trascorsa in vagone colla misteriosa signora. Era il vagone occupato da viaggiatori, uòmini tutti: non rimaneva altro
posto per mè che al fianco di lei. I nostri ginocchi, i gòmiti nostri, non potèvano non incontrarsi. Ned ella sfuggiva i
mièi, ma vi appoggiava, anzi, contro, i suòi lievissimamente. Uno sbigottimento soave inondava — son certo —
ambedùe, e lo gustavamo in silenzio. Oh quanti rosati castelli edificài quella notte! oh qual romanzo credetti di aver
cominciato! Ma il viaggio finì, e i castelli si sciòlsero, e del romanzo non restò scritto che il tìtolo.
Or che vuòi? io preferìi sempre l'amore in bocciuolo a quello, non dirò pure in frutto, ma in fiore; io non seppi
decìdermi mai, perchè l'àngelo non mi fuggisse, a tagliargli le ali. E anche tu lo puòi dire, o gentile, il cui volto parèa
uno schizzo a carbone su'n bianco muro, tu, che, divisa da mè da una via, uscivi sul terrazzino a coltivar fiori, quand'io
mettèvomi con un libro al mio davanzale, rimpetto al tuo. Noi sentivamo, io ciò che tu confidavi ai fiori, tu quello che io
leggevo nel libro. Quando poi, venuta la sera, la tua finestra s'illuminava, scorgevo, dietro le calate tendine di mùssolo,
il grazioso profilo di una inclinata testina e di dita che agucchiàvano svelte. Ma capo e mani, talvolta, si confondèvano
in una sola ombra qual di piangente, e allor mi era dolce di lagrimare teco. Un dì apparisti sul balconcino con una lèttera
in mano; ne leggevi una linea, poi mi guardavi, ne leggevi un'altra e tornavi a guardarmi. Quella lèttera, non v'ha dubbio,
ti annunciava amore e ti era stata inviata da un amico a tè ignoto ed anche, disgraziatamente, a mè. Oh quanto io gioivo
della tua gioia e insieme dolèvami di non avèrtela procurata io! Ma ora tu avevi trovato e avresti posseduto tra poco chi
ti amava; io dunque non ti abbisognavo più, cara giòvine; e da quel giorno, per tè felice, infàusto per me, cessài dal
guardarti.
Ma, più che ogni altra, io ho in cuore tè — come mai ti chiamavi? — buona e sana e rubiconda fanciulla, dal
volto e dalle manine piene di fossarelle, dallo sguardo lìmpido e aperto... — ah sì, Èster — che eri, ad un tempo, la
cameriera e la confidente di una mia zia. Il tuo eburneo allegro sorriso, quel sorriso che è il sale della bellezza, avèa in
sè la luminosità di mille candele. Sovente, io passavo la sera da zia, cenando e poi giocando con essa al pacìfico
dòmino. Tu intanto, silenziosamente seduta in un àngolo della sala, cucivi, e tratto tratto sospiravi. Oh avessi saputo
come io attendevo con ansia — colla stessa tua ansia forse — l'istante di potèrmene andare, perocchè, uscendo, tu mi
accompagnavi a farmi lume giù per le scale e ad aprirmi il portone. Più scendevamo e più il passo facèvasi lento. Talora
ci soffermavamo, minuti, sui pianeròttoli senza saperne il perchè, in uno di que' silenzi zeppi di tante parole, mentre il
lume fumoso nella distratta tua mano pingèa di accusatrici macchie la parete. A mè le fresche fragranze delle verginali
tue carni affluìvano come àure primaverili da prati di màmmole. Mangiavo con gli occhi le mele appiuole della tua
faccia e le rosse ciliegie della tua bocca, mature ai baci; e di baci avrèi voluto rièmpiere le tue cento fossette, i capelli,
gli occhi, i rosei ginocchietti delle dita. Senonchè, tutti e due si ripigliava la pigra discesa. Giunti al portone, tu non
riuscivi mai, se non dopo assài prove, ad infilare la chiave nella toppa, nè io sapeva ajutarti, cosicchè, spesso, si
rimaneva là, uno in faccia dell'altro, arrossendo, balbettando, finchè qualche inquilino — soprarrivando dalla strada —
non ci togliesse dal grato imbarazzo. E allora io doveva, melanconicamente, rivedere le stelle, e tu risalire le scale... con
l'inquilino. Poi, morì zia. Casa sua, e tu con essa, spariste. Dove ora sei, buona Èster?
Un altro mio amore naque, crebbe, finì a strette di mano. Fra i tatti, quel della mano è il rè. Màssima intèrprete
o còmplice della volontà, la mano coltiva ed edìfica, scrive e plasma, carezza ed uccide. Essa è l'azione ed è la persona:
essa ci fà sùbito noto con chi trattiamo, chè vi ha la mano intellettuale e la mano cretina, una tutta frèmiti, geli,
accensioni, l'altra impassìbile, dura: vi ha la mano che attira e quella che respinge; vi ha la mano di pressochè tutte e la
mano di... Lisa.
Era, questa, lunga e bianca, liscia qual perla, trasparente come alabastro, dalle dita le cui cime polseggiàvano
— dita affusolate e flessìbili sì da poterle rovesciar su sè stesse quasi fòsser senz'ossa, eppur tali, per nervosità, da non
èsser piegate che a forza, se non volèvano cèdere. I microscòpici òrgani elettro-motori, da Pacini scoperti ne'
polpastrelli, dovèvano èssere in sifatta mano sàturi di elettricità. La prima volta che io l'ebbi nella mia, parèa muta,
marmorea, cadavèrica: il suo tocco, una forma convenzionale di saluto, non l'accòrrere di una sensibilità verso l'altra.
Ma, a poco a poco, le nostre mani si intèsero: quella di Lisa cominciò a prèmer più forte quand'io mi congedavo da lei di
quando me le presentavo. Oh come bianca quella manina! oh come negri gli occhi di chi me la offriva! Una sera,
toccàndola, scattò da essa un trèmito che mi arrivò sino al cuore. D'allora in poi, Lisa più non mi porse la palma sua con
l'abbandono, più non serrò la mia con la sicurezza di prima: nell'istante del commiato un indefinìbil ritegno, una
parèntesi di riflessione, si metteva fra noi, incerti a chi primo dovesse stènder la mano. Dove l'amore è molto, poca è la
disinvoltura. Senonchè, quando il casto connubio era osato, non più sapevamo, quasi a compenso della anteceduta
tardanza, dissòlverlo. E allora, guardàndoci, tacevamo. Non è forse il silenzio, in amore, la più deliziosa delle sue
dichiarazioni? Ma, pur troppo, altri parlò in vece mia. Costùi potèa coprire di gemme quanto io avrèi solo potuto di baci,
e fu dai parenti, se non da Lisa, ascoltato. Or la manina di lei, quell'augelletta che, a volte, io dubitavo, per non
sciuparla, di strìngere, giace sepolta nel cavo di una manaccia rozza, callosa, insensìbile — teca di piombo e di quercia
ad un inno, in cinque strofe, d'amore.
Oh strette di mano, celate elemòsine di affetto, oh sguardi densi di preghiere e promesse, oh titubanze e rossori,
impallidimenti e sospiri, oh cento e mille sottintesi e presensi, quanto mai vi ricordo, e come, tuttora, mi consolate! Nè
tra voi manca il bacio — ùnico bacio che nel dar mi fu dato.
Era allora il settembre dell'anno e il maggio della mia vita. Io mi trovavo sulla sponda di un lago straniero, in
un vasto albergo. L'albergo era stipato di gente che io non conoscevo neppur di linguaggio, e però in esso, vivente
deserto per mè, godevo tutti i vantaggi, tutto il piacere della solitùdine. E un dì, sul tramonto, rincasavo da una delle mie
camminate a caccia di fiori e di idèe. La campanella avèa già sussultato di bronzea tosse chiamando a tàvola, dal
giardino, dai pòrtici, dalle càmere, i forastieri sbadigliosi e nojati. Solo, dietro la grande vetriata del salone che si apriva
sul pòrtico esterno, una fanciulla indugiava. Un rosso scialletto le copriva le spalle cingèndole i fianchi, e il pellùcido
volto di lei, improntato a sofferenza gentile e serbante le traccia di una pioggia di làgrime, appoggiàvasi estaticamente
all'ampio cristallo, contro il quale la punta del suo nasino e le labbra mostràvansi, a mè di quà della lastra, espanse e