e credenziere
bell’e ppronti co tutt’er necessario.
Nun dico ggià cco le parole mie
c’abbi in tutta la festa una perzona
da stà ppe li caffè e ppe l’ostarie.
Ma cche la ggente sii puro províbbita
de levasse un crapiccio a la scappona,
de maggnà un tozzo o de pijjà una bbibbita!...
10 dicembre 1844
2061. Li casotti novi
Sonetti 2
Er bussolotto novo a Ssant’Ustacchio
c’avete fatto lei, sor Archidetto,
accusí ppoco fonno e accusí stretto
pe Ppasqua-bbefania nun zerve un cacchio.
Chiuso, abbasta de méttesce un pennacchio
perché ppari un giaccò dd’uffizzialetto;
e uperto cosa sc’è, ssia mmaledetto?
otto bbusci da vénnesce l’abbacchio.
Disce: «Ma cquelli antichi ereno vecchi!».
E nun potevio fàlli novi e ggranni?
Vedi che bber parlà da mozzorecchi!
Sò stati bbene quelli pe ttant’anni;
e ppe la fernesia de fà vvertecchi
mó vve state a pij ttutti st’affanni!
18 dicembre 1844
2062. Li casotti novi
Fatt’è cche mmartedí, ssor Checco Piave,
a la porta dell’urtimo casotto
(che, nnun zò ddí pperché, ffra ttutt’e otto
era rimasto sfitto e cchius’a cchiave)
attaccato de sott’all’architrave
sce fu ttrovo ’na spesce de strammotto
da pagasse coll’ojjo der cazzotto,
e ddisceva accusí: Vvero Concrave.
A mmé mme pare una cojjoneria.
Cosa sc’entra er Concrave ar paragone
cor casotto de Pasqua-bbefania?
Cqua cce sò li pupazzi, in concrusione,
e llà li Cardinali, in compaggnia
de tant’antre bbravissime perzone.
19 dicembre 1844
2063. La novena de Natale
Eh, ssiconno li gusti. Filumena
se fa vvení cqueli gruggnacci amari
de li scechi: Mariuccia e Mmadalena
chiameno sempre li carciofolari;
e a mmé mme pare che nun zii novena
si nun zento sonà li piferari:
co cquel’annata
1
de cantasilena
che sserve, bbenemio!, sò ttroppi cari.
Quann’è er giorno de Santa Caterina
che li risento, io ciarinasco ar monno:
me pare a mmé dde diventà rreggina.
E cquelli che de notte nu li vonno?
Poveri sscemi! Io poi, ’na stiratina,
e mme li godo tra vviggijj’e ssonno.
23 dicembre 1844
1
Andata.
2064. Er proveditore de Sant’Ann’in borgo
Poi bbisoggna penzà, ffratel Mattia,
che ppe li scinqu’o ssei de st’antro mese
ce toccheno cqui a nnoi le sette cchiese.
Voressivo lassà st’opera pia?
S’ha ddunque d’avvisà la Compaggnia
pe ppoté rregolasse ne le spese;
e intanto fà vvení da Maccarese
la ppiú mmejjo vitella che cce sia.
S’ha ppuro da fà scrive a Vviggnanello
p’er zolito bbaril de vin’assciutto,
e pper un antro o ddua ppiú ttonnarello.
Perch’io poi nun voría trovamme bbrutto;
ché ppe sta divozzione io sò, ffratello,
quer c’ha la bbêga de provede a ttutto.
26 dicembre 1844
2065. Er conto de la locanna
Dunque se paga o nnò, ssora Vincenza?
Sete dura de reni eh sora sposa?
Pare che vvoi ve la pijjate ariosa,
e a mmé mme se sbottona la pascenza.
Ve lo dich’io si ccome va la cosa.
Voi sete avvezza de campà a ccredenza:
sete avvezza a mmaggnà ppe ppropotenza,
e ar pagà ffate poi la stommicosa.
Inzomma, io v’ho alloggiata mezzo mese
co cquer drittone de vostro marito,
e vv’ho ffatte de ppiú ttutte le spese.
Voi fate la scordata, lui lo ssciocco.
Tratanto er mezzo mese è ggià ffinito,
e nun ze vede l’arma d’un baiocco.
26 dicembre 1844
2066. Er fattorino immriàco
Dico, semo da capo eh bberzitello?
avem’arta la pasqua un’antra vorta?
Con mé nun zerve de svortà la torta:
voi sete sciurlo, e assai, core mio bbello.
E ccom’è stato? assciutto o ttonnarello?
Zzitto! Appena t’ho vvisto entrà la porta,
saccoccione che ssei, me ne sò accorta
che nnun t’arregge sú mmanco er cappello.
Va’, vva’ a ccasa, e ddi’ ppuro a quela strega
de la madraccia tua, fijjo d’un mulo,
ch’io nun vojjo zzarlacche pe bbottega.
Ah, ppuro me sce bbrontoli eh vassallo?
E io te pijjerebbe a ccarc’in culo.
Ma ar culo, cocco mio, ciài fatto er callo.
26 dicembre 1844
2067. Quarantatré nnomi der zor Grostino
Cqua nun ze bbatte, sor cacazzibbetto,
sor zucchiasavonèa, ciscio-bbrodoso,
farfallino, scogliattolo, crestoso,
smerdacamiscia, passero, pivetto,
sgrullino, cacasotto, pisscialletto,
stronzo, fanello, chicchera, mmerdoso,
bbragalisse, pupazzo, moccioloso,
sartapicchio, sgriggnappolo, fischietto,
cacarella, bbavoso, spizzichino,
purcia, grillo, pidocchio, reduscello,
raggno, tappo, sscimmiotto, marmottino,
fongo, schifenza, cimiscia, franguello,
fichetto, cirifischio, ggnaccherino,
sbusciafratte, cazzetto e ccojjoncello.
26 dicembre 1844
2068. La minchionella
«Chi vvedo! Bbona notte ar zor Alò».
«Sor chicchera cor botto, bbona sera».
«Padrone ariverito, sor tullera».
«Servo, sor picchiarella e ppicchiabbò».
«Sente sto callo?» «E llei lo sente?» «Un po’».
«Me n’arillegro assai, sor panzanera».
«E a llei, sor peso farzo de stadera,
j’abbrusci er culo e la camiscia no».
«Dico, è llonga la vergna!» «Eh, cche vvò ffàcce?
Chi è stato er primo de toccà er cantino,
quanno viè ppoi la sua bbisoggna stacce».
«Ma ssi vv’essce però ’n’ antra parola,
l’affare va a ffinì ccor cazzottino».
«E io ve pianto un cortelluccio in gola».
26 dicembre 1844
2069. La mojjetta de bbon core
«E a mmé mme sa mmill’anni un’antra cosa».
«E sta cosa ch’edè?» «Nun pòzzo díllo».
«Perché nu lo pòi dì? ddimmelo, Rosa».
«Che mme schiatti quer porco de Cammillo.
Si Ddio me fa sta grazzia, senti, sposa,
do ffoco a ccasa: vojjo uno strillo.
Vojjo maggnà ’na frittata roggnosa
e bbravi maccaroni cor zughillo».
«E pperché ha da crepà cquer poveretto?»
«Perch’è un birbone, perch’è un assassino,
perché mme mena e vvò stà ssolo a lletto».
«E ttu vvòi restà vvedova?» «Adascino:
sto sproposito, sposa, io nu l’ho ddetto».
«Ho ccapito: entra in posto er tu’ viscino».
26 dicembre 1844
2070. La donna arrubbata
E in quanti? in zette! me cojjoni?! in zette?
sette burrini pe arrubbà una donna!
Figurete, pe ddio, che bbaraonna!,
che sscenufreggería!, che ccacc’e mmette!
E ssott’a ttanti furmini e ssaette
va’ ssi sta sciorcinata nun ze sfonna!
Si ffussi l’occhialon de la Ritonna,
se spaccherebbe, e cce voría scommette.
Ma cquesto nun zarebbe un accidente.
Le donne, pe mmé ttanto, bbuggiaralle!
Penzo er Papa si ccome se la sente!
Se sò mmessi un ber tibbi su le spalle.
E cce sò ttante donne che ppe ggnente
ce viengheno da sé ssenz’arrubballe!
26 dicembre 1844
2071. La vecchia cocciuta
«Mamma», je discev’io sabbit’a otto,
«nun girate accusí: vvoi séte sorda».
Avevo da legalla co ’na corda?
Vorze usscí ssola, e scappò vvia de trotto.
Bbe’, a la svortata llí de Palaccorda,
ce s’incontrò a ccavallo un giuvenotto:
lei nu l’intese a ttempo, aggnede sotto,
e, inzin che ccampa, mó sse n’aricorda.
Inzin che ccampa, sí, cquella è ccapasce
de stà inchiodata in d’un fonno de letto:
me sce sò mmessa ggià ll’anim’in pasce.
E ccome se n’usscí cquer pasticcetto?
Cor un povera donna e un me dispiasce
cacciò la bborza e jje bbuttò un papetto.
26 dicembre 1844
2072. La diana de la povera ggente
Dico: «Sta in casa la sora Contessa?».
Disce: «Chi ssete voi?». Dico: «Ggioconna».
Disce: «A st’ora lei dorme, bbona donna».
Dico: «È ssonata ggià ll’urtima messa!».
«O ll’urtima, o la prima, o la siconna»,
disce, «lei dorme, sora dottoressa».
Allora io, piano piano, me sò mmessa
s’un cassabbanco incontr’a ’na Madonna.
Dico: «Ajjuteme tu, Mmadonna mia».
«Zzitta», disce, «linguaccia de scecala;
cqua nun ze fa caggnara, o sse va vvia».
Oh azzecca un po’? vviè un païnetto in gala;
dimanna la Contessa; e cquel’arpìa
lo porta drento, e a mmé mme lassa in zala.
26 dicembre 1844
2073. Le furtune de li bbirbi
Giudizzi der Ziggnore, te dich’io.
Questo manna a ccartoccio una famijja:
quello maggna la carne de viggijja:
uno bbiastima peggio d’un giudio:
l’antro tira a la mojje de su’ zzio:...
eppuro, io nun me faccio maravijja
s’hanno sorte a ccascà. Credeme, fijja:
sò ttutte-quante premision de Ddio.
Lasseli scrapiccià, llasseli gode,
e ffà d’oggn’erba un fasscio, e inzurtà nnoi
e rrídese dell’Angelo-Custode.
Però, ’ggni pianta ha da produsce er frutto.
De cqua le cose vanno bbene; eppoi?
Poi de llà, ffijja mia, se sconta tutto.
26 dicembre 1844
2074. Le caluggne contr’er governo
E ddàjje cor Governo! O è ccaro er pane,
o nun c’è da scallasse in ne l’inverno,
o vve sbajjeno un nummero in un terno,
o vv’abbuscate un mozzico da un cane,
o la commedia in musica è un inferno,
o sse fa ttroppo ghetto a le bbefane,
o le ggente se meneno le mane...
subbito senti: «E ccosa fa ir Governo?».
Ma ssò ppropio bbadiali sti sciarloni!
E ’r Governo ha da stà ccom’un editto
incollato pe ttutti li cantoni?
Sta’ attenta che mmommò ppuro è un dilitto
der Governo si ll’osti nun zò bboni,
o er friggitore v’ha bbrusciato er fritto!
26 dicembre 1844
2075. L’art’e bbasso
Quello che ddisse che nnoi semo bboni
sortanto pe mmorí ssopra la pajja,
era un ziggnore? Ebbè, ddunque nun sbajja.
Li Siggnori sò ttutti Salamoni.
Li Conti, li Marchesi, li Bbaroni,
e ttutta st’illustrissima canajja,
ce tiengheno a nnoantri pe mmarmajja
da trattà cco li nerbi e li bbastoni.
Eh, bbontà lloro contr’er nostro merito.
Ma ssi fussimo noi nati siggnori,
chi l’avería li carci in ner preterito?
Sti ggiuchetti li regola la sorte;
e a ttutti o un callo o un freddo, o un drento o un fori
pò accadé ttra la nasscita e la morte.
27 dicembre 1844
2076. Una serenata
Occhi de gatto, bbocca de fornello,
naso da dà ppe bbecco ar pappagallo,
cera de torroncino e de pangiallo,
grugnaccio spizzicato da l’uscello:
collo da colonnetta de cancello,
schina commare de Montecavallo,
cianche vinte co un zette su lo spallo:
sei l’asso e ttiette sú, ccore mio bbello.
E cquelli mostri de li tu’ parenti,
je pijji una saetta a ttutti quanti,
sò una gabbiata zeppa de scontenti.
Spero però cche Ccristo co li Santi
ve connischi un guazzetto d’accidenti
pe ffavve cascà ttutti a ffacciavanti.
27 dicembre 1844
2077. Li quadrini ben impiegati
Presto muto servizzio. Er mi’ padrone
da quarche ttemp’in qua mme s’è ammattito.
Sai mó cche ccrompa? Sassi, e ggià nn’ha impito,
ortre la stanzia sua, tutt’er zalone.
Ce n’ha ppoi scerti er vecchio arimbambito,
c’a ’na credenza indove l’aripone
cià inchiodato de fora un cartellone,
che ddisce: Scherzi de leggno impietrito.
Sí, ssí, llui ridi co sti bbelli scherzi;
ma un giorno farà ppoi la faccia tetra,
penzanno a li quadrini che ccià pperzi.
Me sc’impeggno la testa, me sc’impeggno,
ch’er leggno ar monno nun diventa pietra
sin che la pietra nun diventa leggno.
27 dicembre 1844
2078. Er bon core de don Cremente
Me fo sposo, Taddeo. Quer zantarello
der confessore mio, quer don Cremente,
me dà ppe mmojje una su’ pinitente,
ch’io nun ho vvisto mai gruggno ppiú bbello.
Lui m’ha ddetto accusí: «Ssentime, Lello,
tu azzecchi propio un’anima innoscente.
Sposela, fijjo, e nun rifrètte a ggnente,
ché ppenzo a ttutto io: puro a l’anello».
Eppoi ciòpre una bbrava bbotteguccia
per ingeggnacce inzieme io e la sposa,
e cconzervacce la nostra robbuccia.
Tratanto ggià ccomincia a ffà le spese,
perc’ha una gran premura che la cosa
se pòzzi striggne, ar piú, ppe st’antro mese.
28 dicembre 1844
2079. Er talentaccio de casa
Tant’è: quell’abbatino co li guanti
de capicciòla co l’orletto rosso,
quello è mmi’ fijjo; e ttiè ’na cacca addosso
da rídesene ggià de tanti e ttanti.
E io pe pparte mia fo cquer che pposso,
si mm’ariessce, pe ttirallo avanti;
sibbè mm’abbino detto tutti quanti
c’a li latini è ggià un pezzetto grosso.
Conosscete er libbraro er zor Urèli?
Bbe’, ddisce lui che cqueli bboni frati
già mme l’hanno passato a li Corneli.
Nun ha inzomma vent’anni terminati,
e ggià ssa cche vvò ddí Januva-sceli,
Santa-santoro e Ddommine-covati!
28 dicembre 1844
2080. La vita de la padrona
Tutta la notte in zónzola, io dimanno
si sta bbene a ’na madre de famijja.
E ccià avvezzata, sai?, puro la fijja,
che la porta cqua e llà ggirannolanno.
Ciarla er monno, ma llei nun ze ne pijja:
cià ssempre er me ne frego ar zu’ commanno:
e sséguita sta vita tutto l’anno,
senz’abbadà nné a ffesta né a vviggijja.
Su cquer che ffacci poi tutta la notte,
a sta dimanna nun te so arisponne.
Darà una bbòtta ar cerchio, una a la bbotte.
Sortanto io so (mma nu lo dí a ggnisuno),
che de li vizzi vino, ggioco e ddonne
a llei nun je n’amanca antro che uno.
28 dicembre 1844
2081. Le massime de la padrona
La mi’ padrona, poi, Padre Priore,
nun è mmica de quelle cristianacce
che nell’opere bbone hanno du’ facce,
una p’er monno e ll’antra p’er Ziggnore.
Lei disce che nnun vò ttante legacce,
perché er bene che ffa lo fa de core;
e cc’uno in chiesa, o ggiusto o ppeccatore,
o ha da dà bbon esempio o nun annacce.
E, ppe mmé, bbuggiaralla la Contessa,
ma nun ze pò nnegà cche ne sa assai
sur modo de sentí la santa messa.
Tant’è vvero, e lo disce puro Tota,
che ppe le cchiese lei nun ce va mmai
pe la pavura de nun stà ddevota.
29 dicembre 1844
2082. La fijja stroppia
Ce sarvò ppe mmiracolo la pelle,
povera fijja! Ma arimase zzoppa;
e adesso me sta llí ccom’una pioppa,
o sse strascina un po’ cco le stampelle.
Er vento a nnoi nun ce va ssempre in poppa
come va a le siggnore. Sibbè a cquelle
le gamme je diventeno sciammelle,
cianno bbona carrozza che ggaloppa.
Una siggnora, in qualunque disgrazzia,
co li quadrini presto se la sbriga,
ché sibbè nnun lavora è ssempre sazzia.
Ma a nnoi povera ggente che cce resta,
si la man der Ziggnore sce gastiga?
De striggne l’occhi e dd’inchinà la testa.
29 dicembre 1844
2083. La robba trovata
Nun zai la novità? Jjerzera, quanno
te lassai llí a la Pasce all’osteria,
pijjai dritto, pijjai, pe ccasa mia,
dove tiengo un strapunto ar mi’ commanno.
E mme n’annavo cantanno cantanno
un’aria der ronnò dde la Luscìa,
quann’ecco a l’immoccà nne la Corzia
vedde in terra un zocché ddrent’in un panno.
Azzécchesce ch’edèra? Un ber cappone.
E stammatina io me lo sò ppelato,
l’ho arrostito, e cciò ffatto colazzione.
In quant’ar panno poi, ch’era stracciato,
acciò vvedessi de trovà er padrone
l’ho pportato a la serva der curato.
30 dicembre 1844
2084. L’impicciatorio der Padre Curato
Dio nu l’ha ffatto pe spiegà er Vangelo
sto sor Padre-curato don Petronio.
Un po’ ppiú mm’addormivo io, sor Antonio,
bello che in chiesa, e cc’è amancato un pelo.
Che sso cche ss’è impicciato! Er monno, er celo,
l’inferno, er purgatorio, er madrimonio,
li farisei, le pecore, er demonio,
l’acqua, er vento, la nebbia, er callo, er gelo...
Eppoi, pe cconnimento a st’inzalata,
’ggni du’ parole tosse, raschia, sputa,
e sse mette a strillà: serva mannata.
1
Ma sta serva chi è? Cchi cce la manna?
Dove va, ccosa vò, cquann’è vvenuta?
Come se chiama, Lia, Stella, Susanna?...
30 dicembre 1844
1
Serva mandata.
2085. La scarrozzata de li cardinali novi
Vanno a Ssan Pietro a ringrazziallo, Nena,
pe ddacce essempio d’umirtà, ppe ddacce.
Jèso che gguittaria! Cristo che ffacce
de ggente che ddiggiuna a ppranzo e a ccena!
E sti cavalli? Maria grazziaprena!
’ggni mosscio sovranello pò arrivacce.
E cche ppònno valé ste carrozzacce?
seimila scudi l’una ammalappena.
Guarda er quipaggio de fòra e de drento:
smiccelo bbene de drento e de fora:
è ttutta stracceria d’oro e dd’argento.
E accusì, co sto vive stiracchiato,
poverelli, s’avvezzeno a bbon’ora
a ppatì le miserie der papato.
2 gennaio 1845
2086. Er cariolante de la Bbonifiscenza
Mó ss’ariscava a Ccampidojjo; e, amico,
ggià ssò ddu’ vorte o ttre cche ccianno provo.
Ma io, pe pparte mia, poco me movo,
perch’io nun zò ppiú io quanno fatico.
E lo sapete voi cosa ve dico
de tutti sti sfrantumi c’hanno trovo?
che mmànneno a ffà fotte er monno novo,
pe le cojjonerie der monno antico.
Ve pare un ber proscede da cristiani
d’empí de ste pietracce oggni cantone
perché addosso ce pisscino li cani?
Inzomma er Zanto-padre è un gran cojjone
a ddà rretta a st’Arcòggioli romani
c’arinegheno Cristo pe Nnerone.
3 gennaio 1845
2087. Li scrupoli de li mi’ stivali
Nun dico bbene? Pe cquattro bbijjetti
de Libberti se pìa tutte ste pene,
e cce se scalla er zangue in ne le vene!
Preti: nun dico bbene eh sor Ferretti?
Che! cce commanna er diavolo a le sscene,
a li bbanchi, a l’orchestra e a li parchetti?
Er diavolo nun penza a cciufoletti:
penza a le bbirberie: nun dico bbene?
Chi ccià scrupolo, arresti a ccasa sua:
ma sse stii zzitto si cciannamo noi:
nun dico bbene? Eh ssì, ssangue d’un dua!
A la commedia ce pò annà cchiunque:
nun dico bbene, sor Ferretti? Eppoi
ce vanno puro li prelati: dunque...
3 gennaio 1845
2088. La bbanna de Termini
Inzomma, sti regazzi de la bbanna
de Termini ggià ffanno un ber zussurro.
E ssi vvedete quer capotammurro
come li fa ingarrà! ccome li manna!...
Ve dico inzomma ch’io, sora Susanna,
che dell’antri nemmanco ne discurro,
si ssento questi cqui, ssubbito curro
e cce pianto mi’ mojje che ss’addanna.
Ce ne sò ccerti inzomma, poverelli!,
che jje dànno una bbuggera de tromma,
da fàjjesce cacà li vermiscelli.
Questo, è vvero, è un po’ troppo; perché inzomma
quer trommone a sti ppoveri franguelli
propio li fa sfiatà, ppropio li spiomma.
3 gennaio 1845
2089. L’innamorati
«Ma tte dico de no». «Sor faccia pronta,
ve scianno visto inzieme a Ggrottapinta».
«Sarò ddunque un busciardo». «E de che ttinta!,
sor pezzo de carnaccia co la ggionta».
«Nanna, tu ppijji un grancio». «Io nun zò ttonta:
Voi fate er cascamorto co Ggiascinta».
«Queste sò mifferíe de quela grinta
der fratellaccio tuo: ma mme la sconta».
«Sentite, bbello mio: Fior d’oggni pianta:
quanno parlate voi nun ve sto attenta,
perch’io m’addormo quanno er gallo canta».
«Mò ssentitem’a mmé: Fiore de menta:
de pascenza co vvoi sce ne vò ttanta,
e bbuggiarà, ppe ddio, chi vve contenta».
3 gennaio 1845
2090. Una bbrusciatella de bbone grazzie
Ah, ppe stà appett’a mmé, ccocca mia bbella,
bbisoggn’èsse, simmai, meno scucchiona
pe ddamme ggelosia, sora scafona,
nun ce vo cquer barbozzo a ccucchiarella.
Tū mme levi er regazzo, eh capocciona?
tū mme fai tené ll’ormo, eh gobbriella!
Vàttel’a mmàggna, va’, bbocc’a ssciarpella:
va’, mmonnezzara de Piazza Navona.
Che tte li metti a ffà ttanti inferlícchese
d’accimature, squinzia bbalucana,
co cquer tu’ paro de sciancacce a ícchese?
Va, nnaso a ppeperone, scrofolosa,
sturba-la-luna, sgorgia, stortiggnana,
ché a tté nemmanco er diavolo te sposa.
3 gennaio 1845
2091. Er zervitore novo
Quanno lei me mannò co cquel’inguille
da quer tar Cardinale su’ parente,
me disse: va’ in bescille;
1
e ttiengo a mmente
le parole e ’r zu’ atto in proferìlle.
Bbe’, cquanno j’ho pportato oggi le spille,
ner dimannajje si vvoleva ggnente,
m’ha arifatto quell’atto istessamente
e mm’ha aridetto poi: va’, vva’ in bescille.
Dove sta sto bbescille? drento, fori,
in piazza, pe ’na strada, ggiú ppe un vicolo?...
Vall’a intenne er parlà de li Siggnori!
Ar zervizzio sò nnovo io, sor Vitale.
Pe annà in bescille ce saría pericolo
c’avessi da tornà ddar Cardinale?
3 gennaio 1845
1
«Va’ imbecille».
2092. La libbertà de cammera sua
Doppo pranzo er mi’ gusto quarche vvorta,
mentr’er compaggno mio scopa e sparecchia,
è de guardà la padroncina vecchia
dar buscio-de-la-chiave de la porta.
Ah che rride! E sse specchia, e ss’arispecchia,
e ffa gghignetti co la bocca storta,
e sse dipiggne la pellaccia morta,
e sse ficca un toppaccio in un’orecchia...
Poi se muta li denti e la perucca,
se striggne er busto pe ffà ccressce er petto,
se nínnola, s’allisscia, se spilucca...
E fra tutte ste smorfie e antre mille
se bbutta sur zofà ccor caggnoletto
e cce fa cose ch’è vvergoggna a ddille.
3 gennaio 1845
2093. La spiegazzion de le staggione
Basta, o er prospero, inzomma, o ll’acciarino,
siconno l’usi novi o ll’usi antichi,
er mi’ discorzo, iddio ve bbenedichi,
nun ve pò ancora entrà ddrent’ar boccino.
Io dico questo: annate a mmette, amichi,
un deto su la fiara d’un cerino.
Ce l’arreggéte o nnò? Ppe zzi’ rampino,
ce la potete arregge un par de fichi.
Ma cquer che nun ve sta ne la capoccia
è cche sto foco poi ve lo portate
ne la pietra e nner prospero in zaccoccia.
E l’istesso, testacce de marmotta,
succede ne l’inverno e nne l’istate.
Er zole cosa fa? scotta e nnun scotta.
4 gennaio 1845
2094. L’innurto novo
Sentite? Pe un antr’anno, ha ddetto er frate,
meno che ccor zalame e ccor presciutto
se pò conní ccoll’onto e cco lo strutto,
puro ne le viggijje commannate.
E er Papa dirà ppoi quarche ffrabbutto
che nun penza antro lui c’a bbuggiarate!
Ma nun zò infamità da cannonate?
Quer povero sant’omo penza a ttutto.
Disce: «Ma a le miserie nun ce penza».
E vve pare, pe ddio, che ppenzi a ppoco,
si cce slenta le majje a la cusscenza?
L’antre cose vieranno a ttemp’e lloco;
ché ttutt’assieme poi nun è pprudenza
de volé mmette tanta carne ar foco.
5 gennaio 1845
2095. Pasqua bbefania
La viggijja de pasqua bbefania
La bbefana, a li fijji, è nnescessario
de fajjela domani eh sora Tolla?
In giro oggi a ccrompà cc’è ttroppa folla.
A li mii je la fo nne l’ottavario.
A cchiunque m’accosto oggi me bbolla:
e ccom’a Ssant’Ustacchio è cqui ar Zudario.
Dunque pe st’otto ggiorni io me li svario;
e a la fine, se sa, cchi vvenne, ammolla.
Azzeccatesce un po’, d’un artarino
oggi che ne chiedeveno? Otto ggnocchi;
e dd’una pupazzaccia un ber zecchino.
Mó oggnuno scerca de cacciavve l’occhi;
ma cquanno sémo ar chiude er butteghino,
la robba ve la dànno pe bbajocchi.
6 gennaio 1845
2096. Pasqua bbefania
La notte de pasqua bbefania
«Mamma! mamma!». «Dormite». «Io nun ho ssonno».
«Fate dormí cchi ll’ha, ssor demonietto».
«Mamma, me vojj’arzà». «Ggiú, stamo a lletto».
«Nun ce posso stà ppiú; cqui mme sprofonno».
«Io nun ve vesto». «E io mó cchiamo Nonno».
«Ma nun è ggiorno». «E cche mm’avevio detto
che cciamancava poco? Ebbè? vv’aspetto?»
«Auffa li meloni e nnu li vonno!».
«Mamma, guardat’un po’ ssi cce se vede?»
«Ma tte dico cch’è nnotte». «Ajo!». «Ch’è stato?»
«Oh ddio mio!, m’ha ppijjato un granchio a un piede».
«Via, statte zzitto, mó attizzo er lumino».
«Sí, eppoi vedete un po’ cche mm’ha pportato
la bbefana a la cappa der cammino».
6 gennaio 1845
2097. Pasqua bbefania
La matina de pasqua bbefania
Ber vede è da per tutto sti fonghetti,
sti mammocci, sti furbi sciumachelli,
fra ’na bbattajjeria de ggiucarelli
zompettà come spiriti folletti!
Arlecchini, trommette, purcinelli,
cavallucci, ssediole, sciufoletti,
carrettini, cuccú, schioppi, coccetti,
sciabbole, bbarrettoni, tammurrelli...
Questo porta la cotta e la sottana,
quello è vvistito in càmiscio e ppianeta,
e cquel’antro è uffizzial de la bbefana.
E intanto, o pprete, o cchirico, o uffizziale,
la robba dorce je tira le deta;
e mmamma strilla che ffinissce male.
6 gennaio 1845
2098. Le devozzione de la padrona
Uh a pproposito, Peppe, de toletta,
sai? domatina svejjeme a bbon’ora,
c’ho da chiamà ppiú ppresto la siggnora,
che vvò annà a cconfessasse in parrocchietta.
Volevo dítte un’antra cosa... ah, aspetta:
da’ un zompo cqui da Marta la sartora,
che llei pe mmezzanotte, o ddrent’o ffora,
vò ll’abbito, o ddiventa una saetta.
Poi tu a ddiesciora trovete vistito
in riverea, pe accompaggnalla in chiesa
avanti che sse svejji su’ marito.
Portata che cce l’hai, viettene via:
lassela puro, e ttu vva’ a ffà la spesa;
ché ar ritorno scià un’antra compaggnia.
10 gennaio 1845
2099. Er predicatore de chiasso
Sor mastro, ho inteso er gran predicatore
c’adesso fa ammattí tutta la ggente;
e ssi ho da divve quer che ssento in core,
a mmé nun m’è ppiasciuto un accidente.
Sta tteso-teso, nun ze move ggnente,
nun za li testi de ggnisun utore,
dura troppo, ha una vosce piaggnolente
che ppare un gatto quanno fa l’amore...
Ma cc’è de peggio, e ppeggio assai, sor mastro:
ché ssi sseguita a ddí ccerte resie,
sto sor abbate vo ffiní a l’incastro.
Disce che Ggesucristo è stat’ebbreo;
e ppe ffiní de dà in cojjonerie
va spaccianno c’Abbramo era un cardeo.
10 gennaio 1845
2100. Er cottivo
«È ffinito er cottivo?» «Ehée, da un pezzo».
«Ggià, pprezzettacci?» «Ma de che! mma indove!
Inzinenta, fratello, che nun piove,
la pesca è mmosscia, e nun ribbassa er prezzo».
«Sai c’hai da dí? cch’er popolo sc’è avvezzo.
Ma ebbè ddunque, di’ ssú: ddamme le nòve».
«Eh, ll’aliscette e la frittura a nnove:
li merluzzi e le trijje a ddiesci e mmezzo:
le linguattole e ’r rommo a ddu’ carlini:
a un papetto la spigola e ’r dentale;
e ssu sto tajjo l’antri pessci fini».
«E, ddi’ un po’, lo sturione quanto vale?»
«Ne sò vvenuti dua, ma ppiccinini,
e ssò iti in rigalo a un Cardinale».
11 gennaio 1845
2101. Er volo de Simommàgo
Sonetti 5
Vonno c’appena entrò cquer perticone
de Tosti pe ugurajje er capodanno,
disse er Papa: «E l’affari come vanno?».
E ’r Cardinale: «Grazziaddio, bbenone».
Disce: «È astrippàto poi sto contrabbanno?».
Disce: «Nun passa ppiú mmanco un limone».
«E vva avanti a Rripetta ir frabbicone
«Si pò ddí cche sta ppronto ar zu’ commanno».
«Li capitali?» «Sò vvennuti tutti».
«Le spese?» «Sò ar livello co l’entrate».
«E ir debbito sc’è ppiú?» «Ssemo a li frutti».
Er Papa allora tritti er cotòggno;
poi disse: «A cquer che ssento, sor abbate,
dunque di lei nun ce n’è ppiú bbisoggno».
13 gennaio 1845
2102. [Er volo de Simommàgo]
Cert’è pperò cch’è un gran Governo ingrato.
Liscenziallo accusí ppovero Tosti!
Doppo che Ddio lo sa cquanto je costi
sta via-crusce der zu’ tesorierato!
Chi ha rrippezzato Roma, ha rrippezzato?
Chi ha ccressciuti l’incerti ne li posti?
Chi ha ffatto tanti debbiti anniscosti
pe sfamà ttutti e mmantené lo Stato?
Chi ll’ha impacchiati, dico, tanti artisti,
mastri de casa, decani, cucchieri,
segretari, archidetti e ccomputisti?
Se sò mmai viste all’antri tesorieri
carrozze com’a llui? Se sò mmai visti
li scudi rotolà ccome li zzeri?
13 gennaio 1845
2103. [Er volo de Simommàgo]
Privasse de st’Ecolomo, privasse,
perch’è vvôto l’orario der Governo!
Già, in primo logo, lui pò vvince un terno,
e un terno grosso da riempí le casse:
poi sc’è ssempre er rimedio de le tasse:
poi la su’ robba, che cce n’ha un inferno,
pò incantalla, e ttené ll’uso moderno
de chiunque se trova in acque bbasse.
poi, nun fuss’antro, si cchiede quadrini
a ttanti che ppe llui nun zò ppiú iggnudi
riccapezza una bbarca de zzecchini.
Pochi ne cacceria?! ’Na bbagattella!
Pònno improntàjje un ventimila scudi
l’eredi soli de Padron Pianella.
13 gennaio 1845
2104. [Er volo de Simommàgo]
Vorà ddunque soffrí Ppapa Grigorio
c’a un tesoriere suo tanto fedele
nun j’arrestino manco le cannele
da chiamà cquattro frati ar zu’ mortorio?
Levajje er frullonaccio, omo crudele,
che cciannò in fiocchi a Ssan Pietro-Montorio!
e ppochi scenci cqui a Mmontescitorio!
e ddu’ galanterie llà a Ssan Micchele!
Finarmente che ha ffatto, poverello?
Ha ttrovo, quann’è entrato, un mascelletto,
e llui l’ha ffatto diventà un mascello.
De llui cosa pò ddisse, poveretto?
Gnent’antro ch’è un gran omo de scervello,
e cche ttiè un core da romano in petto.
13 gennaio 1845
2105. [Er volo de Simommàgo]
Gnisuno ha detto mai che Ssu’ Eminenza
abbi da fà la fin de Bbonaparte.
Lui nun je chieden’antro che le carte,
e pp’er resto sc’è er Papa che cce penza.
E cchi cce se darebbe a la bbell’arte
de pagà ssempre e de pij a ccredenza,
co sto risico poi de restà ssenza
quarche straccetto che mmettessi a pparte?
Ma avessi puro minestrato male,
vojjo vedé chi jje faría l’affronto
de toccajje una vesta d’urinale.
Fra un cardinale e nnoi sc’è un ber confronto!
Qualunque imbrojjo facci, un cardinale
ha er privileggio de nun renne conto.
13 gennaio 1845
2106. Lo svejjatore
Ma er piú ggranne tra ttutti li tormenti
è de bbussà a la ggente avanti all’arba.
Nun ne trovate uno che jj’aggarba.
In sto punto che qui ttutti scontenti.
Quello opre la finestra, e ssu la bbarba
ve manna una sfilata d’accidenti.
Questo ve fa ccert’antri comprimenti
cor un voscione che nnemmanco Jarba.
Tutti, o spezziali, o mmedichi, o mmammane,
o ccerusichi, o ppreti, o vviaggiatori,
ve tratteno, per dio, peggio d’un cane.
Li mejjo sò li frati, amico caro;
che ppòi crepà de freddo o de dolori
prima che tt’arisponni er portinaro.
14 gennaio 1845
2107. Er padrone bbona memoria
È ito in paradiso, poveretto!
Stammatina in zur fà de tredisciora
è arimasto llí in braccio a la Siggnora
ner rivortallo pe aggiustajje er letto.
Che sturbo! Lo capisco, era un pezzetto
che ss’aspettava de vedella fora;
ma cquanno semo llí, ssora Todora...
bisoggneria nun avé ccore in petto.
Bbasta, mó, sposa mia, v’ariccommanno
de dijje ar meno una requiameterna
e de vení ar mortorio che jje fanno.
Ma cche vve dite convurzione interna
si cquello è mmorto parlanno parlanno!
Eh nun c’era piú ojjo a la luscerna.
14 gennaio 1845
2108. L’editto de nov’idea
«Ma cche vvojji èsse vero, eh Sarvatore,
quer che ddisceva er zervitor de Quajja,
de st’editto ch’è usscito a Ssinigajja
su li rigali de chi ffa l’amore?»
«Sēntime: quello sta cco un Monziggnore
che in ne la sala sua poco se sbajja.
Eppoi nu lo sa ppuro sta canajja
de spie de Monziggnor Governatore?»
«Ma dunque chi ssarà sto spaccamonte,
c’ha ccacciato sta lègge scojjonata
«A. M. Cardinal Vescovo e Conte».
1
«Vescovo a Ssinigajja io da regazzo
ciò vvisto er Cardinal Testaferrata».
«E mmó cc’è er Cardinal Testadecazzo».
15 gennaio 1845
1
Il cardinal A. M. Cagiano.
2109. Er testamento der bizzoco
Schiattò ppoi luneddí bbrutto vecchiaccio.
Oh cquello in paradiso nun c’è ito.
Cià ppenzato er zor Padre Ggesuito
a mmannallo de bbotto a l’infernaccio.
Sí, a l’infernaccio carzat’e vvistito:
nun me faccio confonne, nun me faccio.
Lassà tutto a un convento, e mmanco un straccio
a li parenti che ll’hann’assistito!
Bbisoggna dí cc’avessi gran peccati
e cche ccredessi ar Padre cappellone
de lavalli cor brodo de li frati.
Gnente: ’na lasscituccia a un logo-pio
che vve facci sí e nno cquarc’orazzione:
poi la robba a cchi vva, ll’anima a Ddio.
16 gennaio 1845
2110. Lo scaricabbarili der Governo
Ce penzeranno lòro: ècco sti Santi
cos’hanno sempr’in bocca, per dio d’oro!
E cco sto bbèr ce penzeranno lòro
intanto cqui nnun ze pò annà ppiú avanti.
Ma sti lòro chi ssò, ssi ttutti quanti
nun fann’antro cqui ddrento c’un lavoro
de dormí, mmaggnà e bbeve, e ccantà in coro?
Di’ sti lòro chi ssò? ll’appiggionanti?
Si le cariche a Rroma l’hanno tutte
li portroni, sti lòro dove stanno?
Dove stanno sti lòro? in Galigutte?
Sai come va a ffiní? ffinissce poi
che ssi sti lòro nun ce penzeranno,
un po’ ppiú in là cce penzeremo noi.
17 gennaio 1845
2111. [Come va, Geremia?» «Sempre l’istesso»]
«Come va, Geremia?» «Sempre l’istesso».
«Ma inzomma che ccos’hai? cosa te senti?»
«Cos’ho? Er dolor de stommico: e accidenti
si nun vorrebbe cascà mmorto adesso».
«Eppoi nun z’ha da dí cquanto sei fesso
È da un mese mommó che tte lamenti
e invesce de pij medicamenti
t’ubbriachi oggni giorno un po’ piú spesso».
«Gnente: er vino dà fforza. Der restante,
nun zarò ppoi né er primo né er ziconno
c’abbi l’ammalatie: ce ne sò ttante!».
«Sí, mma se ponno arimedià, sse ponno.
Tu ddàmme retta: un bon rammaricante,
e vvederai si tt’arimetti ar monno».
29 gennaio 1845
2112. Li frati
Questo io voría sapé da st’arrabbiati
c’ar monno fraterie nun ce ne vonno:
come farebbe sto povero monno,
si vvenissi a rrestà senza li frati.
Chi sse snerba pe nnoi? chi pperde er zonno
pe ottenecce er perdon de li peccati?
chi lo porta er bambino all’ammalati?
1
chi le smartissce le sarache e er tonno?
Sò cquesti eh, ggiacubbinacci cani,
li portroni e le mmaschere? sò cquesti
l’impostori, l’arpie, li maggnapani?
Tutte bbusciarderie, tutti protesti.
2
Li frati sò bbonissimi cristiani,
tutti servi de Ddio lésciti e onesti.
29 maggio 1845
1
Il miracoloso bambino degli zoccolanti di Ara-coeli.
2
Pretesti.
2113. Le cose sue de la padroncina
Ggnente, Siggnora mia: nun ze ne pijji,
dii tempo ar tempo. Eppoi, ppiú de mi’ nonna,
che de vent’anni nemmanco era donna?
e ddopo fesce disciassette fijji.
Nun è la prima lei né la siconna.
Dunque che ccosa sò ttanti scompijji?
Lei bbadi a li mi’ poveri conzijji;
parli cor zempriscista a la Rotonna.
Vienuto quer negozzio che jje stenta,
la su’ fijja aritorna un zanguellatte,
je diventa una rosa, je diventa.
Cacci er medico, cacci, e stii tranquilla.
Questi cqui nun zò affari da miggnatte:
ce vò ddittimo-grego e ccapomilla.
2 giugno 1845
2114. La compassion de le disgrazzie
La finímo sì o nno, bbrutti sscimmiotti?
Me sò accorto de tutto, me sò accorto.
Cosa v’ha ffatto quer povero storto,
pe ppijjallo a ssassate e a scappellotti?
Si ha avuto in vita sua li stinchi rotti
è una raggione de volello morto?
Sò l’inzurti e le bbòtte er ber conforto
che ddate a la disgrazzia eh galeotti?
Cacciatori d’uscelli senza penne!
che bbella grolia! che bbella bbravura
de strapazzà cchi nun ze pô ddifenne!
Se perzéguita un vizzio de natura,
e li vizziacci propri se protenne
de portalli cqua e llà ssempr’in figura!
3 giugno 1845
2115. L’aria cattiva
Scappate via, sloggiate, furistieri:
fora, pe ccarità, cch’entra l’istate.
Presto, fate fagotto, sgommerate,
ché mmommó a Rroma sò affaracci seri.
Nun vedete che ppanze abburracciate?
che ffacce da spedali e ccimiteri?
Da cqui avanti, inzinenta li curieri
ce mànneno le lettre a ccannonate.
Si arrestate un po’ ppiú, vve vedo bbrutti,
ché cqui er callo è un giudizzio univerzale:
l’aria de lujj’e agosto ammazza tutti.
Pe ppiú ffraggello poi, la ggente morta
séguita a mmaggnà e bbeve, pe stà mmale
e mmorí ll’ann’appresso un’antra vorta.
5 giugno 1845
2116. Lo scortico de Campomarzo
Nun dubbità, cch’è ’na cosetta bbella
d’arillegràcce er Papa in concistoro!
È stato p’er Vicario un ber decoro
lo scropí ttant’abbati in ciampanella!
Bber gusto d’annà a smove ’na quarella
a sti poveri preti, pe ddio d’oro,
che sse ne stanno pe li fatti lòro
svariannose co cquarche pputtanella!
Doppo ch’Iddio lo sa cco cquanto zzelo
minestrano li santi sagramenti,
je s’abbi da invidià cquer po’ de pelo!
Pe mmé, mmorino tutti d’accidenti,
ma indove lo trovate in ner Vangelo
che provibbischi er pane a cchi ha li denti?
20 luglio 1845
2117. Le regazzate de li Romaggnoli
Semo inzomma da capo, eh sor Zirvestro,
co sti romaggnolacci de Romaggna?
Ma sta porca gginía de che sse laggna
c’oggni tantino j’aripijja l’estro?
È ’na cosa ch’io propio sce sbalestro!
1
Lamentasse,
2
pe ddio, de sta cuccaggna!
Che spereno de ppiú? de vive a uffaggna?
3
de mette er zanto-padre in d’un canestro?
Nun cianno
4
come nnoi cchiese, innurgenze,
preti, conforterie, moniche, frati,
carcere, tribbunali e pprisidenze?
Nun c’è ggiustizzia llà ccome che cqui?
Ma vvia, propio sti matti sgazzarati
se moreno de vojja de morí.
30 settembre 1845
1
Ci perdo il senno.
2
Lamentarsi.
3
A ufo.
4
Non ci hanno: semplicentente non hanno.
2118. Er passetto de Castel-sant’angiolo
Lo vòi sapé cch’edè cquer corritore
che, ccuperto cqua e llà dda un tettarello,
da San Pietro va ggiú ssin a Ccastello,
dove tira a le vorte aria mijjore?
Mò tte lo dico in du’ bbattute: quello
lo tiè pper uso suo Nostro Siggnore,
si mmai pe cquarche ppicca o bbell’umore
je criccassi de fà a nnisconnarello.
Drent’a Ccastello pò ggiucà a bbon gioco
er Zanto-padre, si jje fanno spalla
uno pe pparte er cantiggnere e er coco.
E ssotto la bbanniera bianca e ggialla
pò ddà commidamente da quer loco
binedizzione
1
e ccannonate a ppalla.
17 dicembre 1845
1
Benedizioni.
2119. Li sordati
Dico: «Facci de ggrazia, sor don Zisto,
lei che ste cose deve avelle intese:
quanno stava cquaggiú, trall’antre spese
manteneva sordati Ggesucristo?
Perché», ddico, «lei sa cch’er monno tristo
critica er zu’ Vicario a sto paese,
che a ccasa e ppe le strade e in ne le cchiese
senza sordateria nun z’è mmai visto».
«Fijjo», disce; «voi sete un iggnorante,
e nun zapete come li peccati
hanno fatto la cchiesa militante.
Pe cquesto ir papa ha li sordati sui;
e ssi Ccristo teneva li sordati
sarebbe stato mejjo anche pe llui».
25 dicembre 1845
2120. Grigorio e Nicolò
Dunque er Papa da venti e ppassa mesi
j’arichiedeva co bbona maggnera
la Moscovia, pe ffàcce la galera
de li su’ Romaggnoli e Bbologgnesi.
Ma er Cazzàr de Moscovia, che nnun era
de vela d’ari cqueli paesi,
se piantò a Ssan Luviggi de Francesi
e annò a Ssan Pietro a ccojjonà la fiera.
Su’ Santità pperò ffesce la cresta,
e ddisse: «O l’ubbidienza, o ccaso mai
spidiremo laggiú Bbàveri e Rresta».
Mó er zor Cazzarre ha d’abbozzà, pper dina!
Tantoppiú ssi ccor Papa je dà gguai
puro l’Imperator de la Dottrina.
31 dicembre 1845
2121. La vita da cane
Ah sse chiam’ozzio er zuo, bbrutte marmotte?
Nun fa mmai ggnente er Papa, eh?, nun fa ggnente?
Accusí vve pijjassi un accidente
come lui se strapazza e ggiorn’e nnotte.
Chi pparla co Ddio padr’onnipotente?
Chi assorve tanti fijji de miggnotte?
Chi mmanna in giro l’innurgenze a bbotte?
1
Chi vva in carrozza a bbinidì la ggente?
Chi jje li conta li quadrini sui?
Chi l’ajjuta a ccreà li cardinali?
Le gabbelle, pe ddio, nnu le fa llui?
Sortanto la fatica da facchino
de strappà ttutto l’anno momoriali
e bbuttalli a ppezzetti in ner cestino!
31 dicembre 1845
1
A botti: i plebei di Roma dicono le botte invece di le botti.
2122. Er morto ingroppato
1
«Chi? er morto? Er morto stava bbene assai:
quello è un mortuccio ricco, e nnun cojjona».
«E a cchi ha llassato?» «A Ttuta la bbuzzona».
2
«A la mojje?! » «A la mojje: e nnu lo sai?»
«Come! a la mojje, e nnun c’è stato mai!
3
A cquella bbrutta porca bbuggiarona?!»
«Ma, in fonno, j’era mojje bell’e bbona,
e mmó è l’arède sua: nun ce sò gguai».
4
«Ecco er perché, mmaggnanno le castaggne,
mó ha ddetto a Mmeo: “Nun vojjo fà ppiú ggnente:
nun vojjo ppiú ar monno antro che ppiaggne”.
E infatti nun ha ttorto un accidente.
Quann’uno ha bbone rúzziche da sfraggne,
5
pò stà in ozzio e ppò ppiaggne alegramente».
2 gennaio 1846
1
Dovizioso.
2
Pingue, ma di una flaccida adiposità.
3
Non c’è stato mai unito.
4
Non v’è replica.
5
Denari da spendere. Il
disco da giuoco in Roma dicesi rùzzica, il qual nome viene anche applicato alle monete (e specialmente alle grandi)
per la loro figura.
2123. Er prete capr’e ccavoli
«Viè, ffa’ ppresto, cazzeo, ché ppassa er morto».
«E cche cc’è da vedé? ssarà incassato...».
«No, nno, è scuperto». «Oh ccristo! è er zor Donato!».
«Oh ccazzo! è vvero. E cchi sse n’era accorto?»
«Uh cche mmiseria! che mmortorio corto!
Eppuro era parente der Curato!...».
«Sí, mma cquesto è ll’arède e ha ggià mmaggnato,
e mmó vvò sparaggnà ssu lo straporto.
«E ar beccamorto je lo tara er prezzo?»
«Ôh, in quant’ar beccamorto, don Grigorio
ce sta ssempre d’accordo e ffann’a mmezzo».
«Ma er morto nun ce perde d’interresse?»
«Nōo; ssi er prete arisega in ner mortorio,
fa un dindarolo e jje lo sconta a mmesse».
2 gennaio 1846
2124. Er Cavajjer de spad’e ccappa
Chi ffussi cavajjer de spad’e ccappa
cosa vierebb’a èsse in fin de fini?
Eh, ssarebb’uno che nun cià cquadrini,
eppuro, grazziaddio, sempre la strappa:
un negozziante de leccate e inchini
che sta ar ricasco de li ricchi, e ppappa:
uno che rruga sempre e ssempre scappa,
e ssoverchia noantri piccinini:
un pajjaccio de corte, un cammeriere
pien de croscette e ffittuccine in petto,
c’arregge a li padroni er cannejjere:
uno che nnun za un cazzo a ffa er dottore:
un Galimêdo arriggistrato in Ghetto:
un milordo a la bbarba der zartore.
4 gennaio 1846
2125. Er paneriggico de san Carlo
Bburli o ddichi davero, Ggiuvenale?
A la predica ha detto don Matteo
c’a sto monno san Carlo Bboromeo
è stato a li su’ tempi cardinale?!
Me fa ppiú spesce sta notizzia tale,
che la scappata de Ggiusepp’ebbreo:
me saría creso ppiú cch’er Culiseo
fussi un giorno una vesta d’urinale.
Un cardinale è stato bbono tanto?!
Un cardinale ha ccreso tanto in Dio?!
Un cardinale è ddiventato santo?!
Tu jje dai retta, Ggiuvenale mio?
Si lo disce, eh, ssarà: mma mmó ttratanto
un cardinale è ppeggio d’un giudio.
5 gennaio 1846
2126. Er proscède d’Aggnesa
Lo sai d’Aggnesa? Quela bbrutta caggna
jer a mmattina nun dormiva in chiesa?
Nu la trovai pe tterra tutta stesa,
manco si stassi immezz’a ’na campaggna?
«Arzete» dico: «ma davéro, Aggnesa,
pijji le cchiese pe Ppiazza de Spaggna?»
«Eh», disce, «m’ha ppijjato una scecaggna...
e ddev’èsse la predica c’ho intesa».
Dico: «E ssarebb’a ddí, ssora vassalla?».
Disce: «Oh vva’ a ccerca un po’, cquanno viè ssonno,
si tte vviè o in d’una cchiesa o in d’una stalla!».
Se ne ponno dí ppeggio, se ne ponno?
Ma nun zarebbe cosa d’ammazzalla
per imparajje a vvive e a stà a sto monno?
5 gennaio 1846
2127. Er Papa in ner Corpusdommine
Portà un vecchio un par d’ora in priscissione
pe Ppiazza Rusticuccia e er Colonnato,
tritticanno llà in cima inarberato
sotto quer culiseo de pivialone:
arrampicallo poi ccusí scarmato
su ppe le scale, er portico e ’r loggione,
pe cconzolà cco la bbinidizzione
tutt’er monno-cattolico affollato...
Povero vecchio! e cchi jje pò ddà ttorto,
si ddoppo ste du’ fronne de smazzata
se bbuttò ss’una sedia e arrestò mmorto?
Però, ddicheno l’ommini cattivi
ch’er morto diede a ppranzo una taffiata
da cojjonà li morti e ppiú li vivi.
6 gennaio 1846
2128. Lo sposalizzio de Mastro-l’ammido
1
Io sposalla? a la larga! co cquer dritto
2
de padre e cquela mamma ruffianona?
Io sposà cquel’arpia che ne cojjona
piú che ne sappi cojjonà un editto?
Lei Nicola, lei Meo, lei Cacaritto,
lei Peppantonio de Piazza-Navona!...
Nun vojjo diventà rre de corona:
nun vojjo dí: «Ppopolo mio, sò ffritto».
De guai sce n’ho a bbizzeffia inzin d’adesso,
senz’annamm’a bbuscà sto capitale
de corna e ccento accidentini appresso.
Pe sgrinfia, o bbirba o nnò, psé, ppoco male;
ma mmojje? maramao!
3
Si jj’ho ppromesso,
la sposerò, mma cquanno spiga er zale.
7 gennaio 1846
1
Mastro-l’ammido, qui applicato come nome proprio ad una persona, è una espressione che si usa quando si è
piacevolmente maravigliati o non persuasi di fare una cosa; per esempio: Io sposalla? Mastro-l’ammido!
2
Furbo,
scaltro.
3
Dio mi guardi! No davvero!
2129. La fede a ccartoccio
Sempre peggio. Eppoi disce un omo mena
e llavora de stanghe e de bbastoni!
Oh annatev’a ttené, ssi sti bbirboni
negherebbeno er nove a la novena!
Dua de quell’infamacci framasoni
s’arrivorno a vvantà jjerzera a ccena
che nun credeno a ssanta Filumena!,
ch’è ’na santa co ttanti de cojjoni.
Diavolo sguèrceli! e nun hanno visto
che ttiè in mano la parma, e ssur barattolo
ce sta er Procristi, che vvò ddì Pper Cristo?
Poi sc’è la vita, a un caso de bbisoggno:
e cquesta nun l’ha ffatta uno scarpiattolo,
ma un zanto prete che l’ha lletta in zoggno.
17 gennaio 1846
2130. L’entrat’e usscita der purgatorio
Io, fra Vvenanzo mio, sò un iggnorante,
ma sta cosa la sa ppuro Marforio,
che ll’anime che vanno in purgatorio,
spesciarmente oggidí, nnun zò ppoi tante.
E ssi ttutte ste poche anime-sante
’ggni messa a Ssan Lorenzo o a Ssan Grigorio
le pò ddelibberà dda quer martorio
fresche-fresche e ggrorios’e ttrionfante,
er purgatorio è bell’e bbuggiarato,
pe vvia che ’ggni matina a or de pranzo
deve scerto arimane spiggionato.
E ssi ppoi carcolamo, fra Vvenanzo,
che ’ggni cchiesa ha er zu’ artàr privileggiato,
de messe sce n’è ppuro un zopravanzo.
14 marzo 1846
2131. Er passo de la ggiustizzia
1
«E cche nnova? uno solo è er marfattore!
Ma nnun ereno dua, mastro Ggiujano
«L’antro, perch’è un abbreo fatto cristiano,
l’ha vvorzuto
2
aggrazzià Nnostro Siggnore».
«E cc’ha ffatto, se sa, cquesto che mmore?»
«Gnente de meno che sgrassò un villano».
3
«E er giudío libberato dar Zovrano?»
«Ha scannato la mojje co un rasore».
4
«Sarà stata ’na bbrutta scalandrona...».
5
«Ôh, ppe cquesto era poi ’na ggiuvenotta
bella, grazziosa, pulituccia e bbona».
«Be’, e pperché la scannò?» «Tanto te scotta?
6
Perché nnun vorze
7
mai, matta cojjona,
pe ddà da maggnà a llui, fà la miggnotta».
8
18 marzo 1846
1
Il passaggio del condannato.
2
Voluto.
3
Francesco Sciarra fu condannato e giustiziato, secondo la legge, per aver
ucciso un campagnuolo e toltigli alcuni soldi.
4
...Elbani, impoverì la moglie, già di qualche agiata fortuna, e poi la
scannò pel motivo che più sotto è nei versi indicato.
5
Scalandrona dicesi a donna attempata e di corporatura adiposa e
floscia.
6
Tanto ti interessa? ti altera? ti spiace?
7
Non volle.
8
Meretrice.
2132. Er discorzo chiaro-chiaro
«Piano co ste ricchezze, annàmo piano»,
disce l’Abbat’Andrea de san Calisto,
«nun damo retta a sto monnaccio tristo
che nnun penza antro c’ar penzà pprofano».
De tanti santi morti a mman’a mmano
se n’è vvisto uno ricco, se n’è vvisto?
Eppoi», disce, «chi era Ggesucristo?
Era un pover’ebbreo fatto cristiano.
Quanti viveno ar zecolo, fratelli,
si sse
1
vonno sarvà ll’anima lòro
hanno da èsse tutti poverelli.
Lo ponno maneggià l’argent’e ll’oro
l’eccresiastichi soli, perché cquelli
hanno l’aggravio de sarvà er decoro».
27 marzo 1846
1
Se si.
2133. L’appartamento de la padrona
La mi’ padrona è vvedova da un anno,
e sse gode sto po’ dd’appartamento,
che cc’entrería magara un riggimento
coll’arme e li bagajji ar zu’ comanno.
Questa è la sala: cqui sto io: llí stanno
le cammoriere e er pupo: de cqui ddrento
se
1
va a ssei stanzie nobbile, che ssento
che li re cche sò rre mmanco scell’hanno.
2
Poi viè er zalone der bijjardo, poi
quello der ballo, poi ’na gallaria
pe spasseggio, pe ggioco e cquer che vvoi.
Là ccanteno e cqua ddorme la padrona:
e accusí, amico, senza dí bbuscia
pòi dí cche llà sse canta e cqua sse sona.
28 marzo 1846
1
Si.
2
Ce le hanno: semplicemente le hanno.
2134. Le lettaníe der viatico
«Ôra proè: Ōra proè
1
... Ssor’Anna,
Ma cchi è l’ammalato? è er zor Marcello?»
«No, er padre (Ōra proè)». «Ccredo er fratello».
« Ōra proè ». «Nno, er zio che ttiè llocanna».
«E cquesti (Ōra proè) cchi cce li manna,
che nemmanco se cacceno er cappello?
Bberfijjo (Ōra proè), pss, bberzitello».
«Che vve dole? la freggna che vve scanna?»
« Ōra proè ». «Vva’ vva’ cche bbelle rape!».
«E cche ssomaro! (Ôra proè)». «Ssorella,
scanzateve, ché cqui nnun ce se cape».
«E vvoi nun ve bbuttate addoss’a mmé,
sora vecchiaccia (Ōra proè)». «Gran bella
risposta da puttana. Ōra proè ».
31 marzo 1846
1
Ora pro eo.
2135. Le zzampane
Come?! Zzanzare! E cche vvò ddí zzanzare?
Se chiameno zzampane ar mi’ paese.
Si vvoi volete ppoi fàcce l’ingrese,
le potete chiamà ccome ve pare.
Chi l’ha ddetto? er padrone? Ehèe, ccompare,
s’avessi da ridí dda quarche mmese
tante cojjonerie c’avemo intese,
ce ne sarebbe da dà ffonno ar mare.
Zanzare! Cristo! eh ssi lo dichi a un cane,
nun te strilla caino e scappa via?
Ggnente: zzampane s’ha da dí, zzampane.
Bbe’, sse dirà zzanzare pe le stampe;
ma ssò zzampane: eppoi, santa Luscia!,
nun je le vedi llí ttante de zzampe?
2 aprile 1846
2136. Er marito de ggiudizzio
Ôh, er mi’ padrone poi, sora Scescijja,
1
verbo corna s’ammaschera da tonto.
2
Lui se n’essce da cammera onto-onto,
3
serra l’occhi, e vva ttutto a mmaravijja.
Nun è omo d’avello
4
pe un affronto,
si ssenza corpa sua cressce famijja.
Le cose tutto sta cchi sse ne pijja,
e ggnente dole mai si ttorna conto.
Abbiti, argenterie, casa a ppalazzo,
carrozze, servitú, ppranzi in campaggna...
lui vede tutto e nnun dimanna un cazzo.
La providenza viè? llui l’arisceve.
Er camminuccio fuma? e cquello maggna.
La funtanella bbutta? e cquello bbeve.
2 aprile 1846
1
Cecilia.
2
Fa lo gnorri.
3
«Lemme-lemme», come dicono i toscani.
4
Averlo.
2137. La sposa de Titta
«Che ffai, Titta?» «Me crompo una luscerna».
«E cch’edè cche tte viengheno ste vojje?»
«Ma ddunque nu lo sai che ppijjo mojje?»
«Oh ppoveretto té! rrequiameterna».
«Io nun m’affermo a ll’apparenza isterna:
nun sbatto er muso indove cojje cojje.
Eppoi, mmojje sce vò, ssor caca-dojje,
1
ché cchi mmoje nun ha, mmojje governa».
«E cchi è sta perluccia c’hai pescato?»
«Nun zarà pperla, ma ddev’èsse bbona,
perché vviè da le mano der curato».
«Der curato? mar va!».
2
«Bbe’, cquer che vvòi
sarà ddunque una vacca bbuggiarona.
Pe mmé, nun credo che ssii vacca: poi...».
3
3 aprile 1846
1
Nunzio di sventure.
2
Mal va.
3
Del resto poi, sarà quel che sarà.
2138. Ajjuto e conzijjo
Capisco... ma... che sso!... ccerte faccenne...
io poi... se sa... nnun posso avé, ffratello...
perché... a la fine... come disce quello?...
1
Inzomma... tutto sta ccome s’intenne.
Raggione, ohé, cce n’averai da venne...
eppuro... co ddu deta de scervello...
nò cc’uno abbi
2
... me spiego?... eppoi, dov’èllo?
Via... cche sserve!... ggnisuno lo pretenne.
Pe mmé, mmagara!... e ccaso-mai... pe cquesto
nun ce penzà: ffigúrete si io...!,
semo amichi sí o nno? Dunque io sò llesto.
Ôoh mmanco male! ma llui pregh’Iddio...
Bbasta, ce semo intesi: e cquant’ar resto,
tu ttiette sempre ar zentimento mio.
3 aprile 1846
1
Espressione usata dal popolo, accingendosi questo a citare qualche massima, sentenza o proverbio. Per esempio:
Come dice quello? Male non fare e paure non avere.
2
Non già che uno abbia: che si debba, ecc.
2139. Er parchetto de la deputazzione
«Mastro Micchele, ahó, mmastro Micchele,
cqua nnun ce sò ppiú mmoccoli a la pracca».
«Nu lo sai, sti fijjacci d’una vacca
che sse
1
porteno a ccasa le cannele?»
«E ffanno ste virtà?! co cquela cacca!
2
co cquer lòro sputà ttossico e ffiele!».
«Eh, ppe cquesto saría zzuccher’e mmèle:
sta cosa sola saría mal da bbiacca».
3
«Ma ccome! sc’è de peggio?» «E ppeggio assai.
E li parchi a ccucuzza?
4
e li bbijjetti
pe le lòro famijje, eh?, nnu li sai?
E li pessci da tajjo pe nnatale?
e li polli d’agosto? e li fiaschetti
pe pprimavera e utunno e ccarnovale?».
3 aprile 1846
1
Si.
2
Con quell’orgoglio.
3
Mal da nulla.
4
Gratuiti.
2140. Er credito contro Monziggnore
Ma cche! sta fernesia
1
nun t’è gguarita
d’ariannà
2
da quer porco Monziggnore?
Fai un būscio
3
in dell’acqua, Sarvatore:
spreghi er fiato e cciabbuschi l’acquavita.
4
Nun te viè a ttufo
5
de fà ppiú sta vita?
Tu stenne
6
un bravo conto der lavore,
pijja pe ttistimonio er zervitore,
trova un curiale e piànteje una lita.
Li ggiudisci lo so che ssò pprelati,
e ccane, me dirai, nun maggna cane;
ma cquarche vvorta sò ccani arrabbiati.
E allora, senza d’abbadà ar decoro,
queli ladri fijjacci de puttane
se mozzicheno puro
7
fra de lòro.
4 aprile 1846
1
Frenesia.
2
Di riandare, ritornare.
3
Buco.
4
Ci buschi una intemerata.
5
Non ti viene a noia.
6
Stendi.
7
Pure.
2141. La madre der condannato
Ma ddio mio! doppo un mese de spedale,
che ssi ssarvò
1
la pelle fu una sorte,
va e sse
2
vede serrà ttutte le porte
perché mmanco parlassi
3
ar cardinale!
Capisco che ssi aggnede
4
pe le corte
e ammazzò er codatario,
5
fesce male:
chi lo nega? Ma adesso er tribbunale
ha ffatto bbene a ccondannallo a mmorte?
Nun aveva da èsse accarcolato
6
er brutto aripentajjo de la fame
de quer povero fijjo disperato?
Eh! ssi potesse cqua vede
7
er zovrano!...
Je voría dì:
8
«Ssò ste ggentacce infame
che jj’hanno messo quer cortello in mano».
5 aprile 1846
1
Se salvò.
2
Si.
3
Nemmeno parlasse.
4
Se andò.
5
Caudatario.
6
Esser calcolato.
7
Eh, si potesse qua vedere: potesse
vedersi, ecc.
8
Gli vorrei dire.
2142. La mediscina piommatica
1
Sonetti due
E cche ne so cche ddiavolo s’impiccia
sto sor ddottor piommatico der cazzo,
che, stassi a mmé de commannà a Ppalazzo,
ne vorebbe
2
fà ccarne de sarciccia!
Co un granello de porvere rossiccia
disce che, senza dajje antro strapazzo,
er naso de quer povero regazzo,
sibbè cche nun c’è ppiú, ppresto arisciccia!
3
Disce: «Si mette in d’un bucale pieno...».
Dico: «E de sto granello, sor dottore,
nun ze pò allora fanne con-di-meno?».
4
Disce: «Voi zzitto, e ffate ir zervitore».
Va a ffiní c’a sto medico je meno;
5
e ssi jje meno io, meno de core.
5 aprile 1846
1
Omiopatica.
2
Vorrei.
3
Ariciccia, riciccia: rigermoglia.
4
Farne a meno.
5
Gli meno: lo batto.
2143. La mediscina piommatica
1
E cqui è dove s’addanna
2
er dottor Monghi.
Disce: «La piommatía? psé, ppoco male.
Ma da noi volé
3
studi accusí llonghi,
prima che ciaccostàmo
4
a un capezzale!
A nnoi fàcce arimette
5
un capitale
pe ppagà ’na cartata de ditonghi;
6
e cquelli, senza scola né spedale,
lassali
7
spuntà ssú ccome li fonghi!».
Disce: «E vvolete provibbí a la ggente
de fasse cuscinà
8
da chi jje pare?
Chi sse n’ha da pentí, ppoi se ne pente».
Disce: «Sarà accusí:
9
mma pperché ppoi
tante bbaggianerie, tante caggnare,
per impedicce
10
d’ammazzalla noi?».
5 aprile 1846
1
Omiopatica.
2
Si arrovella.
3
Volere.
4
Ci accostiamo.
5
Farci rimettere.
6
Alludesi alle spedizioni de’ gradi universitarii.
7
Lasciarli.
8
Di farsi cucinare, ammazzare.
9
Così.
10
Impedirci.
2144. Er bracciante marcontento
Quann’io trovo un padrone c’ha cciarvello
e ssa conziderà cquer che jje faccio,
io me sce schiatto er core, io me sce sbraccio
che mmanco ar padre mio, manc’a un fratello!
Ma st’infame ggiudío rinegataccio,
che mme tiè ccom’un cane da mascello,
lo vorebbe trincià ccor un cortello
e ppassallo magara pe ssetaccio.
1
Io cqua ggià ppuzzo d’impiccato, puzzo:
ma ppe ddiliggerí
2
ccerti bbocconi
sce vorebbe uno stommico da struzzo.
Accidenti che rrazza de padroni!
Ma ss’io sto fariseo nu lo scucuzzo,
3
nun me chiamà ppiú Mmeo Sfreggnacantoni.
4
5 aprile 1846
1
Staccio.
2
Digerire.
3
Scucuzzà: «rompere» il capo, da cucuzza, «zucca».
4
Sfasciacantoni, tagliacantoni.
2145. Una bbiastéma
1
der Crèdo
Sto a ppenzà come er Crèdo, sor Emijjo,
dichi che Ggesucristo annò a l’inferno.
È possibbile mai ch’er Padr’eterno
ce volessi mannà propio su’ fijjo!
Ma lo sapete co chi mme la pijjo?
Me la pijjo co cquelli der Governo,
che metterno sto scànnolo,
2
metterno,
senza nemmanco dimannà cconzijjo.
Gesucristo a l’inferno! E ss’è mmai visto,
da sí cche
3
ccelo è ccelo e mmonno è mmonno,
un galantomo ppiú de Ggesucristo?
Si
4
ppoi sta cosa, s’abbi da credella,
pò èsse forzi
5
che in quello sprofonno
ar piú cciaverà ffatto capoccella.
6
5 aprile 1846
1
Bestemmia.
2
Misero questo scandolo.
3
Dacché, sin da quando.
4
Se.
5
Può essere forse.
6
Capolino.
2146. Un caso da carbone bbianco
«Er mi’ padrone vò mmorí dde scerto».
«E da che tte n’accòrghi, Trenta-vizzi?»
«Oggi nun ce sò stati priscipizzi».
«E ll’antri ggiorni?» «È un infernaccio uperto».
«Ma è pprete?» «E nun ze chiama Don Nobberto?
e nun marcia cor furmin’a ttre ppizzi?
nun disce messa? nun dà l’esercizzi?
nun confessa? nun predica ar deserto?»
«Dunque se farà bbono, statte quieto».
«Sí, bbono come ll’acqua de pantano,
come li ggnocchi coll’ojjo e l’asceto».
«Tratanto che vvòr ddí cche cc’è stat’oggi?» .
«O è stracchezza de tempo, sor Ghitano,
o ar monno nun cammineno l’orloggi».
7 aprile 1846
2147. Er bizzoco farzo
Ah,
1
pe vvia
2
che diggiuna er venardí
e vva ssempre a la predica ar Gesú,
l’hai pijjato pe un zanto? Ma ssai tu
c’accidenti d’omaccio è quello llí?
Abbasta, pe vvedé le su’ vertú,
che cciabbi
3
quarche ccosa da spartí;
ché cquanno co la bbocca disce sí,
drento ar core fa er canto der cuccú.
4
Lui me vorebbe cojjonà: mma nnò:
pe ddamme poi la cojjonella a mmé
nun è llui quer gruggnetto che cce vò.
Lui ari dritto
5
e abbadi a llui, perché
li su’ sciafrujji,
6
grazziaddio, li so,
e cco mmé nnun ze ggioca a cciaffrujjè.
7
7 aprile 1846
1
Dunque, cosicché.
2
Pel motivo.
3
Che tu ci abbia.
4
Cuccù equivale al «no».
5
Abbia giudizio.
6
I suoi imbrogli.
7
Ciafrugliè è stato per qualche tempo il nome che volgarmente davasi pe’ bigliardi a una specie di carambola francese,
in cui ogni giuoco era buono, o fatto colla propria, o coll’altrui biglia.
2148. Er Papa ner Giuveddí Ssanto
A le tavole inzomma e a la lavanna,
er Papa, sibbè vvecchio e sfoconato,
1
pareva un stufarolo
2
affaccennato,
pareva er cammerier d’una locanna.
Sto sant’omo che cqui, ssora Susanna,
meriterebbe d’èsse imbarzimato.
3
Sia bbenedett’Iddio che cce l’ha ddato,
com’un giorno all’Ebbrei diede la manna!
Ma è vvecchio, è vvecchio assai! Puro,
4
speramo
ch’Iddio lo sarvi da tarle e dda sorci
come sarvò li zzoccoli d’Abbramo.
Lui je la canta sempre a sti scatorci
5
de cardinali: Ottantatré nn’abbiamo,
ché ll’anni sui li disce a ccani e a pporci.
6
9 aprile 1846
1
Affralito.
2
Inserviente di stufa, cioè di bagni.
3
Imbalsamato.
4
Pure.
5
Disutilacci.
6
Cioè, «li dice a chiunque».
2149. La Tirnità de pellegrini
1
Che ssò li pellegrini? Sò vvassalli,
2
pezzi-d’ira-de-ddio, girannoloni,
che vviaggeno cqua e llà ssenza cavalli
e cce viengheno a rroppe li cojjoni.
3
E appena entreno a Rroma calli-calli
4
co le lòro mozzette e li sbordoni,
’ggna alloggialli, sfamalli, ssciacquettalli,
5
come fússino lòro li padroni.
Ma sti bboni cristiani de Siggnori
che li serveno a ccena, ammascherati
da sguatteri, da cochi e sservitori,
je dicheno in ner core: «Strozza, strozza;
6
ma gguai, domani, si li tu’ peccati
me te porteno avanti a la carrozza».
Giovedì santo 9 aprile 1846
1
Trinità, ecc. È una confraternita, composta di cittadini e di titolati d’ogni classe, i quali per istituto usano ospitalità a’
pellegrini.
2
Canaglia.
3
A disturbare.
4
Caldi caldi.
5
Qui si allude alla lavanda de’ piedi.
6
Mangia, mangia: ingolla,
ingolla.
2150. Er cardinale bbono
Eh ggiusto! bbono lui?! Cristo! è un’arpia,
che nun zai com’arrèggesce,
1
nun zai!
Sto Cardinale è bbono! eh indove mai!
2
T’hanno detto una gran cojjoneria.
E ssi ha ddato la dota a Nnastasia,
ar perché jje l’ha ddata nun ce dài?
3
Je l’ha ddata perché cc’ereno guai!
Bbazzicotti forzati,
4
Aghita mia.
Però nnun dico che ssii mejjo o ppeggio
o cche ffacci ppiú o mmeno marachelle
5
de tutt’er resto der Zagro Colleggio.
Abbast’a vvede
6
come va la piazza.
Sò ttutti lupi de l’istessa pelle:
ammazz’ammazza sò ttutt’una razza.
9 aprile 1846
1
Come reggerei, resisterei.
2
Mai più simili cose.
3
Non ci dài dentro, non ne penetri il motivo?
4
Necessità.
5
Azioni
furbesche, indecorose, fraudolente.
6
Basta a vedere.
2151. La smania de sposà
«Tratanto io cqui... lo pôi negà?» «Che vv’essce?»
1
«Io...». «Me credevo che vv’usscissi
2
er fiato».
«Io sò ancora zzitella...». «Oh cche peccato!».
«E tutto pe vvia tua».
3
«Me n’arincressce».
«Me facessi
4
lassà Ttitta de Fressce...».
5
«E ttu, ccojjona, perché ll’hai lassato?»
«Ma cche aspetti?» «La dota der curato».
«Maggna, cavallo mio, ché ll’erba cressce».
6
«Eh, sorella, io nun zò de sti sciufechi
7
c’hanno prèsscia:
8
la gatta pressciolosa,
cocca mia bbella, fa li fijji scechi».
9
«Tu tte penzi da
10
cco le miggnotte;
e io..., e io...». «E ttu, e ttu, smaniosa,
si nun ce pòi stà ppiú, vatt’a fà fotte».
11
9 aprile 1846
1
Che dite, che avete?
2
Escisse.
3
Per tua cagione.
4
Mi facesti.
5
Giambattista di Fesch (cardinal Fesch).
6
Vuol esservi
tempo. Proverbio.
7
Non sono di questi gonzi.
8
Fretta.
9
Proverbio.
10
Di trattare.
11
Vattene in malora.
2152. Sesto, nun formicà
1
«Ma ssenz’èsse però mmojj’e mmarito
er fà un omo e una donna quela cosa
ch’io fo ’ggni notte co mmi’ mojje Rosa
nun è ssempre un peccato provibbito
«Io nun ve dico», repricò er romito,
«che sta corpa nun zii peccanimosa;
2
ma cche la Cchiesa, ch’è mmadr’amorosa,
sa ddistingue er pancotto e er pan bullito.
Per esempio, si un omo bbattezzato
vienghi preso in fregante
3
co un’ebbrea,
è ssubbito un peccato ariservato.
Ma ppe una donna poi s’arza la mano:
4
tutto ne viè
5
ddar fijjo che sse crea:
ché cquella fa un giudío, questa un cristiano».
10 aprile 1846
1
Sesto (precetto), non fornicare.
2
Peccaminosa.
3
In flagrante.
4
Alzar la mano, vale «assolvere, usare indulgenza».
5
Tutto dipende.
2153. Er padrone scoccia-zzarelli
Mó ll’ummido è abbrusciato, mó è bbrodoso,
mó in cammera sc’è ppuzza de carbone,
mó vva llenta la corda der portone,
mó er vino è ssciarbonea, l’ojjo è allapposo...
Oggi nun j’ha ppijjata l’oppiggnone
de dí cch’er zu’ bbicchiere era zzelloso?
1
E cquello era un bicchier propio da sposo,
chiaro com’una bbolla de sapone!
Dico: «Ma ccaro lei, questo è un brillante».
Nu l’avessi mai detto! Er mejjo termine
che cciò avuto è de porco e dd’iggnorante.
E cche ssemo? somari da capezza?
E cche, pper dio!, sò ddiventato un vermine,
cenneraccio, lesscía, fanga, monnezza!...
11 aprile 1846
1
Lordo.
2154. La gabbella der zabbito santo
«Già er prete su da noi cià
1
bbenedetto,
e la Siggnora j’ha ddat’un testone».
«Nun c’è mmale, nun c’è: mma er mi’ padrone,
ch’è pprete puro lui, je dà un papetto».
«Cicco cqua, ccicco llà,
2
co sto ggiretto
la sora
3
Sagrestia fa un bel mammone».
«Ma er chirichetto, che nun è ccojjione,
tiè la su’ parte ariservata in petto.
Siccome tutto va in nell’acqua santa,
er prete come vôi che ffacci er conto
si ssò vventi, o ssò ttrenta, o ssò cquaranta!
Quell’antro,
4
dunque, c’ha er zecchietto in mano,
a ’ggni sscenta
5
de scale è bbell’e ppronto
a spartísse
6
l’incerti cor piovano».
11 aprile 1846
1
Ci ha. Dicesi comunemente de’ maiali.
2
Cicco qua, cicco , il porcello s’ingrassa.
3
Signora.
4
Altro.
5
Ad ogni
discesa, ecc.
6
Spartirsi.
2155. Le carte per aria
«Cosa sò cquele carte, sor Cremente,
che in ner dà er Papa la bbinidizzione
se vedeno bbuttà ggiú ddar loggione
e vvoleno cqua e llà ssopr’a la ggente?»
«Sò ccarte che nun zerveno ppiú a ggnente,
sò ccartacce avanzate dar focone,
e sse bbutteno via pe la raggione
ch’è un’usanza c’usava anticamente».
«Ma ddisce don Mattia che ssò un tesoro».
«Si ffussino tesori, fijjo mio,
quelli se li terrebbeno pe llòro.
Quant’a ttesori, o ppreti o ggiacubbini
sò ttutti de ’na pasta. Eppoi, dich’io,
dov’hai mai visto de bbuttà zzecchini?».
12 aprile 1846
2156. L’affitti pe la ggirànnola
«Parchi, logge e ffinestre... Ebbè Mmilordo,
me ne dia sette... sei..., nun me strapazzi».
«Bbadi, Eccellenza, nun ce facci accordo
ché da quello sciarriveno li razzi».
«E da voi che cciarriveno? li cazzi?»
«Ôh ttu sta vorta nu lo peli er tordo».
«Te lo vòi pelà ttu, sscioto bbalordo?
1
Loghi, ssedie e pparchetti co l’arazzi...
Vienghi cqua, pss, monzú..., ssor Cavajjere,
madama, eh sor Abbate, eh Monziggnore...
Ecco piazze, ecco posti, ecco lendiere.
2
Alegri,
3
chi la vede la ggirànnola?
Gnisuno vò squajjà,
4
ggnisuno ha ccore,
je pijji un accidente co la mànnola!».
5
13 aprile 1846
1
Furbo, sotto petto di semplicità.
2
Ringhiere.
3
Animo: su via.
4
Nessuno vuole spendere.
5
Mandorla.
2157. Er bon partito
Ma eh? cquella Luscia si cche ffurtuna!
Ah cquella è nnata carzata e vvistita.
Già, tutto-quanto in sta mazzata
1
vita
va ssiconno li quarti de la luna.
Bellezze tanto,
2
nun ce n’ha ggnisuna,
ché ppare una merangola ammuffita.
Eppuro eccola llí: llei se marita,
e le mi’ fijje, che ssò ssei, manc’una!
Sin da quanno ch’er zio je lassò er forno,
io lo disse: sta sfrízzola
3
è assortata:
da la matina se vede er buon giorno.
E adesso se la sposa er zor Annibbile:
4
propio lui: che, assicurete, Nunziata,
è un omo... un omo... che nun è possibbile.
5
13 aprile 1846
1
Mazzata in senso di fortunosa.
2
Circa a bellezza.
3
Personcina di nessun conto e di meschino aspetto: da sfrizzolo,
sfrizzoli, relitti della sugna dopo estrattone al fuoco il distrutto.
4
Annibale.
5
Cioè: non è possibile dirne quanto se ne
dovebbe.
2158. Li malincontri
M’aricordo quann’ero piccinino
che Ttata me portava for de porta
a rriccojje er grespigno, e cquarche vvorta
a rrinfrescacce co un bicchier de vino.
Bbe’, un giorno pe la strada de la Storta,
dov’è cquelo sfassciume d’un casino,
ce trovassimo stesa llí vviscino
tra un orticheto una regazza morta.
Tata, ar vedella llí a ppanza per aria
piena de sangue e cco ’no squarcio in gola,
fesce un strillo e ppij ll’erba fumaria.
E io, sibbè ttant’anni sò ppassati,
nun ho ppotuto ppiú ssentí pparola
de ggirà ppe li loghi scampaggnati.
15 aprile 1846
2159. Li cardinali in cappella
L’ho ccontati ggià io: sò cquarantotto:
quarantasette rossi e uno bbianco,
e ttutti su cquer lòro cassabbanco
barbotteno l’uffizzio a ttesta sotto.
Disce che ognun de lòro è un omo dotto
e pparla d’oggni cosa franco franco,
e appett’a llui nun ce la pô nemmanco
chi ha inventato le gabbole dell’Otto.
Disce che inzin ch’è stato monzignore
forzi oggnuno de lòro, Angiolo mio,
ha puzzato un tantin de peccatore.
E mmó cche ssò Eminenze? Mó, dich’io,
sarìa curioso de leggejje in core
quanti de quelli llí ccredeno in Dio.
20 aprile 1846
2160. Le creanze screanzate
Te vòi fà ’na risata? L’artebbianca
m’ha ariccontato c’a li pranzi fini
tutte mó le paine e li paini
tiengheno la forchetta a mmanimanca.
So cc’a nnoi Tata mio, da piccinini,
si mmaggnàmio accusí, ppe ccosa franca
ce fasceva bballà ssopr’una scianca:
1
e li signori sò ttutti mancini?
Che la grazzia-de-ddio, mastro Ghitano,
se strapazzi accusí, ppropio me cosce,
2
nun me pare creanza da cristiano.
Nun zerve che mme date su la vosce.
Io nun zò tturco: io maggno co la mano
che mme sce faccio er zeggno de la crosce.
21 aprile 1846
1
Ci faceva ballare sopra una gamba: cioè pel senso delle percosse.
2
Mi cuoce.
2161. L’aggratis e er picchinicche
1
Nepà,
2
mmunzú: la vera nun è cquesta:
ve lo diremo noi come se spiega.
Sto picchinicche è una parola grega,
che vvò ddí ppagà ir pranzo a un tant’a ttesta.
Io voi nun me guardate cqui a bbottega
si sto ssempre a ssegà, mmeno la festa;
pe vvia
3
ch’io tratto tutta ggente onesta,
che ss’intenne de tutto e sse ne frega.
4
Pò ssapello ch’edè sto picchinicche
un coco amico mio che ssempr’è stato
a intrujjà
5
ccazzarole in case ricche?
Bbe’ ddunque, aggratis siggnifica a uffaggna,
e ppicchinicche ve l’ho ggià spiegato:
picchinicche vo ddí ppaga chi mmaggna.
22 aprile 1846
1
Piquenique.
2
Crede il popolo che in francese il no dicasi nepà.
3
Imperocché.
4
Se ne ride, non cede a chicchessia.
5
Intruglio è mistura, piuttosto sozza, di varie sostanze, tra solide e liquide, quindi il verbo intrugliare.
2162. Er guazzarolo
1
sbiancato
2
Quant’ar
3
cch’io me sposo sta regazza,
sor piripicchio
4
mio, la fate franca!
Vacca o vvitella poi, bbiocca o ppollanca,
questo a mmé nun me smove una pennazza.
5
Ma rrara o nnò ccom’una mosca bbianca,
vienghi de bbona o de cattiva razza,
si ccredessivo
6
mmai dàmme la guazza,
7
bello mio, me ve ggioco a ssottocianca.
8
Pe ccojjonella
9
tanto, io ve soverchio;
e, ppe rregola vostra, io nun ciappizzo
10
co cchi ccerca marito pe ccuperchio.
Già la pascenza me sta in pizz’in pizzo:
11
e, un carcio che vve do, vv’allargo er cerchio
e vve spiano la punta ar cuderizzo.
12
22 aprile 1846
1
Derisore. Dar la guazza, vale: deridere, beffeggiare, ecc.
2
Confuso, mortificato, smentito.
3
Quanto al dire.
4
Omiciattolo.
5
Peli delle palpebre.
6
Se credeste.
7
Darmi la guazza. Vedi la nota 1
a
.
8
A sottogamba.
9
Derisione.
10
Non
ci appizzo: non inclino, non mi espongo, ecc.
11
La pazienza è per fuggirmi.
12
All’osso sagro.
2163. La pinitente che storce
1
Prudenza? Eh ccaro lei, lo so ppur’io
che ppe vvive co llui sce vô pprudenza.
Pascenza? Ma, o ppascenza o nnun pascenza,
st’omaccio nun pô stà ssur libbro mio.
Lei me pò ddà cqualunque pinitenza,
ch’io faccio tutto pe l’amor de Ddio;
ma nnò de volé bbene a cquel’arpío
che cquann’una ne fa ccento ne penza.
Lui chiamamme bbusciarda cor ditongo!
E ho da sentillo dí da lui! ch’indove
disce la verità cce nassce un fongo.
Io nun pòzzo ppiú arregge tra sti guai.
Padre mio, tanto tona inzin che ppiove;
er lupo muta er pelo, er vizzio mai.
22 aprile 1846
1
Restìa.
2164. La mutazzion de nome
Ma nun zai che mm’ha ddetto er mi’ ggiudio?
M’ha ddetto che in d’un libbro sce se trova
che Ddio ’na vorta se chiamava Gliova,
1
ch’è cquant’à ddí nnun ze chiamava Ddio.
Ma ccome, ma pperché, ddimanno io,
oggi se chiama in sta maggnèra
2
nova?
Un de le dua: o cqui ggatta sce cova,
o mm’ha detto una miffa er giudio mio.
Io l’ho ttrovo
3
però ssempre sincero;
e un’antra cosa poi, mastro Ggismonno,
me dà a rrifrette
4
che vvojji èsse vero.
Ché, ssenza annà a ccercà ccome o nnun come,
puro, inzomma, li Papa, c’a sto monno
sò vvicarî de Ddio, muteno nome.
23 aprile 1846
1
Jeovah.
2
Maniera.
3
L’ho trovato.
4
Mi dà a riflettere.
2165. L’orazzione
1
esaudite
Sta notte a mmezza-notte, Zzaccaria,
è mmorto d’accidente er zor Zirvani,
2
ch’era er cane ppiú ggrosso tra li cani
che vvanno a ccacciarella
3
in pulizzia.
La fine de sto porco bu-e-vvia
è accusí ddispiaciuta a li Romani,
c’hanno cuncruso dda bboni cristiani:
Sia laudato er Ziggnore e accusí ssia.
Je ne sò iti tanti d’accidenti,
c’a la fine sta goccia de ssciroppo
4
l’ha accucciato
5
senz’antri comprimenti.
O, ppe un riguardo a cchi jje stava doppo,
forzi ha ccapito pe li su’ talenti
ch’era mala-creanza a ccampà ttroppo.
24 aprile 1846
1
Le orazioni.
2
L’avvocato Demetrio Silvani Loreni, cavaliere, assessore generale di polizia in Roma, morto di
apoplessia fulminante poco dopo la mezzanotte dal 23 al 24 aprile 1846 «tota plaudente civitate».
3
Cacciarella: nome
della caccia di grosso salvatico.
4
Goccia: sinonimo di «apoplessia»: sciroppo, equivalente di «sinistro accidente».
5
Colcato.
2166. La faccia de la luna
«Ma llassú nne la luna, sor Martino,
che ccos’è cquela faccia grassottella
che ppare che cce facci capoccella?»
1
«Quella? e nun è la faccia de Caino?»
«Come! la faccia de Caino è cquella?»
«Ggià: er Ziggnore je diede quer distino
perché ammazzò er fratello piccinino
e sse prese pe mmojje una sorella».
«E sta llí ssempr’all’acqua, ar zole e ar vento?»
«Ggià: inzinent’ar giudizzi’univerzale
ha da stà ffora, senz’annà mmai drento».
«E pperché ffa ccescè?»
2
«Ppe ddà un zeggnale
a nnoi, che cciaricordi oggni momento
la corpa der peccat’origginale».
25 aprile 1846
1
Capolino.
2
Fa ce-cè: fa capolino.
2167. Er zomaro
Me fesce cavarcà cquer galeotto
un zomaro che inciàmpica a ’ggni sasso,
’na caroggna che vva ssempre de passo,
e ddio-ne-guardi si sse mette ar trotto!
Eppoi senza bbardella! ch’io cqui ssotto,
pe ’na mezz’ora che ciaggnede a spasso,
sibbè cch’er culo l’ho ppiú ppresto grasso,
sor Dimenico mio, sò ttutto rotto.
Lei lo sa cche la schina der zomaro
è ffatta a-schiena-d’asino: e a cquell’ossa
la bbardella je serve d’aripparo.
Ma, der resto, o bbardella o nnun bardella,
o cce vai co l’immasto o a la disdossa,
t’arivòmmiti sempre le bbudella.
26 aprile 1846
2168. La bbirbata
1
der Curato
Arcipreti! che ffurie, sor Curato!
Lei, dico, parli co mmodo e maggnera;
2
Perché, inzomma, in che dà sta sonajjera
3
de strilli? Fà ssussurro e spregà ffiato.
Ma cche sse va ccercanno lei stasera?
la freggna de la serva de Pilato?
Io sò ffigura, pe cquer dio sagrato,
d’abbuscamme un tre pparmi de galera.
Bbella cosa! chiamamme ggiacubbino
perché, ffinita quela su’ pastrocchia,
4
nun me sò mmesso a ppiaggne ar fervorino!
Lei, sor don tale, a mmé nnun m’infinocchia.
Ho da piaggne! epperché, ssor Curatino?
Io nun c’entro: io nun zò de sta parrocchia.
27 aprile 1846
1
La sgridata, intemerata.
2
Con buoni termini.
3
Che significa questa filatessa, ecc.
4
Cicalata, pappolata.
2169. L’affari de Stato
Che fa er Governatore? Arrota stilli
e li dispenza a sbirri e bberzajjeri.
E er Vicario? Arimúscina misteri
per inventà ppeccati e ppoi punilli.
E er Tesoriere? Studia er gran bussilli
de straformà er bilancio in tanti zzeri.
E er Zegritar de Stato? Sta in guai seri
pe ttrovà mmodo d’affogà li strilli.
Tratanto er Papa cosa fa? Ssi’ acciso!,
guarda er zu’ orlòggio d’Isacchesorette,
e aspetta l’ora che sia cotto er riso.
Si ppoi pe ggionta sce volete mette
quer che ffa er Padr’Eterno in paradiso,
sta a la finestra a bbuttà ggiú ccroscette.
28 aprile 1846
2170. La morte co la coda
Cqua nun ze n’essce:
1
o ssemo ggiacubbini,
o ccredemo a la lègge der Ziggnore.
Si
2
cce credemo, o mminenti
3
o ppaini,
la morte è un passo cche vve ggela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,
se trafica, s’impozzeno quadrini,
se fa dd’oggn’erba un fasscio... eppoi se more!
E ddoppo? doppo viengheno li guai.
Doppo sc’è ll’antra vita, un antro monno,
4
che ddura sempre e nnun finissce mai!
È un penziere quer mai, che tte squinterna!
5
Eppuro, o bbene o mmale, o a ggalla o a ffonno,
sta cana
6
eternità ddev’èsse eterna!
29 aprile 1846
1
Non si può uscire da questa alternativa.
2
Se.
3
Minenti, gente del popolo, e in particolar modo de’ rioni di Trastevere,
Monti e simili.
4
Un altro mondo.
5
Ti scuote, sgomenta, schianta.
6
Cagna, nel solo senso però di «crudele, nemica,
barbara»; ed è sempre usata come aggettivo unito ad un nome. Nella assoluta significazione di femina del cane, dicesi
costantemente cagna.
2171. La vénnita der cardinale morto
Quela ggente affollata in quer cortile
ce sta perché cce vénneno
1
a l’incanto
scudaria, guardarobba e ttutto-quanto
der Cardinale che mmorí st’aprile.
Li nipotucci sui, com’è lo stile
de sti siggnori, doppo avello pianto
pe cquattro o ccinque ggiorni e mmanco tanto,
s’acquietorno cor zon der campanile.
E mmó li vedi a bbastonà
2
ccavalli,
quadri, carrozza, càlisci, pianete,
mobbili, bbiancheria, cocci e ccristalli.
Questo nun ze vedeva a ttempi mii,
che cquela robba c’ha sservito a un prete
finischi ne le man de li ggiudii.
8 maggio 1846
1
Ci vendono.
2
Vendere a macca.
2172. Ar zor Lello Scini
c’oggi diventa omo
Già cche vve trovo cqua ssenza ggnisuno,
facci de grazzia, è vvero o nnò, ssor Lello,
quer che mm’ha ddetto mó lo scarpinello,
ciovè cc’oggi pe vvoi sona er ventuno?
Sto nummero che cqui, Ddio sarv’oggnuno,
è un gran brutt’anno assai, fijjo mio bello;
perc’ortre ar guaio d’assodà er ciarvello,
c’è cquel’antr’affaraccio der diggiuno.
Eppoi si nun pagate la piggione,
o ffate quarche ddebbito coll’oste,
ve sciteno e vve schiaffeno in priggione.
Ma che vvolete fà? cce vò ppascenza.
Arate dritto co le vostre poste,
1
e cce sarà er Ziggnore che cce penza.
21 settembre 1846
1
Abbadate che pposta vò ddì aventori, crienti, e tocca la viola.
2173. Er papa bbon’anima
Papa Grigorio è stato un po’ scontento,
ma ppe vvisscere poi, ma ppe bbon core,
c’avessi in petto un cor da imperatore
ce l’ha ffatto vedé ccor testamento.
Nu lo sentite, povero siggnore!,
si cche ccojjoneria d’oro e dd’argento
ha mmannato sopr’acqua e sopr’a vvento
1
a li nipoti sui pe ffasse onore?
E ppoi doppo sc’è ppuro er contentino
de le poche mijjara c’ha llassato
tra bbaiocchelle
2
e rrobba a Gghitanino.
E er credenziere? e mmica sò ccarote:
ventiseimila scudi ha gguadaggnato
sortanto a vvetro de bbottijje vote.
18 ottobre 1846
1
Sano e salvo.
2
Danari.
2174. Er papa novo
Che cce faressi? è un gusto mio, fratello:
su li gusti, lo sai, nun ce se sputa.
1
Sto Papa che cc’è mmó rride, saluta,
è ggiovene, è a la mano,
2
è bbono, è bbello...
Eppuro, er genio mio, si nun ze muta,
sta ppiú pp’er papa morto, poverello!:
nun fuss’antro pe avé mess’in castello,
senza pietà, cquella gginía futtuta.
Poi, ve pare da papa, a sto paese,
er dà ccontro a pprelati e a ccardinali,
e l’usscí a ppiede e er risegà le spese?
Guarda la su’ cuscina e er rifettorio:
sò ppropio un pianto. Ah cqueli bbravi ssciali,
3
quele bbelle maggnate de Grigorio!
21 ottobre 1846
1
De gustibus non est disputandum.
2
È facile, accessibile.
3
Sfoggi.
2175. L’orloggio
E ddajje co Ppio nono! e ggni paese
mó aricopia st’usanza scojjonata
de portà ’na bbanniera inarberata
tra ccanti e ssoni e ttra ccannele accese.
E intanto er zanto padre ha la corata
d’arimette l’orloggio a la francese.
1
Un papa! ammalappena ar quarto mese
der papatico suo! Bbrutta fumata!
2
Disse bbene er decan de Lammruschini
ar decan de Mattei: «Semo futtuti:
3
cqua ttorneno a rreggnà li ggiacubbini».
Sto sor Pio come vòi ch’iddio l’ajjuti
quanno sce viè a imbrojjà ppe li su’ fini
sino l’ore, li quarti e li minuti?
22 ottobre 1846
1
Il pubblico orologio del palazzo pontificio al Quirinale, pari ad altri orologi di Roma, ebbe finora il quadrante diviso
in sole sei ore, le quali, mandandosi esso orologio alla romana, facean perciò in un quattro uficii, cioè di ore 6, di
12, di 18 e di 24. La campana peraltro battea di 12 in 12. Da questi elementi nasceano tal bizzarre combinazioni, che
uno svizzero della guardia ebbe un giorno ad esclamare: Oh Griste sante! Segnar guattre, sonar tiece e star fentitua!
Pio IX fa ora cangiare il quadrante, che segnerà quindi all’astronomica. Agli stazionarii questa innovazione non piace.
2
Brutto preludio.
3
Rovinati.
2176. Er papa pascioccone
Ma cche bbon papa, eh? mma cche animella!
Si aspetti un papa simile, si aspetti,
hai prima da vedé ssu ppe li tetti
li merluzzi a bballà la tarantella.
Quanno te guarda llí cco cquel’occhietti,
co cquella su’ bboccuccia risarella,
1
nun te sentí arimove le bbudella?
nun je daressi un bascio a ppizzichetti?
È ppapa, è vviscecristo, è cquer che vvòi:
eppuro, va’, in parola da cristiano,
a mmé mme pare propio uno de noi.
Dimme la verità, mmastr’Ilarione,
che la trovi la mútria
2
da sovrano?
ce la scopri la faccia da padrone?
27 ottobre 1846
1
Sorridente.
2
Cipiglio.
2177. Er nome der Papa
Se chiamava Ggiuanni? Eh ggiusto! eh vvia!
dateje un’antra bbotta de setaccio.
Voi v’ha ccuccato l’aria de Testaccio
e spacciate una gran cojjoneria.
Er papa se chiamava Ggiammaria:
pò ssapello la vecchia, sor cazzaccio,
che cquer zant’omo l’ha pportat’in braccio
e mmó adesso je tiè la bbiancheria?
Sta vecchietta è un canale che nun sbajja,
e ariconta che llui da secolare
era conte, e cch’è nnato a Ssinigajja.
Ma, ffussi Giammaria, fussi Ggiuanni,
oggi è Ppio nono; e vvojj’Iddio, compare,
ce se pòzzi chiamà cquattroscent’anni.
27 ottobre 1846
2178. Er càmmio de nome
Io poi nun ve so ddí ttante raggione:
questo io so cc’ar concrave er cardinale
creato papa, o ffacci bbene o mmale,
se muta nome e ppoi va ssur loggione.
E ssiccome uggnun’ha la tentazione
d’abbuscasse la cattreda papale,
uggnuno, o ssii ’na perla o ’no stivale,
prepara er nome suo pe l’occasione.
S’era papa Mattei,
1
c’ar penzà mmio
è un cardinale assai lescit’e onesto,
je criccava er chiamasse Sperandio.
Mìcchera
2
poi, pe cquello che ssentimo,
se saría messo nome Sisto sesto,
e Lammruschini
3
invesce Agnello primo.
28 ottobre 1846
1
Mario Mattei, già Segretario per gli affari di Stato interni sotto Gregorio XVI.
2
Ludovico Micara, cappuccino, decano
del S. Collegio.
3
Luigi Lambruschini, già Segretario di Stato sotto Gregorio XVI.
2179. L’udienza prubbica
Ma ttu vvacce, Matteo, fa’ a mmodo mio,
tu vva’ a l’udienza e nnun avé ppaura.
Nun je vedi a la sola incornatura
si cche rrazza de core ha Ppapa Pio?
Io so cche ggiuveddí cche cciaggned’io
me parze, nun te fo ccaricatura,
de trovamme davanti a ’na cratura,
e nnò ar prim’omo che vviè ddoppo Iddio.
Te penzi che llui ssi st’antra canajja,
c’ar parlacce te zzompeno a la vita,
e tte fanno tremà ccom’una pajja?
Vacce, e nun dubbità cche tte strapazzi;
anzi èsse
1
scèrto c’a udienza finita
si tt’ha ddetto de nò ttu l’aringrazzi.
28 ottobre 1846
1
Èsse, èssi: ssii.
2180. Preti e ffrati
Però, ssibbè ggnisuno ve lo nega
che ppreti e ffrati cqua ssò ttutti bboni,
dítem’un po’, vvoantri talentoni,
come s’impiccia?, come va sta bbèga
che o mmaggni, o bbevi, o ddormi, o ccanti, o ssoni,
o ggiochi, o ppissci, o apri una bbottega,
ecchet’addosso un prete che tte frega,
o un frate che tte scoccia li cojjoni?
Sii bbianco, o rrosso, o nnero o ppavonazzo,
vadi in zottana, in tonica o in mozzetta,
de questo a mmé nnun me ne preme un cazzo.
O ttienghino er cappuccio o la bbarretta,
io, per mé ttanto, ne farebbe un mazzo
da scaricallo ar porto de Ripetta.
31 ottobre 1846
2181. Le feste de li santi
Dico la verità, ssora Celeste,
me tuferebbe assai che ppe li fini
de sti turchi arrabbiati ggiacubbini
a Rroma se calassino le feste.
E cche cc’importa si ppe vvia de queste
l’artisti nun guadammieno quadrini?
La festa è ppe nnoantri vitturini
quer che ppe li becchini era la peste.
Disce: «Ma ssi er bracciante nun guadaggna,
ma ssi l’avvezzi all’ozzio, si l’avvezzi,
con che sse sverna poi? come se maggna?».
E vve pijjate tanti sturbi ar core?
E nun ponno arifasse su li prezzi
der lavore der giorno de lavore?
1° novembre 1846
2182. Li nimmichi de papa Grigorio
E arriva a ttanto er dente avvelenato
de sti strilloni aretichi somari
pe cquer povero papa Cappellari
mó spesciarmente che jj’è uscit’er fiato,
che ddicheno inzinenta ch’è ppeccato
de scelebbrajje messe e nniverzari,
e vvorríeno scassà dda li lunari
fino quer giorno dua ch’ebbe er papato.
E nun basta; c’è cquarche ffuribbonno
che cce conzijja de scordallo, come
sto Papa cqui nun zii mai stato ar monno.
Ma ppe ggrazzia de ddio e der governo,
ce sò bboni pitaffi cor zu’ nome
da ricordallo a ttutti in zempiterno.
3 novembre 1846
2183. Er papa bbono
Pe bbono è bbono assai; ma er troppo è ttroppo;
e accusí, ttra l’ancudine e ’r martello,
se lassa perzuade a annà bberbello
e cquer c’ha da fà pprima a ffallo doppo.
Lo sapemo ch’er curre de galoppo
porta spesso a la strada der mascello,
ma neppuro un curiero c’ha cciarvello
nun monta in zèlla a un cavallaccio zzoppo.
Perantro noi che stamo a ccasa nostra
e cciancicamo quer boccone in pasce,
noi nun capimo che llassú è la ggiostra.
Fra cchi ttira e cchi allenta, poveretto,
io voría vede chi ssaría capasce
d’accordà la chitarra e ’r ciufoletto.
4 novembre 1846
2184. La salute der papa
Santo-padre, e indov’è cquel’alegria
e cquele belle ganassotte piene
c’avevio prima? Voi nun state bbene:
io ve vedo mutà ffinosomia.
Si sti fijji d’un lupo e d’un’arpia
ve tireno cqua e llà ccorde e ccatene,
ve sce state a ppijjà ttutte ste pene?
Ce vô ppoi tanto pe ccaccialli via?
Er Vicario de ddio nun zete voi?
Dunque dateje l’erba a ttutti-quanti,
e ppoi lassate fà: cce semo noi.
Seguitanno accusí, ccurrete risico
de fà un buscio in dell’acqua; eppoi? eppoi
de sputà ccardinali e mmorí ttisico.
4 novembre 1846
2185. Er Papa in de l’incastro
È ora de finillo er ber pasteggio
de chiamà Ppapa Pio nostro sovrano
omo de carta-dorce, posa-piano,
mazza-la-fremma, lumacone, e ppeggio.
Tra li sturbi der zor zagro colleggio
che vva in decrivio all’ombra d’un tafano,
come vòi che cquer povero cristiano
nun z’ajjuti coll’arte der traccheggio?
Lui vò mmannà ttutte le cose in pasce,
annacce cor bemollo, a la sordina,
gastigà ccor baston de la bbammasce.
Pe ccontentà li poveri e li ricchi,
che mmaravijja sc’è, ppe ccristallina,
si nun trova mai forca che l’impicchi?
5 novembre 1846
2186. Li vívoli in zaccoccia
Dorme? Er Papa nun dorme e nun ha ssonno,
e nun è ttartaruca
1
né llumaca.
Ce vò er zu’ tempo pe ffà la triaca
da rimedià li cancheri der monno.
Er fà ppresto e er fà bbene, sor Zaràca,
nun ze ponno protenne, nun ze ponno.
Ma lo capisco si cch’edè: cqua vvonno
la bbotte piena e la mojje imbriaca.
Lassateli sfiacqueli sciufechi,
e dditeje: «La gatta pressciolosa,
sori cazzacci, fa li fijji scechi».
E in quant’a Ppapa Pio nostro sovrano,
lassamoje aggiustà ccosa pe ccosa.
Chi vva ppiano va ssano e vva llontano.
5 novembre 1846
1
Alludesi ad una stolta ingiuria che narrasi fatta al pontefice, spedendogli per la posta una elegante cartella, entro la
quale era dipinto il suo stemma con sostituite ai leoni due tartarughe.
2187. Er Vicario vero de Ggesucristo
Pio s’assomijja a Ccristo, e st’animali
nun jje stiino a scoccià li zzebbedei.
Defatti, vò vvedello, caro lei,
si Ccristo e Ppapa Pio sò ppropio uguali?
Cristo pe li peccati univerzali
commatté cco li scribbi e ffarisei,
e Ppio, cascato in man de filistei,
tribbola co pprelati e ccardinali.
Pio, come Ccristo, ha la coron de spini,
e vva a ffà l’Ecceomo s’una loggia
a ’na turba de matti e ggiacubbini.
E nun ze fidi lui de quer zubbisso
d’apprausi e sbattimano e ffiori a ppioggia:
s’aricordi le parme e ’r croscifisso.
8 novembre 1846
2188. La Tor de Babbelle
Inzin c’ar Papa je starann’addosso
de cqua li ggiacubbini a ffà l’abisso,
e de llà cquele pecore de Visso
ammascherate cor zucchetto rosso,
e, invesce d’ajjutallo a ssartà er fosso,
chi vvorà bbaccalà cchi stoccafisso;
staremo sempre cor tibbicommisso
de la miseria che cciarriva all’osso.
Sin c’uno strilla arrosto e un antro allesso,
e ttutti in compaggnia fanno fracasso,
dureranno li guai che cce sò adesso.
Ché ttra Erode e Ppilato, Anna e Ccaifasso,
«Io», er Papa dirà, «mme chiamo ggesso:
cor una mano scrivo e un’antra scasso».
10 novembre 1846
2189. Er cavajjerato
Mentre stavo attennenno ar mi’ mestiere
e ppistavo la china in ner mortale,
1
sentivo che ddisceva lo spezziale:
«Sapete chi hanno fatto cavajjere?»
«Lo sapemo», arispose quer curiale
che vviè a la spezziaria tutte le sere,
«hanno dato la crosce a un berzajjere
c’appricò un carc’in culo a un libberale».
«Ma ccome!», sartò ffòra un medichetto,
«ho lletto in de le storie...». «Eh, ccar’amico,
va a ppenzà adesso quer c’avete letto!
Va ccercann’oggi tra la ggente morta
cos’era un cavajjere a ttemp’antico!
E li preti sò cquelli d’una vorta?».
15 novembre 1846
1
Mortaio.
2190. Er viaggio a Bbettelemme
Dunque, essenno lei gravida, sor Nino,
de sto bbon cardinale mi’ padrone,
vòrze annà a ppartorillo in ner grottone
che la Madonna ce spanzò er Bambino.
Detto-fatto: accaparra un vitturino,
parte, arriva, se trova un Ciscerone,
eppoi comincia a ppijjà ccondizzione
1
de li lochi, pe ffà tutto appuntino.
Poi, appena je preseno le dojje,
curze a sdrajasse
2
in de la stalla, indove
c’entrò ppuro
3
er marito co la mojje.
Ma pperché llà nnun ce vedeva chiaro,
mentr’er marito era ar zito der bove,
fesce er fijjo sur posto der zomaro.
15 novembre 1846
1
Cognizione.
2
Corse a sdraiarsi.
3
Pure.
2191. Er giubbileo der 46
Inzomma venardí
1
ss’apre er tesoro
de le sante innurgenze, sor Matteo.
Venardí se dà mano ar giubbileo
de li frati e li preti fra de lòro.
Me ne moro de vojja me ne moro,
de vedé Ddon Ficone e Ffra Ccazzeo
fà er bocchino da scribb’e ffariseo
pe abbuscasse un buscetto in concistoro.
Poi doppo s’arivesteno l’artari,
e ss’arrizzappa pe ttre ssittimane
2
la vigna pe nnoantri secolari.
E accusí a ssono d’orgheni e ccampane
s’aggiusteranno cqui ttutti l’affari:
nun ce saranno ppiú lladri e pputtane.
16 novembre 1846
1
20 novembre 1846.
2
Dal 6 al 27 dicembre.
2192. Una bbella penzata
E bbenedetto sia Nostro Siggnore,
che ppe ffà vvede che nun è un stivale
ha ccreato pe pprimo cardinale
quer bravo Monziggnor Governatore.
Sta nomina che cqui je fa ppiú onore
che ssi calava un quadrinello ar zale,
o ssi avessi ordinato ch’er caviale
fussi padrone de mutà ccolore.
Questa è ’na gran fumata ch’er zovrano
penza ar decoro der zagro Colleggio
e cche le bbrijje sa ttenelle in mano.
Cusí quer ch’era prima un scenufreggio
annerà dda cqui avanti a mano a mmano
sicutèra in principio e nnunche e peggio.
21 dicembre 1846
2193. La raggione der Caraccas
1
Stammatina io discevo ar mi’ padrone:
«Sor conte, ma pperché ste Su’ Eminenze
nun sanno antro arisponne che inzolenze,
rugheno e nun intenneno raggione?
Perché ffanno la vita der portrone
senza manco studià le convegnènze?
Perché ddanno l’assarto e la dispenze
e ppatischeno poi d’indiggistione?
Perc’hanno sempr’in bocca la bbuscía,
e in quanto all’uso de volé rigali
pe lloro è ssempre pasqua bbefania?»
«Questi, fijjolo, sò ddiscorzi ssciapi»,
fesce er padrone mio: «li cardinali
nun zò ttutte crature de li Papi?»
23 dicembre 1846
1
Cracas: notiziario annuale ecc.
2194. Er maestro de li signorini
Ma cquer maestro è un gran omo seccante
cor dí ssempre a sti bbravi siggnorini:
«Raponzoli, studiate li latini,
invesce de ruzzà ccor cavarcante.
Fijji, le cose da sapé ssò ttante,
c’un omo che le studia, ar fin de fini,
piú ss’arrampica su ppe li rampini
e ppiú arriva a ccapí dd’èsse iggnorante».
Ma sto discorzo che jje tiè l’abbate
fa ttanta bbreccia ne li su’ scolari
come si jje discessi nun studiate.
Defatti, co sta predica curiosa,
nun è piú mmejjo de restà ssomari
pe ccrede d’èsse ar monno quarche ccosa?
26 dicembre 1846
2195. L’ugurî de sto monno
Bon-capo-d’anno, sí, bbelle parole!
Tre anni fa, cco ttutto er capo-d’anno,
la mojje mia de malanno in malanno
se n’aggnede a ingrassà le cucuzzole.
L’ann’appresso (e quest’è che ppiú mme dole),
co ’na frega d’uguri ar mi’ commanno
la grandina me venne bbuggiaranno
quer po’ de roba che ttenevo ar zole.
Drento ggennaro poi de l’an passato
doppo li stessi uguri d’oggni bbene
me toccò una quarella ar Vicariato.
E st’anno chi lo sa ccosa m’aspetta?
Nun cciamanc’antro per usscí de pene,
che mme pijji una goccia o ’na saetta.
1° gennaio 1847
2196. La scechezza der Papa
No, ssor Pio, pe smorzà le trubbolenze,
questo cqui nun è er modo e la maggnera.
Voi, padre Santo, nun m’avete scera
da fà er Papa sarvanno l’apparenze.
La sapeva Grigorio l’arte vera
de risponne da Papa a l’inzolenze:
vonno pane? mannateje innurgenze:
vonno posti? impiegateli in galera.
Fatela provibbí st’usanza porca
de dimannà ggiustizzia, ch’è un inzogno:
pe ffà ggiustizzia, ar piú, bbasta la forca.
Seguitanno accusí, starete fresco.
Baffi, e gnente pavura. A un bèr bisogno
c’è ssempre l’arisorta der todesco.
2 gennaio 1847
2197. L’ariscombússolo der Governo
A pranzo er cojjutor der mi’ padrone,
in ner mentre maggnava la grostata
je leggé ccerta lettra circonnata
co un’infirza de nomi de perzone.
Ne sciancicava un pezzo pe bboccone
e ’ggni tanto schioppava una risata:
«Vergine bbenedetta addolorata»,
poi fesce: «Oh cche pasticcio bbuggiarone!
Ma cche ccosa si fotte ir Cardinale,
che nun j’abbasta di fregà ir civile,
viè a rroppe li cojjoni ar criminale?
Si la ggiustizzia è ppe la ggente vile,
che jje n’importa ar Cardinal Pasquale
si ppassa da la parte der cortile?».
3 gennaio 1847
2198. Er tibbi de Piazza-Madama
La cannonata carica a mitrajja
c’ha ddato er Zantopadre in Pulizzia
pe rrigalo de pasqua bbefania
a cquer fior de sciroppo de canajja
è stata una gran brutta zinfonia
pe cchi ttiè la cuscenza fatta a majja:
un’antifona inzomma che nun sbajja
pe ggelà ppiú d’un ladro e d’una spia.
Capisco, c’è da fàccese canuto,
pe cquanto er Papa possi dajje addosso,
a estrippà er zeme der baron-futtuto;
ma ar meno, a forza d’arrivajje all’osso,
tanti che ancora sò birbi a minuto
nun ze faranno poi birbi a l’ingrosso.
3 gennaio 1847
2199. Er zenato romano
Tra le cojjonerie che va facenno
la Santità de Pio Nostro Signore,
disce che vvò ddismette er Senatore;
ma ccome l’ho crompata io ve la venno.
Male o bbene che ssia, nun me n’intenno;
perantro ho gran ppavura d’un timore:
che a Ccampidojjo ce sarà rimore
e a Roma quarche mascellaccio orrenno.
Si er Zenatore armassi li Fedeli,
li Scribbi, Caporioni e Capotori,
tutta la frateria de l’Aresceli,
tutti li carcerati debbitori...
Dio mio! me sce s’addrizzeno li peli
a ppenzà ar zangue drento e ar zangue fòri.
5 gennaio 1847
2200. Le cariche nove
Che scombussolo, eh? che mmutazione!
Da quarche ggiorn’impoi dove t’accosti
nun trovi ppiú ggnisuno a li su’ posti;
e chi pprima era Erode oggi è Nerone.
Si cqua ddura accusí nemmanco l’osti
faranno ppiú l’istessa professione,
ché cqui adesso oggni sceto de perzone
sfodera li su’ meriti anniscosti.
Preti, sbirri, prelati, mozzorecchi,
spie, cardinali, ggiudisci, copisti,
te li vedi frullà come vvertecchi.
Spiggneno tutti, e vann’avanti, vanno;
ma in tanti pipinari e acciaccapisti
chi ssa ar Papa che impiego je daranno?
1847
2201. Don Zaverio e don Luterio
Don Zaverio è er piovano, e ddon Luterio
è er Primiscerio de la Coleggiata;
ma ppe ’na scerta monichella obbrata
mo ffra de loro è un affaraccio serio.
Quanto pò ffà er piovano Don Zaverio
Don Luterio lo tiè ppe ’na cazzata:
chiama er piovano poi ’na bbuggiarata
tutto quello che ddisce er Primiscerio.
Pe la binidizzion cor sostenzorio
er piovano a l’artar de San Giujano
conzagrò, e messe l’ostia in ner cibborio?
Bbè, che ffa er Primiscerio? se la svicola
a l’artare medemo der piovano,
disce messa, e jje maggna la particola.
5 gennaio 1847
2202. La mojje de l’impiegato
Vedi una mojje de cos’è ccapasce
quann’è bbona e vvò bbene a ssu’ marito!
Lo sposo suo, pe cquer che ss’è ccapito,
je piasce un po’ de sgraffiggnà, jje piasce.
Rosso dunque in zur fà dd’una fornasce
lo chiamò er zuprïore inviperito,
e jje disse: «Sor ladro ariverito,
levateve dar lume e annat’in pasce».
Guarda, aripeto, che ppò ffà l’amore!
La mojje, inteso er fatto, se la cojje
e vva dar zuprïor der zuprïore.
E ffurno tante le raggione dotte
che jje seppe inzeppà sta bbona mojje,
c’aggiustò ttutto quanto in d’una notte!
7 gennaio 1847
2203. Er poverello de mala grazzia
Però, cquer benedetto poverello
fàsse trovà sdragliato pe le scale
der palazzo d’un conte cardinale,
come sott’a un bancone de mascello!...
Eppoi, sibbè cche sse sentissi male,
nun avé mmanco un deto de scervello
de tirasse un po’ in là mmentre che cquello
se strascinava sú ccoda, e ccodale!...
E avé ccoraggio in faccia a ssu’ Eminenza
de fà ppuro la bbava da la bocca
e de lassajje llí cquela schifenza!...
E mmorijje, pe ggionta, ar zu’ cospetto
come si stassi in de la su’ bbicocca,
nun ze chiama un mancajje de rispetto?
8 gennaio 1847
2204. [«Io, per brio, saperebbe volentieri»]
Io, per brio, saperebbe volentieri
si ccurre puro nell’antri paesi
sta fiumara de prencipi, marchesi,
conti, duchi, bbaroni e ccavajjeri.
Perché a Rroma, per brio, tra ffarzi e vveri,
n’ho intesi tanti a mmentuà, nn’ho intesi,
che mmeno sò li moccoletti accesi
che ttengheno smorzati li drughieri.
È una gran cosa, pe cquer brio sagrato,
de nun poté ffà un passo in gnisun loco
senza pij de petto un titolato!
Eh, Ppapa io, nun me faria confonne!
voria ridusce er monno a ppoc’a ppoco
tutto quanto in du’ crasse: ommini e ddonne.
9 gennaio 1847
2205. Le vecchie-pupe
«Fútter», disse munzú, «tre bbelle famme»
(famme, in lingua francese, vò ddí ddonne):
«ovì, per diú, sò ttre bbelle e ttre bbonne»:
e cquelle ereno dua co cquattro gamme.
Belle poi com’er zeta e er pisilonne,
bone come la serva der cacamme;
e in quant’a ccarnevali, buggiaramme
si nun zò nnate quanno mòrze Aronne.
Quelle llí, nnun ve fo ccaricatura,
ereno, co lliscenza der francese,
bell’e vvecchie quann’io ero cratura.
Ma fforzi pe le donne a sto paese
c’è er privileggio de madre natura
c’oggni giorno de ppiú jje cali un mese.
10 gennaio 1847
2206. L’età de la padrona
Vecchia la mi’ padrona?! Io te conzijjo
Checco a nun mette sti tumurti in piazza.
Si ttu te fai sentí, cquella t’ammazza:
si ll’arriva a ssapé, nasce un bisbijjo.
Nun dico che ssii propio una regazza,
però è gguasi piú ggiovene der fijjo;
e cquanno se sposò ccor zor Basijjo
la trovonno a ggiocà cco la pupazza.
Disce che ll’osse sue ereno zzeppi,
e la madre je fesce in ne l’acconcio
tutte le bbuttasú cco li ritreppi.
Inzomma, a ggiuventú llei se ne fotte;
e ddio ne guardi si mmai bbeve un poncio,
se scòtola cqua e llà ttutta la notte.
10 gennaio 1847
2207. La piccosità
Oh in fin de conti sai che nnova sc’è?
Che cce n’ho inzin’ar gozzo e un pò ppiú ssu;
e a ccasa sua nun me sciaccosto ppiú,
mmanco campassi l’anni de Novè.
E cchi è, cazzo!, la fijja der re?
Se parla co Ddio padre a ttu per tu,
e cco llei, perch’è amica d’un Monzú,
s’ha d’annacce cor quinni e ccor ciovè!
Ringrazzi Cristo c’ho pprudenza, c’ho:
che nun me piasce er fà pubbriscità:
che de lei me ne bbuggero; si nnò...
Oh gguarda! me s’aggnede a invelení
perché je disse vacca! Ebbè? sse sa:
sò ccose che sse dicheno pe ddí.
10 gennaio 1847
2208. La testa de bbona momòria
No, ffu cquer giorno che n’avemio trenta.
Fu l’ottavario der sabbito santo:
m’aricordo anzi, a l’osteria der Pianto,
che cce maggnai la pizza de pulenta.
Me pare propio mo che, ppe mmé tanto,
ammalappena entrò cquela scontenta,
io fesce tra de mé, ddico: sta’ attenta
ch’er painetto je se mette accanto.
E cciazzeccai c’annaveno in funtana?
Tant’è vvero ch’io poi disse ar marito:
«Vostra mojje, sor Checco, è una puttana».
E llui, me pare de sentillo adesso,
lui m’arispose tutto inviperito:
«E dde voi puro se pò ddí l’istesso».
10 gennaio 1847
2209. Er difenzore de matrimoni
Bbe’? mme ne vado? nun c’è ppropio caso
d’aggiustallo st’affare co ttu’ mojje?
Che ddiavol’hai? te pijjeno le dojje,
ché mme straluni l’occhi e arricci er naso?
Io te vorebbe vede apperzuaso
che ll’oppiggnone tua cqua nun ce cojje:
e sta matassa sai chi la pò ssciojje?
La cuggnataccia de padron Gervaso.
Eppoi, díco, ch’edè sta maravijja?
S’uno j’è it’appresso e cquer che vvòi,
che ccorpa sce n’ha llei, povera fijja?
Disce: «Ma li trovonno immezz’ar fieno»:
busciardarie de male lingue! Eppoi,
tutte le donne, ggià sse sa, ppiú o mmeno...
11 gennaio 1847
2210. La sbiancata
Lei, perch’io vedo tutto e nnun me laggno,
perché abbozzo e mm’ammaschero da tonta,
se fidò de veníssene onta-onta
a ddimannamme si sposavo Ascaggno.
Ma io che sso ddove je cova er raggno
e ggià ttenevo la risposta pronta,
je fesce: «Eh vaccarella co la ggionta,
tu da me ccerchi argento e ttrovi staggno».
Allora lei (te lo pò ddí er fornaro)
se fesce bbianca, rossa, verde, ggialla...
Pareva una scanzia de coloraro.
Lei co mmé spera de ggiucacce a ppalla,
e nnun z’accorge quer grugnaccio amaro
che llei sta ssempre a ffonno, io sempre a galla.
11 gennaio 1847
2211. La mutazzion de sscena
Passò cquer tempo! È ffinita la pacchia,
sposa mia, de quann’ero ggiuvenotta!
Che ccasa eh, allora? E mmó? mme sò aridotta
co un búscio de suffitta a la Petacchia.
Vecchia nun zò, ma!... la miseria abbacchia;
e ppe cquanto se studia e sse sciappotta,
se sta ssempr’accusí, ssora Carlotta:
giú tterra-terra come la porcacchia.
Prima sempre alegrie, sempr’in bisboccia;
e mmó le sconto co lo stà a filetto,
e mmó ttutti me tengheno in zaccoccia.
Avevo chiesto a Monziggnore un letto?
Bbe’, er zervitore, je pijji ’na goccia,
fesce: «A vvoi v’abbisoggna un cataletto».
12 gennaio 1847
2212. La patente der bottegaro
L’annà oggni ggiorno, pe rriuprí bbottega,
da sti du’ Monziggnori, a cche me giova?
Uno me pare er zor cosceme-l’ova,
l’antro me pare er zor dorce-me-frega.
Questo un po’ tte promette e un po’ tte nega,
quello scerca le carte e nu le trova...
inzomma tutt’e ddua sò dd’una cova,
sò ttutt’una gginía, tutt’una lega.
Te li do a bbirbaria dua per un paro,
sò sdoganati da l’istessa bballa,
vanno da galeotto a marinaro.
E sta ggente che cqui ss’ha da impiegalla?
L’impieghi pe sto porco e sto somaro
je li voria cr ddrent’a ’na stalla.
12 gennaio 1847
2213. La spesa pe ppranzo
«Che ffamo oggi da pranzo, Crementina?»
«Quer che vvolete voi: semo in dua sole».
«Volemo fà un arrosto de bbrasciole
«Nun è mejjo un stufato de vaccina?»
«Uhm! l’avemo maggnato jermatina...».
«Bbe’, vvolemo allessà ddu’ cucuzzole?»
«Quelle nò, cché la panza oggi me dole,
e nun voria pijjà la mediscina».
«Dunque, mamma, che sso... ffamo li gnocchi».
«Eh, ste jjottonerie costeno care:
se ne vanno cqua e llà vventi bbaiocchi».
«Inzomma fate un po cquer che vve pare».
«Io direbbe pe mmé, ssi ttu cciabbocchi,
d’annaccene a svernà ddà la ccommare».
13 gennaio 1847
2214. Er passo de la scuffiarina
«Presto affaccete, Ghita, ecco che ppassa!».
«Chi? cquela schefa llà? cquela ssciacquetta?!
Nun te pare un ber tocco de spuzzetta
da affittalla a ttre schiaffi pe gganassa?
Guarda, guarda, Luscia, come sculetta!
Ha una gran presscia!». «Eh ppovera bbardassa,
curre in chiesa a imbrojjà ccerta matassa
co un paíno affamato che l’aspetta».
«Ma è mmaritata, vedova, zzitella?...».
«Gnisuna de le tre». «Ddunque che ccosa?»
«Un’antra cosa che ffinissce in èlla».
«Ho ccapito. E ccià mmadre?» «L’ha ssicuro;
ma jje fa la ggneggnè, la scrupolosa,
la santarella appiccicata ar muro».
14 gennaio 1847
2215. La sposa de Mastro Zzuggno
M’arillegro co vvoi, caro sor mastro:
ve sete fatto una gran bella sposa!
Ma in cusscenza! è una donna appititosa!
è bben tajjata assai: pare un pilastro.
Co cquer nasetto a bbecco de pollastro!
co cquer petto a ddu’ strisce de scimosa!
co quel’occhietti de color de rosa!
co cquella bbocca congeggnata a incastro!
Bravo, bravo davero, mastro mio.
Una mojje accusí nnu la trovate
da la val de l’inferno a Bborgo Pio.
Pe ccarità pperò, nnu la portate
a mercato; perché, vve lo dich’io,
l’incetteno pe un zacco de patate.
14 gennaio 1847
2216. L’amica de core
Ôh, cquanno è ’na scèrt’ora, è amica mia
e la difenno io, sora Costanza;
e mme pare una gran mala creanza
de trattalla da porca bbu e vvia.
E ssi ll’antr’anno, povera Luscia!,
pe cquarche mmese je cresscé la panza,
c’è bbisoggno che ffussi gravidanza?
Sarà stata quarc’antra ammalatia.
È vvero poi che jje calò in du’ ggiorni;
ma cquesto che vvòr dí? Vve faria caso
ch’er gonfiore medemo j’aritorni?
Dipenneno ste cose da le lune,
ché in quant’a llei, ce ggiucherebbe er naso,
1
nun tratta antro ch’er popolo e ’r cummune.
14 gennaio 1847
1
Ci scommetterei il naso.
2217. Er furto piccinino
Chi arrubba è lladro, e ll’arrubbà è ppeccato,
e cchi ffà li peccati è ppeccatore;
e cquesto credo che nnun facci onore,
sor Libborio, a un cristiano bbattezzato.
Ma llevà er mantelletto a un Monziggnore,
caccià da Roma un povero prelato,
pe un pupazzetto o ddua c’ha sgraffignato,
è, a ssintimento mio, troppo arigore.
Capite voi? de sto paese io parlo,
dove chi ffa man bassa se la svicola:
cquesti nun zò li scrupoli der tarlo?
Ggià, scrupoli der tarlo, sor Libborio,
che ddoppo avé magnato la particola,
ebbe pavura de magnà er cibborio.
15 gennaio 1847
2218. Er furto piccinino
Mentre llí, in pied’in piede, er mi’ padrone
riccontava sto furto a mmezza vosce,
se stava scontorcenno un prelatone
e ss’aïnava a ffà ssegni de crosce.
Disce: «Un prelato reo di tal azzione!
Un di nojantri! oh cquesta sí mmi cosce!
Oh cche pporco futtuto! oh cche bbriccone!
Oh cche vvergogna! oh cche ddilitto atrosce!».
Ma cquant’è vvero er naso de san Pietro,
spesso chi rrajja sopr’all’antri, rajja,
se bbutta avanti per nun cascà addietro.
E ccorpo der cudino de ’na sorca!,
nun ze po ddà che ssii coda de pajja
e tutt’affetto de camiscia sporca?
15 gennaio 1847
2219. La bazzica
«Fora me chiamo». «Che?!» «Ffora me chiamo».
«Nun tanta presscia, amico, ch’è abbonōra».
«Io te dico c’ho vvinto». «A cche? A la mora?
Ma cc’hai vinto? li zzoccoli d’Abbramo?»
«Sò de mano e ho ttrentuno: aló, ppagamo».
«Non-ziggnora, ve dico, non-ziggnora:
er punto, sor cazzèo, nun manna fora:
ancora stamo a ttrent’e ttrenta stamo».
«Gnente: l’accuso eccolo cqua». «Mma ccàzzica!
pe ffermà er gioco, te pîa ’n accidente!,
bbisogna d’avé in mano o ggilè o bbazzica.
Nun annamo per uno tutt’e ddua?
Famme pijjà; e ssi a mmé nun me viè ggnente,
allora hai vinto e la partita è ttua».
17 gennaio 1847
2220. Er vino de padron Marcello
Bono, sangue de bbio! bbravo Marcello,
che oggi nun me dài sugo d’agresta!
Cqua, cqua ’n’antra fujjetta ugual’a cquesta,
e abbada a nun sbajjatte er caratello.
Oh cquésto se pò ddí vvino de festa!,
gajjarduccio, abboccato, tonnarello...
Hah! tt’arimette er core in ner cervello,
e tt’arillegra senza datte in testa.
Com’è lliggero poi! com’incanala!
Questo arifiata un morto in zepportura,
e tte je fa rimove er cresceccala!
Propio è una manna, è un ettore addrittura!
E ssimmai pe ddisgrazzia uno s’ammala,
co sto vino che cqui ggnente paura.
17 gennaio 1847
2221. L’arisseggnazzione
Piano co ste caluggne: io nun me faccio
de quer paese che nun zò, ffratello.
Me n’accorgo da me che nun zò bbello
ma manco crederò dd’èsse un pajjaccio.
Basta, a ’gni modo, me sò trovo un straccio
de strappinetta da ingabbià er franguello:
’na scortichina, fía d’un scarpinello,
che, ppuro, s’ho ’na vojja, me la caccio.
Capisco ch’è una subbia, ch’è una spazzola,
ch’è mosscia, che ttun naso martellato
da fà invidia a una perla scaramazzola,
che, inzomma, nun è ttanta fregareccia:
1
ma aringrazziam’iddio, disce er curato:
tempo de caristia, pane de veccia.
17 gennaio 1847
1
Giovereccia.
2222. Er piggionante der prete
Tre ppavoli, lo so, ccaro don Diego:
me l’aricordo, v’ho da dà un testone:
m’avanzate tre ggiulî de piggione:
trenta bbaiocchi, sí, nnun ve lo nego.
Perantro de sti conti io me ne frego,
perché ssò ar verde e sto ssenza padrone.
E come disce chi nun è ccojjone?
«Prima càrita síncipi tabbego».
Dunque, sentite, sor don Diego mio:
eccheve du’ lustrini, e ffamo patta;
e a messa poi v’ariccommanno a Ddio.
Già, un giulio solo; e mmó dd’uno se tratta.
Tre ne volete? E cquesto è ttre, pperch’io
lo bbattezzo pe un tre ccome la matta.
17 gennaio 1847
2223. L’enfitemus
Ma er zor don Craudio eh? cquer bon pretino!
voria mó bbuggiaramme senza sputo.
Bontà ssua, nun scita oggni minuto
p’er cànnolo dell’orto e dder giardino?
Ma cche ccosa s’imbrojja st’assassino?
che vva ccercanno sto villan futtuto?
Co l’assciutta, per dio, c’avem’aúto
che nemmanco s’è ccòrto un gensusmino!
Disce: «Er cànnolo curre tutti l’anni:
io nun zò un cazzo d’ummidi e d’assciutti:
li quadrini sò mmii, vostri li danni».
Dà in buggiarate grosse er zor don Craudio.
Peno io? peni lui: penamo tutti.
Dunque, male cummune è mmezzo gaudio.
18 gennaio 1847
2224. [Lui, doppo un anno e ppiú
cche sta ingabbiato]
Lui, doppo un anno e ppiú cche sta ingabbiato,
sento c’abbi da esscí sta sittimana:
ma llei... uhm! nu lo so, ssora Bbibbiana,
come l’impiccerà cquann’è scappato.
Je va adesso pe ccasa una mammana...
Ce vedo bbazzicà ppuro er curato...
Ce ronneggia una spia der Vicariato...
Ah! ccià da nassce llí cquarche bburiana.
Io je lo disse tanto a cquella strega:
«Sta a la lerta, Luscia, bbada, commare:
fin che nun torna lui, serra bbottega».
Nò, llei vò ssempre er zu’ negozzio uperto.
E io la lasso fà ccome je pare;
ch’io nun ciò ggrazzia a ppredicà ar deserto.
19 gennaio 1847
2225. La bona vecchiarella
Sò vvecchia, fijja: ho cquarche e cquarc’annuccio
piú de tu’ nonna, sai, cocca mia bbella?
e jje lo dico sempre a mmi’ sorella:
«Presto presto m’attacchi lo scoruccio».
Eppuro va’!, cquer benedetto Muccio
jeri me fesce scantinà in cappella.
Eh, oggni tanto la fo una sfuriatella:
ma ssò ffochi de pajja, e ppoi m’accuccio.
Io lo capisco, sò de sangue callo,
e ddo scannolo a ttutta la famijja,
sibbè in ner core nun vorebbe dàllo.
E appena quer prim’impito è ppassato
darebbe er zangue mio (credeme, fijja)
ch’er mal’esempio nu l’avessi dato.
20 gennaio 1847
2226. La casa de la ricamatora
Nun pòi sbajjà, Luscia. Li Vaccinari,
l’arco de Scenci, poi piazza de Bbranca,
poi er vicolo accant’all’arte bianca,
e rieschi a Ssan Carlo a Ccatenari.
Lí svorta su la piazza a mmanimanca
e pprima d’arrivà a li Ggipponari
pijja a mman dritta, e ggiú pe li Chiavari
inzin a Sant’Andrea va’ ssempre franca.
Dimanna a Sant’Andrea piazza-Madama:
là ddimanna er palazzo de Carpeggna,
ché la strada nun zo ccome se chiama.
E llí ttrovi de scerto chi tt’inzegna
indov’abbita quella c’aricama.
Co la lingua, Luscia, se va in Zardeggna.
20 gennaio 1847
2227. [«Anzi, appostatamente ciài d’annà»]
Anzi, appostatamente ciài d’annà
e ddijje chiaro chiaro: «Eccheme cqui».
Allora quarche ccosa l’ha da dí,
e ssai come potette regolà.
Si tte confessa lui la verità,
s’aggiusta la bbaracca llí per lí:
si ppoi nega, lo cucchi luneddí
e hai raggione da venne e dd’affittà.
Seguitanno a cciarlà ccome fai tu,
oggi o ddomani che lo viè a ssapé
stai fresco, stai: nun te la sbrojji ppiú.
Tu nun te sai risorve, ecco ch’edè.
E si nun fussi ch’io te metto sú
nun ze daría cardeo peggio de té.
21 gennaio 1847
2228. La vojjosa de marito
Tutt’è, siggnora mia, pe la raggione
che in questo lei nun ze vò ffà ccapasce
ch’io nu lo pijjo perché llui me piasce,
ma sto passo lo fo ppe rifressione.
Ché, inzomma, ha la su’ bbrava professione,
tira un papett’ar giorno e la fornasce...
E ppoi, abbasta che cce si la pasce
e la grazzia de ddio, stamo bbenone.
A bbon conto è un regazzo de ggiudizzio,
e a fforza de ggiudizzio se va avanti
e sse tiè tutt’er monno in quer zervizzio.
E mm’arrivat’a ddí jjer’a mmatina:
«Checca, tu pporterai sino li guanti,
e starai che nnemmanco una reggina».
22 gennaio 1847
2229. Un matrimonio filisce
Ah ddunque Nastasia quer nottunese
s’è arisòrta a la fine de sposallo?
Fa un bon negozzio: è un partituccio callo:
tavola vòta e cquattro piastre ar mese.
Eppoi, siggnor’iddio!, bast’a gguardallo
pe ccapí cch’è un ziggnore der paese;
e, da tutte le nòve che nn’ho intese,
cià ggnisempre la bbòtta der vassallo.
Ha ffurtuna però, ppropio ha ffurtuna!
ché de rregazze come Nnastasia,
qui a Rroma tanto, nun ce n’è ggnisuna.
Io la tiengo ppe un mostro de bbontà:
puro er Curato ha l’oppiggnone mia:
puro la madre se lo crede; ma...
23 gennaio 1847
2230. Er Papa e li frati
Er zanto-padre è un bon fijjolo; ma
li frati, a fforza de tiranne ggiú,
ve lo fariano crede un Berzebbú
da distrugge le cchiese e le scittà.
E ccor loro fagotto de vertú
meno un tantin de fede e ccarità,
si ssentissivo poi, li mappalà
che sti santi je manneno llassú!
E vve canteno tutti in amirè
c’a llui j’amanca quarche ggiuveddì
e ffa da Papa nun ze sa pperché.
Romani, e ve voressivo avvilí?
No, dite com’io dico tra de mè:
«Tufa a le fraterie? Mejjo accusí».
23 gennaio 1847
2231. Un piggionante d’un piggionante
Ho affittato una stanzia a un giuvenotto
che, cquant’è vver’Iddio, dev’èsse matto.
Se mette a spasseggià ttutt’in un tratto,
e ss’arifferma poi tutt’in un botto.
Mó sse sdraglia sur letto a bbocca-sotto,
poi s’arza, penza e tt’arimane astratto,
soffia, invetrisce l’occhi com’un gatto,
arza la fronte e cce se dà un cazzotto.
Mó llegge un libbro e scrive quer c’ha lletto:
doppo canta e arilegge quer c’ha scritto;
e ppe un par d’ora e piú fa sto giuchetto.
Inzomma in testa j’ha ppatito er fritto;
ma, cquer ch’è ppeggio pe mmé poveretto,
nun cià un bajocco da pagà l’affitto.
23 gennaio 1847
2232. Li panni stesi
«Dico, ebbè? le levamo ste lenzola?
ché cqui ggiú co sto sciónnolo che ppenne
manco sce vedo a ffà le mi’ faccenne,
e ppe ggionta sc’è ppoi l’acqua che scola».
«Ve pijji una saetta a ccamisciola
nunchetinova morti nostri ammenne
diteme indove diavolo ho da stenne,
quanno nun ciò cche sta finestra sola!».
«Ôh, inzomma, o le levate, o vve l’acchiappo,
sora galantaria da sepportura,
e tanto tiro ggiú ffin che le strappo».
«Ma ppropio le strappate, eh sora vacca?
E io si ccaso-mai, nun zò ffigura
da strappavve li peli a la patacca?».
25 gennaio 1847
2233. Er fatto de la fijja
Lui, propio er mercordí de carnovale,
la trova: je tiè dd’occhio: je va appresso:
l’arriva sur portone: ar temp’istesso
je parla: l’accompaggna pe le scale:
senza nemmanco dimannà er permesso,
entra co llei: la tira p’er zinale:
doppo tre ggiorni lei se sente male...
Bbasta, è ssuccesso poi quer ch’è ssuccesso.
E pperch’io sbattajjai doppo tre mmesi
er zor Contino me mannò ssei scudi!...
Voressi tu cche nu l’avessi presi?
Li pijjai perch’è un fijjo de famijja;
ma, ddico, sei scudacci iggnud’e ccrudi
pe l’onore che ssò, povera fijja?
gennaio 1847
2234. La bbatteria de cuscina
E cciò ccompro pur io corda e ggirella,
’na spianatora, un cuccomo de rame,
nove piatti, du’ chicchere, un tigame,
un treppiede, un zoffietto e una tïella.
No, ho sfranto poco, perc’aveva fame
e spacciava pe ggnente, poverella!
Eppuro sc’era una gran robba bbella;
ma adesso c’è arimasto er maruame.
Quell’era tutta robba c’ar marito
ch’era coco d’un prencipe che mmorze
questo je la lassò ppe bbonzervito.
E llei, rimasta vedova, arisòrze
de venne tutto, appena l’appitito
l’apperzuase a ffà cquer che llui vòrze.
26 gennaio 1847
2235. La serva e ’r cappellano
Pe scappà da Don Pio, che mme fa er caro
e j’annava una scerta fantasia,
io scausarmente urtai la scrivania,
e ’ggni cosa volò ssin’ar zolaro.
Pènzete quanno poi venne de via
er padrone e mme chiese er calamaro!
Lí ssu le prime me cascò un callaro
d’acqua bbullent’addosso, Angela mia.
Poi disse: «Eccheme cqui: mmo er fatto è ffatto,
e jje confesserò tutt’appuntino.
Er calamaro l’ha sfassciato er gatto».
Ah! vve penzavio, sposa, che noi fossimo
regazze d’accusà cquel’abbatino?
Io nun zò bbona de fà mmale ar prossimo.
26 gennaio 1847
2236. Le limosine demonetate
Nun c’è ppiú amor der prossimo, fratelli!
Cqua, pprima, un poverello era un ziggnore;
e adesso un poverello è un marfattore
da serrà cco le porte e li cancelli.
Nun c’è ppiú ccarità, nnun c’è ppiú ccore!
Eppoi disce: «Iddio manna li fraggelli!».
Ma llassa fà, cché ssenza poverelli
se farà sto paese un bell’onore!
Come se capirà, ssenz’accattoni,
si a Ggesucristo er popolo sce crede,
oppuro è una scittà dde framasoni?
Disce: «Sempre darà cchi ssempre diede».
Quest’è un discorzo de li mi’ cordoni.
A cchi sse dà, cquanno ggnisuno chiede?
27 gennaio 1847
2237. L’urtone
Sò vvecchio, ho la polagra, ho un’istruzzione,
sto da tre ggiorn’e ppiú gguasi a ddiggiuno,
sò ddiventato che pparo ggnisuno,
cammino che nnemmanco un lumacone...
Bbe’, ccurrenno a Rripetta è passat’uno,
m’ha ddato in ner passà ttanto d’urtone,
e ddoppo m’ha mmannat’imprecazzione
e pparolacce ch’iddio sarvi oggnuno!
Ma ddi’, che te ne pare, padron Biascio?
Lui che volava via com’un uscello
l’ho urtato io che ccamminavo adascio!
E st’impostura s’ha da dì ssur zodo?
A un incirca saría com’er martello
che sse volessi lamentà ccor chiodo.
27 gennaio 1847
2238. La congregazzione
Presidente, archidetto, segretario,
sínnico, computista, fabbriscere,
esattore, ecolonimo, cassiere,
tutti abboccheno a ccresceme er zalario.
«Io te sostengo, io nun te sò ccontrario,
io te do er voto, io ciaverò piascere,
è de dritto, è de ggiusto, è de dovere,
io lo trovo addescente, io nescessario...».
Ma cquanno ste bbravissime perzone
le vado a rrisentí ddoppo er congresso,
«Eh, vv’è ccontraria la congregazzione».
E oggnuno intanto torna a ddí ll’istesso:
«È de dritto, è de ggiusto, è de raggione:
ma... mma er conzijjo nun vò ddà ir permesso».
28 gennaio 1847
2239. Una visita de nov’idea
Ar quinto momoriale ecco una sera
sente sonà a la porta er campanello,
opre, e vvede du’ abbati, uno arto e bbello,
l’antro ppiú bbasso e de grazziosa scera.
Allora er primo, co bbona maggnera,
la salutò ccacciannose er cappello:
«È llei, disce, la vedova di quello
che llegava le ggioglie? È llei che spera...».
Ma cqui, mmentre l’abbate, bbono bbono,
seguitava a pparlà cco ttant’amore,
’na fijjetta strillò: «Mamma, è Ppio nono!».
Cosa vòi! quela povera pezzente
stette guasi llì llì ppe avé l’onore
de morijje d’avanti d’accidente.
28 gennaio 1847
2240. Er zampietrino nîobbe
Era un pezzo, ma un pezzo assai lontano
ch’io fascevo la caccia a una regazza
giú ppe li colonnati, pe la piazza,
pe le logge, pe ttutto er Vatigano.
E ddiscevo tra mmé: «Sò un gran gabbiano!
Sta strega me cojjona, me strapazza...».
Quanto jjeri ecco un panno che svolazza,
e mme vedo fà un zegno da una mano.
È llei! Appizzo allora sott’ar portico,
da la parte che gguarda Bborgo Novo,
pe ccombinà l’affare de lo scòrtico.
Ma cquanno sò a la porta de San Pietro...
cazzo! è un Domenicano! e mm’aritrovo
cor una man’avanti e un’antra dietro.
29 gennaio 1847
2241. La lingua francese
Se crede sta cardea, perch’è ffrancese,
che nnoi sémo un stallone de somari,
e cqui nun ze capischi e nnun z’impari
la lingua che sse parla ar zu’ paese.
E che quanno sciangotta cor Marchese
de l’affari de casa o dd’antri affari,
li su’ scescè sciusciú nun ziino chiari
quant’un ber mazzo de cannele accese.
Se n’è accorta però sta puttanella
quanno c’oggi j’ho detto a l’improviso:
«Futter oví nnepà, mmadamusella».
E tt’abbasti a sapé ssi sse n’è accorta,
c’a sto discorzo mio tanto prisciso
m’è arrestata lì in faccia mezza morta.
29 gennaio 1847
2242. Lo sgrinfiarello affamato
Nun me ne fo ggnisuna maravijja
si ll’ha ttanto co mmé cquer zor fischietto.
Tutt’è pperch’io nun vojjo sto traghetto
che llui facci er cazzaccio co mmi’ fijja.
Figurete, sò ddiesci de famijja,
nun cianno manco le lenzola ar letto!...
e vvò Nnèna? Pò dasse un Crist’in petto,
ma inzin che ccampo io, lui nu la pijja.
Sò inutile co mmé tutte ste sscene.
Stia zzitto, stia: vadi a imparà cquarc’arte,
in cammio de fà er vappo e ’r Galimene.
Lui?! quer grilletto?! a mmé?! le guance rosse?!
È aritornat’ar monno Bbonaparte?
Oh cqui ssí cche le purce hanno la tosse!
30 gennaio 1847
2243. Un rompicollo
Uhm! ppe mmé, ppiú cche penzo a sto penziere,
meno arrivo a ccapí, ssora Todora,
come diascusci mai la su’ sartora
se sii tant’incescita der barbiere.
Una che ppotería fà la signora
annasse a inceca cco cquer piviere,
che ffa ppoi quella razza de mistiere,
ché, ddio mio!, se ne casca a ddodisciora!
Ce voríeno pe llei cose ppiú ggrosse,
un omo com’e mmé, ssodo, affonnato...
nò cquer pidocchio llí, cquer cacca-e-ttosse.
Si lo sposa, ha da èsse un scenufreggio.
Guai a llei! fa un gran brutto pangrattato!
Ma! le donne s’attaccheno ar piú ppeggio.
31 gennaio 1847
2244. Le nozze scuncruse
Io je lo disse a llei chiar’e llampante:
«Sopra de mé vvoi fatesce er croscione.
M’abbasta la fufiggna cor padrone,
senz’annanne a ccercà ttant’antre e ttante.
E ssibbè tte liscenzî? Una gargante,
come che tté, ccià ssempre l’occasione:
quello che vviè a rriscode la piggione,
er compare, er viscino, er piggionante...
Io nun ce sento, bbella mia: sò mmuro:
gnente: chi l’ha scottato l’acqua calla
dopo ha ppavura de la fredda puro.
Lei facci er piascer zuo, facci la galla:
ma ppe sposatte io, tièllo ssicuro,
nun zò bbove da mette a la tu’ stalla».
31 gennaio 1847
2245. Er guardaportone
Io me n’entravo co la pasce mia,
quanno da un bussolotto in d’un cantone
sarta fora er munzú gguardaportone,
disce: «Che vvolevú? psch, marcé vvia».
«Ihí, ddico, e cch’edè ttant’arbaggia?
Lei impari a ddistingue le perzone».
Disce: «Vu sè un gianfuttre», e ccor bbastone
me stava pe stirà la bbiancheria.
«Sete un gianfutre vói, dico, sor utre
de ventaccio abbottat’ar cimiterio:
voi, parlanno accusí, ssete un gianfútre».
Come finí? Finí c’a sta schifenza
bbisoggnava arispònneje sur zerio.
Ma cche vvòi che fascessi? usai prudenza.
31 gennaio 1847
2246. La sposa de Mastr’Omobbono
Piena de scianerie, d’imbrojji e cciaffi,
co cquer tantin de cacca e prosunzione,
pe llei nun ce voleva uno strucchione
ma un fumantino da pijjalla a schiaffi.
Ce voleva un marito co li bbaffi
che jje sapessi arifilà er groppone:
che nun avessi un cazzo suggizzione
d’un po’ d’estri e ddu’ strilli e cquattro sgraffi.
Pover’omo! Quer bon Padre Curato,
ch’è stato er manutengolo a ’gni cosa
te l’ha ffatto cascà ppropio ssciattato.
E stimo lui che cce fasceva er vappo!
S’è sscerto una sgriggnappola de sposa,
che dde ’na bbotte de caroggne è er tappo.
11 febbraio 1847
2247. La mamma uscellatora
Nun me sta bbene a mmé dd’èsse la tromma
der zangue mio; ma, mmó cche nun me sente,
co llei, sor Pio, ch’è un giovene prudente
questo lo posso dì, ppovera Momma!
Sta ggià in vent’anni e ancora nun za ggnente,
è ppropio una cratura, è una colomma:
e cquanno c’ha..., llei me capissce: inzomma,
se pò gguasi chiamà ttropp’innoscente.
E nun parlo accusì pperché mm’è ffijja:
ché cchiunque co llei scià cconfidenza,
disce: «Bbeato lui chi sse la pijja!».
Basta, lassamo sto discorzo ozzioso:
dico, e llei, sor Pïuccio, quanno penza
de trovà una regazza e ffasse sposo?
12 febbraio 1847
2248. La vedova aringalluzzita
Sta vedovella lo tiè ttanto vero
che lo sgrinfio la sposi a ccarnovale,
che ggià ttiè in pronto er zu’ letto nunziale
e un bell’abito rosso e un sciallo nero.
S’io perantro ho da dilla tal e cquale
come la tengo in corpo, io nun ce spero:
pe mmé, cquer dritto nun je viè ssincero.
Vò er frutto quello llí, nnò er capitale.
E ggnente-ggnente poi che llei se lassa
sgraffiggnà quarc’acconto de la dota,
uhm! nun te dubbità ché vvò stà ggrassa.
Sperà ccore da lui! povera ssciòta!
Si jje spareno a cquello la carcassa
je sce troveno in cammio una carota.
12 febbraio 1847
2249. Er girello de Mastro Bonaventura
Nò spari, spari nò, Bbonaventura:
fammelo, va’, ppe l’amor de Pio Nono:
li spari a Nnastasia, nnun te cojjono,
je sò ppropio contrari a la natura.
M’abbasta l’an passato la pavura
che sconciassi pe ccausa de quer tòno;
ché ppoi sce vorze der bello e der bono
pe ccacciajje da corpo la cratura.
Io nun te dico che nun fai ggirello:
fallo, ma de funtane senza bbòtti,
o, ar piú, cquarche rrazzetto cor cannello.
E ssi cce trovo poi bbattajjeria,
doppo che tt’ho appoggiato du’ cazzotti
pijjo mi mojje e mme la porto via.
gennaio-febbraio 1847
2250. [«E io che ancora nun ho mmai possuto»]
E io che ancora nun ho mmai possuto
ingranní ll’ostaria sott’a la torre?
Nun l’arrivo a spuntà cco cquer cornuto
compaggno de Nabbuccodonosorre!
Me traccheggia, lo so, pporco futtuto!
ma cco st’omaccio vacce un po’ a discorre:
t’arisponne cor zolito irre-orre
e tte stracca a minuto pe mminuto.
E ll’antra de volé cche cce se parli
sempre pe la trafila de la mojje,
piena de zzaganelle e zzirlivarli?
Ch’io je darebb’un carcio, iddio ne guardi,
propio indove je pijjeno le dojje
quanno popola er monno de bbastardi!
14 febbraio 1847
2251. L’ordinazzione p’er Carnovale
J’ho da annà dar facòcchio sott’all’arco,
pe vvisità li leggni e accommodalli:
poi da padron Cremente er maniscarco
pe rrimette li ferri a li cavalli:
poi dar drughiere pe l’orpello e ’r tarco
da stajjuzzà li sbruffi bbianchi e ggialli:
poi ggiú pp’er corzo a accaparrajje un parco:
ortre un antro ar festino pe li bballi...
Lei ggira tutto er zanto carnovale:
perantro, ve’, nun je n’importa ggnente:
anzi, pe cquer che ddisce, je fa mmale.
E ccredo guasi che ssi cqui nnun fossimo...
Bbasta, lei vò vvedé ggode la ggente:
va a ddivertisse per amor der prossimo.
15 febbraio 1847
2252. L’inzoggno d’una regazza
Me sò ddunque inzoggnata un ber cestino
pien de scetroli e cco un uscello rosso,
che mme guardava e ddiventava grosso
come cresce in dell’ojjo uno stuppino.
Poi me veniva a svolazzà vviscino:
e a l’improviso me zzompava addosso
e mme fischiava poi drento in un fosso
che nun era ppiú ffosso, era un giardino.
E me pareva poi d’avé mmagnato
queli scetroli e avé la panza piena
e de sentí la vosce der curato.
Allora me svejjai co ttanta pena
che nun potevo ripij ppiú ffiato.
Che vorà ddì st’inzògno, eh sora Nena?
16 febbraio 1847
2253. L’inzoggno d’una regazza
Eh fijja mia, pe cquer che cce sbologgno,
co cquelli tu’ scetroli e cquel’uscello,
questo te posso dí, vvacce bberbello,
e nnun te sce fissà ttanto er cotoggno.
E ssi averai ggiudizzio in ner cervello,
credeme, fijja mia, nun c’è bbisoggno
d’ariccontanne un ètte de st’inzoggno
a ttu’ padre, a ttu’ madre e a ttu’ fratello.
Pe ssolito st’uscelli e sti scetroli
quanno ggireno attorno a una regazza
a la longa nun vengheno mai soli;
ché appress’a llòro in capo a cquarche mese
comparisce un pupazzo o una pupazza
a spiegà cquel’inzoggni in ner paese.
16 febbraio 1847
2254. Er tempo materiale
Tu ddichi che lui sta nne li contorni
de Fiorenza a sserví cco una famijja:
de cqui e là ce saranno un cento mijja:
queste er curiere le pò ffà in sei ggiorni:
tu mannassi la lettra la vigijja
de San Filippo ch’io ggiucai li storni:
lui, ar conto ch’io ffaccio, oggi la pijja;
e la risposta ggià vvòi cc’aritorni?
Aspetta un po’: nn’avemo oggi... trentuno:
dajje un tre ggiorni pe ppotella scrive
o ppe ffassela fà dda quarchiduno.
Dunque: uno, dua e ttre: ttre e ssei fa nove:
bbe’, er diesci ggiuggno, si ssaremo vive,
vierò a ttrovatte e mme darai le nove.
16 febbraio 1847
2255. Le corze de carnovale
Pò èsse a Rroma che cce sii ppiú spesa,
perché er governo ha ppiú grossa la bborza;
ma in fonno poi nun ce vò ttanta forza
pe ffà ccurre du’ bbestie a la distesa.
E cquant’a cquesto, m’aricconta Aggnesa
che ppuro ar zu’ paese in Vallecorza,
li cavalli che ccurreno a la corza
curreno da la smossa a la ripresa.
Sibbè, ppuro la spesa, caro lei,
nemmanco è ttanta, ve’ , pperché li pajji
sò ttutti o gguasi tutti de l’ebbrei.
E ssu li premî credo che llei sbajji,
perché in certe materie nun zaprei
si er governo sii lui quello che squajji.
16 febbraio 1847
2256. Le mmascherine pulitucce
Eppoi m’ammascherai giuveddí ggrasso
co Nnunziata e la sposa de Cammillo,
e cquer giorno mettessimo er ziggillo
e ddio sa ssi fascessimo fracasso.
Pe ttutto er corzo nun movemio un passo
che intorno a nnoi se sentisse un strillo
perché è inutile, via, nun fo ppe ddillo,
ma stamio propio bbene: èrimo l’asso.
D’accordo tutt’e ttre, cc’èrimo prese
un bell’abbito-a-nnolito compagno,
tutto-quanto de seta all’arbanese
E cco la nostra mmaschera e li guanti
portamio uggnuna in mano un scacciaragno
pe scopettacce er gruggno a ttutti quanti.
17 febbraio 1847
2257. Er primo giorno de quaresima
Finarmente è spicciato carnovale,
corze, bballi, commedie, oggi ariduno:
sò ttornate le scennere e er diggiuno:
mó de prediche è tempo e de caviale.
De tanti sscialacori oggi gnisuno
pò ssoverchià chi non ha uperto l’ale:
er zavio e ’r matto adesso è ttal e cquale:
o ss’è ggoduto o nnò, ssemo tutt’uno.
Addio ammascherate e carrettelle,
pranzi, cene, marenne e colazione,
fiori, sbruffi, confetti e carammelle.
Er carnovale è mmorto e sseppellito:
li moccoli hanno chiusa la funzione:
nun ze ne parla ppiú: ttutt’è ffinito.
17 febbraio 1847
2258. Er frate scercante
Chi mm’è entrato in bottega, eh ssor’ostessa?
Sete voi, fratiscello? e cche vvolete?
Volete la limosina? tenete:
pregat’iddio pe mmé ddrent’a la messa.
Come sarebb’a ddí? nnun zete prete?
Ma er cappuccio e la tonica è l’istessa.
Nò, pper interressà nnun m’interressa;
ma ssò ccuriosa de sapé cche ssete.
Sete laico? ma llaico in cuncrusione
che ssiggnifica? ah ssí, mme n’aricordo:
frate laico vò ddí ffrate torzone.
Bbasta, v’ho ddato da riempí la panza;
ma un’antra vorta, e nnun me fate er zordo,
portateme un tantin de misticanza.
18 febbraio 1847
2259. Er tempimpasce
E ancora nun ritorna co sta tela!
Nun c’è ccaso: chi vvò le cose leste
basta in un logo de mannacce Oreste,
ciarivedemo a llume de cannela.
Ma ssi un giorno me sarteno le creste,
oggi o ddomani che mme pìa de vela...
Eccolo er zor-don-Dezzio-co-le-mela!
se ne viè ccor passetto de le feste!
Ôoh bben tornat’a llei, caro sor moncio:
lei è scarmato assai: pijji una ssedia:
commanna vino? gradirebbe un pòncio?
E cche nnove sci dà, sor cul-de-piommo?
È stato forzi a vvede la commedia
der viaggio di Cristofeno Colommo?
19 febbraio 1847
2260. Anticajja e pietrella
E in ste patacche muffe, sor Pisano,
ce sapete trovà ttante bbellezze?
Ho ppaura che in cammio de ricchezze
ve troverete co le mosche in mano.
Ce vò antro che a ffuria de carezze
smiccialle da viscino e dda lontano:
voi (ve lo disce un povero gabbiano)
ciarimettete l’unguento e le pezze.
Già vve ce sete mezz’indebbitito;
e ffinissce a lo striggne de li conti
che pperderete poi nicch’e ppartito.
Guardate quello a strada de la crosce:
sibbè lo porta er cavajjer Visconti,
nun pò ccaccianne né ccucca nné nnosce.
25 febbraio 1847
2261. Lo svicolo der discorzo
Fort’ar discorzo. Io dico si la vasca
oggi tocca a vvojantre o ttocca a nnoi;
e ttu cce schiaffi immezzo er zor Belloi,
la piggione, er giudio, l’ova, la lasca...
Fijja, nun me sartà de pal’in frasca:
si nun me voi capí, ffa’ cquer che vvòi.
Me n’annerò dar prisidente; eppoi,
quann’ha pparlato lui, chi ccasca casca.
E ssenti a mmé cche pprofezzia te faccio:
co sta connotta tu e le tu’ sorelle
presto, ve lo dich’io, date er bottaccio.
Curato e pprisidente de l’urione
je sa mmill’anni ggià, ccocche mi’ bbelle,
de levavvese dalla divozzione.
26 febbraio 1847
2262. L’appuntamenti su la luna
Quanno stavo a Ppavia cor padroncino
io m’accorze una vorta, anzi piú d’una,
c’upriva a mmezzanotte un finestrino
e sse metteva a ccontemprà la luna.
Dico: «Che cc’è de bbello, sor Contino?».
Disce: «Tasci: nun zai la mia furtuna?
guardo quer che mo gguarda ir ber divino
cijjo de la contessa di Varbruna».
E ssiccome tra mmé e la cammeriera
c’era quer [che] tra llui e la padrona,
ché, nnerbigrazzia, quarche cosa c’era,
je fesce er giorn’appresso: «Di’ un po’, Oliva:
stanotte a mmezzanotte sta drondrona
che ccosa stava a ffà?». Ddisce: «Dormiva».
26 febbraio 1847
2263. Un fischio d’aria
È ubbidiente, è aggrazziata, è de bbon core,
je piasce er lavorà, ppovera fijja,
ché ttutto er po’ de svario che sse pijja
è de ssceggne la sera in coritore:
diggiuna a ppan’e acqua oggni viggijja,
abbada sempr’a ssé, nun fa l’amore...
ché in quant’a cquesto poi, sur punto onore,
ve la do pe l’Ottavia maravijja.
L’unica cosa che mme tiè sturbata
è cche da un mese e mezzo, poverella,
me la trovo un tantino sscinicata.
Da quela santa notte, sora Stella,
c’annò ggiú ppe ssentí una serenata,
fussi l’aria o cche sso, nnun è ppiú cquella.
27 febbraio 1847
2264. La bbriscola
«Sette de coppe? Ammazza, Margherita».
«Nun posso». «Passa un carico». «D’uetta».
«Ma ddunque in mano cosa ciai? puzzetta?»
«Cosa ciò! cciò una briscola vistita».
«E nemmanco pòi mette una miggnetta?»
«Ôh, inzomma io vado lisscio, ecco finita».
«E accusí avemo perzo la partita».
«Cosa te sciò da fà co sta disdetta?»
«Sú, mmostramo le carte. Eh, un ber tesoro!
Un fante! Ebbè? che tte ne fai, sorella?
Cianno asso, tre e rre: ssò ttutte lòro.
E sséguita a ddurà la svenarella!
A bbaiocc’a bbaiocco, pe ddio d’oro,
ggià ssò ar papetto. È una gran porca jjella!».
27 febbraio 1847
2265. Er ladro d’onore
Sí, jj’ho ddato der ladro, e ttu ddirai
che lladro è fforzi un termine un po’ brutto;
ma jj’ho ddato der ladro assciutt’assciutto,
e ssu l’onore nu l’ho ttocco mai.
L’onore che ttiè llui dunque è de strutto
si ppe un gnente ce fa sto tatanai:
bisoggna dí che cce n’ha ppoco assai
si una parola je lo squajja tutto.
Der ladro, e nnun ze sturbeno, lo do
puro a ttant’antri; e ccome questo cqua
s’abbi da offenne tanto, io nu lo so.
J’ho ddetto ladro: ebbè? cche mmai sarà!
Pe un êlle, un’a, un , un êrre e un ò,
c’entra tutta sta gran pubbriscità!
28 febbraio 1847
2266. Er fornaro fallito
Com’aveva d’annajje a cquer Mammoccio?
J’è ita che in tre anni e cquarche mmese
s’è vennuta la robba der paese
e a Roma ha bbastonato er forn’a ssoccio.
Sin che de sugo ce n’è stato un goccio
l’ha spremuto da prencipe Bborghese,
e a ffuria de spropositi e de spese
poi j’e ttoccato a ddí: semo a ccartoccio.
La gran risorta sua nu la sai, Teta?
Pijjà in piazza quadrini su li fonni
e ddàlli su le punte de le deta.
Nun te pare un bonissimo interresse?
Questi cqui ssò gguadaggni monni monni
com’er pij da tesse pe ddà a ttesse.
28 febbraio 1847
2267. La passata ar momoriale
Padre curato mio, per che raggione
Lei nun vò ffamme dunque la passata
pe cconcorre a la dota a la Nunziata
si mme càpita mai quarc’occasione?
Nun zò fforzi una ggiovene onorata?
Lei me pare, m’ha ppoco in condizzione.
Gnisun curato m’ha ffatte st’azzione
in quinisci parrocchie che ssò stata.
Lei sappi che mi’ padre era sargente,
e cche mamma è ffijjastra d’un notaro
che, ggrazziaddio, nun ze ne pò ddí ggnente.
L’azzione mia le posso mette in mostra:
e ppoi, Lei lo dimanni ar campanaro
che vviè ttutti li ggiorni a ccasa nostra.
28 febbraio 1847
2268. La regazza piccosa
Nun me vò? nnun me pijji: se ne stia:
facci la pasce sua: nun me ne curo.
Mica me sce darò la testa ar muro:
mica sce schiatterò, Bbríscita mia.
Già cche mme vò llassà, mme lassi puro:
nun ce sarà ppiú vvino a l’osteria?
Vadi, se roppi er collo, scappi via,
ch’io nu jje curro appresso de sicuro.
Come?! quanno l’ha ddetto, era ubbriaco?
Caro! metteteje er detino in bocca!
Che bbelle scuse, povero sciumaco!
Cosa disce er curato? «In vino vèrita».
Io, pe rregola sua, nun zò una ssciocca.
Ggnente: chi nun mi vòle nun mi merita.
1° marzo 1847
2269. Er bon core
No, ppe la pura verità, ssor’Anna,
questa cosa-che-cqui bbisoggna dìlla:
in quant’a ccore, er core de Cammilla
pare propio una cammera-locanna.
Voi lo vedete, che ssi ccià una spilla
ve ne manna un pezzetto, ve ne manna;
e cquanno stavio male a la filanna
chi vve curze a ppijjà la capomilla?
Dunque, sorella, nun ve facci spesce
si cquer giorno che cc’era Sarvatore
lei fascessi pe llui quello che ffesce.
O bbene o mmale, o amore o nun amore,
lassatele sfiatà ste bbrutte scêsce:
è stato tutt’affetto de bbon core.
1° marzo 1847
2270. La commare de l’aritirato
Mannaggia er corpo tuo! co sta caterba
de debbiti, sce vòi l’abbito novo?
Nu lo vedi, per dio, che m’aritrovo
drent’a la frateria de la Minerba?
Te sei maggnata la gallina e ll’ovo,
hai corta l’uva fatta e ll’uva ascerba,
m’hai fatto vvenne li lavori in erba...
e mmó cchi bbollo? l’anima de Bbòvo?
Ôh, ssai che tt’ho da dí? cche ttu mme puzzi
de caroggnaccia fràscica, commare.
Pe ccontentatte, m’ho da fà a ttajjuzzi?
Bbe’, vvattene e ffinimo ste caggnare.
E cquann’ho vvinto una partita a ttuzzi,
allora te farò cquer che tte pare.
1° marzo 1847
2271. La praticaccia
A la larga, munzú, dda scerta ggente!
Quanno viè llei, de bbotto io faccio tela.
Co cquer brutto stuppino de cannela
nun m’aggarba de stacce un accidente.
Ah nnun lo sa, la pover’innoscente,
che tratta mi’ marito e sse lo pela?
Ma st’istoria finissce co le mela,
e a llongo nun pò annà cche sse ne pente.
Sinora è llei che mme la fa ppulita:
ggiucamo a ppar’e sséparo da un pezzo;
ma nun zempre se vince la partita.
Co cquer ber muso che tte smove er vòmmito!
Ma abbadi a llei, cché ssi rroppemo er prezzo,
forzi averà da mozzicasse er gómmito.
1° marzo 1847
2272. La povera sciorcinata
Eh, fijja, da chi vvôi che mm’arivorti?
Li parenti sce ll’ho, ma ssò pparenti.
Ce n’ho, ar meno che ssia, quìnisci o venti;
ma da un pezzo pe mmé ssò ttutti morti.
Sin che ppòi dajje da arrotà li denti
te li porti p’er laccio, te li porti:
ma, ggnente-ggnente poi che sse sò accorti
ch’er cammino è smorzato, aria a li vênti!
Fijja, er monno va appresso a la furtuna;
e la furtuna, tu lo sai pe pprova,
va ssiconno li quarti de la luna.
Ce vò ppascenza: nun è cosa nôva.
La casa de la ggente che ddiggiuna
sta llontano, e ggnisuno l’aritrova.
1° marzo 1847
2273. La povera sciorcinata
Che tte discevo io, Bbetta? lo vedi?
Te ne se’ accorta che cchi sta in miserie
trova tutte le facce serie-serie,
e jje parleno appena in pied’in piedi?
Nu lo volevi crede: e mmó lo credi?
Quanno una casa casca, le mascerie
se venneno a ccarrette: e st’improperie
l’ho aùte puro io quanno sciaggnedi.
Ce sei vorzuta annà: bbe’, ccos’hai fatto?
Nemmanco un po’ de pane e un po’ de schiuma
come danno oggni ggiorno ar cane e ar gatto!
Se cunzuma tesori, se cunzuma,
e a nnoi ciabbasteria tra ttanto ssciatto
un descimo de quello che sse fuma!
1° marzo 1847
2274. L’innustria pe la dota
Pijjete dunque er momoriale, Marta,
e pportelo accusí ssotto ar zinale;
e ddi’ a cquanti tu incontri: «Signor tale,
facci er piascere, legghi un po’ sta carta».
Te va a sbiescio la prima? poco male:
ma a la siconna, a la terza, a la quarta,
si ppropio er monno nun ze va a ffà squarta,
vederai che tte frutta er momoriale.
Dirà cquarcuno: «De chi ssete fijja?».
Tu allora abbassa l’occhi e ddi’ ttremanno:
«D’una povera madre de famijja».
A cquanti, fijja mia, nun te ne danno
dijje: «Pazienza». Da chi ddà, tu ppijja,
ma nun avé mmai resti ar tu’ commanno.
2 marzo 1847
2275. Li quadrini sudati
A cchi avemo ggià dato er momoriale?
Ripassamo un po’ er conto, fijja mia.
A li Bbrevi, in Consurta, in Dataria,
ar Papa, ar cumputista cammerale,
a li Sussidî, in Limosinaria,
ar prelato che ffanno cardinale,
ar Vicario, a l’impresa, a ddon Pasquale
pe li spojji e cquell’antra Opera-pia...
Sò dodisci; e ccinqu’antri stanno in lista:
p’er tesoriere, p’er governatore,
p’er Zenato, p’er Monte e pp’er Zagrista.
Poi er Zenzale sce porta domani
quelli pe la Bborghesi e le siggnore,
e ppe ttutti li prencipi romani.
2 marzo 1847
2276. L’arte der campà auffa
Nina, sai c’hai da fà? bbuttete addosso
presto-presto quer cencio de mantijja,
e vva’ a bbussà dda la sora Scescijja,
che inzin’a ggiuveddí mm’impresti un grosso.
Sí nun ce trovi lei, dillo a la fijja,
e cche ssei ita tu perch’io nun posso,
ché cciò un dolore cqui ddrent’in un osso
che mme fa spasimà cquanno me pijja.
E ssi tte tocca sull’antro testone
ch’io je chiese pe ffacce le lasaggne,
risponneje ch’è ttroppo de raggione.
E ssi mmai te fascessino le caggne,
allora tu, ssiconno l’occasione,
pe mmovele a ppietà, méttete a ppiaggne.
2 marzo 1847
2277. Er ribbarta-compaggnia
Annamo a l’osteria de la corona:
bbe’? ffavorissce lei, sor bragalisse?
Che? nnun ce vò vveni? bbravo, pe ccrisse!
ce ne..., mme spiego?, una bbona fattona.
Senza la faccia sua da bbiribbisse
tanto se bbeve, se canta e sse sona;
perché nnoi semo ggentaccia a la bbona
che cce piasce a stà alegri e ddivertisse.
Se cosci puro in de l’acquaccia sua;
e ssi jje puzza er fiato der cristiano
pijji casa in ner ghetto de la rua.
E nun facci la ronna da lontano,
ché, ddímolo in zegreto fra nnoi dua,
questo puzza un tantin de paesano.
2 marzo 1847
2278. La musicarola
Bbrava! ma ssai che ccanti bbene, Arbina?
Sentite llí ssi cche bbelli trilletti!
E pperché cco sta vosce nun te metti
sur teatro de Valle o dd’Argentina?
Te dich’io li bbanchi e li parchetti
li faressi affollà dda la matina;
ché cciài ’na grazzia a ffà la canterina
quanta n’ha ll’órzo a llavorà mmerletti.
Hai cantata quell’aria, Arbina mia,
che ssi cc’era Madama Melibbranni
se sbajjava la porta a scappà vvia.
Manni dar corpo una voscetta, manni,
che, ss’opri bbocca da piazza ggiudìa,
s’attureno l’orecchie a Ssan Giuvanni.
2 marzo 1847
2279. [«Sora Crestina mia, pe un caso raro»]
Sora Crestina mia, pe un caso raro
io povero cristiano bbattezzato
senz’avecce né ccorpa né ppeccato
m’è vvienuto un ciamorro da somaro.
Aringrazziat’iddio! l’ho ppropio a ccaro!
E mme lo godo tutto arinnicchiato
su sto mi’ letto sporco e inciafrujjato,
come un zan Giobbe immezzo ar monnezzaro.
Che cce volemo fà? ggnente pavura.
Tant’e ttanto le sorte sò ddua sole:
drento o ffora; o in figura o in zepportura.
E a cche sserveno poi tante parole?
Pascenza o rrabbia sin ch’er freddo dura:
staremo in cianche quanno scotta er zole.
21 febbraio 1849
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