ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, più anni con diversi amici e signori andò
vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa
contraria la Fortuna potere operare, per la quale, se forse vi può porre indugio, istôrla possa dal
debito fine, avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra cose di
Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la
ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò li
detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,
lesse, e piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un
nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore
per rima in Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto intelletto, non meno che
colui che portati gliele avea, si maravigliò sì per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sì per la
profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso: per le
quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e sì ancora per lo luogo onde tratti gli avea,
estimò quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella essere imperfetta rimasa,
come che essi non potessero seco presummere a qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono
di sentire dove Dante fosse, e quello, che trovato avevan mandargli, acciò che, se possibile fosse, a
tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E, sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso
il marchese Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e mandarono li sette
canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli
mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante riconosciuti
subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine
sì alto principio. <<Certo>> disse Dante <<io mi credea nella ruina delle mie cose questi con molti
altri miei libri avere perduti, e perciò, sì per questa credenza e sì per la moltitudine dell'altre fatiche
per lo mio esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera presa, abbandonata;
ma, poi che la Fortuna inopinatamente me gli ha ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di
ritornarmi a memoria il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia>>. E
reassunta non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata, seguì: <<Io dico, seguitando,
ch'assai prima>> etc.; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera
intermessa conoscere.
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non, forse secondo che molti estimerebbono,
senza più interromperla la perdusse alla fine; anzi più volte, secondo che la gravità de' casi
sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna cosa, mise in
mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol sopraggiugnesse la morte, che egli tutta publicare
la potesse. Egli era suo costume, quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n'avea, quegli, prima
che alcuna altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli
oltre a ogni altro uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia a chi la ne
volea. E in così fatta maniera avendogliele tutti fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegii
avendo fatti, né ancora mandatigli; avvenne che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si
morì. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e discepoli, più volte e in più mesi, fra ogni sua
scrittura, se alla sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li canti residui,
essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al
mondo ch'egli il picciolo rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal più cercare, non
trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era dicitore in rima, per persuasioni
d'alcuni loro amici, messi a volere, in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, acciò che
imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto più che l'altro fervente,
apparve una mirabile visione, la quale non solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò
dove fossero li tredici canti, li quali alla divina <I>Comedia</I> mancavano, e da loro non saputi
trovare.
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente discepolo stato
di Dante, che, dopo l'ottavo mese della morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi