prendere una similitudine di cose vive, che ci avesse poi a toccare
qualche scappellotto." Le cose vive, alle quali il Manzoni faceva
allusione, potevano essere benissimo le famose polemiche sorte in quel
tempo, da una parte fra Classici e Romantici, dall'altra fra il Monti
e gli Accademici della Crusca: polemiche, le quali sembravano fatte
molto più per imbrogliare le idee che per renderle più chiare e
popolari. Così non s'intenderebbe come il Manzoni, dopo aver lasciato
fare a Lucia quell'imprudente suo voto di non più sposare Renzo, si
désse poi tanta pena per rappresentare l'immagine di un Renzo ideale
che le tornava, malgrado del voto, nella mente, se non fosse lecito il
supporre che in quelle immagini entrasse la reminiscenza di qualche
scena domestica manzoniana. "Lucia, quando la madre ebbe potuto, non
so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e
avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non
che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino,
che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al
giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni
mezzo per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava
d'occuparsi tutta in quello, quando l'immagine di Renzo le si
presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Quell'immagine,
proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più così alla
scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, in modo che la
mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo
che la c'era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre; come non
ci sarebbe stato! e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in
terzo, come il reale avea fatto tante volte. Così con tutte le
persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si
veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a
fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se
non altro: io, a buon conto, non ci sarò. Però, se il non pensare a
lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il
cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno; ci
sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era
Donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle
dall'animo colui, non aveva trovato migliore espediente che di
parlargliene spesso. "Ebbene?" le diceva, "non ci pensiam più a
colui?"--"Io non penso a nessuno," rispondeva Lucia. Donna Prassede
non s'appagava d'una risposta simile, replicava che ci volevan fatti e
non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, "le
quali," diceva, "quando hanno nel cuore uno scapestrato, ed è lì che
inclinano sempre, noa se lo staccan più. Un partito onesto,
ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche
accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è
piaga incurabile." E allora principiava il panegirico del povero
assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva
far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte,
anche al suo paese. Lucia con la voce tremante di vergogna, di dolore,
e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella
sua umile fortuna, assicurava e attestava che, al suo paese, quel
poveretto non aveva mai fatto parlar di sè altro che in bene; avrebbe
voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far
testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era ben
informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e
de' suoi portamenti fin dalla fanciullezza. Lo difendeva o si
proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del
vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sè stessa il
suo sentimento, come prossimo. Ma da questa apologia Donna Prassede
ricavava nuovi argomenti per convincere Lucia, che il suo cuore era
ancora perso dietro a colui. E, per verità, in que' momenti, non