dei barbari antilirici soprastantimi non potea esser piú giusta ed opportuna; l'afferrai, e non ci pensai poi mai piú.
Quanto alle traduzioni, il Virgilio mi era venuto ricopiato e corretto tutto intero nei due anni anteriori, onde lo
lasciava sussistere; ma non come cosa finita. Il Sallustio mi parea potere stare; e lasciavalo. Il Terenzio no, perché una
sola volta lo avea fatto, né rivistolo, né ricopiatolo; come non lo è adesso neppure. Le quattro traduzioni dal greco, che
condannarle al fuoco mi doleva, e lasciarle come cosa finita pur non poteva, poiché non l'erano, ad ogni rischio del se
avrei il tempo o no, intrapresi di ricopiarle sí il testo che la traduzione, e prima di tutto l'Alceste per ritradurla veramente
dal greco, che non mi sapesse poi di traduzione di traduzione. Le tre altre bene o male, erano state direttamente tradotte
dal testo, onde mi dovean costar poi meno tempo e fatica a correggerle. L'Abele, che era ormai destinata ad essere (non
dirò unica) ma sola, senza le concepite, e non mai eseguite compagne, l'avea fatta copiare, e limata, e mi parea potere
stare. Vi si era pure aggiunto alle opere di mio, negli anni precedenti una prosuccia brevina politica, intitolata
Ammonimento alle potenze italiane; questa pure l'avea limata, e fatta copiare, e lasciavala. Non già che io avessi la
stolida vanagloria di voler fare il politico, che non è l'arte mia; ma si era fatto fare quello scritto dalla giusta
indegnazione che mi aveano inspirata le politiche certo piú sciocche della mia, che in questi due ultimi anni avea visto
adoprare dalla impotenza dell'imperatore, e dalle impotenze italiane. Le satire finalmente, opera ch'io avea fatta a poco a
poco, ed assai corretta, e limata, le lasciava pulite, e ricopiate in numero di diciassette quali sono; e quali pure ho fissato
e promesso a me di non piú oltrepassare.
Cosi disposto, e appurato del mio secondo patrimonio poetico, smaltatomi il cuore, aspettava gli avvenimenti.
Ed affinché al mio vivere d'ora in poi se egli si dovea continuare venissi a dare un sistema piú confacente all'età in cui
entrava, ed ai disegni ch'io mi era già da molto tempo proposti, fin dai primi del '99 mi distribuii un modo sistematico di
studiare regolarmente ogni settimana, che tuttora costantemente mantengo, e manterrò finch'avrò salute e vita per farlo.
Il lunedí e martedí destinati, le tre prime ore della mattina appena svegliatomi, alla lettura, e studio della Sacra Scrittura;
libro che mi vergognava molto di non conoscere a fondo, e di non averlo anzi mai letto sino a quell'età. Il mercoledí e
giovedí, Omero, secondo fonte d'ogni scrivere. Il venerdí, sabato, e domenica, per quel prim'anno e piú li consecrai a
Pindaro, come il piú difficile e scabro di tutti i greci, e di tutti i lirici di qualunque lingua, senza eccettuarne Giobbe, e i
profeti. E questi tre ultimi giorni mi proponeva poi, come ho fatto, di consecrarli successivamente ai tre tragici, ad
Aristofane, Teocrito, ed altri sí poeti che prosatori, per vedere se mi era possibile di sfondare questa lingua, e non dico
saperla (che è un sogno), ma intenderla almeno quanto fo il latino. Ed il metodo che a poco a poco mi andai formando,
mi parve utile; perciò lo sminuzzo, che forse potrà anche giovare cosí, o rettificato, a qualch'altri che dopo me
intraprendesse questo studio. La Bibbia la leggeva prima in greco, versione dei Settanta, testo vaticano, poi la
raffrontava col testo alessandrino; quindi gli stessi due, o al piú tre capitoli di quella mattina, li leggeva nel Diodati
italiani, che erano fedelissimi al testo ebraico; poi li leggeva nella nostra volgata latina, poi in ultimo nella traduzione
interlineare fedelissima latina dal testo ebraico; col quale bazzicando cosí piú anni, ed avendone imparato l'alfabeto,
veniva anche a poter leggere materialmente la parola ebraica, e raccapezzarne cosí il suono, per lo piú bruttissimo, ed i
modi strani per noi, e misti di sublime e di barbaro.
Quanto poi ad Omero, leggeva subito nel greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, e non mi
arrestando mai, per quanti spropositi potessero venirmi detti, quei sessanta, o ottanta, o al piú piú cento versi che volea
studiare in quella mattina. Storpiati cosí quei tanti versi, li leggeva ad alta voce prosodicamente in greco. Poi ne leggeva
lo scoliaste greco, poi le note latine del Barnes, Clarch, ed Ernesto; poi pigliando per ultima la traduzione letterale latina
stampata, la rileggeva sul greco di mio, occhiando la colonna, per vedere dove, e come, e perché avessi sbagliato nel
tradurre da prima. Poi nel mio testo greco solo, se qualche cosa era sfuggita allo scoliaste di dichiararla, la dichiarava io
in margine, con altre parole greche equivalenti, al che mi valeva molto di Esichio, dell'Etimologico, e del Favorino. Poi
le parole, o modi, o figure straordinarie, in una colonna di carta le annotava a parte, e dichiaravale in greco. Poi leggeva
tutto il commento di Eustazio su quei dati versi, che cosí m'erano passati cinquanta volte sotto gli occhi, loro, e tutte le
loro interpretazioni, e figure. Parrà questo metodo noioso, e duretto; ma era duretto anch'io, e la cotenna di cinquanta
anni ha bisogno di ben altro scarpello per iscolpirvi qualcosa, che non quella di venti.
Sopra Pindaro poi, io aveva già fatto gli anni precedenti uno studio piú ancora di piombo, che i sopradetti. Ho
un Pindaretto, di cui non v'è parola, su cui non esista un mio numero aritmetico notatovi sopra, per indicare, coll'un due
e tre, fino talvolta anche a quaranta, e piú, qual sia la sede che ogni parola ricostruita al suo senso deve occupare in que'
suoi eterni e labirintici periodi. Ma questo non mi bastava, ed intrapresi allora nei tre giorni ch'io gli destinai, di
prendere un altro Pindaro greco solo, di edizione antica, e scorrettissimo, e mal punteggiato, quel del Calliergi di Roma,
primo che abbia gli scolii, e su quello leggeva a prima vista, come dissi dell'Omero, subito in latino letteralmente sul
greco, e poi la stessa progressione che su l'Omero; e di piú poi in ultimo una dichiarazione marginale mia in greco
dell'intenzione dell'autore; cioè il pensiero spogliato del figurato. Cosí poi praticai su l'Eschilo e Sofocle, quando
sottentrarono ai giorni di Pindaro; e con questi sudori, e pazze ostinazioni, essendomisi debilitata da qualch'anni assai la
memoria, confesso che ne so poco, e tuttavia prendo alla prima lettura dei grossissimi granchi. Ma lo studio mi si è
venuto facendo sí caro, e sí necessario, che già dal '96 in poi, per nessuna ragione mai ho smesso, o interrotto le tre ore
di prima svegliata, e se ho composto qualche cosa di mio, come l'Alceste, le satire, e rime, ed ogni traduzione, l'ho fatto
in ore secondarie, talché ho assegnato a me stesso l'avanzo di me, piuttosto che le primizie del giorno; e dovendo
lasciare, o le cose mie, o lo studio, senza nessun dubbio lascio le mie.
Sistemato dunque in tal guisa il mio vivere, incassati tutti i miei libri, fuorché i necessari, e mandatili in una
villa fuori di Firenze, per vedere se mi riusciva di non perderli una seconda volta, questa tanto aspettata ed abborrita
invasione dei francesi in Firenze ebbe luogo il dí 25 marzo del '99, con tutte le particolarità, che ognuno sa, e non sa, e
non meritano d'essere sapute, sendo tutte le operazioni di codesti schiavi di un solo colore ed essenza. E quel giorno
stesso, poche ore prima ch'essi v'entrassero, la mia donna ed io ce n'andammo in una villa fuor di Porta San Gallo presso
a Montughi, avendo già prima vuotata interamente d'ogni nostra cosa la casa che abitavamo in Firenze per lasciarla in