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Francesco Vettori
Scritti storici e politici
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Scritti storici e politici
AUTORE: Vettori, Francesco
TRADUTTORE:
CURATORE: Niccolini, Enrico
NOTE: Realizzato in collaborazione con la
Biblioteca dei classici Italiani
(http://www.classicitaliani.it/)
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Scritti storici e politici"
di Francesco Vettori,
a cura di Enrico Niccolini;
collezione: Scrittori d'Italia;
Gius. Laterza e figli;
Bari, 1972
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 22 aprile 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Giuseppe Bonghi, bonghi18@classicitaliani.it
REVISIONE:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
Alberto Barberi, collaborare@liberliber.it
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FRANCESCO VETTORI
SCRITTI STORICI E POLITICI
A CURA
DI
ENRICO NICCOLINI
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI - EDITORI - LIBRAI
1972
I
I
RICORDO DELLI MAGISTRATI
CHE IO, FRANCESCO DI PIERO DI FRANCESCO DI PAGOLO
DI GIANNOZZO DI NERI DI BOCCUCCIO VITTORI, HO AVUTO; A PIÈ:
A dì 15 marzo 1503, entrai di collegio de' Dodici.
A dì 1 di settembre 1504, entrai delli Otto di Guardia e Balia.
A dì 10 di agosto 1506, entrai Potestà di Castiglione Aretino.
A 27 di giugno 1507, andai Ambasciadore a Massimiliano imperatore e stetti nella
Magna e pel cammino tanto che tornai in Firenze a dì 13 di marzo 1508.
A dì 1 di maggio 1509, entrai de' nostri Signori.
A dì 1 di settembre 1509, entrai de' Capitani de' Capi di Parte Guelfa.
1511 A 8 di ottobre, fui mandato in poste da' nostri Signori al Borgo a San Donnino a
certi cardinali che volevono fare il Concilio a Pisa.
1511 A 15 di detto, fui creato Imbasciadore a Massimiliano imperatore, ma non fu poi
bisogno andassi.
1511 A dì 10 di novembre, fui mandato, insieme con Neri di Gino Capponi, Commissario a
Pisa alli cardinali che facevono il Concilio.
1512 A 27 d'agosto, fui fatto Commissario generale insieme con altri sopra le genti
d'arme, quando vennono gli Spagnuoli, e stetti Commissario insino a 15 di
settembre.
1512 A 29 di gennaio, fui mandato Imbasciadore a papa Iulio e stetti poi, a tempo di
papa Leone, tanto che tornai qui a dì 15 di maggio 1515.
A dì 10 di giugno 1515, entrai delli Otto di Pratica.
4
A 16 d'agosto 1515, fui mandato Commissario con le nostre genti che andavono in
Lombardia e stetti insino al 20 d'ottobre 1515.
A dì 21 d'ottobre, mi parti' da Reggio per ire Imbasciadore, insieme con Filippo
Strozzi, al re Francesco di Francia e stetti insino che tornai qui, a 28 d'agosto
1518. E prima, a dì 5 di maggio 1515, entrai de' Conservatori di Legge.
1518 Et a dì primo di settembre, entrai delli Otto di Guardia.
1518 A dì 10 di dicembre 1518, entrai delli Otto di Pratica.
A primo di settembre 1512
(1)
, entrai delli Otto di Guardia e fui privato dell'uficio,
adì 16 di detto, per la innovazione che fu nella Città.
1519 A dì primo d'agosto, entrai de' Sei della Mercatantia.
1520 A dì primo di maggio 1520, entrai de' nostri Signori.
A 23 di luglio 1520, andai Commissario e Sindaco del Comune per pigliare la
possessione della provincia di Montefeltro, la quale la Santità di Nostro Signore
concesse a questa Repubblica, e stetti insino a di 20 di novembre 1520.
1520 A dì 10 di dicembre, entrai delli Otto di Pratica.
1521 A dì 11 di maggio 1521, entrai Conservadore di Legge.
1521 A dì primo di novembre, entrai Gonfaloniere di Iustizia.
1521 A di 10 dì dicembre, entrai delli Otto di Pratica.
1522 A dì primo d'agosto 1522, entrai Potestà di Pistoia.
1522 A dì 6 di febraio 1522, entrai delli Otto di Pratica.
1523 A dì primo di maggio 1523, entrai delli Otto di Guardia.
1523 A 25 di gennaio, mi partì' di Firenze per ire Oratore a papa Clemente settimo
insieme con altri, e' nomi sono questi:
Messer Francesco Minerbetti, archiepiscopo turretano.
Lorenzo di Matteo Morelli.
Alessandro d'Antonio Pucci: questo fu fatto cavaliere.
Antonio di Guglielmo de' Pazzi.
Ruberto di Donato Acciaiuoli.
Palla di Cosimo Ruccellai, il quale fece l'orazione eccellente.
Lorenzo di Filippo Strozzi.
Giovanni di Lorenzo Tornabuoni.
(1)
Si tratta del 1518: è un evidente errore di stampa - [Nota per l'edizione elettronica]
5
II
VIAGGIO IN ALAMAGNA
L
L
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O
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I
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M
M
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[2r] Tu m'hai più volte ricerco, Giovanni mio, che sia contento scrivere tutta la gita
mia d'Alamagna distintamente. Io insino a qui te l'ho negato, iudicando che non meritassi
essere scritta, ma che bastassi parlarne quando mancassi ragionamento. Ma instando tu al
continuo, non ho potuto contradire come quello che alli amici ogni cosa concedo, e
massime a te. Scriverrò, adunque, tutti e' luoghi dove sono stato, e non solo le città e
castelli, ma li borghi e minime ville, e quello mi sia accaduto e con chi abbi parlato e di
che. E, se ne sarò ripreso, tu ne sarai causa che, me non volente, hai constretto a scrivere.
Alli 27 di giugno 1507 partì' di Firenze con quattro servitori a cavallo. E perché
disegnai non passare a Bologna, per essere quella infetta di peste, feci la via di Barberino, e
quivi mi condussi la mattina a desinare, che era domenica. L'oste dove mi fermai era
fiorentino, chiamato Anselmo di ser Bartolo e, per essere ridotto in povertà, col fare osteria
s'ingegnava intrattenere sé e la famiglia sua.
Come ebbi mangiato, sentì' per la villa suono di tamburi e tumulto di gente. [2v]
Domandai l'oste che cosa fussi. Rispose che il giorno si trovava quivi il conestabile del
battaglione e che tutti e' fanti del paese s'avevono a ragunare in quel luogo per fare la
monstra. Onde io, pensando di passare il caldo con qualche ragionamento, li dissi:
«Anselmo, e l'età e l'arte ti debbe avere fatto e discreto et esperto. E però vorrei mi dicessi
il vero se tu iudichi che l'avere introdotta questa ordinanza e dato l'arme a questi fanti,
chiamati battaglioni, sia a proposito della città nostra o no».
Lui mi rispose che desiderava ne dicessi prima l'oppenione mia, la quale, quando
fussi secondo la sua aproverrebbe, quando no, replicherebbe quello li occorressi. «In
verità, oste mio» dissi io allora «che chi considerrà bene l'ordine di questi fanti, lo
iudicherà et onorevole et utile per la città nostra. E ponendo da parte molte cose che si
potrebbono dire, dico che e' Fiorentini hanno gran paese et abitato in gran parte da uomini
usi allo stento et alla fatica. Oltre a questo, è forte per essere da molte bande circundato da
alpe e da monti aspri, in modo che, se si mantiene questo ordine d'uomini armati et
alquanto disciplinati nel paese loro, non che il duca Valentino e Vitellozzo con poco
numero d'uomini, come hanno fatto pel passato, non ardiranno entrare, ma il re di Francia
o qualunque [3r] altro principe con grande et iusto essercito dubiteranno d'accostarsi a
quello. Ometto quanta facilità sarà nel congregarli, quanto minore spesa nel tenerli, di
quanto timore saranno a' vicini; e voglio intendere la tua risposta».
Udito Anselmo il parlare mio, disse: «Perché le parole tue non monstrano la
medesima oppenione che la mia, dirò quello mi occorre. E non fo dubbio che questi
battaglioni, quando saranno armati et essercitati, potranno essere simili a quelli che sono
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tenuti buon fanti. Ma io non so già allora come noi Fiorentini staremo sicuri; so in che
modo li uomini armati et essercitati vorranno ubidire a' disarmati et inesperti. E dubito
che non pensino, sendo stati un tempo sudditi, potere diventare signori. E credi a me, che
tutto giorno li pratico, che loro non ci amano hanno causa d'amarci, perché noi li
tiranneggiamo, non li dominiamo. E se abbiamo paura delli insulti esterni, è meglio
pensare redimersi da quelli che vengano de' quattro o sei anni una volta con danari, che
temere di questi che possono venire ogni giorno. E se li possiamo congregare presto,
questo medesimo posson fare da loro per nuocerci. E se a' vicini con essi metteremo
timore, a noi medesimi metteremo timore e danno. Potrei dire molte altre [3v] cose, ma,
sendo tu stato brieve, voglio fare il medesimo».
Le ragioni dell'oste non mi dispiacquono. E sendo già ora di cavalcare, montai a
cavallo e la sera mi condussi a alloggiare al Piano in Bolognese. E perché l'osteria era
piccola e trista, andavo per la villa a torno, la quale aveva sopra, poco lontano, una
abitazione d'uno cittadino bolognese, chiamato Francesco della Volta, el padre del quale,
secondo dicevano li uomini del luogo, era molto ricco. Ma, come avviene quando delle
ricchezze s'hanno a fare più parte, a questo Francesco era tocco il palazzo con non molte
terre a torno; e per spender meno si stava il più del tempo quivi. E vedendomi passeggiare
venne da me, e mi domandò chi fussi o dove andassi. Risposi che ero mercante fiorentino
et andavo a Norimberg per mie faccende.
Lui, come intese che andavo nella Magna, con grande instanzia mi ricercò se sapevo
niente della venuta dello Imperatore in Italia e che grandemente lo desiderava, perché
Bologna fussi per suo mezzo libera dallo insopportabile iugo del cardinale di Pavia, che
era legato per papa Iulio. Al quale io dissi che mi persuadevo che la signoria di messere
Giovanni e de' figliuoli fussi molto più aspra e dura che quella del Legato. Lui rispose che
era vero che in Bologna, [4r]
in quel tempo, non era sicura la roba, non moglie, non
figliuoli, non la vita di quelli che erono inimici di messer Giovanni; ma, con tutto questo,
che lui voleva mantenere la città e che quelli che erano amici suoi potevono sperare bene;
ma che al presente nessuno vi era contento, perché il Legato non pensava se non a rubare
ciascuno e, con ogni industria, guastare e dissipare la città, come quello che non si
confidava poterla tenere insino non l'avea ridotta a niente.
Confortà'lo con quelle ragione mi occorsono, et all'osteria tornato, mi riposai. E la
mattina sequente mi fermai a desinare al Sasso, distante a Bologna miglia otto, in sul fiume
del Reno. Intorno a questo luogo sono molti palazzi di gentiluomini bolognesi, e' quali
allora, rispetto alla peste, avevono quivi le loro famiglie. Desinai e di poi, per non dormire,
mi messi a sedere avanti la porta dell'osteria. Et a caso vi capitò un frate dell'ordine di
Camaldoli, che stava vicino al borgo in una piccola chiesa. Et entrando in ragionamento
seco, gli domandai di chi fussi un palazzo molto bello in aspetto, quivi vicino. Disse quello
essere d'un dottore, chiamato messer Lodovico Bolognini: «Il quale di legge [4v] forse
qualcosa intende, ma d'ogni altra cosa niente. Ha una bella donna che la tolse che era già
vecchio d'anni sessantacinque e lei ne aveva diciotto; et è qui a questo palazzo.
E ti voglio dire una piacevole novella che il verno passato gl'intervenne. Lui, come
t'ho detto, sendo vecchio e morendoli la prima moglie, questa giovane e bella tolse. La
quale, sendo stata presso a dua mesi seco e conoscendolo debile di corpo e di cervello,
7
d'un medico giovane s'innamorò, nominato mastro Gualberto. Messer Lodovico,
conoscendosi vecchio, era oltre a modo geloso; et in maniera la moglie, chiamata Dianora,
guardava che non che altro avea fatica farsi alla finestra. E crescendoli ogni l'amore
verso il medico e pensando il modo a venire a quello desiderava, finse essere gravemente
malata, in modo che messer Lodovico subito mastro Gualberto fe' venire, il quale era uso
spesso a medicarlo.
Et accostandosi il mastro a lei al letto a lume di lucerna ben piccolo, certi cenni et atti
li fece, in mentre li toccava il polso, che lui molto bene s'avidde quello che essa desiderava
e la confor che presto la farebbe sana e contenta. E dipoi, ordinati alquanti remedi e
chiamato messer Lodovico da canto, li disse che il male della Dianora era quartana e di
mala sorte, e che aveva bisogno d'una essatta cura, e che lui non manche[5r]rebbe di
diligenzia e sollecitudine. Messer Lodovico lo ringraziò e lo pregò che facessi l'uficio suo e
che da lui sarebbe benissimo satisfatto.
E però il medico ogni giorno dua volte, e quando tre, la moglie visitava e li ordinava
quando una unzione, quando un sciroppo, quando una pittima, e simil cose che costavono
e poco operavano; e così fece circa un mese. Et in questo tempo molto meglio comprese
l'amore che la donna gli portava; e con cenni e con parole gli monstrò che non manco ne
portava a lei e che presto la trarrebbe d'affanno.
E chiamato un giorno messer Lodovico in luogo remoto, con una voce piena
d'affezione e gravità, li disse: "Perché io vi ho sempre stimato come padre, non vorrei
usare li medesimi termini con voi e cose vostre, che noi altri medici usiamo comunemente
con li altri. Le quartane sono mali molto lunghi e de' quali e' medici cavono grande
emolumento. Ma Avicenna mette un rimedio molto presto e salutifero, e quando voi vi
disponiate su, io ve lo dirò: e questo è di fare qualche gran paura allo infermo. E la
ragione c'è, molto evidente, perché tali febbre procedono il più delle volte da umori freddi,
e' quali, con cristeri con medicine, si possono muovere, ma il timore grande è
potente che gli manda tutti sottosopra. Ma [5v] bisogna avere gran rispetto che la paura
non fussi di qualità che traessi lo infermo del cervello: e però è necessario che quello a chi
è commesso questa opera, sia e pratico e prudente".
Al iurisconsulto piacque assai questo parlare, come a quello a chi rincresceva la spesa
delle medicine e del medico, e rispose: "Mastro mio, io non so che merito vi possa rendere
di tanta vostra affezione. El rimedio mi piace assai perché è scritto da' vostri dottori et è
secondo la ragione. Ma poiché avete durata tanta fatica, voglio pigliate ancor questa di far
tale paura alla Dianora".
Il mastro si scontorse un poco dicendo: "In verità malvolentieri piglio tale assunto,
ma, per un tanto dottore come voi, son forzato a fare ogni cosa è di bisogno. Dunque in tal
modo operate: domattina, dua ore avanti giorno, io verrò qui et arò meco una pelle d'orso,
la quale mettendomi a dosso, in camera pianamente me n'entrerrò. Il lume in camera sarà
piccolo, et io, come orso, in qua et in andrò saltellando. Lei si desterà e, veduto l'orso e
temendo, comincerà a gridare. Io la lascerò tanto fare così che iudichi a bastanza, e poi
m'uscirò di camera. Ma abbiate avvertenzia che in detta camera non sia alcuno e che, per
romore che lei facci, [6v] nessuno vi entri".
Il dottore approvò tutto; et il medico vicitò la donna e li disse che la mattina seguente
la voleva sanare, accennandoli in modo che, se non in tutto, in gran parte potette pensare
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quello avessi a seguire. E partitosi, una pelle d'orso procacciò. E la sera, d'una buona cena
fornito, a casa messer Lodovico n'andò e, come era dato ordine, con la pelle d'orso vestito
pianamente se n'entrò in camera. E la serva, che di ciò dal padrone era ammaestrata, aveva
notato, l'ordine dato a venir quivi li disse, e però che lui, spogliato, allato a essa si
metterebbe, ma che era necessario che lei del continuo gridassi. Onde, come il mastro gli
fu a canto, cominciò a mettere le maggior grida del mondo; e per una ora che stette seco a
sollazzarsi mai restò. E quando si volle partire, raddoppiava il romore perché la partita gli
doleva. Pure lui, rivestitosi della pelle dell'orso et aperto l'uscio, saltellando fuori di
camera uscì, Et è da pensare che rimanessi con la Dianora in che modo altre volte
s'avessino a trovare insieme: tanto è che da quella ora in qua la quartana non gli tornò, e
messer Lodovico per tutto Bologna ha predicato [6v] il remedio a guarirla».
Io, avendo udito la piacevole novella, mi partì' di quel luogo e, per dilettevole
cammino e piano lungo il fiume del Reno, a buona ora arrivai al Ponte a Reno, distante a
Bologna miglia dua. E, stando sotto una loggia dell'osteria, guardavo che era in molte
parte guasta per la guerra, che l'anno avanti papa Iulio aveva fatto a messer Giovanni
Bentivogli con l'aiuto del re Luigi di Francia, duodecimo di quel nome. Pure si vedevano,
in più parte dell'osteria, dipinte le insegne de' Bentivogli, ancora che fussino in parte
cancellate e guaste. E mentre a questo attendevo, sopravenne il signore dell'osteria, che
veniva di Bologna, e, vedendomi intento a considerare quelle armi e leggere e' brievi che
v'erono sotto, mi disse:
«Tu stimerai forse, vedendo qui tante insegne de' Bentivogli, che io sia stato tutto
partigiano e sviscerato di quella casa, et, acciò non abbi a credere questo, ti voglio dire in
che modo ci sono queste arme. Io mi chiamo Antonio Fantuzzi et ho qui questa osteria con
certe terre intorno, e con questa entrata vivo il più commodamente posso. Et al tempo de'
Bentivogli, attendevo a star quieto e farmi amare a ciascuno e poco travagliare.
Avevo una figlia molto bella, d'età d'anni sedici, la quale ho dipoi maritata, e la
tenevo stretta, e la nutrivo con quelli onesti costumi che sono convenienti alle figlie ben
nate. Non so in che modo di lei [7r] si venissi notizia a Ermes, figliuolo di messer
Giovanni. E fu tanta la insolenzia e bestialità sua che, senza rispetto, mi fece dire a uno suo
fidato che desiderava una sera cenare con essa. Puoi pensare se la proposta mi parve
strana. Pure, sappiendo come si viveva in Bologna e che, faccendo il brusco, andavo alla
manifesta morte onde lui conseguiva più presto la mia figlia, gli risposi che ero per fare
tutto quello voleva, e che la mia figlia era fuori alla villa con una mia sorella, e che subito
manderei per essa, e che mi tornassi a dire quando Ermes voleva fussi la sera della cena,
che sempre mi troverebbe presto a compiacerli. E, partito da lui, a casa me ne tornai e feci,
la sera, delle cose miei migliori più danari potetti, in modo congregai circa ducati cento. E
la mattina, a buona ora, feci vestire la mia figlia di panni d'un mio ragazzo, e montai a
cavallo et a piedi la menai meco. E quando fui lontano da Bologna un miglio, me la messi
in groppa e, quanto ppresto potetti, a Modona e poi a Reggio mi condussi. Intesesi in
Bologna intra pochi come ero partito con la figlia, onde Ermes, infuriato, fece confiscare
tutti li miei beni per e' Bentivogli, et in questa osteria ordinò fussino dipinte tante loro
arme quante ci vedi, le quale, io come la rassetto un poco, tutte le farò cancellare».
9
Le parole d'Antonio mi monstrorno che questo Ermes fussi uomo di pessima [7v]
qualità come altre volte avevo inteso. E che nell'anno MDI, quando il duca Valentino cercò
di cacciare messer Giovanni di stato (e per condurre questo effetto tenne pratica con più
gentiluomini bolognesi e tra li altri con messer Agamennone Mariscotti) e, non vedendo
modo detto Duca che il suo pensiero gli potessi riuscire, perché li Orsini e Vitelli si
opposono a questa sua fantasia, per mettere scandolo in Bologna e farla più debile, rivelò a
messer Giovanni quelli con chi aveva tenuto pratica: e' quali furono tutti presi et
incarcerati. E pensando messer Giovanni in che modo li dovessi far morire, Ermes con
alcuni suoi compagni, armati, andorono a il luogo ove erono ritenuti e tutti in pezzi gli
tagliorono: cosa aliena dalla religione et umanità, perché, se bene per salvare lo stato è
conveniente amazzare li nimici, si debbe fare, massime quando sono presi, per via della
iustizia e con quelle cerimonie et ordini che si ricercono.
Stetti la sera al Ponte a Reno e la mattina, dua ore avanti giorno, cavalcai tanto che
giunsi a desinare a un luogo detto Buomporto in Ferrarese, posto in sul fiume del Panaro.
Mentre desinavo, entrò nella stanza dove ero, uno giovane con una fanciulletta assai bella
e galante, e quivi la lasciò tanto che andassi per la villa, cercando di provedersi d'una
bestia. E, sendo lei rimasta sola, la domandai d'onde fussi e che appartenessi al giovane
che quivi l'avea lasciata. Lei mi disse essere [8r] nata in una villa vicina a Firenze, chiamata
Rovezzano, e che il padre era tessitore di panni lini e che teneva sempre in casa quattro o
sei lavoranti. Aveva avuto moglie e di quella non li era nato altri figliuoli che lei. E
morendo detta moglie, il padre ne prese una altra. La quale, cominciando avere figliuoli,
come il più delle volte usano fare le matrigne, a lei, che Caterina aveva nome, tanto odio
pose che non restava mai di gridare seco e, che era peggio, di batterla in modo che il vivere
li era rincresciuto. E parlando un giorno con questo che la guidava, che era lavorante del
padre, lo pregò che fussi contento partire di quivi e menarla seco. E lui, benché stessi
alquanto renitente, alla fine s'accordò. E l'aveva condotta con grande onestà, né sapeva
quello s'avessi a fare per l'avvenire: ma, facessi quello volessi, era contenta d'essere uscita
delle mani del diavolo, che era sua matrigna. Tornò intanto l'uomo suo et, avendo trovata
una bestia che la conducessi insino a Mantova, si partì. Et io, riposatomi alquanto, feci il
simile.
E considerai nel cavalcare che, ancora che il paese monstrassi essere fertile di grano e
vino, aveva grande incommodità d'acqua. E tutto giorno riscontrai carri che ne portavono
a' luoghi dove n'era mancamento, e la traevono del fiume, [8v] el quale era tutto pieno
d'uomini e donne, chi per lavarsi e chi per trarne acqua e portarla alle loro abitazioni lungi
cinque o sei miglia.
La sera mi fermai alla Mirandola, castello che n'era allora signore il conte Lodovico,
uomo nell'arme riputato assai. E come intese ero all'osteria, venne là e, con una cortese
forza, nella fortezza dove abitava mi condusse. E fatta ordinare la cena, come a un tale
signore si richiedeva, et a lungo parlatomi della diferenzia aveva avuto col conte
Giovanfrancesco suo fratello, e come n'era suto causa principale uno fiorentino, chiamato
Pietro Bernardo che seminava certa nuova religione, e come lui lo aveva fatto ardere, e
perché era gla cena finita, mi menò a una finestra che in una piazza fuori della terra
10
guardava. E mi disse, monstrandomi un luogo, che quivi era suto arso Pietro Bernardo. E
sappiendo io che erono dua anni, o più, che era suto morto e vedendo in quel luogo el
segno del fuoco quasi d'un giorno, stetti ammirato e dimandai il signore della causa. Lui
disse:
«Iermattina in cotesto medesimo luogo il nostro potestà fece ardere una donna, la
quale aveva commesso tanti delitti che so rimmarrai attonito a udirli. Sono circa anni dieci
che in questa nostra terra morì la donna a uno notaro, domandato Antonio [9r] Crivello, el
quale, per essere sufficiente procuratore et avere avuto assai buona dota, era ricco. Riprese
moglie una da San Felice, castello qui vicino, che aveva nome Simona, d'età d'anni venti: e
lui n'aveva circa quarantacinque! La quale, conoscendo che il marito non era atto a
scuoterla come arebbe voluto, s'ingegnò in qualunque modo cavarli le sua voglie. E
quando il contadino e quando il servitore o vetturale adoperò. Et avendo già avuto una
figliuola, pensò che meglio potrebbe la sua sfrenata libidine mandare ad effetto se sanza
marito restassi e nondimeno potessi disporre della roba del notaro. E considerò che,
quando il marito morissi senza fare testamento, la roba restava alla figliuola, e che a essa
apparteneva esserne tutrice, in modo che ne potrebbe fare in gran parte la sua volontà.
Il notaio nel principio che la tolse, attendendo a procurare, de' disonesti portamenti
suoi non s'accorgeva; ma nel processo del tempo vidde certi segni che lo feciono dubitare e
stare di mala voglia. E quello che gli dava più molestia era che, oltre allo essere libidinosa,
era tanto strana e ritrosa che mai restava di gridare et imperversare, e col marito e con
ognuno di casa, di qualità che il notario non aveva mai una ora di quiete, in modo che
ammalò.
[9v] Et allora parve alla donna che fussi venuto il tempo di colorire il disegno suo. E
subito n'andò da un medico suo vicino, col quale aveva avuto qualche pratica, e li disse:
"Mastro, io userò poche parole, perché sappi che noi ci conosciamo, e so che hai necessità
di guadagnare et io di levarmi davanti il mio marito, el quale è malato. E per le miei
persuasione chiamerà te alla cura sua e, se tu li dai una medicina che lo conduca alla
morte, io ti donerò cinquanta ducati e la cosa sarà secretissima, e con essi potrai maritare la
tua figliuola, et ancora aremo facilità di darci qualche volta buon tempo insieme".
Il medico, che era non manco tristo che bisognoso, accettò l'offerta. E, chiamato la
sera allo infermo e considerata la infermità, disse che li ordinerebbe una medicina che
presto lo sanerebbe. E per monstrare essere più diligente et amorevole, disse che
piglierebbe a fare l'uficio dello speziale e che la mattina a buona ora la verrebbe a
comporre. E cosí, avanti che fussi giorno, a casa lo infermo se ne venne e con suoi
mortaietti ordinò la venenosa pozione e, messala in un bicchiere d'argento, s'accostava al
letto del notaro per dargnene.
Quivi era presente la Simona con altri parenti la quale, [10r] pensando se poteva
privare in un medesimo tempo il medico di vita come il marito e così essere libera dalla
promessa delli cinquanta ducati et accostatasi al mastro, li disse: "Tu debbi sapere che io
non ho cosa alcuna in questo mondo più cara che il mio marito. Però intendo che avanti li
dia questa medicina ne facci saggio e ne bea più d'un sorso perché, non avendo Antonio
figli maschi, so che ci sono di quelli che disegnono in su la roba sua e so ancora che si
truovano di medici che tengono mano a simili sceleratezze, ancora che io non creda che tu
sia di quelli".
11
Il medico, giunto a questo stretto, potendo con ragione negarli tal richiesta,
deliberò fare il saggio e poi partirsi e pigliare di quelli rimedi che si danno contro al
veneno. La Simona volle vedere quando faceva il saggio e poi consentì la dessi al marito. Il
medico, subito che l'ebbe data, si sarebbe voluto partire, ma lei lo intratteneva con parole,
domandandolo a che ora aveva a dar mangiare al marito e molte altre cose simili. Poi
aveva serrato con chiave l'uscio della camera e tutti li altri usci in modo che, avanti che il
medico si potessi partire, il veneno s'era già diffuso per tutto il corpo. Onde lui, giunto a
casa, conobbe subito la [10v] morte esserli vicina. E chiamata la moglie, li disse quello li
era accaduto, e quello che l'aveva indotto a errare era suto il desiderio di maritare la
figliuola, e come lui fussi morto andassi dalla Simona e li dimandassi li cinquanta ducati
minacciandola che, quando non li avessi, farebbe noto il caso. Et in queste parole si morì. Il
notaio, che aveva presa la pozione intera, non visse dopo l'ebbe in corpo una ora e la
Simona restò della roba dominatrice come aveva disegnato.
passorno dua giorni che la donna del medico, chiamata Antonia, ne venne a lei, e
la cosa per ordine li contò e richiesela della promessa. La Simona gli fe' buona accoglienzia
e monstrò dolerli della morte del medico; e li disse che gli voleva osservare la promessa
come era iusto, ma che desidererebbe avere un pochetto di quello veneno perché ancora
aveva d'adoperarlo; e però che venissi la mattina sequente e menassi la figlia e li portassi il
veneno, e che darebbe loro desinare e poi li cinquanta ducati.
L'Antonia, la mattina sequente, preso un poco del veneno in una scatoletta, con la
figlia a casa la Simona ne andò, et il veneno gli dette. Il quale non prima ebbe avuto che in
cucina [11r] corse, et in su certe vivande una parte ne messe, le quali ordinò fussino poste
avanti alle forestiere per onorarle. E fu potente il veneno che la figlia del medico, avanti
avessi finito di desinare, a tavola morì. L'Antonia, del caso avveduta e conoscendosi
presso alla morte, di casa s'uscì et, appresentatasi al potestà, il caso per ordine gli narrò, et
avanti a lui si morì. Il potestà, fatta pigliare la Simona, il tutto da lei inteso, al fuoco la
condennò, et iermattina se ne fece l'essecuzione».
Parvemi il caso orrendo e, ringraziato il signore dell'onore m'aveva fatto et
offertomeli, all'osteria a dormire me ne tornai. E la mattina seguitai il mio cammino e mi
posai a desinare a Revero, villetta posta in Mantovano in su la riva del Po a rincontro
d'Ostia. Trovai nell'osteria, dove alloggiai, uno canonico da Trento che andava a Roma per
espedire certe sue bolle; e con lui di più cose, ancora che non molto esperto fussi, ragionai;
et insieme mangiammo.
Dopo il mangiare, comparse l'oste, uomo di buona presenzia e di molte parole, e
disse che nella villa erano de' gentiluomini mantovani e che era loro costume ridursi pel
caldo a sollazzarsi in quella osteria con carte o dadi. Io li risposi che non sapevo giucare,
[11v] ma che starei a vedere volentieri. Il canonico disse che ce li facessi venire. Partito
l'oste, io dissi al messere che non sapevo come lui fussi pratico a ire a torno, ma che in su
queste osterie sogliono il più delle volte usare bari. Lui rispose che non dubitava e che
giucava a passa dieci, che era giuoco semplice, e che sempre portava dadi da per non
essere ingannato.
Mentre parlavammo, comparse l'oste con dua, vestiti di drappo di seta. E, secondo
dicevono, l'uno era gentiluomo mantovano nobile e ricco, l'altro, più giovane, cameriere
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del Marchese; et erono venuti quivi a sollazzo per qualche giorno per passare il caldo, et
invitorno il canonico a giucare. Lui disse che non giucava che a passa dieci e che aveva
dadi da sé, e così furono d'accordo. E giucava il canonico e li duoi mantovani e facevono
d'un marcello per posta. Giucorno una ora e variava poco la sorte; pure il messere perdeva
circa dua ducati in modo che quello mantovano più vecchio, avvedutosi che il canonico
perdeva e che gli doleva e che bisognava stessi, si lasciò cadere tutti e' dadi sotto la tavola.
Il palco era tristo onde, nel cadere, se ne perderono dua in modo che il mantovano disse
che, non vi sendo dadi, si poteva [12r] lasciare il giuoco. Il messere che perdeva fece
domandare dadi all'oste, il quale ne fece mettere in tavola circa venti. E con essi di nuovo
cominciorno il giuoco e facevono le poste maggiore, et il canonico poche ne vinceva. Io,
che stavo a vedere, rivolgevo e' dadi che erano da canto in su la tavola e mi avviddi che
certi avevono dua sei e certi dua assi e, quando il messere aveva a trarre, che raro li
accadeva, li mettevano avanti un dado che avessi dua assi, quando avevono a trarre loro,
ne pigliavono uno che avessi dua sei. Io, accortomi di questo, al canonico mi accostai e
tanto lo toccai che si levò da giuoco con perdita, però, di ducati dieci. Et avendomi
riserbato alcuni di quelli dadi, fingendo fussino caduti dopo la partita de' mantovani, al
messere li monstrai col farmi promettere che non ne parlassi insino non fussi partito che
non volevo, mentre ero quivi, si facessi romore. Lui conobbe l'errore suo e serbò li dadi li
avevo dati. Et io, perché era vespro, m'imbarcai per passare il Po, so quello che il
messere con l'oste e mantovani si facessi. Sentì' bene, mentre passavo il fiume, nell'osteria
grida e tumulto.
Il dì, per essere il caldo grandissimo, cavalcai poco et alloggiai a una osterietta in
Veronese, luogo detto Ronconuovo. Erono quivi fermi certi tedeschi che a piè da Roma
venivono, [12v] co' quali era uno dello Reno che aveva aspetto d'uomo da bene; il quale
diceva essere stato più anni col <cardinale di San Malò> e che aiutava scrivere a uno suo
secretario. E domandandolo io perché s'era partito, rispose :
«Se tu mi domandi la causa che mi fa partire da Roma, ti dirò che noi dello Reno
siamo buoni cristiani, et abbiamo udito e letto la fede di Cristo essere fondata col sangue
de' martiri in su buoni costumi, conroborata con tanti miracoli, in modo che sarebbe
impossibile che uno dello Reno dubitassi della fede. Io sono stato a Roma più anni et ho
visto la vita che tengono e' prelati e li altri, di qualità che io dubitavo, standovi più, non
che perdere la fede di Cristo, ma di diventare epicuro e tenere l'anima mortale. Se mi
domandi perché io mi sia partito dal mio patrone, te la dirò. Ma ti priego non mi tenga
maligno se lo biasimo, come sogliono il più delle volte essere tenuti quelli che biasimono i
patroni, perché non li darò calunnia alcuna che non sia vera e che, avendomi trattato come
ha, non sia conveniente. E per darti vera notizia della qualità e vita sua sarò un poco
lungo, ma sendo tu fiorentino, come ho inteso, credo che questo [13r] mio parlare non
t'abbi a dare fastidio.
Lui ha nome <Guglielmo Brissonetto> e nacque in Francia in uno villaggio presso a
Torsì tanto vilmente quanto sia possibile. E crescendo si pose con un mercante di Parigi
per aiutare al famiglio di stalla. Poi cominciò andare col padrone alle fiere di Lione, e,
sendo già fatto uomo et assai bello, tentò la patrona d'amore, la quale li acconsentì. E così
convennono insieme che, dato il veneno al marito, pigliassi poi lui. Et intra non molto
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tempo detto marito si morì o di veneno o d'altro, non si sa. Basta: che <Guglielmo> diventò
marito della donna e padrone della roba et, intra duoi anni, e' figliuoli dell'altro marito o
morirono o, per fuggire le battiture, si messono andare a torno pel mondo, eccetto una
femmina che rimase a presso la matre. E <Guglielmo> seguiva le sue mercantie, o vogliam
dire usure, e del continuo era alle fiere di Lione, et ingannando questo e quello con giuri e
spergiuri e cedole e contratti falsi, ogni giorno diventava più ricco.
Et essendo morto il re Luigi undecimo e succedendo Carlo che era giovanetto, lui
cominciò a praticare la corte e spesso portare avanti a il Re nuove fogge di drappi d'oro e
di seta, [13v] in modo che li cominciò a esser grato e gli pose tanto amore che non voleva si
partissi di corte. E venendo una volta a Parigi et essendo in età d'anni diciotto, vidde la
figliastra di <Guglielmo> che era eccellentissima di bellezza. E, cominciandola a guardare,
<Guglielmo>, che li era appresso, se n'accorse e tanto operò e con la moglie, che era sua
madre, e con la figlia, che il Re possette pigliare di lei quello piacere che volle. E con questa
arte venne tanto in grazia al Re, che poteva quello che voleva. E conoscendosi vile e da
non potere ottenere stati temporali dal Re, pendi diventare uomo di chiesa. E perché la
moglie a questo obstava, con veneno se la le davanti, avendo avuto d'essa più figli
maschi e femmine. Et in poco tempo sendo diventato prete, ottenne dal Re e vescovadi e
badie di qualità che aveva grossa entrata.
E pensando il modo a potere ragunare somma di danari presto, occorse che il signore
Lodovico Sforza, governatore di Milano, a qualche proposito ricercò il re Carlo che dovessi
passare in Italia all'acquisto del Regno di Napoli. E non trovando disposizione innel Re
tra li più savi signori di Francia, fece tentare <Guglielmo Brissonetto> che, per essere
diventato vescovo, <da tutti di San Malò> era chiamato. Il quale, conoscendo che da detto
signore era per trarre, [14r] e così poi dalle Repubbliche e Signori d'Italia quando seguissi
la vittoria, non considerando quello potessi succedere quando caso avverso venissi e
stimando p un ducato che potessi guadagnare in sua proprietà, che un milione che
potessi avere di danno la Francia, e postponendo all'utile suo ogni vergogna che potessi
avere il Re, gagliardamente lo cominciò a confortare all'impresa d'Italia. E furono tante le
sue persuasione che, contro alla volon de' più savi signori di Francia, la impresa si
deliberò, e ne seguì lo effetto che è noto a molti; e per esser cardinale concluse con papa
Alessandro quello accordo che lui seppe dimandare. Et a voi Fiorentini con varie arte tolse
de' ducati cinquantamila per e, quando stimavi che vi facessi rendere Pisa, confortò e'
Pisani a difendersi e, con li vostri danari, forla fortezza di quello gli mancava. Et aveva
condotto il suo Re in luogo a Fornuovo per li danari li avevono dati e' Veniziani che, se
non fussi stata la virtù de' suoi, rimaneva prigione; nondimeno sendo suto vittorioso, lo
condusse a fare ignominiosa pace.
E parendoli dipoi che il duca Lodovico non lo tributassi a modo suo, di nuovo
persuase il Re a muoverli guerra. Ma come il Duca gli donò ducati venticinquemila, messe
sospetto al Re dell'Imperatore et ogni cosa tornò in fummo. Onde indignati contra lui, la
gran parte delli signori [14v] di Francia deliberorno far noto al Re gl'inganni che li faceva
San Malò, et in che precipizio lo conduceva. Ma lui, accortosi di questo e temendo l'ira del
Re, fece venire in corte la figliastra e con essa si compose che nel coito avenenassi il Re, il
che, secondo li medici, si può fare facilmente. E se ne vidde la esperienzia, perché il Re
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dormì con lei la notte, e non fu levato di quattro ore che cominciò a essere malato
gravemente, et avanti che fussi sera finì li giorni suoi.
Dopo la morte del quale, pervenne il Regno al re Luigi duodecimo, a chi San Malò
subito persuase che era bene che lo lasciassi ire a Roma perché potrebbe in molte cose
giovare et a lui et al regno di Francia. Ma il prudente Re non volle acconsentirgli; onde per
averlo propizio, gli donò nel principio del suo regno ducati trentamila e nondimeno il Re
non volle che stessi in corte.
E lui se n'andò a un suo vescovado e quivi stette qualche anno quasi ascoso, et attese
a scorticare li poveri preti della sua diocesi e fece in quella cose nefande, che il popolo
una volta corse al vescovado per amazzarlo, ma lui se ne fuggì per certe vie ascose. E con
gran fatica ottenne dal Re di venire a Roma, dove io m'acconciai con lui per aiutare
scrivere a il suo secretario, et altro non mi dava che le spese. Pure [15r] stavo con lui
sperando m'aiutassi spedire qualche beneficio sanza spesa.
Et ero stato seco già dua anni, quando ebbi nuove che nel mio paese era vacata una
prioria di rendita di circa a ducati quaranta. Andai da esso e lo pregai me la facessi
espedire. E come ebbe inteso il titolo del beneficio e la diocesi, lo fece conferire a e
n'espedì le bolle, dicendo averlo fatto per fuggire la spesa e che me lo rinunzierebbe a
posta mia. Ma io, avendolo più volte ricerco di questa rinunzia e perdutoli tempo adrieto
uno anno o più, mi sono avvisto che lo voleva tenere per sé: e però mi son partito da lui, e
mi pare d'essere stato ingannato et assassinato.
Ma chi avessi considerato la vita teneva in Roma, si poteva persuadere d'esso questo
e peggio. Mai diceva officio, mai pensava se non a fare ordinare vivande e cercare di buon
vini e tanto ne ingurgitava, che spesso diventava ebbro e diceva le maggior pazzie del
mondo. E benché per volessi mangiar bene e bere meglio, la famiglia faceva stentare e
voleva si digiunassi con vigilie che mai furono comandate. Se gli capitava prete alcuno alle
mani, di Francia, per espedire qualche beneficio, tutti gli trattava come me. E, per farti
conclusione, non credo che da cento anni [15v] in qua sia vivuto il più compiuto uomo in
ogni vizio che è il <cardinale di San Malò>, e de' medesimi vizi, ne' quali lui è sommerso
insino sopra e' capelli, danni li altri, superbo più che Lucifero, inimico a tutti li uomini e
massime agl'Italiani. E mi sono maravigliato della viltà di voi Fiorentini che, avendovi
fatto tante iniurie quanto ha, che in fatto tutto il male che avete avuto dalla venuta del re
Carlo in qua e che siete per avere è proceduto da lui, non vi siate mossi popularmente,
quando è passato per la città vostra, a estinguere e levare di terra uno uomo tanto
detestando quanto è lui. E se l'avessi fatto, e' Franzesi medesimi ve n'arebbono avuto buon
grado: ma spero che Iddio abbi a fare quello non hanno ancora fatto li uomini».
Io, vedendo il prete acceso in biasimare San Malò, parendomi l'ora tarda, a dormire
me n'andai. E la mattina, quando fui a Isola della Scala, presi il cammino alla mano
sinistra, perché non volevo passare per Verona, e mi fermai a una piccola osteria fuori di
strada, che si chiamava Beccacivetta. E quivi oltre all'oste, trovai uno che si stava fitto in
un canto tutto mesto e non restava di querelarsi, e battersi le mani. Domandà'lo della
causa di tanta sua afflizione.
Lui disse: «Io te la narrerò volentieri e se l'odi non [16r] ti maraviglierai del mio
dolore. Io sono stato servo di dua fratelli gentiluomini veronesi molto ricchi, e' quali hanno
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qui a torno le loro possessioni, et io ne ho cura. Ma è intervenuto questo anno al maggiore
di loro il più strano caso del mondo ché è stato morto, et il modo ti dirò. Erono dua fratelli
chiamato l'uno Iulio, l'altro Antonio Celsi. Questo Antonio è fanciulletto, credo non
abbi ancora anni dodici. Iulio, sendo molto ricco e gentile e d'età d'anni venti, una bella
figlia prese per donna, chiamata Lucrezia, la quale gran tempo era suta amata da uno altro
gentiluomo veronese detto Tiberio, et arebbela voluta per moglie. Ma per che causa si
fussi, e' parenti della fanciulla la vollono più presto dare a Iulio mio patrone. Tiberio fu
molto dolente di questo parentado, nondimeno prese per partito di monstrare di non se ne
curare. Et essendo prima amico di Iulio, si dimonstrava amicissimo e si sforzava accrescere
la familiarità et amicizia. Iulio menò la donna a casa e, come giovane liberale e ricco, ogni
dì faceva conviti et intratteneva, intra li altri, molto questo Tiberio, stimando li fussi amico
vero e fidato. Et ogni giorno cavalcavono insieme a piacere et a caccia, e non pareva
potessino vivere l'uno sanza l'altro.
Occorse che il verno passato Iulio ordinò di fare una caccia a' cinghiali su alto nella
valle dell'Adice, e Tiberio volle ire in sua compagnia. Ordinasi la caccia, viene il giorno
deputato e Tiberio [16v] da Iulio ma' si partiva. Lievasi un porco, Iulio lo segue e Tiberio il
medesimo. Iulio viene alle mani col porco, et allora Tiberio che lo vidde impedito, d'uno
spuntone avea in mano, nella coscia ritta gli dette e lasciollo in preda al porco. El quale,
trovandolo debile per la gran ferita, poco penò a spacciarlo in tutto. Era gnotte. Suonasi
a raccolta et Iulio non torna: Tiberio monstra averne gran passione. Pure, dopo che i
compagni l'ebbono cerco gran pezzo di notte, lo ritrovorono morto e credettono fussi stato
ucciso dal cinghiale. La novella venne in Verona e ciascuno universalmente ne fu dolente,
ma sopra ogni altri la misera Lucrezia sua donna, la quale sparse assai lacrime e grida
sopra il corpo del morto marito. E poi che furono fatte l'essequie, dì notte restava di
piangere et affliggersi.
Tiberio, in capo d'otto giorni, quando pensò che il dolore fussi alquanto mitigato,
come amico del marito l'andò a vicitare. E non trovando la donna altrimenti disposta non
pensava, non usò altre parole che generale e consolatorie. Adoperò ben poi certa donna
per la quale fece intendere alla Lucrezia che un gentiluomo l'amava non dicendo il nome.
Ma la Lucrezia con detta donna si scandalezzò e la minacciò assai.
Era Iulio d'un mese morto e fatte tutte le cerimonie che s'usano fare in simili casi,
[17r] quando una notte alla Lucrezia che dormiva, apparve ferito e tutto insanguinato, et a
punto come era seguita la morte sua li narra, e che si guardassi che Tiberio non ingannassi
lei, come aveva fatto lui, e disparve.
La Lucrezia, inteso il caso, con virile animo il marito terminò vendicare e cominciò a
prestare orecchi alla donna che li aveva parlato et a Tiberio far buon viso, di qualità che la
messaggiera, preso animo, l'amore che Tiberio gli portava gli scoperse. Di che la Lucrezia
monstrandosi lieta, la sera che da lei dovessi venire compose et, ordinato un pasto glorioso
e vini eccellenti, aspettò la sera Tiberio. Il quale venuto e cominciando molto bene a
mangiare e bere, sendo il vino un poco oppiato, non ebbe a pena finita la cena, che
s'addormentò. La donna fattolo mettere in un letto, quando lo vidde profondato nel sonno,
con uno ago tutt'a dua li occhi gli trasse e, serrata molto bene la camera, di quella s'uscì. E
come fu giorno, andatosene alla sepoltura del marito e quivi come fussi successa la morte
d'esso narrato, se stessa con un coltello uccise. Il misero Tiberio, sendo privato delli occhi
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et il caso già vulgato per Verona, fu preso dalla famiglia del potestà et essaminato.
Confessando, fu punito di pena capitale».
Stetti a udire il servo con attenzione et il caso mi parve crudele, e lo confortai con
quelle parole mi occorsono e poi montai a cavallo. [17v]
E per la pianura di Verona
cavalcando, lasciai la città a man destra, et ebbi per male non la poter vedere, perché intesi
quella esser bellissima, abondante di popolo, piena d'arte. Ha el fiume dell'Adice che
passa per mezzo d'essa; ha contado fertile di grano, vino e d'olio che in Lombardia è cosa
rara; ha belle fortezze in poggio et in piano. Guardà'la di fuori il più possetti e, così
guardando, a Ossolengo mi condussi, castello in su l'Adice, distante a Verona miglia sei.
Smontato all'osteria et alquanto rinfrescatomi, perché era assai buona ora, davanti
alla porta d'essa mi posi a sedere che era in sulla piazza del Castello. Quivi era uno in su
una banca che s'avea congregato un gran cerchio tra uomini e donne, e diceva andare al
beato Simone a Trento per voto, e che per sua grazia era scampato in Bologna dalle forche,
alle quale quattro avanti era suto appiccato, e che il capestro s'era rotto e lui scappato, e
la causa diceva perché era servitore d'un gentiluomo bolognese, sospetto a il legato. Io che
ero passato a canto a Bologna di tre avanti e nulla di tal caso avevo sentito, stavo
ammirato e massime perché lui, da poveri uomini, raguuna buona somma di danari. E
quando ebbe colto l'agresto a suo modo, smontò della banca e ne venne all'osteria per fare
un buono pasto. E perché quivi non erano altri forastieri che lui et io, lo domandai come
aveva carpiti danari. [18r] E così, tirando l'una parola l'altra, lui domandò me donde
venivo. E come intese ero passato presso a Bologna mi disse:
«Uomo da bene, io ho quaranta anni e sono da Pescara nel Reame; e sono vissuto con
questi modi anni venti; e non fui impiccato a Bologna ancor che forse lo meritassi. Ma che
bisogna parlare? Io non ho altra arte: con questa vivo, e vivo bene, che voglio sempre le
miglior cose truovo in sull'osterie, e questa sera spenderò almanco dua marcelli. E quando
uso un modo da trarre danari e quando un altro: stravolgomi e' piedi, le braccia, la bocca;
quando fingo esser cieco, quando piagato; e muto spesso luoghi. E perché io so che
t'accorgesti poco fa mentivo per la gola, t'ho scoperto il vero e ti priego di questa cosa:
questa sera non parli. Doman poi muterò paese e cercherò ventura».
Promessili tacere e pensai intra me medesimo con quanti modi, con quante astuzie,
con quante varie arte, con quale industria uno uomo s'ingegna ingannare l'altro. E per
questa variazione, il mondo si fa più bello: il cervello di questo si fa acuto a trovare arte
nuova per fraudare e quello d'un altro si fa sottile per guardarsene. Et in effetto tutto il
mondo è ciurmeria; e comincia a' religiosi, e va discorrendo ne' iurisconsulti, ne' medici,
nelli astrologi, ne' principi secolari, in quelli che sono loro a torno, in tutte l'arte et
essercizi; e di giorno in giorno ogni cosa più s'assottiglia et affina.
[18v] Stetti la sera a Ossolengo e la mattina per tempo in su una barca passai l'Adice
e, su per la valle d'esso, verso Trento cominciai a cavalcare. El fiume dell'Adice è molto
rapido e grosso, e massime quando le neve si struggono. Ero ito circa miglia sette e trovai
la Chiusa che è un luogo in su l'Adice el quale e' Veniziani guardano, perché è passo forte.
L'Adice ha in quel luogo da ogni banda le ripe tagliate et alte, dalla man destra è solo tanta
via che duoi cavalli insieme hanno fatica d'andarvi. Questo luogo e' Veniziani hanno
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chiuso con due porte, l'una di sopra e l'altra di sotto; e nelle rotture del monte hanno fatto
certe piccole stanzette, dove possino stare fanti a difendere dette porte. Et a qualunque
passa a piè o a cavallo fanno pagare un dazio e di questo emolumento pagano dette
guardie. Passai quel luogo e, pure in su l'Adice, al Borghetto mi fermai, dove trovai uno
oste tedesco molto piacevole. E per essere il caldo grande et il luogo fresco, vi stetti molte
ore a piacere. Era venerdì, e però l'oste providde di più sorte pesci dell'Adice.
Era nell'osteria un vecchio veniziano che avea aria di buon compagno et entrando
meco in ragionamento mi disse:
«Perché tu mi pari uomo da bene ti voglio dire, benché non me ne domandi, forse per
più cortesia, la causa perché sto qui. Io mi chiamo [19r] Pietro e sono antico popolano di
Venezia, e l'arte mia era esser libraro e, come tu vedi, sono assai bene oltre con li anni.
Pure non è molto tempo che io tolsi una bella fanciulla bergamasca per donna, nominata
Smeralda, la quale non era conveniente all'età mia, ma mi piaceva, et il padre me la dava
volentieri, e mi volli contentare. E parvemi, da principio, l'avere questa fanciulla la più
dolce cosa del mondo e del continuo con essa mi trastullavo, e lei mai si spiccava da me.
Ma io, sendo vecchio, non potetti reggere molto a tal vita e cominciai a diradare, onde lei
pensò con altri trarsi piacere.
In botega mia, come accade a un libraro, usavano del continuo assai giovani, e
gentiluomini et altri; et in quel medesimo luogo dove facevo la botega era l'abitazione mia
ordinaria. Et intra li altri vi praticava molto spesso uno giovane gentiluomo bello, galante
e ricco, chiamato Achille Trevisano. A questo la Smeralda mia messe l'occhio a dosso, e lui
a essa, onde io, che per l'età ero assai esperto, di qualcosa mi accorsi. Ma vietare a messer
Achille l'usare in botega mia, era cercare di perdere la vita e la roba, che così usano fare e'
gentiluomini, che di noi altri popolari sono crudeli tiranni: e però comandai alla mia
donna non venissi più in botega. Lui conobbe questo e con una serva tenevo, la quale
stimavo molto fidata, ebbe mezzo di mandare imbasciate alla Smeralda. E convennono
[19v] in modo che più volte in casa mia, in su l'ora che avevo più faccende in botega,
insieme si trovorno. Io, vedendo messer Achille non esser frequente in bottega all'ora
solita, cominciai a dubitare. Et un giorno deliberai vedere se fussi vero quello di che avevo
dubbio e volli andare di sopra, ma trovai chiuso l'uscio che di botega montava alle stanze
da alto. Andai alla porta di rietro per la quale saliva messer Achille e vi trovai uno suo
schiavo a guardia. Pensai vendicarmene sanza romore e, tornato piano adrietro, a un
fanciullo che avevo in botega ordinai che dicessi allo schiavo che messer Domenico
Trevisano, fratel maggiore d'Achille, diceva che andassi da lui in Rialto, quivi vicino, e che
gli voleva dire una parola e subito tornerebbe. Lo schiavo andò e l'uscio rimase sanza
guardia. Io subito presi dua giovani che stavano meco et armati corremmo su e trovammo
messer Achille e la Smeralda in sul letto che si davano piacere. Fecigli pigliare e legare e li
tenni così tutta notte e rassettai più della roba mia in danari che potetti. E la mattina,
avanti giorno, legai in bottega mia messer Achille nudo e la donna in camicia. E quando fu
ora che da ciascuno potessino essere visti, feci aprire la botega e mi fuggì' in su una
gondola avevo preparato lor e me n'andai a Triesti dove intesi che [20r] li cavi de' Dieci,
inteso il caso, avevono preso tutta la roba mia et alla Smeralda dati ducati dugento e
mandata al padre. Tutto il resto avevono messo in sul monte di S. Marco e me avevono
confinato in questo luogo per anni dieci e, quando non osservassi, tutti li miei beni
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diventassino di messer Achille. Et io voglio osservare acciò che lui non goda le mie fatiche,
che ho d'entrata in su S. Marco ducento ducati l'anno. E già ho passati quattro anni di
confino più dolcemente ho potuto, e così spero fare il resto».
Iudicai per le parole del libraro che lui della donna e di messer <Achille> sanza
crudeltà si fussi vendicato. E perché, come dissi di sopra, l'oste mi pareva buon compagno,
mi lasciai consigliare a lui dove dovevo andare la sera et a che oste. E copartendomi dal
libraro e da esso, e cavalcando sempre lungo l'Adice, arrivai a Rovereto, castello de'
Veniziani, e scavalcai a una osteria nel borgo verso Trento.
L'oste mi ricevé volentieri e, mentre che li cavalli s'assettavano, mi disse: «Uomo da
bene, tu m'arai escusato se io non ti tratterò come sono solito trattare li altri pari tuoi. E'
forestieri solevano alloggiare meglio in questa osteria che in altra che fussi di qua a Roma;
ma ti voglio dire la causa perché la casa, come vedi, in gran parte è guasta e le masserizie
sono sute tolte et ogni cosa è ito in ruina. Tu debbi sapere che non sono ancora dua mesi
che il re di Francia molto gagliardamente espugnò Genova. Questa gran vittoria dette
che pensare a' nostri Signori [20v] Veniziani temendo che il Re, succedendoli le cose
prospere, non procedessi e contro a loro e contro a tutta Italia; et iudicorno fussi bene
metterli qualche sospetto dell'Imperatore. E perché si credessi che lui dovessi fare presto la
impresa d'Italia, feciono venire insino qui cinquecento fanti tedeschi, benché dessino voce
di mille; e se bene si diceva che lo Imperatore gli pagava, in fatto credo gli pagassino loro.
E li alloggiorono tutti fuori del castello in questo borgo, et in questa casa, che è qui a canto,
alloggiò il capo d'essi chiamato messer Giorgio da Nuistat.
Questo messer Giorgio, mentre veniva in qua con la sua compagnia, si fermò un
giorno a Sterzing, luogo lontano di qua quattro giornate, dove, andando in là, potrai
passare. Et a caso alloggiò in una osteria dove era una bella figlia, detta Magdalena, sorella
carnale, o vero cugina dell'oste, la quale li piacque oltre a modo. Et adoperò tanto con
l'oste e con minacci e con prieghi e con promesse e danari, che lui fu contento ne la
menassi. Et a mezza notte la prese contra sua voglia, e la condusse qui. Di questa
Magdalena era innamorato uno giovanetto, gentiluomo del contado di Tirolo, chiamato
messer Arrigo da Serantaner, e, per l'amore gli portava, aveva preso casa nel borgo di
Sterzing e quivi consumava tutta la sua entrata che non era poca. E la fanciulla era
innamorata di lui et attendevono, più celatamente [21r] era possibile, a darsi buon tempo.
La mattina s'intese pel borgo come la Magdalena era suta menata via da messer
Giorgio e ciascuno ne fu dolente, ma massime messer Arrigo il quale rimase tutto attonito
e come insensato. Ma aveva tra li altri servitori uno chiamato Gaspar il quale molto
l'amava e sapeva tutto questo amore della Magdalena. Il quale, vedendo il padrone in
tanta mestizia, gli disse: "Padrone, io voglio andar drieto alla Magdalena et intra pochi
giorni la ritroverrò e te ne darò notizia; e troveren modo che goderai più con lei che abbi
fatto ancora. Attendi pure a ragunare danari per possere vivere uno anno fuori, se
bisognassi ". E da lui si partì e si misse drieto a messer Giorgio e si condusse qui come lui.
Messer Giorgio era il più contento uomo del mondo e, toccando buon soldo et
avendo la dama bella, attendeva a fare buona cera e si sforzava tenerla contenta quanto
poteva, ancora che non fussi possibile farla dimenticare l'amore di messer Arrigo.
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Gaspar ne venne di tratto a questa osteria, nella quale il podestà non aveva voluto
entrassi fanti perché in essa si potessi ricettare chi andava e veniva, e cominca pigliar
pratica con messer Giorgio e fece in modo che, avendo bisogno d'un servitore, prese lui. Et
essendo venuto in parte a quello desiderava, lo serviva tanto bene che, in pochi dì, messer
Giorgio gli pose tanto amore, che gli commisse la guardia della Magdalena. La quale, [21v]
ancora che da principio l'avessi conosciuto, finse non lo aver mai visto insino che
secretamente gli potette dire la sua voluntà. Allora Gaspar trovò un mercante che
conosceva messer Arrigo e gli dette una lettera gli portassi, per la quale gli significava
come avea ritrovato la Magdalena et accónciosi con messer Giorgio, e che subito qui ne
venissi con quella compagnia iudicassi a proposito, e scavalcassi in questa osteria, e si
facessi dare una camera su alta, tra la quale e quella dove stava la innamorata era a punto
un muro di stuoia ricoperto di calcina. Messer Arrigo, avuto la lettera, prese quelli danari
che potette e con tre servidori qua se ne venne e seguitò l'ordine di Gaspar.
El quale, come seppe era giunto, ascosamente gli venne a parlare e li disse come
aveva a fare a trovarsi con la Magdalena: e che di notte non v'era modo, perché dormiva
del continuo con messer Giorgio, ma il dì, quando andava fuori, lasciava lui alla guardia
d'essa o un piccolo ragazzo; e che romperebbe il tavolato della stufa dove essa stava il
(ché come puoi vedere la più parte delle stufe sono soppannate d'asse) e vi farebbe uno
piccoletto uscio; e che, fatto questo, sarebbe facile rompere il muro di stuoia; e che per
quella rottura la Magdalena verrebbe nell'osteria mia in camera di messer Arrigo; e che
solo bisognava avere avvertenzia di tenere uno alla finestra, quando [22r] lei era seco, che
vedessi se messer Giorgio tornassi in casa (el quale non poteva tornare che per una porta,
perché più non ne aveva la casa) e subito lo dicessi alla Magdalena, acciò si potessi
ritornare nella stufa.
Piacque il modo a messer Arrigo e così alla fanciulla. E la mattina sequente colorirno
il disegno e si dettono un gra<n> pezzo piacere insieme, mentre messer Giorgio era pel
castello; el quale usava sempre la mattina stare tre ore fuori di casa per udir messa e fare
essercizio. E quando tornava, il famiglio ch'era alla finestra lo vidde e subito corse a dirlo,
e lei si tornò nella stufa. Questa maniera tennono circa otto giorni continui.
Ma occorse una mattina che il ragazzo, che la Magdalena serviva, avendo persa una
palla, ne venne a cercare nell'osteria. E salito di sopra, entrò in quella camera dove era la
Magdalena con messer Arrigo, la quale stava aperta perché nessuno, se non della sua
famiglia, era solito salire le scale. E vidde la Magdalena e messer Arrigo insieme
sollazzarsi. E, pianamente tornato adrieto e scese le scale, ne venne a Gaspar che si stava a
sedere in su la porta di messer Giorgio, e li disse: "Gaspar, noi siamo spacciati, perché sai
che il patrone nostro ci ha commesso la guardia della Magdalena e quanto lui l'ama. Et io
l'ho vista al presente qui nell'osteria con un giovane. Messer Giorgio lo intenderà e non
credo gli basti torci la vita ".
A Gaspar parve male che il fanciullo l'avessi vista, pure faccendo buon cuore, li disse
che nol credeva perché non era possibile, [22v] ché aveva tutta mattina guardato la porta e
mai l'aveva vista uscire fuori, ma che quella doveva essere qualche altra femmina di
partito, e che lui non doveva dar carico alla padrona, e che farebbe ruinare lei e loro, ma
che se ne voleva chiarire. E però che guardassi bene la porta che essa non potessi tornare, e
che andrebbe su nella stufa a vedere se lei vi fussi e, se non vi fussi, piglierebbe qualche
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partito alla loro salvazione. Et andato di sopra, chiamò la Magdalena e gli contò il caso e li
disse che nella stufa si ponessi a cucire. E, tornato da basso, trovando il fanciullo li disse:
"Non sapevo io che tu avevi beuto a buona ora e non sapevi quello dicevi! Hàila tu vista
uscire per questa porta ? "
"Non io ": disse il ragazzo.
"Ècci altra porta alla casa? "
Il fanciullo disse di no: che messer Giorgio n'aveva molto bene fatto guardare.
"Or va' di sopra e troverrai la Magdalena nella stufa che cuce".
El fanciullo andò e, trovandola, stette stupefatto. Et ella cominciò a gridare seco e
dirli che era un ribaldello e che la voleva mettere in sospetto a messer Giorgio. Il ragazzo,
temendo, gli chiese perdono e la cosa per allora si posò.
passorno dua giorni che, sendo di nuovo una mattina la Magdalena con l'amante
e dua fanti di messer Giorgio avendo fatto quistione e feritisi et uno sendo rifuggito qua
nell'osteria, messer Giorgio infuriato lo seguitò. E salì presto le scale in modo che vidde
una fanciulla in una camera, [23r] che era la Magdalena, ma per l'ira non la scorse bene.
Pure dubitò non fussi essa e volle, avanti facessi altro romore, chiarirsi se era in casa e con
gran furia scese le scale. La Magdalena, che di questo subito s'accorse, presto nella stufa
tornò. Et era a punto posta a sedere, quando messer Giorgio, quasi fuor del senso, giunse
e, trovatola, fu tutto riconsolato e stimò avere errato.
Messer Arrigo, avendo avute tante paure, dubitò una volta non avere il danno. E
però, consigliatosi con Gaspar, fece venire da Igne, sopra Trento, uno fodero di legname
che qua chiamiamo zatta, in su la quale s'usa andare giù per l'Adice. Et una mattina, con la
figlia e Gaspar et altri suoi servitori, vi montò su e vi condusse ancora e' cavalli, e tutte le
altre sue robe. Il fiume è veloce in modo che, avanti che messer Giorgio sapessi niente, la
zatta era lontana miglia venti. Il quale, tornato in casa, ritrovando la Magdalena
Gaspar, e riscontrando col ragazzo e seco medesimo quello aveva visto, stimò quello era
suto: che lei con messer Arrigo fussi fuggita e subito nella mia osteria corse. Io, vedendolo
venire con tanto impeto, per una porta di rietro mi fuggi'. Lui allora quasi tutte le miglior
cose dell'osteria rubò e poi vi messe fuoco; ma da' vicini fu fatto tanto concorso a
spegnerlo che poco ne potette ardere, ma tutta affummò come vedi. Et a ogni parola
diceva che sopra me si voleva vendicare, [23v] che allo inganno avevo tenuto mano. Et era
vero che io della pratica m'ero accorto. Ma, pagandomi messer Arrigo bene, tacevo, ero
tenuto a fare altrimenti. In effetto la roba mia e parte della casa andò male. E messer
Giorgio, avendo licenziato la compagnia, con quattro servitori si misse a seguire la
Magdalena. Quello che tra loro sia successo non ho poi inteso, perché non è ancora otto
giorni che messer Giorgio partì».
L'oste mi disse questa novella, et io la credetti, perché con la esperienzia conobbi
nell'osteria non esser cosa alcuna: mangiai male e dormì' peggio e, non che letto, non vi
trovai una tavola da distendermi, ma, essendo gran caldo, passai la notte il meglio potetti.
E seguendo la mattina il cammino, giunsi a tre ore a Trento, la quale è piccola città
posta in sull'Adice, ma molto abundante perché, ancora che sia tra monti, ha tra essi
qualche miglio di piano che produce assai
grano e vino; e nelli monti sta il bestiame.
Signore della città, et in temporale e spirituale, è il Vescovo; e lui piglia l'entrate delle
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gabelle e d'ogni altra cosa. Lo Imperatore, come duca d'Austria e conte di Tirolo, vi mette
un capitano, el quale tiene le chiavi delle porte e fa eleggere al capitolo de' canonici il
vescovo, come pare a lui, perché sempre lo vuole confidente, perché il luogo è di grande
importanzia in sul confine d'Italia et Alamagna, benché sia posto in Italia: [24r] perché il
fiume del Lavis, di da Trento cinque miglia, divide l'Italia d'Alamagna, secondo dicono
quelli del paese. La città non è forte né di mura né di sito, et è circumdata da monti alti, de'
quali chi fussi signore presto diventerebbe patrone della città.
Arrivai, come ho detto, a Trento a buona ora e tutto il giorno mi fermai: e però
fermerò ancora un poco la penna ponendo fine al primo libro.
LIBRO SECONDO
Avevo al primo libro di questo mio cammino posto fine e lasciatolo a una nostra
villa, detta Cepperello, dove trovandomi l'avevo scritto. Arrivò quivi a caso insieme con
Pagolo, mio fratello, uno che, a suo iudicio proprio, è letterato; e gli vennono alle mani
questi miei scritti. E stato qualche giorno tra quivi e Siena, se ne tornò in Firenze. E
trovandomi disse che stava ammirato che io perdessi il tempo a scrivere cose frivole,
novelle e favole, e che lui l'aveva lette e si pentiva aver perso quel tempo, dannava il
modo dello scrivere, ma la materia. Io li risposi poco, perché era uomo di sua oppenione e
da non volere cedere alle ragione. E li dissi che l'avevo scritte per satisfare a me medesimo
e non a lui, e che ciascuno ha sua fantasia e dove l'applica gli pare bene applicata. E finì'
con lui il mio parlare.
Ho dipoi meco medesimo considerato quanta servitù li uomini, da loro [24v]
medesimi, s'imponghino. Et avendo respetto al parlare di questo e quello, spesso si
ritenghino da scrivere quello s'hanno proposto. Perché qual materia o quale spezie di
scrittori è che non si potessi biasimare? E' teologi sono e' primi nella nostra religione che
hanno fatto e fanno tutto tanti libri, tante dispute, tanti silogismi, tante suttilità, che ne
son piene non solo le librerie, ma tutte le boteghe de' librari. Nondimeno il Salvatore
Nostro Jesu Cristo dice nello Evangelio: «Amerai il tuo Signore Iddio con tutto il cuore tuo,
con tutta la mente tua e con tutta l'anima tua, et il prossimo come te medesimo». In questi
dua precetti pendono tutte le leggi e' profeti. Che bisogna, dunque, tante dispute della
Incarnazione, della Trinità, della Resurrezione, della Eucaristia, cose che noi cristiani per
fede dobbiamo credere e credendo meritiamo e le ragioni non v'aggiungono? Danneremo
noi, però, per questo tanti santi dottori, tanti valenti uomini acuti e dotti, per avere questa
suttilità seguito e scritto? Non certo, ma diremo che a buon fine l'hanno fatto e che
avevano questa inclinazione.
Nel secondo luogo sono e' filosofi che hanno la lor dottrina divisa in naturale e
morale. In ogni parte di queste, quante cose vane dichino, quante false, quante frivole,
lascio indicare a chi li legge e ne ha piudicio non ho io. Che diremo de' iureconsulti di
tanti comenti, consigli, parafi, allegazione, cose tutte contra il decreto di Iustiniano che fece
mettere le legge insieme e proibì non si potessino comentare? Sono dipoi li oratori e' quali
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[25r] con il lenocinio della lingua e' miseri popoli, la ignorante plebe seducano, faccendo,
con il loro ornato parlare, il falso apparere vero et il vero falso.
E' poeti, che secondo Orazio e giovano e dilettono, che scrivono altro che finzioni e
favole? E pure sono in tanta essistimazione. Sonci dipoi certi scrittori che si possono
chiamare di titolo ambiguo come Plinio, Aulo Gellio, Macrobio, Apuleio e, de' nuovi, il
Poliziano, il Pontano, il Crinito, e' quali, chi leggerà, troverrà pieni di dottrina, ma con essa
ammiste molte cose debole e false e basse. Nondimeno sono letti volentieri et approvati.
Sono in ultimo gli storici, e' quali certamente sono da lodare perché danno notizia del
passato, acciò che li uomini possino vedere per quelli essempli come s'hanno a reggere e
governare. Ma quante cose false, quante per blandire et adulare li uomini grandi sono
scritte! E di questo possiamo fare coniettura perché vediamo quelli che hanno scritto
istoria ne' nostri tempi quanto dalla passione, negligenzia et adulazione sieno stati tratti
fuori del retto tramite. E però possiamo credere che il simile facessino li antiqui perché
erono uomini.
Vedendo, adunque, in ogni qualità di scrivere li uomini esser ripresi, e pure seguire
quello hanno ordinato temere le vane voce, farò ancora io il medesimo. E se alcuno
dicessi [25v] che con queste novelle d'amore si dà malo essemplo e s'insegna a chi non sa,
risponderei che, se questa ragione tenessi, sarebbe da fuggire il leggere come un venenoso
serpe, perché sono pochissimi libri d'onde non si possino trarre mali essempli. La Bibbia
non è ella tutta piena di storie lascive? Nel Libro de' Re non vi sono innamoramenti,
fornicazione, adulterii, fraude, rapine, occisioni? Nondimeno si mette in mano insino alle
tenere fanciulle. Le cose mal fatte non lodo nelli miei scritti, ma le danno; e con essi li
uomini si potranno guardare di non incorrere ne' medesimi lacci, che sono incorsi quelli di
chi scrivo. E però, sanza più lunga escusazione, seguirò il mio cammino.
Havevo lasciato come a 4 di luglio arrivai a Trento in sabato; e vi stetti tutto il
giorno. E come accadeva in quelli tempi che si diceva che lo Imperatore voleva passare in
Italia, li uomini erono molto curiosi investigatori chi passassi in Alamagna. Per questo
vennono a me il giorno molti lombardi, che erono in Trento, per sapere chi fussi o dove
andassi. Tra li altri vi venne un prete fiorentino, chiamato prete Tommasso, il quale per
altri tempi avevo conosciuto. E li feci grata accoglienza e più d'una ora stetti con lui a
ragionare di varie cose. Quando fu partito, che era tardi, l'oste, che m'aveva veduto parlare
a lungo e solo con lui, mi domandò se io conoscevo ben questo prete. Io li risposi averlo
già visto in Firenze e che m'aveva detto essere [26r] allora in Trento per certe sue faccende
di benefici.
A che lui disse: «Questo prete è stato in questa terra circa dua anni e guadagna la sua
vita col dire messa. E poi che è qui, ha tramutato dieci o dodici case perché si diletta
sempre seminare scandoli, in modo che li uomini di questa terra ancora che nel principio
lo ritenghino volentieri, come hanno cominciato a conoscere e' suoi costumi, presto se lo
lievono da torno. E non è molto li fu fatto da uno uomo da bene un tristo scherzo.
Chiamasi costui messer Giovanni della Val di Sole, il quale aveva in casa la madre et
una sorella d'età d'anni quaranta, rimasta vedova, in sulla dota della quale messer
Giovanni, per avere avuto mala sorte, s'era ridotto a vivere. Prete Tommasso cominciò a
pigliare pratica seco e s'accordò di tornare in casa sua e pagarli il mese fiorini tre di Reno.
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E messer Giovanni li consegnò una buona camera et onoravalo quanto poteva. Ma prete
Tommasso, non potendo lasciare il suo abito di commettere male et iudicando non potere
far nascere scandolo intra la madre et il figliolo, deliberò tentare se tra la sorella et il
fratello poteva mettere zizania.
Et accortosi che messer Giovanni viveva in sulla roba della sorella, propose a quella
di volerli dare marito, col dirli che era troppo giovane a star vedova, e che era ricca e di
tal parentado da trovare ogni gentiluomo, e che quivi consumava la roba sua sanza onore,
e che il fratello se la godeva. La donna, che era savia et amava [26v] assai il fratello, poche
parole gli rispose. Et avendo deliberato star vedova, gli venne in odio il prete,
considerando la sua grande ingratitudine e pessima natura, e riferì tutto al fratello, el
quale deliberò vendicarsene.
E pensando al modo, li occorse di menarlo una sera a una sua villa, la quale è in su
una isoletta che fa l'Adice, dove non è altra abitazione che la sua. E condotto quivi il prete
del mese di gennaio in una barchetta, un dì che era bel tempo e quieto, ma freddo
grandissimo, e quivi cenato e dipoi andati a dormire, a mezzanotte ordinò fussi fatto gran
romore in una loggia che era avanti alla camera. Per il quale desti, messer Giovanni pre
il prete che aprissi l'uscio e vedessi che cosa fussi. Il prete corse in camicia, e messer
Giovanni subito gli serrò l'uscio a dosso, e lo lasciò così in camicia nella loggia che era in
sull'Adice. E per non sentire più la notte il suo chiamare o ramarico, vestitosi rimontò in
sulla barca e se ne venne a Trento. Il prete tutta la notte e dipoi il sequente in camicia
stette sotto la loggia, insino che vi passò un fodero che veniva d'Igne, in modo che era già
pel freddo mezzo morto. E però alli uomini v'erono su ne increbbe e, levatolo di quivi, lo
recorono in Trento allo spedale, dove penò dua mesi a riaversi; et in parte fu gastigato
dell'errore commesso dalla sua maladetta lingua.
Stetti la notte in Trento e la mattina cavalcai per tempo. E mi bisognò andare a
desinare [27r] a uno luogo detto Monti, distante da Trento ben quattro miglia, che sono
venti delle nostre, perché vi erono molti luoghi vessati di peste. Raggiunsomi la mattina
pel cammino dua gentiluomini, che ancor loro andavano dallo Imperatore: l'uno era
mandato dalla donna che fu del re Federigo di Napoli, el quale aveva nome messer Luca
Buonfini; l'altro, che si chiamava Borso da Mantova, andava per commissione delli signori
Lodovico e Federigo da Bozzole, che sono di casa Gonzaga.
Accompagnammoci insieme e ci posammo per desinare all'osteria sopradetta, la
quale era presso all'Adice e nuova e pulita; ma in quella non trovammo altri che una
fanciulletta d'anni quattordici. E, volendo desinare, non potemmo avere altro che uova
sode ancora che fussi domenica; il vino era assai buono. E noi mangiavammo fuori al
fresco sotto una pergola di melo, come s'usa in Alamagna, quando giunse quivi el
cavaliere del capitano di Trento che andava uccellando et, ancorché fussi tedesco, parlava
molto bene italiano. Dolemmoci con lui che il primo alloggiamento che avammo fatto in
terra tedesca c'era riuscito assai cattivo.
Lui disse: «Non vi maravigliate di questo, perché l'oste qui suole tenere chi va a torno
molto bene, ma li è accaduto a questi giorni uno infortunio per il quale è suto necessario
partirsi di qui con la famiglia, altrimenti saria capitato male. Lui ha nome mastro Antonio
da Tremino. [27v] E sono quattro fratelli di detto luogo, divisi l'uno dall'altro, e stanno
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assai commodamente di roba. Detto mastro Antonio aveva dato moglie a un suo figliuolo
una da Bolgiano, la quale è così bella cosa quanto abbi questa valle. Et il marito, benché sia
giovane, è brutto e disadatto in modo che ella gli portava poco amore. Capitava qui spesso
un nipote di mastro Antonio, detto Clemente, giovane pulito e bello, el quale cominciò a
porre amore alla fanciulla che si chiamava Apollonia. Et in effetto s'innamororono l'uno
dell'altro. E, non trovando modo come potessino essere insieme, rimasono che martedì
passato, che era il di s. Pietro, l'Apollonia fingessi d'aver male per non andare alla festa
a Marano dove il marito andrebbe da sé, e che Clemente venissi la notte e con una scala
salissi alla sua finestra, e che quivi starebbono tanto insieme quanto volessino, ché altra via
non v'era perché il marito, che n'era geloso, sempre, quando si partiva, la serrava in
camera colla chiave.
Piacque a Clemente l'ordine, e venuta la notte del martedì con una scala s'accostò a
questa casa e posela alla finestra della camera e, per essa salito, se n'entrò in camera con
l'Apollonia. Accadde a punto che certi del paese che passavano, veduta la scala in quel
luogo, dubitando non vi fussi stata posta per rubare, la levorono e la prostesono in terra.
Clemente, quando fu stato tanto che iudicava il giorno esser vicino, se n'andò alla [28r]
finestra per partirsi e, veduto non v'essere la scala, fu malissimo contento. Et essaminato
intra diversi partiti, sendo giovane e gagliardo, pensò saltare a terra della finestra che
altro modo non vedeva a salvare la vita sua e l'onore della Apollonia. E, saltando, male
gnene colse perché, sendo la finestra alta braccia dodici e giugnendo giù in sulla scala che
era suta posta in terra, tutto si rovinò in modo che la mattina a buona ora fu trovato morto.
El romore fu grande. E stimorono e' parenti che lui fussi venuto con la scala per salire alla
finestra e che, trovandolo, mastro Antonio et il figliuolo l'avessino morto: perché
l'Apollonia, accortasi del miserando caso di Clemente, subito aveva la finestra stangata e
confitta.
Clemente era molto amato, di qualità che si congregorono assai uomini del castello di
Tremino per venire assaltare mastro Antonio. E lui, sendo avvisato, si partì con tutta la sua
brigata e si ritirò nel castello di Tirolo.
Et io, oltre all'uccellare, passavo oggi qui per vedere se potevo fare qualche
composizione. E però voi non vi maravigliate se non siete stati trattati come vi si
conveniva».
Noi stemmo poco, dopo le parole del cavaliere, a montare a cavallo e la sera ci
fermammo a un borgo detto Erce assai buono. L'osteria bene assettata e per ostessa
trovammo una gentil fanciulla. Ponemmoci a cena [28v] Luca, Borso et io e, secondo me,
fummo trattati bene.
a pena avammo la cena finita che venne il famiglio di Borso con un maniscalco
del borgo e disse al padrone che avea fatto mettere un ferro nuovo al cavallo e che dessi al
maestro quattro crazie. Questo Borso era il più iracundo uomo che io praticassi mai e, se
bene faceva al presente l'essercizio di mandatario e tramatore, diceva essere stato soldato e
tagliava e' nugoli. Et, udito quello gli diceva il famiglio, né avvertendo che era vicino a
Italia a una giornata e che quivi intendevono tutti italiano come lui, cominciò a saltare e
bestemmiare divotamente, con dire che amazzerebbe e taglierebbe e che aveva a essere
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l'utriaca de' tedeschi. E sempre aveva la mano in sulla spada, in modo che il maniscalco e
certi altri che v'erono, rispondendo certe poche parole in lor lingua, si partirono.
Borso rimase sempre sbuffando e diceva al famiglio che non voleva gittare e' danari,
e che bisognava monstrare il viso alli uomini come avea fatto lui. E, stando in su queste
parole, udimmo per la villa suoni di tamburo. Io pensai lo facessino per festa, sendo
domenica, ma presto comparsono nella stanza, dove eravammo, circa cento fanti, armati
come se avessino a combattere con corsaletti, alabarde e scoppietti. Et uno se n'accostò a
me e mi disse non dubitassi. Messer Luca et io, paurosi, aspettavammo il fine di questa
cosa. Borso [29r] era diventato tutto palido e tremante: e così lo presono e con grida e
tumulto lo menorno, dicendo volerlo dare nelle mani del capitano di Tirolo, perché aveva
bestemmiato Cristo.
Io, veduto questo, feci dire all'oste per un tedesco avevo meco, che Borso era uomo
nobile mandato all'Imperatore dal marchese di Mantova per faccende importante, e che
non si poteva negare non fussi un poco collerico, ma che guardassino che l'Imperatore non
avessi per male quello avevon fatto, e che chi era mandato a lui, esso lo poteva gastigare, e
non era conveniente fussi gastigato da' popoli.
L'oste, udito il mio tedesco, andò a parlare alli altri del borgo. Et in effetto, la notte,
Borso stette in prigione. La mattina lo rendorono, dicendo che lo concedevono a noi. Né so
se questo atto fece rimutare Borso perché io, iudicandolo uomo da non potere conversare
seco, mi partì' la mattina sanza aspettarli e mi posai a Marano, che è un borgo come un
grosso castello.
L'oste mi tenne bene e, nelli più de' luoghi buoni d'Alamagna, quelli che fanno
osteria sono ricchi in modo possono trattare bene chi va a torno.
Dopo mangiare, capitò nell'osteria uno ciurmatore e giucolatore di bagatelle et aveva
gran seguito di gente. E, se bene parlava italiano, adoperava più le mani che la lingua, di
sorte che ragunò, con questa sua articella, qualche somma di crazie. Quello facessi non
dico, perché [29v] noi altri siamo tanto usi a vedere simil cose che scriverle saria superfluo.
Né avea in tutto finito di raccorre e' danari e rassettare le sue bagatelle, che sopragiunsono
quivi forse dodici famigli e con furia lo legorno e menoronlo. Domandai l'oste della causa.
Dissemi:
«Tu cavalcherai per Alamagna e troverrà'la piena di danari, il contrario di quello che
voi credete in Italia. E questo interviene perché noi Alamanni abbiamo gran
considerazione di curare che del paese non eschino danari per conto alcuno. Costui era qui
e con questi modi li portava via, et ancora che fussino pochi, venne a notizia al
borgomastro e vi ha provisto in questo modo. E sommi già trovato in Augusta che vi era lo
Imperatore, e con la Imperatrice essere uno Lombardo che guardava la mano e prediceva
la sorte di questo e quello, e guadagnava qualcosa, et essere venuto tal cosa a notizia al
borgomastro e consiglieri della città, e subito aver pregato lo Imperatore lo levassi via, et
averlo levato».
Il giorno, dopo mangiare, cavalcai lungo un fiumicello e mi fermai la sera a una villa
in gran parte ruinata, chiamata Orchen. Lo Imperatore, non molto avanti, aveva avuto
guerra co' Svizzeri, e loro, scesi, avevano guasto circa dua giornate di paese, dove avevo a
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cavalcare. E tutto si trovava arso e rovinato, pure si cominciava a rassettare. Alloggiai con
uno oste ricco di bestiame e praterie, ma la casa era tutta di legname [30r] e, perché era a
canto al monte, l'acqua per tutto si conduceva insino presso al tetto. E per farmi più onore,
mi fece cenare in su uno tavolato alto forse dieci braccia da terra che era avanti a una
camera; et in su esso veniva una doccia d'acqua. Il vino era buono, et i cibi non erono tristi.
Ma non avevo ancora mezzo cenato, che il tavolato ruinò e tutti noi che in su quello ci
trovammo. Né io né alcuno delli miei sentimmo nocumento alcuno, perché cademmo
avanti la stalla, dove era il letame alto un braccio. L'oste, non so come, si ruppe la gamba,
credo per esser grasso e vecchio, in modo che, la notte, poco si poté dormire ché del
continuo si senti romore per casa che faceva lui e quelli che lo medicavono.
La mattina cavalcai, trovando sempre paese guasto da' Svizzeri, e mi posai a una
villetta detta Crust. E fu' forzato, per non trovare altro, stare in una osteria tutta fracassata
che aveva solo rassettata e fatto quasi di nuovo la stalla: il resto era come essere allo
scoperto. Eravi una ostessa di forse anni cinquanta, ma piacevole et allegra, e, secondo il
luogo, ci trattò bene. Dopo mangiare lei faceva una gran gargagliata con uno tedesco
avevo meco. Volli intendere quello diceva. Lui mi disse che, per la guerra fatta in quel
paese da' Svizzeri, lei aveva marito e tre figliuoli e' quali, quando e' Svizzeri arrivorno qui,
erono malati di peste in modo non si potettono aiutare partire e da loro furono
morti, e la casa messa a sacco et in parte arsa. Ella, [30v] veduto questo e considerando che
li nimici dovevono stare qui qualche giorno, deliberò, se bene dovessi morire, vendicare
tanta iniuria. E, per potere mettere ad effetto tal pensiero, finse esser matta e cantava e
saltava e rideva e faceva cose tutte contrarie a una afflizione nella quale si doveva trovare.
Era alloggiato in questa casa uno svizzero con tutta la sua famiglia, che aveva sei
figliuoli tra maschi e femmine, e la donna. E tutti li avea condotti qui per fare allegrezza e
traevonsi piacere di questa donna sbeffandola. E lei faceva il pazzo al possibile né li
avevono li occhi alle mani, ma la lasciavono andare e stare dove ella voleva. Cominciava a
venire il verno e però tutta la brigata del svizzero si riduceva nella stufa che dal fuoco
aveva patito manco, in modo che essa, una notte, sotto questa stufa condusse gran
quantità di legne e dua bariglioni di polvere, la quale loro tenevono in su questa piazza in
su un carro, rispetto al fuoco. E così, ordinato tutto, in su la mezzanotte, quando ciascuno
dormiva, messe fuoco nelle legne e nella polvere. La stufa era di legname, le legne secche,
la polvere faceva romore di qualità che vidde ardere la casa, il svizzero e tutta la sua
famiglia. E così vendicata, si fuggì in un bosco qui vicino e vi stette tanto che li altri
svizzeri si partirono. Et al presente è ridotta qui, et ha qualche bestia e praterie, ma non ha
che un piccolo nipotino, che in quel tempo non era in questo borgo.
Io, come ebbi mangiato, mi partì' subito perché il luogo arso monstrava maninconia.
[31r] Et il paese dove avevo a cavalcare era assai fresco, perché cominciavo a salire il
monte, il quale, se bene è grande, non è dificile, perché in Alamagna le strade sono molto
bene assettate, e per tutto vanno li carri. La sera alloggiai a Nait, a piè del monte et, ancora
che fussi di luglio, mi ridussi volentieri nella stufa calda. Nella medesima osteria erano la
sera certi carrettoni che venivono d'Italia con mercantie. E con loro era un mercante
bergamasco che era suto alla fiera di Marano con esse e, non l'avendo potute finire quivi,
le voleva condurre a Lindo.
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Questo mercante aveva anni sessanta et era piccolo e brutto: nondimeno, vedendo
quivi, la sera, una fanciulletta dell'oste, piacevole che parlava italiano, gli piacque tanto
che non si poteva saziare di guardarla. E considerò che lei quando andò a dormire entrò
nella stufa allato alla camera dove dormiva lui e gli parve che l'uscio stessi aperto. E
quando credette che per ogni uomo si dormissi, uscì di camera e così a tasto n'andò
all'uscio della stufa perché, rispetto al fuoco, nelle case d'Alamagna la notte non stanno
lumi accesi e, trovatolo serrato, stimò aver preso errore. Era presso a quello uno uscio
ch'entrava in su uno palchetto dove era il necessario, che riusciva in su un fiume grosso e
veloce. Il bergamasco, trovando questo aperto, entrò drento. Il cielo era oscuro, il palchetto
sanza sponde, in modo che nel fiume rovinò e, nel cadere, cominciò a gridare. Quelli
ch'erono nell'osteria subito si levorno e stettono alquanto [31v] avanti che del caso
s'accorgessino. Pure, sentendo le grida, corsono al fiume e trovorno il misero bergamasco
che notava e s'aiutava quanto poteva, ma non bastava contro all'impeto del fiume, fatto
grosso per le nevi che si struggevono ne' monti. Alfine con fune gli gettorono, lo riebbono,
ma in modo assiderato che non si poteva muovere.
Io, avendo avuto e l'altra notte e questa piena di romori, avevo poco dormito; e
dormì' la mattina più che il solito perché, avendo a cavalcare per luoghi freddi, non
importava il cavalcare tutto il giorno. Posà'mi a desinare a un castellato detto Cozer allato
a un fiume. Volevo a punto cominciare a mangiare, quando per il castello si levò gran
romore e ciascuno fuggiva. Stetti un pezzo avanti potessi sapere che fussi; pure poi intesi
che fuggivano perché il fiume cresceva rispetto alla neve che si struggeva, e che era
necessario ritirarsi ne' luoghi alti per non annegare. E già e' miei cavalli erono con l'acqua
al corpo nella stalla; fecili cavare, e con gran fatica in su un monte vicino mi ridussi. E
bisognò passare il fiume in su tavole messe allora quivi per fuggire tal pericolo. Stetti la
mattina sanza mangiare e, per via strana e non usata, con gran circuito di miglia, la sera
arrivai a Landec dove il fiume ha il ponte, et è luogo alto da non temer l'acqua.
Nella medesima osteria dove ero io, alloggiorono la sera quattro fanti tedeschi che
dicevono [32r] venire d'Italia. E tra essi era uno che aveva molto bene la lingua italica e
diceva essere stato più anni col duca Valentino per staffiere; e lodavalo in molte cose come
dell'essere non che liberale, ma prodigo, ardito ne' pericoli, bel parlatore; ma diceva che
era gran mancatone di fede, e che non aveva uomo appresso di sé che lui amassi. E
soggiunse:
«Io ti voglio narrare quello intesi, non è molto, da uno spagnuolo suto trinciante del
cardinale Borgia. Questo Cardinale fu mandato legato a Milano da papa Alessandro,
quando il duca Lodovico era per perdere lo stato. E giunse che l'aveva già perduto e
n'erono signori e' Franzesi. E perché lui era uomo molto leggieri, e del quale el Papa,
ancora che li fussi nipote, poco confidava, mandò seco il vescovo di Setta, uomo prudente,
al quale commisse che avessi cura alle azioni del Cardinale e le correggessi, bisognando. In
modo che il Cardinale, accortosi di questo, portava al Vescovo odio grandissimo.
Giunti a Milano, trovorono il duca Valentino col Re. Il quale Duca faceva tante
dimonstrazioni d'amore verso Setta, che non si potrebbe dire più. E questo accrebbe
ancora l'odio del Cardinale verso il Vescovo e, traportato da quello, pensava di farlo
morire. E chiamato un giorno questo suo trinciante, gli dette un cartoccetto di polvere
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bianca che era veneno e li ordinò lo mettessi in sulla vivanda del Vescovo. Il trinciante, se
bene stimava assai il padrone, vedendo il Vescovo in tanta grazia del Duca, deliberò
referire tutto a detto Duca [32v] forse per paura d'esso e forse stimando esserne di meglio.
Il Duca stette a udire quello che il trinciante li disse e niente altro li rispose se non che
dessi il veneno a l'uno e l'altro. Il che avendo udito il trinciante et iudicando gran pericolo
per a non essequire il comandamento del Duca, messe detta polvere in sul cibo che
avevono a mangiare il Cardinale et il Vescovo. E fu di sorta che il Vescovo in cinque giorni
morì. Il Legato, avendo a ire a Roma per faccende, cavalcò in poste e per il cammino
s'ammalò et a Urbino morì. Il trinciante non ne fu di meglio altro se non che ebbe qualche
spoglio del Cardinale in su che è vivuto poi a Roma dolcemente. Né io presi ammirazione
che il Duca facessi dare il veneno al Cardinale, perché si sforzava privare di vita
qualunque fussi grato al Papa, ma mi dette che pensare assai che volessi far morire Setta
nel quale pareva avessi tutta la sua fede. Et io lo so benissimo che allora ero a Milano seco;
passava mai notte che non stessino insieme a parlare insino appresso al giorno e, come
avea a diterminare cosa grave, faceva chiamare il Vescovo. Et avendolo trattato così, si può
dire esser vero quello dissi di sopra che lui non amava uomo alcuno e che tutti li servitori
et amici ingannava, quando gli veniva a proposito».
Stetti la sera a Lundec, e la mattina poi andai a desinare a una osterietta a piè della
montagna di San Niccolò dal lato di qua, dove trovai dua giovanetti da Marano che
andavono a Constanzia. L'uno di loro era calzolaro, l'altro non [33r] aveva arte alcuna e
dolevasi assai. Et io lo intendevo perché alle volte diceva qualche parola latina e, non
avendo io altro che fare, lo domandai donde venissino tante sue querele.
Risposemi che si lamentava con ragione perché, sendo stato lasciato ricco, era
constretto andar quasi mendicando, e che suo padre faceva la principale osteria di
Marano, et aveva, tra case possessione e bestiame et altro, tanto che ascendeva alla somma
di fiorini dodicimila di Reno o più, e che quando morì lasciò la donna e cinque figli maschi
et una femmina, e lui era il maggiore di tutti, e che avevono certi statuti che provedevono
che la moglie erediti la metà de' beni del marito, in modo che alla madre rimase più che
fiorini seimila di Reno. E restando governatrice de' figlioli, che erono pupilli, si poteva dire
potessi disporre di tutta la roba che era suta del padre. Onde lei, traportata dalla libidine,
tolse per marito un giovane che stava per famiglio col padre e gli dette il dominio di tutto.
Lui, caldo di roba e desiderando levarsi davanti e' figliastri, gli bastonava, percoteva, dava
lor mal da mangiare e peggio da bere, di qualità che in dua anni n'erono morti tre. E lui,
vedendo questo, aveva deliberato partirsi e cercare in qualche altro luogo sua ventura.
Increbbemi del giovane e li offersi che, quando fussi in Constanzia, li farei quello
poco di bene che potessi. E considerai quanto pazzamente faccino quelli che lasciono le
moglie a disporre di loro eredità, delle quali [33v] è qualcuna che la conduce bene, ma
infinite che a cattiva fine le indirizzano. voglio dare di questa materia essempli perché
sarebbero odiosi, ma chi andrà essaminando la città nostra troverrà esser così.
Passai il dì la montagna predetta, la quale è aspra. Et ancora che fussimo a 6 di
luglio, v'era qualche poco di neve e freddo grande, e perché ero vestito da state, mi dette
non piccola molestia. E la sera, fermandomi a un luogo detto Clost, poco potetti mangiare.
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Andàmene a dormire e mi parve mille anni fussi giorno per cavalcare. E mi posai la
mattina a un castelletto nominato Nint in una osteria dove l'ostessa ordinò presto da
desinare. Ma, mentre mangiavo, sentì' cantare preti: fecimi alla finestra e viddi portavono
a sotterrare una fanciulla e la traevono dell'osteria. Feci domandare di che male fussi
morta e mi fu detto di peste, in modo che rimasi mezzo attonito e subito mi partì' e del
continuo mi pareva aver la morte direto. Pure la fatica del cavalcare mi fece dimenticare la
peste e massime perché andai tutto giorno per vie piene d'acqua. E la sera tardi alloggiai a
una casa sola, detta Paur, che in lingua nostra vuol dire villano, la quale era tutta di
legname. Né v'erono stalle e però bisognò che i cavalli stessino fuora. Io volli e mangiare e
dormire presso a loro con li miei servitori. E mi venne ben fatto perché, in su la
mezzanotte, s'apiccò il fuoco nella osteria et arse tutta, benché non vi ardessi che un prete
tedesco che avea tanto beuto che non si destò a tempo. [34r] E lui fu causa dell'arsione, ché
accese un moccolo per dire l'uficio e si addormentò sanza spegnerlo. Il fuoco, trovando la
casa di legname e calda per il sole, in una ora ogni cosa consumò.
Partimmi la mattina e non ebbi a fare conto perché quivi non era restato oste
ostessa. Et andai a desinare a un castelletto in sul Reno chiamato S. Pietro. Quivi era il dì,
come interviene ne' paesi nostri, che certi scioperati stanno in su l'osterie a parlare con chi
va a torno. Uno vecchio, che diceva essere stato già servitore del magnifico Pietro di
Cosimo de' Medici, cittadino principale della città nostra a' tempi suoi, e per aver inteso li
discendenti suoi, per fazione civili, esser suti fatti essuli da Firenze, era diventato inimico a
tutti e' Fiorentini. Et avendo saputo da un de' miei che ero fiorentino, non restava di
mordermi e dire che li Fiorentini furono sempre inimici all'imperatori, e che ordinorono
già che fussi dato il veneno a Enrico terzio nel sacramento, e che al presente ero mandato
per ingannare Massimiliano.
Io, iudicando pazzia il risponderli, fingevo non intendere bene né pensare a cosa che
lui dicessi. L'ostessa era presente et intese dal mio servitore tedesco quello che il vecchio
diceva, e li disse che si partissi e mi lasciassi in pace. Ma lui allora più infuriava e
minacciava e gridava, onde ella, partitasi, anin persona per il borgomastro del castello.
El quale, [34v] venuto quivi subito con un solo sergente, il vecchio chiamò et al sergente lo
fe' mettere in carcere. Et a me fece grande escusazione, dicendo che li Signori delle Leghe,
de' quali era il castello, volevano che pel paese loro ogni uomo andassi sicuro e fussi
onorato. Ringraziò'lo, pregandolo che avessi compassione a quello uomo vecchio et
affezionato a' discendenti del suo antico padrone.
E, partito, prima lungo il Reno e poi lungo el laco di Constanzia cavalcai: il quale è
bellissimo, di circuito circa miglia cinquanta, dove sono molte terre e castelli buoni; l'acqua
lucidissima che in ogni parte del laco permette vedere il fondo; fa molti pesci e buoni. Il
smarrì' il cammino, perché il lago sempre rode la terra et aveva in qualche parte tanto
roso, che bisognava scostarsi et andare per certi monticelli dove la guida mia più volte
s'aviluppò.
Pure molto tardi giunsi a una osteria in su detto lago detta Sciat, dove erono ridotti la
sera tutti e' villani del paese a lavarsi e radersi, perché quivi era a modo nostro una stufa,
la quale i tedeschi usano la state dua volte alla settimana et il verno una. Stavano in quella
stufa a lavarsi una ora, et uscivano d'essa bolliti e sudati. Et, accostatisi al lago, quelli
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massime che sapevono notare, vi si gittavano drento che arei creduto fussi loro diacciato il
sangue a dosso e che fussino subito morti. Ma loro dicono che in quel luogo l'aria
comporta così. E perché la sera ero stracco per il caldo e per aver errato [35r] il cammino
avevo fatto maggior viaggio, onde li cavalli erono molto affaticati, feci cercare d'una barca
che portassi me e li miei la notte a Constanzia, la quale dicevono essere a punto lontana
dua miglia tedesche. E trovatola vi montai con li miei cavalli e servitori. E non potetti
arrivare, per esser poco vento, prima che a ore cinque di giorno. Fermà'mi un poco alla
porta per mandare a cercare d'alloggiamento, ma vi era concorsa tanta moltitudine
d'uomini, per esservi lo Imperatore e tenervi la Dieta, che ogni casa era piena. Pure trovai
uno araldo, ch'era suto in Italia, el quale in una osteria vicina mi fece alquanto riposare e
mi disse che quella città era alli confini de' Svizzeri, e' quali avevon fatto ogni opera per
ridurla alla loro volontà e mai avevon possuto, e che signore ancora nel temporale arebbe
a essere il Vescovo, ma che li cittadini s'avevono usurpato il governo et avevono ordinato
una repubblica.
Ha la città da una parte il lago, che da essa piglia il nome e si domanda il lago di
Constanzia e quivi si riduce nel fiume del Reno. E vi è un bel ponte di legno che passa il
principio di detto fiume. È città famosa pel Concilio che vi si congregò l'anno 1417, nel
quale fu eletto papa Martino. E si congregò in detta città il Concilio perché, avendo il
fiume et il lago, ha gran facilità di condurre viveri da potere nutrire [35v] gran quantità
d'uomini. E però lo imperatore Massimiliano vi teneva la Dieta di tutti e' principi
ecclesiastici e secolari d'Alamagna. La città non è molto grande, ma bene abitata.
Io, come dissi di sopra, giunsi in quella alli 11 di luglio e, riposatomi alquanto
nell'osteria della Croce Bianca, cercai d'alloggiamento e per ordine dello Imperatore mi fu
dato. Et in esso stetti tanto quanto detto Imperatore stette in quella città. Il padrone dello
alloggiamento avea nome Giorgio e l'arte sua era navicare e per lago e pel Reno, e
condurre vettovaglia e rivenderla, et in quel tempo guadagnava molto bene. Era uomo
grande e grosso e molto piacevole.
Era alloggiato nella medesima casa uno imbasciadore del conte di Traietto di Frigia,
che si chiamava messer Fizio Dornit, uomo veramente prudente e nobile, et avea veduto
assai costumi d'uomini e varie città. Era stato in Italia, ma non sapeva parlare italiano, ma
benissimo latino e tutte le cose che io volevo sapere da lui, volentieri me le diceva.
Domandà'lo quanti prelati fussino adunati alla Dieta. Dissemi che il primo verso
Italia era il vescovo di Trento, il vescovo di Cur, il coadiutore del vescovo di Brissina,
perché il vescovo proprio, che era cardinale, si trovava allora a Roma, il vescovo di
Constanzia, di Basilea, di Salsburg, di Bamberg, d'Augusta, d'Erbiboli il quale è duca di
Franconia, il vescovo di Spira e di Vorms, l'arcivescovo di Maganzia e di Treveri. [36r]
Quello di Colonia non v'era perché, sendo molto grasso, non si poteva quasi muovere, ma
vi era un suo procuratore. De' principi disse esservi dua figli del Conte Palatino, in nome
del padre elettore, il duca Federigo di Sassonia, il marchese Ioachim di Brandiburg elettori,
il duca Giorgio di Sassonia, il marchese Federigo di Brandeburg, il duca Alberto di
Baviera, il duca di Mechelburg, il duca di Vertinberg, il duca di Bronsvic, il lancravio
d'Assia, conti dipoi sanza numero. Ma e' conti non intervenivono a' colloqui della Dieta,
ma v'interveniva uno di loro in nome di tutti. Poi vi erono li oratori delle comunità e città
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imperiali d'Alamagna, le quali città sono assai. E la lega di Svevia ha nella sua
congregazione centoventi buone terre, delle quali sono le principali Augusta, Norimberg
et Ulma. La lega delli Sterlini contiene settantadue terre grosse, tra le quali sono le prime
Lubic, Colonia e Danz. Sonvi poi altre buone terre, come Argentina che ha tanto d'entrata
che dicono aver congregato in comunità molte centinaia di migliaia di fiorini. Mentz
ancora, in latino detta Mediomatrix, è una buona città vicina al paese dello Reno. Sonvene
poi assai altre, come Ratispona, Francfordia, Erfordia, ma di tutte non mi ricordo. Il duca
di Julic e di Clevi non vi erono in persona per esser lontani ma avevon mandati loro
procuratori et il duca dello Reno imbasciatori.
Passavomi il tempo dolcemente con questo frigio, [36v] perché aveva poca faccenda e
lo Imperatore non vuole che gli oratori frequentino la corte e, quando hanno da fare, vuole
che lo faccino intendere, e lui poi li chiama.
Era in Constanzia molti italiani imbasciadori et altri: per il Papa il signore Gostantino
Greco, per li Veniziani messer Vincenzio Quirino, per il duca di Ferrara messer Antonio
Constabili, pe' Sanesi Domenico Placidi, e molti usciti lombardi e genovesi. E tutti quasi si
trovavono la mattina nella chiesa maggiore e dicevano quello sapevano di nuovo. Ma delle
cose ordinavono e' tedeschi poco s'intendeva, perché loro fanno professione d'essere molto
secreti. Eronvi ancora certi mandati dal re di Spagna e certi essuli castigliani.
Io volentieri m'internavo a parlare con messer Fizio, ricercandolo de' costumi di
Frigia, e del parlar suo pigliavo gran piacere. E, per esser ragunato gran quantità d'uomini
in quella città, vi accadeva tutto giorno casi diversi, come ne acascò uno presso alla nostra
abitazione.
Alloggiava a canto a noi uno abate di Vestfalia, el quale era venuto imbasciadore
dell'ordine suo perché, possedendo certi castelli, ancora quello ordine era tenuto a
sovvenire l'Imperatore ne' suoi bisogni. Questo abate era bene accompagnato, e fingeva
semplicità e bontà con raro parlare, con udire messe, dire suoi offici, leggere, con
dimonstrare di digiunare. Il padrone dell'alloggiamento nostro aveva, drieto a quello, [37r]
una stanzetta dove entrava per il medesimo uscio che nella propria abitazione, nella quale
teneva due sorelle che facevano piacere a chi le pagava. L'abate, avendo visto dalla finestra
della camera la più giovane, che avea nome Magdalena, e sendoli piaciuta, per uno suo
fidato li mandò imbasciata. E, consentendo la Magdalena, era spesso in quella casa, benché
v'andassi più celatamente poteva. La fanciulla, sperando trarre da lui assai, vedendo che
così si contentava, quasi tutti li altri amici aveva licenziati. Ma il disegno non gli riusciva,
perché l'abate spendeva adagio; onde ella, avendo licenziato li altri, era constretta
industriarsi di piacerli per trarne. E deliberò chiamarlo a cena et abergo, il che insino
allora, stando in sul tirato, non aveva fatto.
E, convenutasi seco della sera che fu in martedì, fece ordinare una buona cena e,
benché fussi di luglio, l'abate per non esser visto, entrò in casa di notte. E quivi mangiando
e beendo assai, perché vi erano di più sorte vini, dopo cena mezzo cotto se n'andò al letto e
la Magdalena con lui. Et erano stati poco insieme quando nell'osteria vicina, dove l'abate
alloggiava, s'apiccò il fuoco, et il romore era grande. Onde l'abate, dubitando delli cavalli
et altre cose sue, si levò e, presa la tonaca in spalla, corse verso l'uscio per sovvenire al
fuoco. La Magdalena la sera uno uscio, che quasi mai s'apriva, [37v] aveva lasciato aperto
perché, sendo il caldo grande, più vento entrassi in casa. Riusciva detto uscio in su una
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parte del lago, che entra in Constanzia per canale, dove e' cavalli beano e si sguazzono.
L'abate, trovando tale uscio aperto, sendo l'aria oscura, credendo fussi quello donde era
venuto, per esso saltó fuori e ritrovossi nell'acqua. Le grida eron grande per l'arsione
vicina. Lui era grasso sapeva notare. La Magdalena forse del suo cadere nell'acqua
s'accorse, ma, essendoli rimasta la scarsella, tacette in modo che il meschino abate, ancora
che poca acqua in quel luogo fussi, affogò. E, trovato la mattina da' suoi e vulgatosi il caso,
il borgomastro fece diligenzia et essamine per intendere se vi fussi stato gittato. E non
ritrovando confetture o verisimili di questo, si concluse che, per l'austerità della vita, li
umori melancolici li avessino dato al capo e fattolo fare tal cosa. La Magdalena non fu mai
richiesta essaminata, perché li servitori dell'abate non vollono dare al patrone infamia
d'essere andato a dormire con una femmina. Onde essa si godé circa fiorini trecento che
trovò nella sua scarsella; et a noi vicini, quando fu passata la furia, il caso come era
successo narrò.
Alloggiava ancora, non molto lungi da noi, uno oratore del re di Portogallo, uomo
leggieri e [38r] superbo, come è la maggior parte de' portoghesi. L'oste suo era calzolaro,
povero uomo, et aveva una bella figlia della quale a questo imbasciadore venne voglia e,
non avendo la lingua tedesca, non sapeva in che modo farli intendere la intenzione sua.
Aveva un famiglio tedesco al quale conferì il suo desiderio. Il famiglio, come l'ebbe inteso,
piacendo la fanciulla ancora a lui, pensò di vedere se poteva colli danari del padrone
contentarsi. E, chiamato un giorno il calzolaro, dopo molte parole, li disse che volentieri
torrebbe la figlia per moglie. Il calzolaro disse che gnene darebbe volentieri, ma che era
povero e non aveva allora da darli dota. Il famiglio rispose che alla dota non pensassi
perché, se si governava a modo suo, a lui né alla figlia mancherebbe da vivere. E gli
conferì come il padrone era innamorato della fanciulla e quello disegnava fare: il che
piacque tutto al calzolaro. Onde, tornato al padrone, gli disse che la fanciulla, che aveva
nome Illa, era contenta di compiacerli, ma che per niente voleva trovarsi con lui in casa il
padre, perché n'aveva troppa paura; ma che a sua posta se n'anderebbe seco, pure che essa
credessi che lui gli volessi bene, e per averne qualche arra voleva di presente cento fiorini,
e che come li avessi avuti era contenta che il famiglio la menassi dove gli paressi, e che lui
si potrebbe sempre escusare e dire che il tedesco [38v] l'avessi trafugata.
Lo imbasciadore approvò il modo, parvonli ben troppi e' danari perché non era
molto in sul grasso. Pure il famiglio gli disse che gli riarebbe perché, come Illa fussi ferma
seco, vedrebbe tanti segni di benivolenzia che gli renderebbe e' suoi danari. In effetto lo
imbasciadore providde e' cento fiorini e li dette al tedesco con ordine menassi via Illa la
notte sequente e l'aspettassi a Chent, perché intendeva che lo Imperatore voleva ire a
quella volta. Il famiglio, presi e' danari e fatto la sera lo sposalizio d'Illa, montò con essa in
una barca e la condusse la notte a Sangallo, terra de' Svizzeri. Il calzolaro era svizzero e la
mattina, simulando non sapere dove la fanciulla fusse, ragunò otto svizzeri. Et entrando
con essi nella stufa dove era l'oratore, cominciò a fare romore e dire che lui s'era portato
villanamente a mandar via la figlia e minacciarlo che, se non la faceva tornare,
l'amazzerebbe. Lo imbasciadore, fatto buono animo, prese l'arme sua e si ritirò in una altra
stanza, dicendo non li avere tolta la figlia, ma che il tedesco l'aveva menata via da sé. Lui
pure instava di rivolerla et allegava certe conietture e concludeva che non era per lasciarlo
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uscire di quella stanza, se la figlia non tornava. E' servitori suoi, che ne aveva quattro,
impauriti, vedendo il loro patrone in tanto pericolo dettono notizia del caso all'Imperatore.
[39r] El quale mandò alla casa uno delli suoi che intese la verità dallo imbasciadore e
praticò di contentare il calzolaro con danari, e concordò in fiorini dugento, e' quali bisognò
che lo imbasciadore pagassi subito. E gli parve aver buon mercato a uscire di tanto
pericolo con danari. E la mattina sequente si partì per seguire la fanciulla e, giunto a Chent
non trovò lei il famiglio, ma intese ch'erono a Sangallo e che il famiglio diceva che
Illa era sua moglie. Ebbe pazienzia il meglio potette, e fece sanza danari e sanza la
fanciulla, et il famiglio attese con essa a godere.
Così con poche faccende e con queste novelle passai il tempo in Constanzia. Et alli
dieci d'agosto, sendo qualche avanti dissoluta la Dieta e licenziati e' principi, parve a
Massimiliano partirsi. E perché voleva ire cacciando per luoghi aspri e salvatichi, non volle
dalli imbasciadori esser seguito, ma ordinò andassino a Iberling e quivi stessino tanto che
significassi loro dove l'avessino a trovare.
LIBRO TERZIO
Quando il duca Lodovico Sforza nel 1499 ritornò in Milano, donde era, pochi mesi
avanti, suto cacciato da Lodovico re di Francia, sendo molto essausto di pecunie et avendo
bisogno d'assai per mantenere quello stato, in tutti li modi poteva s'ingegnava
congregarne domandandone a più principi e comunità, et in presto et in dono. Et [39v]
intra li altri che ricercò furono e' Sanesi a' quali mandò uno uomo in poste e richiese in
presto ducati dodicimila. Consultorono e' Sanesi quello dovessino rispondere al suo
mandato. E messer Nicco Borghesi, che era allora riputato de' savi uomini di Siena,
diceva a ser Antonio da Chianciano, che era capitano di popolo e per tal degnità gli
toccava a rispondere, che lui rispondessi che la comunità voleva prestare al Duca li danari
ricercava, ma che era affannata e sopraffatta dalle spese e, destramente, monstrassi che
non poteva. Ser Antonio, poiché ebbe udito un pezzo le parole di messer Niccolò, disse:
«Io non so parlare la lingua toscana se non in un modo. Volete voi che io li dica che la
comunità gnene presterà, o no? Ché questo 'destramente' io non lo intendo e quello non
intendo non crederrei far capace a altri».
Così voglio dire io che sono certo sarò biasimato, perché in questi miei scritti non sia
altro che giunsi, venni, arrivai, partì', cavalcai, cenai, desinai, udì', risposi e simil cose le
quali, replicate spesso, a il lettore fanno fastidio. Ma io non ho imparato il parlare toscano
se non in questo modo et, avendo a dire queste cose e replicarle spesso, non posso usare
altri vocaboli altri termini: et ho preso tal materia perché mi è piaciuto. Chi non vorrà
leggere li miei scritti gli lasci; chi [40r] se ne infastidisce, letti che li ha un poco, gli posi.
Iberling è castello distante da Constanzia un miglio tedesco, pure in sul medesimo
lago. Il paese intorno è abbondante d'ogni cosa da vivere e massime di vino. E si afferma
per li abitanti che ciascuno anno entrano in quel castello diecimila fiorini di Reno di vini,
che si vendono fuori del paese. Quivi giunto, alloggiai in casa uno orafo, chiamato Bartolo,
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uomo, a mio iudicio, di buoni costumi, come mi parve ancora fussino li altri di quello
castello, perché osservano molto la iustizia. E viddi questo che mi parve cosa mirabile :
uno essere preso per la vita e stare, la notte et il dì, in sulla piazza sanza guardia alcuna,
solamente colli piedi ne' ceppi, né essere uomo che ardissi di toccarlo.
In quel luogo non avevo che fare e però me n'andavo a sollazzo fuori della terra,
vedendo il paese, e poi me ne tornavo allo alloggiamento a parlare con Bartolo, el quale mi
referiva le guerre che erono seguite in Alamagna a suo tempo. Ma le diceva senza ordine e
con poca verità, come fanno ancora qui li nostri artefici. Pure, perché era suto in persona
alla guerra che aveva fatta Massimiliano al Conte Palatino, narrava questa con più
verisimili che l'altre. [40v]
Filippo, conte palatino, ebbe per donna una figlia del duca
Giorgio di Baviera. E, per essere il Conte ancor lui della casa di Baviera e per non avere
detto Duca figli maschi, il Conte stimava l'eredità appartenessi a lui. Da altra parte il duca
Alberto, che era nipote del duca Giorgio di fratello, credeva che a esso di ragione
s'aspettassi. Morí il duca Giorgio et il Conte occupò tutto il suo tesoro, che fu grandissimo,
et oltre a questo parte dello stato. Alberto, avendo per donna la sorella dell'Imperatore, li
domandò soccorso parendoli essere oppressato iniustamente. Lo Imperatore, avuto
consiglio da p principi Alamanni, fece più volte intendere al Conte che desistessi di
molestare Alberto e che fussi contento che quello che era tra loro in diferenzia fussi
iudicato di ragione. Il Conte, sendo caldo di danari e sostenuto dall'amicizia del re di
Francia e de' Svizzeri, poco conto teneva delle parole dell'Imperatore in modo bisognò
venire all'arme. E la Lega di Svevia tutta s'unì con Massimiliano e qualche altro principe a
destruzione del Conte, perché pareva loro crescessi troppo.
La guerra si cominciò et andò in lunga perché, come il Conte fu molestato, fece
muovere e' Svizzeri [41r] in modo che l'Imperatore fu constretto a voltarsi contro a'
Svizzeri e lasciare lui. Così la cosa stette qualche anno ché quando si perdeva e quando si
guadagnava, ma non si veniva al fine. Lo Imperatore, avvedutosi di questi modi del Conte
e sappiendo il favore che lui aveva di Francia, deliberò accordare con quel Re e por fine a
molte inimicizie avevono l'uno con l'altro. E, trattandosi questa pratica, se ne venne alla
conclusione e nel 1502 si fermò lo accordo a Aganon dove fu presente il cardinale di Roano
pel re di Francia. E tra li altri capitoli fu questo: che il Re non potessi in modo alcuno dare
favore al Conte Palatino e, più, fussi tenuto operare che Svizzeri non l'aiutassino.
Fermo lo accordo, subito lo Imperatore ragunò in Augusta buono essercito a pet a
cavallo. Il Conte, inteso lo accordo, non cadde d'animo e, non potendo avere Svizzeri,
condusse cinque mila fanti boemi, e messe insieme millecinquecento cavalli, e con questo
essercito si fermò presso a un suo castello chiamato Brette. Lo Imperatore deliberò andarlo
afrontare e si mosse d'Augusta col suo essercito. Il Conte, quando intese lo essercito
inimico avicinarsi, conoscendo non essere pari alle forze dell'Imperatore, non li parve da
mettere a pericolo e li suoi cavalli, ma volle che li fanti boemi facessino esperimento
della fortuna. E disse loro che si voleva mettere in aguato con li cavalli per assalire [41v]
poi lo essercito dell'Imperatore, quando fussino insieme alle mani. E con questo modo
partitosi, si ritirò co' cavalli al sicuro. Lo Imperatore col suo essercito assaltò e' boemi, e'
quali combatterono virilmente; ma, sendo di numero inferiori e non avendo cavalli, furono
constretti a cedere e di nove mila non ne campò che cinquecento. Il Conte, inteso il caso,
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cercò per mezzi placare lo Imperatore e, lasciato tutto quello teneva della eredità del duca
Giorgio et una gran parte del suo proprio, con dificultà ottenne la pace.
Queste e simili altre novelle mi diceva tutto giorno l'oste mio, le quali mi facevono
passare il tempo. E bisognava, perché lui non aveva lingua italiana né latina, che le
dicessi in tedesco e poi mi fussino riferite in italiano.
Accade, nel tempo che ero quivi, a un medico cosa da volerla intendere. Costui avea
nome mastro Enrico et era stato a medicare in Venezia, et essendo in medicina et in
astrologia ben dotto, aveva ragunato molti danari. E già vecchio d'anni sessantacinque,
s'era ritornato nella patria, murato una bella casa e comprato possessione. E perché era in
ottima valetudine e buona prosperità di corpo, aveva preso donna assai giovane, ma era
suto ingannato da chi aveva condotto il parentado: perché, volendo moglie bella, l'aveva
avuta bruttissima e di qualità che non se ne contentava punto. Et avendo in [42r] casa una
servente bella e fresca, d'età d'anni sedici, a lei pose il suo amore e spesso con essa si
trastullava. pofare questo cautamente che la donna non se n'accorgessi. Di che
oltre a misura dolente, pensava che rimedio dovessi trovare a rimuovere l'animo di mastro
Enrico dalla servente e tirarlo a sé; poteva mandarla via perché temeva che il mastro
non l'avessi tanto per male che cacciassi lei. E molte cose rivolgendo per la mente, gli
occorse ch'el medico aveva uno fedele servo napolitano, chiamato Andrea, stato con lui
insino da fanciulletto e però aveva preso qualche leggieri notizia di medicina, e spesso
dava qualche rimedio alle infermità, così alla grossa.
Deliberò dunque con lui consigliarsi e, chiamatolo un giorno in secreto, gli fece
intendere l'amore che portava il mastro alla servente et il dispiacere ragionevole che lei ne
aveva. E lo pregò che gli dessi qualche rimedio, se alcuno ne sapeva, e che da ora, se
seguissi l'effetto che essa desiderava, gli donerebbe dugento fiorini d'oro. Andrea, inteso la
donna, sendo avarissimo, pensò vedere se poteva guadagnare e' dugento fiorini. Et alla
donna rispose che de' rimedi c'erano assai e che molto bene gli sapeva e che, se essa
seguiva il suo consiglio, il medico sanza dubbio alcuno, leverebbe l'amore alla serva et [lo
porrebbe] [42v] a lei lo porrebbe, come era conveniente; e però volentieri se ne impacciava.
E pensò il famiglio comporre certo lattovario d'erbe calde e cose odorifere che fussi
potente a incitare il medico alla libidine e che, incitato, non si potessi contenere dalla
donna colla quale dormiva, e lei, vedendo questo fuori del solito, stimassi che il medico
avessi rivolto l'animo a essa e subito li dessi e' promessi danari. E, trovato molte erbe
calde, delle quali aveva già sentito parlare al medico, et altre cose aromatiche e fattone una
composizione tanto calda che era come veneno, alla donna la dette e li disse la mescolassi
in buona quantità ne' cibi del medico, e che stessi sicura che intra dua giorni seguirebbe
l'effetto desiderato.
La donna non prima tal composizione ebbe che la sera nella cena del medico con
uova la mescolò. El quale, avendo mangiato il cibo, sentì grandissimo caldo e, continuo
crescendo, gli eccitò una ardente febre et intensa, la quale in ventiquattro ore lo condusse a
morte. La servente, che sempre gli stava intorno et aveva veduto la patrona prima a
secreto con Andrea e dipoi in cucina diligentemente ordinare la vivanda, a' nipoti del
medico tale conietture referì, e' quali feciono ritenere Andrea alla iustizia et essaminare
sopra questo caso. El quale confessò, sanza tormento, a punto come fussi successo. E però
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fu presa ancora la donna, [43r] benché fussi di buono parentado nel castello, e monstrando
a altri medici di che erbe fussi la composizione sopradetta, fu iudicato essere pestifero
veneno. E, se bene da Andrea e dalla donna non era ordinata a mal fine, per dare essemplo
furono condannati a morire, et in pubblico decapitati.
Increbbemi veramente della povera donna, la quale, non per altro se non per casto
amore del suo marito mossa, era incorsa in tal miseria.
In questo luogo, come ho detto, erano adunati tutti li oratori che seguivono lo
Imperatore e molti altri italiani e spagnuoli. Eravi il Generale dell'ordine delli Umiliati,
gentiluomo milanese da Landriano che, per p sua sicurtà, s'era ritirato in Alamagna
insino quando il cardinale Ascanio fu preso da' Viniziani, perché allora era in sua
compagnia. E con l'aiuto d'un buon cavallo scappò; e dipoi aveva sempre seguito
Massimiliano e patito assai incommodi e dificultà, come avviene a chi seguita le corte.
Narrava, intra l'altre cose, quello che dua anni avanti li era accaduto in sul Danubio. Lo
Imperatore era ito alla volta d'Ungheria et il Generale lo voleva seguitare; ma lui,
aspettando di fare compagnia a monsignor Gurgense, soprastette qualche settimana. E
non partendo detto Gurgense, il Generale si misse in cammino con altri che trovò. E
furono circa quaranta cavalli che si mossono d'Augusta al principio di quaresima e
giunsono il Danubio che era mezzo marzo, et il diaccio si comminciava [43v] a dissolvere.
Et arrivorno circa a ora di vespro a uno villaggio in sul Danubio, detto Firt. Et avendo a
navicare qualche giorno per il fiume lui, per andare con più sua commodità, comperò una
barca e condusse li uomini che la menassino; e si consigliava con li uomini del villaggio se
era da imbarcarsi la sera o no. E qualcuno diceva esser pericoloso trovarsi la notte nel
fiume, perché, dissolvendosi il diaccio, vengono qualche volta pel fiume gran pezzi d'esso
e, non si potendo vedere per la oscurità, danno nella barca e la fanno affondare. Pure,
dicendo qualcun'altro ch'era ora ché di giorno s'arriverebbe a San Gherardo, villaggio non
molto discosto, dove era migliore alloggiamento che quivi, lui, desideroso d'andare avanti,
si messe in barca con tutta la sua compagnia, eccetto che un vecchio tedesco che con tre
suoi famigli, conoscendo il pericolo, non si volle imbarcare.
Né poterono andare si presto a il luogo destinato, che la notte non gli giugnessi. E per
la oscurità d'essa non potendo vedere né fuggire e' grandi pezzi di diaccio che giù pel
fiume con rapido corso venivano, fu un tratto da un gran pezzo di quello la barca
investita, di sorte che andò sottosopra e tutti quelli v'erono su nel fiume cascorono. Il
Generale, apiccatosi alle redini d'un suo buon cavallo, a un pezzo di diaccio che nel fiume
[44r] era ancora fermo, si ridusse; e sei altri delli suoi, notando, quivi approdorono molli e
paurosi, e del continuo aspettavono la morte. Il freddo era grande, la notte tenebrosa; non
avevono da mangiare et in fine non vedevono modo alcuno di poter campare. E così
stettono tutta la notte et il sequente e poi l'altra notte. L'altro giorno a ora di nona passò
una barca la quale, chiamata da loro, gli levò e gli condusse salvi in terra. E mentre
stettono in sul diaccio non mangiorono altro che un tordo el quale, stracco, tra loro si posò;
e loro così crudo sel divisono e mangiarono.
Stetti a Iberling tutto agosto e poi insino alli 6 di settembre nel qual giorno mi parti'
per ire a Ulmo. E si accompagnò meco uno messer Matteo Davis, el quale era appresso lo
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Imperatore per il signore di Camerino, uomo pratico e molto piacevole. E la prima mattina
ci fermammo a desinare a un borgo di case detto Mituac. E, mentre s'ordinava la vivanda,
capitò nell'osteria il prete della villa e cominciò a parlare con esso noi una certa gramatica
grossa e domandare di molte cose di Italia. Et intendendo che Matteo era servitore del
signore di Camerino et avendo udito dire più volte della Sibilla cose grande, lo pregava
gnene dicessi il vero. Matteo, accortosi che il prete era semplice, li diceva le maggior bugie
del mondo e di qualità che quelle del Meschino sarebbono parse un niente, [44v] et
affermava essere stato nella stanza della Sibilla et uscitosene che a pochissimi riesce. E
tanto infiammò colle parole il prete che si dispose a ogni modo volerci seguire perché
Matteo lo conducessi là. Al quale parve avere messo mano in pasta e si escusava dicendo
che aveva che fare assai in Alamagna e che era per starvi molti mesi. In effetto non gli
valsono escuse parole a fare che il prete non fussi a cavallo quando noi; e seguitò poi
Matteo insino in Italia. E pel cammino n'avemmo sempre buona compagnia, e ci faceva
trovare buone osterie e spendere manco che li altri. La sera, il prete ci voleva condurre a
un castello detto Bibrac, ma, sopragiunti dalla notte, ci fece alloggiare in casa un villano
suo amico, lontano un miglio da detto castello.
Questo villano aveva una bella moglie la quale doveva esser piaciuta al prete altre
volte che v'era passato. E la sera non se li partì mai da torno fece altro che ridere e
motteggiare con essa. Et, avvedutosi che nella stufa era a nostro modo una zana da tenere
fanciulli che poppano, stimò che la donna la notte avessi a capitare in questa stufa. E però
disse al villano che volentieri, per darli manco molestia, dormiremmo nella stufa. Onde lui
recò certe materasse sopra le quali ci posammo. Ma io, vedendo in quella zana non esser
fanciullo altri, del luogo dove era la mossi [45r] et in essa entrai perché era assai
grande, in modo che il prete, a mezzanotte desto, per la stufa della zana andava cercando
e, non la ritrovando, salì in su una panca per tastare se quivi fussi; e tanto s'avviluppò, che
cadde e si ruppe un ciglio.
Il romore fu grande e tutta la brigata di casa si levò, et al prete fasciorono il capo
stimando che, riscaldato dal vino, fussi caduto. E per la notte non si poté più dormire. Io
stimai che lui, avendo rotto il capo, non volessi più cercare di Sibilla, ma fu il contrario,
perché montò a cavallo prima di noi; et insieme seguitammo il cammino verso Ulmo.
La mattina ci fermammo a mangiare a un luogo detto Ander in sul fiume del
Danubio, che quivi è ancora piccolo. Pure il nostro prete, volendo in quello guazzare il
cavallo per il cammino stracco, non ebbe rimedio che non si mettessi a diacere nel fiume.
E bisognò che tutta la villa corressi in aiuto del prete; e fu riavuto molle e mezzo
morto. Ma, avendoci fatto buona compagnia e volendo venire avanti, aspettammo tanto
che tornò in sé e s'asciugò: e però la sera tardi ci conducemmo a Ulmo e, guidati da lui,
andammo a una buona osteria dove stemmo dua giorni.
Ulmo è in Svevia, terra grossa, forte, populata e piena d'arte. È posta in piano e li
corre a canto il fiume del Danubio, [45v] che quivi comincia a portare legni. Ha molti belli
fossi murati e pieni d'acqua, ha dua ordini di mura e, tra l'uno e l'altro, un fosso profondo;
la terra è quasi per tutto al pari de' merli. Li uomini sono molto religiosi: e mi fu affermato
da un frate da bene che più che la decima parte ogni domenica pigliava la comunione
divotamente.
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Trovai in Ulmo Antimaco da Mantova, che ancor lui era appresso a Massimiliano per
sua faccende. Era suto secretario del marchese Francesco di Mantova e, venendoli sospetto
che non rivelassi secreti suoi a' Veniziani, fu constretto fuggirsi in Alamagna. Era uomo
dotto e buono e molto religioso.
Era la Natività di Nostra Donna alli otto di settembre, et insieme visitammo qualche
chiesa d'Ulmo; e tra le altre udimmo il vespro alli frati predicatori. E detto il vespro, il
priore del convento, avendoci conosciuti italiani, ci fece carezze e ci menò per tutto il
convento. Et entrati in sacrestia, vedemmo nella bara una giovene morta la quale era stata
condotta quivi la mattina per seppellirla. Et inteso il priore che lei, avendo avuto nuove
che il marito era morto in Fiandra, sendo gravida, era morta di subito, deliberò tenerla
tutto il giorno avanti la lasciassi sotterrare. Antimaco, come fu giunto nella sacrestia, come
uomo molto divoto, si pose in ginocchioni avanti a uno altare: [46r] io rimasi a guardare la
donna e parvemi nel guardarla udire certo tenue mormorio. Domandai il priore che cosa
fussi. Lui, preso una candela, s'accostò alla morta e trovò che li battevano i polsi e menava
il meglio poteva i piedi e le mani legate e, colla debile voce, si ramaricava; onde lui chiamò
subito li altri frati e fece recare aceto e vino et altre cose da farla rinvenire, et ordinò fussi
portata in una camera.
Il romore andò subito per la terra: fecesi grande concorso di popolo e li più
stimorono che per l'orazione d'Antimaco fussi resuscitata, perché fu veduto avanti l'altare
in orazione.
E non era possibile si difendessi dalla moltitudine la quale, per divozione, gli lacerò
una vesta lunga che aveva indosso. Et insino alla notte oscura non si potette trarre di quel
convento, in modo che, la mattina sequente avanti giorno, per fuggire tal molestia si partì
e rimase d'aspettarci a Meming, perchè io avendo bisogno vestirmi da verno, mi fermai
tutto quel in Ulmo. E l'altra mattina a ora di terza cavalcammo e la sera giugnemmo a
Meming, la quale è terra medesimamente in Svevia piacevole e bella, dove il vescovo di
Triesti ci fece soprastare tre dì, dicendo che lo Imperatore doveva venire quivi.
Trovommovi messer Bastiano, elemosiniere dello Imperatore, uomo allegro, gran
ciarlatore e vano che era preposto [46v] della chiesa principale. E, mentre vi stemmo,
c'intrattenne e menò a torno vedendo la terra. Et un di festa ci condusse ne' fossi a
vedere trarre colla balestra, che è cosa da considerare in Alamagna, cin ogni minima
villa è l'ordine et il luogo dove li uomini si riducono le feste, chi a trarre colla balestra e chi
con lo scoppietto, e così s'assuefanno e questo ordine non si preterisce, et in ogni terra e
villa io fui, lo trovai. E quivi era il luogo bene ordinato ne' fossi e gran concorso d'uomini,
chi per vedere chi per trarre. Menocci ancora a un convento di certosini, distante dalla
terra un miglio, e ci fece dire tutta la loro vita e regola. E, come è costume de' Tedeschi,
quelli monaci ci dettono bere di più sorte vini che, ancor come qua, questi conventi di
Certosa stanno molto ben forniti delle cose da vivere. La sera ce ne tornammo all'osteria; et
io con l'oste, ch'era buon compagno, parlavo dove ero stato il giorno e di questo convento.
Lui mi disse: «Io voglio che tu sappi che tal convento sono manco di venti anni fu
edificato; et il modo ti dirò. Era in questa terra un ricco mercante, detto Arnaldo Spiner, el
quale nelle sue faccende era suto fortunato e prudente, in modo s'era ridotto qui con
grossa [47r] somma di danari. Non aveva donna figli et, essendo d'età d'anni settanta,
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non era per torne; aveva dua nipoti e' quali amava grandemente, e si credeva che loro
avessi a lasciare eredi.
In quel luogo dove è al presente la Certosa, era una piccola chiesa dove stava un
prete molto astuto, ma aveva poca entrata. E, venendo spesso nella terra et inteso per fama
la ricchezza d'Arnaldo, cominciò a esserli intorno e con parole e con qualche piccolo dono.
Et in brieve tempo contrasse tanta familiarità con lui che il vecchio andava spesso alla
chiesa sua e vi stava dua o tre giorni; et il prete non mancava di cosa alcuna da potere
tenere uno uomo ben contento. Nondimeno con tutte queste arti poco ne traeva, perché
Arnaldo amava tanto e' nipoti, che ogni cosa che dava a altri li pareva tôrre a loro.
E pensando il prete il modo da potere diventare signore della roba d'Arnaldo dopo la
morte sua e cognoscendolo tanto inclinato e' nipoti, che con parole non vedeva ordine di
tirarlo al disegno suo, deliberò vedere se poteva ingannarlo con colore di religione. Aveva
un cherichetto allevato da piccolo che non era manco tristo di lui, e si consigliò seco di fare
nell'assito della camera del prete uno canale che riuscissi a punto drieto al capo d'Arnaldo
quando dormiva: perché il prete [47v] aveva piccola stanza, dove era una stufa con una
camera allato con dua piccoli letti. Nell'uno stava il prete et il cherico, nell'altro Arnaldo
solo quando veniva a stare col prete. Feciono dunque una buca nel legname, che si partiva
dal luogo dove stava il cherico e riusciva dove stava Arnaldo; et iudicorono che lui non
avessi a pensare vi fussi malizia, sappiendo che in quella casa non era altri che loro tre che
si riducevono tutti in una camera.
Et una notte che il vecchio vi venne, il cherico, stando desto, come lo sentì sputare,
come usano fare e' vecchi, messe la bocca al canale aveva fatto e disse: "Arnaldo, se tu vuoi
esser salvo, edifica un convento e dotalo". E questo replicò più volte. Arnaldo, udendo le
parole, stette attonito: pure la prima notte non lo mossono, perché dubitò sognare. Ma,
stato alquanti giorni e ritornatovi, et avendo prima dal prete molte essortazione circa il
disprezzare il mondo e quanto sia brieve questa misera vita a comparazione dell'altra, et
udito la notte più volte le medesime parole, deliberò referirle al prete.
Il quale, inteso Arnaldo, li disse: "Tu puoi aver visto, Arnaldo mio, nel tempo che
abbiamo avuto conversazione insieme, che niente altro mi ha mosso a portarti amore e
riverenzia, se non uno ardente desiderio che, sendo tu oramai vecchio, l'anima [48r] tua
alla fine in buon luogo si riposassi. Et in questo ho messo ogni mia forza et industria
perché, avendo fatto professione di prete, di questo mondo non ho a portare altro. E
potrebbe essere che il Nostro Signore Iddio t'avessi voluto illuminare per questo modo che
tu mi di', perché a lui non è cosa più accetta che l'edificare chiese e monastieri, dove li
religiosi congregati possino cantare le laude sua. Non di meno questo che hai udito
potrebbe essere tua imaginazione, potrebbe ancora essere fraude diabolica; però non è da
creder cosí al primo tratto al secondo, ma stare a vedere se seguita, et allora disporsi a
fare quanto l'angelo di Iddio t'ammonisce ".
Arnaldo, udito il prete, rimase satisfatto e ritornossi alla terra. E dopo quindici
s'andò di nuovo a stare col prete, e stettevi tre notte, et udendo più volte le medesime
parole, stimò venissino di buon luogo e si dispose al tutto della sua sustanzia edificare un
convento e dotarlo grassamente; et al prete disse la sua deliberazione.
Il prete, considerando che l'ordine di Certosa ha bisogno di tante sustanzie che pochi
si truovano che possino dotare un monasterio convenientemente, pensò che, sendo causa
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di fare seguire un simile effetto, facilmente otterrebbe dal Generale d'essere abate a vita, e
che d'ogni altra religione non l'interverrebbe così. E però, [48v] lodato molto l'ordine di
Certosa e predicando la santa vita di quelli monaci, confortò Arnaldo a fare uno ordine di
certosini. Al vecchio piacque quello gli disse il prete et, ordinato il suo testamento, lasciò
che in quel luogo s'edificassi un bello monasterio, come l'hai potuto vedere, e del resto
della sua sustanzia si comperassino beni acciò che li monaci ne potessino abundantemente
vivere. Et i miseri nipoti esseredò e' quali, avendo preso moglie sotto speranza d'essere
eredi et avuto più figliuoli, oggi sono ridotti in somma miseria.
Arnaldo fatto il testamento non visse dua mesi et il prete, subito che fu morto, n'andò
dal Generale de' certosini e, narratoli il caso, ottenne quello voleva. Et in mentre visse
governò la badia a suo beneplacito. E morì uno anno fa il cherico, che dal prete li erono
sute fatte molte promesse, se seguiva l'effetto desiderava. Non li piacendo, quando crebbe,
star suddito al prete, tutto il fatto come era successo divulgò, ma il testamento non potè
tornare a rietro, tanto ci hanno stretto con lor legge e capitoli questi preti e frati. Et è un
tempo m'accorsi che loro usano ogni arte per torci il nostro e goderselo, e fare stentare noi.
E sono molte centinaia d'anni che cominciorono a pensare a questo, e però diceva Braccio
da Montone, perugino, capitano eccellentissimo a' suoi tempi, che le legge canoniche non
contenevono altro che "tôrre a' laici [49r]e dare a' cherici".
Vedendo noi che lo Imperatore non veniva, facemmo pensiero andarlo a trovare e ci
partimmo Antimaco e Matteo et io da Meming; e la mattina andammo a desinare a un
castelletto chiamato Chent.
All'osteria non era altro oste che tre fanciulle galante. Matteo, sendo stato altra volta
in Alamagna, aveva un poco di lingua tedesca e, motteggiando con una di loro, si compose
seco che, se con lui voleva stare a darsi piacere una ora dopo desinare, gli donerebbe uno
fiorino. La fanciulla accettò il partito e, dopo mangiare, subito il chiamò. Lui, seguitandola,
con essa in una camera si condusse, la quale aveva nel mattonato uno sportello a uso di
colombaia da potere discendere a basso in una altra stanza. E come fu in detta camera, gli
disse che bisognava che scendessi a basso e quivi l'aspettassi, perché s'uscirebbe di quella
camera et entrerebbe nell'altra da basso per uno altro uscio, e si stimerebbe per le genti di
casa che essa andassi alla camera per qualche faccenda e non perché vi fussi lui, el quale
era suto visto andare di sopra. Matteo acconsentì e, perché tornassi più presto e volentieri,
il fiorino promesso li dette. Lei, come fu sceso, lo sportello con buone chiave serrò e
partissi.
Noi, stati un pezzo e fatto conto con l'ostessa, di Matteo facemmo cercare e, non si
trovando, pensammo fussi ito a spasso pel castello. E più che [49v]
dua ora l'aspettammo e,
non tornando, ci pareva strano, ma sendo tardi deliberammo partire e lasciare quivi il suo
famiglio co' cavalli; e lo chiamammo prima per tutta l'osteria e lui non rispondeva perché
non udiva. Io, sendo per montare a cavallo, in una corticella di là dalla stalla entrai e di
nuovo chiamai Matteo. In su questa corte riusciva quella stanza dove Matteo era suto
rinchiuso dalla fanciulla, et era luogo che raro alcuno vi capitava, onde lui, sentendosi
chiamare e conoscendo la mia voce, rispose e mi disse il caso li era intervenuto.
Io allora, fatto chiamare l'ostesse, le pregai che al nostro compagno aprissino. Quella
che l'aveva serrato, diventata un pochetto rossa, disse che, andando a dormire, da
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medesimo in quel luogo doveva essere entrato; e che quelli loro serrami tedeschi per loro
medesimi si chiudano e difficilmente si possono aprire. E fece trarre Matteo di quella
stanza el quale, sanza pensare altrimenti al fiorino, presto fu a cavallo e si misse in
cammino. La fanciulla aveva pensato, vedendo Matteo piacevole e stimandolo ricco, che se
quivi rimaneva e con lei si cominciassi a sollazzare, poterli trarre di mano buona somma di
danari.
In effetto avemmo fatica, la sera, di condurci a Nesselban e, perché Antimaco usava
dire un proverbio mantovano che "a gorga laudata non [50r] si debbe pescare", ci
attenemmo al consiglio suo. E sendo quivi l'Osteria della Corona tenuta la principale, ce
n'andammo a una osterietta, nella quale pochi forestieri dovevono alloggiare. Ma ci riuscì
bene, perché ci dette buon vini e buone vivande et a Matteo il letto fornito d'una che
andava cantando pel paese et in quel modo viveva. E così, quello che il giorno con prieghi
e spesa aveva desiderato, né potuto avere, la notte con poche parole e pochi danari ebbe.
Il prete, ancora che della Sibilla cercava, si giaceva con l'ostessa mentre che l'oste
giucava nella stufa, et avendo beuto la sera molto bene, presto s'adormentò. E volendo
l'ostessa farlo levare, perché dubitava che l'oste, finito il giuoco, non lo trovassi quivi, non
potette mai, in modo che corse all'oste e gli disse che, sendo stato insino a quella ora a
rassettare la cucina e volendo ire a dormire, aveva trovato il prete nel suo letto né aveva
rimedio a farlo levare. Il marito, inteso il caso e perdendo, si levò con ira e, preso un
bastone, andò alla camera dove era il prete e tante bastonate li dette, che da esse fu
svegliato e condotto nella stufa, dove il resto della notte stette. E la mattina si trovò mezzo
fracassato, pure insieme con esso noi il cammino seguì. E ci posammo a fare un pochetto
di colazione alla Chiusa, che è una osteria sola con uno castello di sopra [50v] con uno
muro dal castello al fiume dove le mercantie, che entrano et escano del contado di Tirolo,
pagano il dazio.
E quasi sempre interviene che, ne' luoghi dove è una osteria sola, e' forestieri sono
male trattati, perché all'oste pare che chi passa dalla forza sia constretto alloggiare con lui.
Et a noi accadde la mattina mangiar poco e spendere assai, sicché espediti presto,
facemmo il dì gran cammino. E passammo la montagna e ci conducemmo a Nazaret ch'era
tardi, e trovammo tutte l'osterie piene in modo che ci bisognò pregare un villano del borgo
che in casa di grazia ci ritenessi. Et entrati in casa sua, trovammo lui e la donna che altro
che piagnere tutta la sera non feciono, onde dissi al mio tedesco domandassi la causa di
tanto suo dolore.
Et il villano alla dimanda rispose così :
«In questo borgo non è il più ricco contadino di me e di possesioni e di bestiame, et
ho avuto una sola figlia chiamata Orsola, la quale allevai ben costumata e col timore di
Iddio. Era già d'anni sedici e mai fu vista la più bella e gentil cosa. Accadde che un giovane
qui del borgo, di buon parentado, nominato Gianni, di lei s'innamorò e sì disperatamente,
che giorno e notte mai si partiva da questa casa: e l'Orsola monstrava punto di lui non si
curare. Fecemela domandare per donna et io, satisfacendomi e del giovane e del
parentado, [51r] volentieri gnene davo. E ne domandai l'Orsola, la quale rispose non
volere marito insino che non aveva venti anni et in questo mezzo voleva attendere a
servire a Dio come si richiede a una fanciulla. Et io, non la potendo sforzare, a Gianni feci
intendere questa risposta e li feci dire che, se lui voleva aspettare ancora anni quattro,
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gnene darei volentieri. A lui parve il tempo troppo lungo e tanto dolore se ne prese che
s'ammalò, e non si trovando alla sua infermità rimedio, in capo a dua mesi morì. Sparsesi
la novella, io m'aviddi che l'Orsola niente si turbassi. Viene il giorno che lui è portato
alla chiesa et a caso ebbe a passare avanti la nostra casa. Sentonsi e' preti cantare, l'Orsola
si fa alla finestra e, mentre che il corpo di Gianni passa da quella, si getta nella strada e
tutta si rovinò, né s'intesono altre parole delle sua se non: "Seppelitemi a canto a Gianni". E
così ordinai si facessi. E sono a punto oggi quindici giorni che tal caso segui, sì che
nessuno si maravigli se io piango e sospiro sendo privato, privato dell'unica figliuola in
modo tanto subito et extraordinario».
Con questi pianti non fu che il villano non ci tenessi bene, pure partimmo la mattina
di buona ora e la sera ci conducemmo a Ispruc, dove era lo Imperatore.
Era a punto mezzo settembre quando arrivai <a> Ispruc, el quale è un piccolo castello
nel [51v] contado di Tirolo; ma perché il duca Sigismondo, zio di Massimiliano, abitava in
quel luogo assai e perché vi sono vicine le fornace che affinono l'argento, è accresciuto
assai di borghi. Lo Imperatore vi ha un bellissimo palazzo e la state vi sta assai perché,
essendo tra monti, vi si sente poco caldo. Passa a lato al castello un fiume grosso, che porta
navili da condurre vettovaglie, e si domanda il fiume Is et ha un ponte di legname, donde
è nominato Ispruc, che in nostra lingua vuol dire ponte a Is. Trovai in quello castello tanto
concorso d'italiani e massime lombardi, che a me pareva essere in una delle buone terre
d'Italia. Eravi il cardinale di Santa Croce, mandato da papa Iulio legato per confortare lo
Imperatore a fare la impresa contro a' Veniziani, accche loro, impauriti, restituissino le
terre tenevono della Chiesa. Et era tanta la paura in Italia della venuta dello Imperatore,
che non era rimasto a rietro alcuno, benché minimo principe, che non avessi mandato
uomini da Sua Maestà. E' Sanesi, ancora vi avessino Domenico Placidi, di nuovo vi
mandorono messer Antonio da Venafro, iurisconsulto eccellente e nelle cose delli stati
molto esperto e di lingua tanto atto a persuadere, che pochi credo ne abbi pari.
Io alloggiai in una stanzetta nel borgo di qua verso Italia, vicina a quella aveva
messer Antonio. E perché esso era [52r] uomo affabile e faceto, presi grandissima
familiarità seco; e perché non eravammo occupati in molte faccende, passavammo il
tempo con dare a intendere qualcosa estravagante a un suo cancelliere molto semplice, o
col farli qualche piacevole giarda.
Chiamavasi costui Deifrido da Piombino, et avea qualche lettera, ma se li sarebbe
dato a intendere ogni gran cosa. Era, oltre a questo, fuor di misura voglioloso e, sendo di
settembre, si ricordava dell'uve e de' fichi d'Italia e mai domandava se non se ne potessi
avere. Messer Antonio, accortosi di questo, domanda una sera un suo servitore chiamato
Salimbene, astuto quanto el diavolo, se fussi possibile trovare fichi in quelle parte, perché
n'arebbe gran voglia. «Come!» rispose Salimbene, «e' ne son portati ogni mattina a
vendere, ma, per essercene gran carestia, mai si conducono alla piazza perché sono
venduti prima; e bisognerebbe tenere uno alla porta che ne comperassi quando sono
recati.»
Deifrido, udito il ragionamento, s'offerse di starvi lui la mattina sequente. E così
l'altra mattina vi stette insino a nona et i fichi non comparsono. E, parendoli già ora di
desinare, se ne tora casa e disse non avere veduti fichi. Rispose allora Salimbene: «A
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che porta se' tu stato?». E dicendo lui: «A quella del ponte», messer Antonio cominciò a
gridare e dire a Deifrido ch'era uno scimunito; e come lui voleva che dalla porta del ponte
che viene di verso a' monti, venissino e' fichi, e che bisognava stare a quella [52v] che viene
di verso il piano. Tanto che Deifrido, dalle grida stordito, anall'altra porta e vi stette
insino a sera, che non vidde né uva fichi. E così il povero uomo che poco altro nella
Magna desiderava che mangiare, fu tenuto con questa arte digiuno insino alla notte.
Un'altra volta el detto Salimbene, dormendo in una medesima camera con Deifrido,
apostò a punto il luogo dove lui dormiva. E, fatto nel palco di sopra una buca e messovi
una conca piena d'acqua e turatola bene, appiccò una cordella al turacciolo; et in su la
mezzanotte, quando Deifrido era profondato nel sonno, tirò detta cordella. La conca si
sturò e l'acqua cominciò a venire a dosso a Deifrido di qualità che, dalla moltitudine d'essa
svegliato, si ritrovò tutto molle. E Salimbene li fe' credere che la notte fussi piovuto forte e
che quelli tetti non resistono all'acqua come li nostri.
Intesi in Ispruc cosa da considerarla perché, come è noto a ciascuno, in Alamagna de'
soddomiti si fa asperrima iustizia, in modo che si può credere che questo vizio di quella
provincia sia quasi del tutto estirpato.
Erano alla corte dell'Imperatore dua piemontesi, e' quali cercavano la investitura
d'un castello e per questo piativono insieme. L'uno si chiamava Simon da Chieri, l'altro
Ioan Polo da Casale e, come interviene, per questa lite erano diventati inimici mortali.
E considerando Simone che Ioan Polo aveva [53r] migliore ragione, e gli pareva
ancora fussi più favorito, deliberò provare se con uno scelerato disegno lo poteva mettere
in ruina. E sappiendo che Ioan Polo teneva per ragazzo un fiammingo d'età d'anni
quindici, un giorno che passava per la via lo chiamò et, avvedutosi nel parlare ch'el
fanciullo non era molto bene contento del patrone, li disse che se lui voleva accusare alla
iustizia, per un caso che lui gli direbbe, il patrone, lo farebbe per sempre ricco; e li donò
per arra dua fiorini.
Il fanciullo, di natura maligno, volendo male a Ioan Polo, incitato da' doni et offerte,
gli promesse fare quello voleva. E Simone disse che accuserebbe Ioan Polo per soddomito
e che lui et il patrone sarebbono presi; e li ordinò quello dovessi dire, e li messe cuore che
non dubitassi per minacce o spaventi li fussino fatti, ma sempre dicessi il medesimo, e che
questo era il modo a vendicarsi del patrone e diventare ricco.
Il fanciullo, che non sapeva che cosa fussi soddomia come in quel paese tal vizio
fussi punito, rimase d'accordo di fare quello che Simone li ordinava; onde lui accusò Ioan
Polo al borgomastro, secondo era convenuto col ragazzo. Il quale subito fece pigliare Ioan
Polo et il ragazzo. Et essaminando Ioan Polo, che era innocente, trovò che audacemente
negava. Ma il ragazzo subito confessò e dette tante conietture e verisimili, aspettando
minacci e battiture, che Ioan Polo [53v] fu messo alla tortura. La quale e' Tedeschi danno in
questo modo che distendano uno uomo in su uno desco, e poi li legono le gambe e le
braccia, e tirano a lieva, come si fa a caricare una balestra. Et è questo sì gran tormento, che
nessuno vi può reggere: che Ioan Polo, vinto dalla passione, confessò tutto quello che
diceva il ragazzo, ancora che non fussi vero. E però furono sentenziati al fuoco lui et il
fanciullo, secondo il costume del paese.
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Era in quel tempo oratore appresso lo Imperatore per il re Federigo di Napoli messer
Francesco de' Monti, famoso iurisconsulto et uomo molto da bene e prudente nelle cose
del mondo. E trovandosi in Ispruc et avendo amicizia con Ioan Polo, teneva per certo che
lui in questo caso non avessi colpa. Ma questo vizio è tanto nel paese abominabile che non
arebbe usato parlarne, raccomandarlo. E la mattina che si doveva fare l'essecuzione, gli
occorse che fussi possibile che al fanciullo fussi suto promesso che non morirebbe, e però
che lui stessi ostinato in accusare Ioan Polo. Et andato dal borgomastro, gli disse il
dubbio che aveva e lo pregò che fussi contento far prima morire il ragazzo; al che il
borgomastro acconsentì.
Sono menati Ioan Polo et il fanciullo al luogo della iustizia. Il borgomastro ordina che
prima sia arso il ragazzo il quale, veduto avere a morire contro a quello li era suto
promesso, ogni cosa per ordine cominciò a narrare e confessare chi l'aveva [54r] indotto a
questo e con che arte. Simone, il quale era a cavallo a vedere, subito udite le parole del
ragazzo, quanto più presto poté si misse in fuga. Ioan Polo fu libero et il fanciullo fu arso,
ancora che fussi giovane, perché il borgomastro non volle che alcuno pigliassi essemplo di
calunniare il patrone a torto. E Ioan Polo di poi, sendo libero, intra pochi giorni ottenne la
sua sentenzia.
Lo Imperatore, mentre stemmo a Ispruc, ogni giorno andava a caccia; e, per
festeggiare il Legato, fece un una caccia a Cirle, luogo quivi vicino a dua miglia. E fece
estendere alquanti padiglioni in su una prateria, la quale aveva dalla man destra il monte e
dalla sinistra il fiume, in modo che le fiere che si levavono nel monte erano necessitate,
non potendo passare il fiume per essere largo e profondo, tutte venire a morire nel prato
davanti a' padiglioni. E furono presi in quella caccia più che venticinque cervi e' quali,
perseguitati da' cani, potendo fuggire al monte per timore delli uomini che v'erano, si
gittavono nel fiume; e lo Imperatore coll'arco gli saettava e poi mandava uomini con uno
navicello a pigliarli; e quasi mai traeva saetta in fallo. E volle fare uno esperimento che li
riuscì, che a un cervo, che avea le corna piccole che poco apparivono, trasse in maniera
dua saette, che le fece uscire pel capo e tanto a punto che parevono le corna d'esso cervo.
[54v] Fece ancora il giorno cacciare a' gems, le quale in lingua italiana chiamiamo camozze,
in latino dorcas.
Abita questo animale ne' monti più aspri e dirupati che si truovino, perché in tali
luoghi non li pare potere essere offeso, e massime dalli uomini. Pure vi sono uomini che
vanno con certi ingegni per quelli monti e rupe, che è iudicato cosa impossibile. La
camozza li aspetta in tali luoghi; e bisogna che loro sieno molto accorti perché con le corna
gli ferisce e spesso gli fa ruinare giù per l'altezza de' monti, e si truovano a basso in pezzi.
Et il giorno ne viddi l'esperienza perché in quello monte fu levata da' cani una d'esse, la
quale si ritirò alto agli scogli e rupe, in luogo che cani non vi potevono salire. Uno uomo,
uso a tale essercizio, con certi ferri a' piedi et una lancia lunga in mano, andò a essa; e già
l'aveva presa per le corna, ma tanto s'avvilupporno insieme, che caddono giù pel monte:
l'uomo si fracassò in tutto e la camozza, giunta sana al piano, da' cani fu presa.
Presso a Ispruc a un miglio è uno bel castello, chiamato Alla, in sul medesimo fiume,
e quivi si fa il sale. El quale non si cava de' pozzi né d'acqua marina, come ne' paesi nostri,
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ma viene una acqua grossa d'un monte altissimo, la quale, bollita, diventa salina tanto
bella, quanto si potessi imaginare, donde lo Imperatore [55r] trae grande emolumento. In
questo castello, mentre stetti a Ispruc, si fece la fiera che durò quindici dì; e vi vengono
assai mercantie d'Italia e massime panni non molto fini.
Intra li altri, in questo tempo vennono a detta fiera dua mercanti bergamaschi,
nominati l'uno Andrea, l'altro Nicodemo; e per che causa si fussi menorono con loro le
moglie giovane e belle, le quali aiutavano loro vendere e' panni e poi facevono l'altre
faccende di casa. Andrea era vecchio e brutto, e la moglie, che Angiola avea nome, poco di
lui si contentava e molto li piaceva Nicodemo. El quale, ancora che non fussi molto
giovane, era appariscente e gagliardo, ma amava tanto la moglie, che Ferretta si chiamava,
che l'Agnola si disperava potere mai ottenere da lui cosa che la volessi. Ma, accortasi che
un giovane della terra, detto Vulgan, molto spesso stava a motteggiare colla Ferretta,
pensò d'aiutare questo amore per vedere se con questo modo potessi mettere ad effetto il
suo.
E venne a punto bene che Andrea, sendo stato otto a Alla, deliberò portare una
parte de' panni più grossi a Sboz, luogo non molto lontano, dove sono le cave dell'argento,
stimando finirli meglio. E lasciò l'Angiola che vendessi li altri e si stessi con Nicodemo
come faceva prima. La quale, parendoli che la fortuna l'aiutassi, cominciò con destro modo
a lodare Vulgan alla Ferretta e dirli che s'era bene [55v]
avvista che Nicodemo aveva
qualche pratica d'altre donne, e che si maravigliava che, avendo occasione di godere sì bel
giovane, non la pigliassi; e che, se ella fussi amata da lui, non indugerebbe troppo a
contentarlo. E tanto infiammò con queste et altre parole l'animo della Ferretta, che lei si
dispose a far piacere a Vulgan, ma rimase che l'Angiola pensassi al modo. La quale andò
subito a trovare il giovane, che molto bene parlava italiano, e compose seco che la sera, a
notte, venissi e che lo metterebbe in camera sua a dormire colla Ferretta.
Nicodemo, sendo del mese d'ottobre, usava ogni sera aver cenato a una ora di notte,
et a dua andare a riposare, e lasciava la Ferretta insieme con l'Angiola che rassettassino e'
panni e li ordinassino per la mattina sequente. E come lui fu ito a dormire, ne venne
Vulgan et insieme colla Ferretta n'andò nel letto dell'Angiola. E, sendo domandata dalla
Ferretta dove essa dormirebbe, disse si starebbe nella stufa e, quando li paressi tempo, gli
chiamerebbe acciò che Nicodemo non pigliassi sospetto. stette molto che in camera di
Nicodemo al buio se n'entrò e con lui si messe nel letto. E cominciolli a fare tante carezze
che Nicodemo si maravigliò perché la Ferretta sua non era usa a far così: pure fece il
debito suo, e più d'una volta.
L'Agnola, per aver causa di levarsi quando gli pareva tempo, quando entrò in camera
[56r] legò all'uscio una corda e la portò al letto perché, tirandola, facessi romore. E
volendosi partire, tirò la corda, e l'uscio fece romore; e lei ebbe causa di levarsi per vedere
che cosa fussi. E, tolto piano li panni suoi, andò dalla Ferretta e li disse ch'era tempo. La
quale malvolentieri dal suo amante si partì, perché li parve che la trattassi altrimenti che
Nicodemo. Pure, per non dare ombra, a lato al marito n'ane per monstrare non essere
stata con altri, gli fece più carezze non soleva, onde lui disse: "Donna, e' bisognerebbe che
io fussi più giovane a contentarti! ora mi ti lievi da canto per il romore sentisti e di nuovo
torni a darmi fastidio". La Ferretta in su queste parole stette sopra di sé, pensando quello
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volessi dire il marito; e li venne in fantasia quello era seguito a punto ma, trovandosi
incolpata, non volle rimescolare questa materia.
L'Angiola, tornata in camera e trovato Vulgan solo né li parendo che Nicodemo fussi
riuscito secondo pensava, a lato a lui se n'entrò e, trovandolo giovane, fresco e gagliardo,
pensava un modo da poterlo ritrarre dall'amore della Ferretta e porlo a sé. E li venne per la
mente questo che, stata alquanto nel letto, monstrandosi molto afflitta disse: "Vulgan mio,
noi altre donne siamo tutte fragile e meritiamo escusazione perché così ci ha creato la
natura. Tu puoi avere veduto quanto io abbi favorito l'amor tuo con la Ferretta e si può
dire che io sia stata causa del peccato seguito tra voi. E questo ho fatto non tanto per lo
amore [56v] portavo a te, quanto per potere giacere con il marito della Ferretta, ora che
Andrea mio era a Sboz. E questa notte sono stata seco in cambio della moglie, di che mi
pento insino all'anima. E mi duole che uno sì galante e pulito giovine, come se' tu, sia stato
con la Ferretta, considerato al pericolo porti, perché ho trovato questa notte Nicodemo
tutto piagato di male francioso; di che, come m'aviddi, sanza avere a fare cosa alcuna seco,
impaurita mi partì'. E te conforto a non volere avere più pratica con la Ferretta, acciò che
da lei non pigliassi simile male, che sai quanto è contagioso e quanti belli gioveni per
questo sieno guasti e ridotti in miseria. E, se bene io non son bella come la Ferretta, non
credo, quando converserai meco, dispiacerti ".
Il giovine, trovandosi nel letto e temendo di quello li era detto, a essa s'appiccò e li
promisse di lasciare in tutto l'altra e così insieme el resto della notte si dettono piacere. La
mattina il giovane, per tempo levato, si partì, e le donne e Nicodemo tornorono al loro
mestiere usato di vendere e' panni. prima s'appressò a sera che la Ferretta, sendoli
piaciuto Vulgan, pregò l'Angiola che la notte lo facessi venire; la quale gli rispose che
quando si partì li disse che non potrebbe tornare l'altra sera, non di meno lo fece venire
per sé. E così l'altre notte, quando con una scusa e quando [57r] con un'altra la Ferretta
trastullava e con Vulgan si giaceva. Ma essa, dopo sei giorni, cominciando a dubitare di
quello era, li parendo che Vulgan la guardassi più come soleva, se ne volle chiarire e,
postasi una sera in luogo secreto, s'accorse molto bene che Vulgan dall'Angiola andava e
con essa dormiva. Onde, infuriata, tutto l'amore che all'Angiola et a Vulgan portava in
odio convertì; e li entrò fantasia volersi vendicare.
E, sendo intra quattro giorni tornato Andrea, tutto questo caso per ordine gli narrò,
monstrando farlo per affezione e per tener conto dell'onore suo. Andrea fu malissimo
contento e non volle prestare subito fede alla Ferretta ma, dopo che fu stato in Alla dua
giorni, disse alla donna, la mattina in sul desinare, che il voleva ire a Ispruc a riscuotere
certi danari e che non tornerebbe la sera. La donna, sendo stata sei sanza l'amante, gli
pareva ogni ora mille che il marito si partissi, et a Vulgan fece cenno che venissi la sera da
lei. E sendo venuto et entrati insieme nel letto, il marito, che non s'era partito ma era stato
ascosto in casa, a mezzanotte si scoperse e trovò li amanti nel letto. Ma Vulgan, veduto
Andrea, niente impaurì: prese le sua arme e disse all'Angiola che seco se n'andassi. Andrea
volle fare alquanto di resistenzia ma, sendo vecchio e debole, Vulgan irato l'amazzò e,
presi certi danari trovorono di suo, [57v] lui e l'Angiola del castello si partirono.
Nicodemo, avendo la notte sentito il romore e veduto quello era seguito, deliberò la
mattina per tempo con la moglie partirsi. E rassettate tutte le cose sua et ancora quelle
d'Andrea, pensando, come s'usa per parte de' mercanti, della roba d'Andrea a nessun dare
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conto, e parendoli per questo non avere male guadagnato alla fiera, se n'andava assai
contento. La Ferretta, conoscendo che il disegno suo era tutto riuscito al contrario e che
l'Angiola era per godere Vulgan un tempo tutto libero, non poté stare paziente e pensò
lasciare il marito e cercare se poteva ritrovare Vulgan. E però si compose con un famiglio
tedesco che Nicodemo teneva e la notte s'andò a Mastera, dove si posorno il primo dì che
partirono da Alla. Sappiendo dove Nicodemo teneva li suoi danari, quelli tutti tolse e la
notte si partì col famiglio.
E così delli duoi mercanti che menorno le donne alla fiera, l'uno fu morto, l'altro restò
sanza la donna e con pochi danari. Se la Ferretta trovò poi Vulgan o no, o quello di lei
seguissi non so, a punto perché il caso nacque mentre ero a Ispruc. Ho bene inteso poi che
si ridusse in Argentina con quel famiglio a fare osteria. E Vulgan ancora insieme con
l'Angiola in Boemia si fuggì, dove bisognò stessi qualche tempo.
Come [58r] ho detto di sopra erano in Ispruc assai italiani, mossi in sulla fama della
venuta dello Imperatore in Italia. Tra li altri vi era, per faccende di Ioan Paulo Baglioni,
uno perugino chiamato ser Ciabattella, el quale era uomo faceto e sollazzevole. E non
avendo molto che fare, spesso se n'andava a un munistero de' frati conventuali di San
Francesco, che era poco fuori del castello. E, come interviene a chi pratica in un luogo,
prese grande familiarità con uno d'essi frati, chiamato Ulrico. Et, ancora che ser Ciabatella
non intendessi tedesco né il frate italiano, parlavano insieme una certa gramatica grossa in
modo s'intendevano.
Aveva questo frate, al lato, un paio di gentili coltellini forniti d'argento, con un
cucchiaio pur d'argento, li quali piacevono molto a ser Ciabattella, ma non poteva
investigare modo di levarli al frate. Ma, considerando che il frate gli teneva appiccati al
cordiglio con una cordellina di seta galante, cominciò a fare il divoto con questo frate. Et
una mattina, andando da esso a buona ora, li disse che avendo a ire appresso allo
Imperatore, che di quivi si voleva partire, aveva deliberato, remossa ogni cagione, avanti
sua partita confessarsi, e che l'ora della morte è incerta, e che era ben contento mettere per
il suo Signore la roba e la vita, ma non l'anima; e che lo pregava per carità l'udissi in
confessione.
Il frate, prestando fede a tante sue divote parole, prese il carico [58v] d'udirlo e,
cominciando la confessione, l'andava interrogando sopra e' comandamenti. E lui gli
rispondeva che pareva la più divota persona del mondo. E così seguitando, quando il frate
venne al precetto che dice: 'Non furare', lo ricercò se avessi mai furato cosa alcuna. Ser
Ciabattella, che ad altro fine non si confessava che per tôrre e' coltelli al frate, messe a
questa interrogazione un grande sospiro e, quasi lacrimando, rispose: «Io ho furato e
furo». E mentre disse queste parole, con un paio di forbicine, ppiano che possette, la
cordellina tagliò e si prese e' coltelli.
Il frate di questo atto niente s'accorse; ma, attendendo alla confessione, ser
Ciabattella, che aveva essequito la sua intenzione, si sforzò d'abbreviarla et in ultima,
presa l'assoluzione e la penitenzia, si partiva con buon passo dal frate. El quale, cercando il
cordiglio e non ritrovando e' coltelli, pensò subito che ser Ciabattella li avessi tolto e con
gran voce indrieto lo richiamò. Ser Ciabattella alquanto fermatosi li disse: «Frate, non fare
romore e sia contento non manifestare la confessione, che sai in quanta pena s'incorre! Io
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mi son confessato da te e detto che avevo furato e furavo, e tu non puoi in modo alcuno
ridirlo». Il povero frate, considerando che ser Ciabattella diceva il vero, raffrenò la voce; e
lui con li coltelli se li levò davanti.
[59r]
LIBRO QUARTO
Essaminando qualche volta tra me medesimo quanti sieno li affanni, le turbolenzie, le
guerre e pericoli ne' quali si truova non solo la città nostra, ma tutta Italia, e non solo Italia,
ma quasi tutto il paese di che abbiamo cognizione, ho pensato non solo lasciare lo scrivere,
ma omettere ogni altra cosa della quale potessi pigliare piacere alcuno. Ma meglio a quello
che è passato pensando e per la mente rivolgendolo, ho conosciuto in ogni età quasi queste
medesime cose essere successe; e poi che il mondo fu creato, non esser mai stato pacifico,
ma sempre inquieto.
E mettendo da parte l'antiquità delli Egizi, Assiri e Medi, quelle republichette di
Grecia e Lacedemone e Tebe e Atene e tante altre sempre stettono in risse e contenzione e
sempre l'una consumò l'altra insino che si destrussono. Alessandro Magno grande briga al
mondo dette, più popoli in servitù ridusse, molte provincie guastò.
Cominciorno poi e' Romani, che alla misera Italia, alla afflitta Grecia, all'Asia,
all'Africa, a' Galli, a' Germani et a molte altre nazione furono per molti anni flagello
durissimo. E quando furono cresciuti, nacquono tra loro le guerre civili, che furono causa
che, in Italia et altrove, molte città a sacco e fuoco andorono, e che molte meschine
verginelle in servitù fussino condotte.
Quanti pessimi tiranni in Roma [59v] si viddono! Quanti scelerati e pazzi in Roma
dominorono! Quante volte la republica in mano di falliti e rovinati venne, insino che
Costantino, d'Italia partito, non più una parte d'essa, ma tutta in preda a più popoli
barbari la lasciò, a Unni, Eruli, Vandali, Gotti e Longobardi! Et essa Roma, da loro presa,
fu in tutto messa in preda e desolazione; et il resto d'Italia fu guasto, rubato, dissipato et
arso.
E così dipoi successivamente spesso li è accaduto; in essa sono venuti Galli, Germani,
et altri popoli, Federigo Barbarossa, Federigo secondo, tanti Ottoni et Enrici, che quella,
quando un poco sriavuta, di nuovo hanno prostrata. E se qualche volta cinquanta anni
da' barbari è suta libera, non è che non abbi avuto continua suspizione d'essi e che tra
medesima non si sia insanguinata.
Non è dunque maraviglia se ne' nostri tempi sono accascate le medesime cose che
altre volte sono state. Non s'hanno per questo li uomini a ritrarre, per quanto è lor
possibile, dalli studi et essercizi consueti, perché Iddio e la natura, che questa variazione
lasciano seguire, niente fanno in vano e vogliono che questo mondo, quanto dura, del
continuo pbello e più delettabile diventi. questo seguirebbe se li uomini, impauriti
delle guerre, dubitando della morte, a niente altro che a dolersi attendessino. E però noi,
che in questi tempi siamo, imitando e' passati che in simili travagli [60r] e forse più gravi si
sono trovati, non desisteremo da fare quelle opere indicheremo a proposito: et io non
desisterò dal mio scrivere.
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Era gl'autunno passato e ne veniva il verno, e massime in Alamagna dove li freddi
cominciono prima e durano più che in Italia. E per questo lo Imperatore, al principio di
novembre, volle partirsi dalli monti e ridursi alle pianure in Svevia, et ordinò che il Legato
e li altri oratori lo seguissino. E però messer Antonio da Venafro et io, a mezzo novembre,
ci partimmo d'Ispruc con freddo grande e neve, e ci fermammo la sera a Delfo che è un
buon borgo, distante da Ispruc quattro miglia.
Nella medesima osteria dove noi, erano la sera alloggiati uno archidiacono
d'Erbipoli, che andava a Roma, et uno prete da Santes vicino al Paese Basso che veniva da
Roma, dove era stato un tempo cappellano del cardinale di Pavia, et infastidito de' costumi
della corte se ne tornava a casa. E come accade che chi vuole andare in un luogo volentieri
parla e domanda quelli vi sono stati e che di quivi di poco si partono, l'archidiacono
interrogava il cappellano di molte cose di Roma e, sendovi stato altre volte, lo ricercava se
era vivo questo e quell'altro prelato, e molto lodava la corte di Roma, come è costume di
tutti e' prelati ricchi che in essa stanno perché [60v] quivi sanza alcuno rispetto
conseguono tutte le lor voglie. Il cappellano, che mal contento da Roma si partiva,
dannava il Papa, i cardinali e tutti e' prelati, e li costumi e cerimonie della corte romana e,
per scoprirli meglio, disse essersi trovato alla morte di papa Alessandro e che lui fu
avenenato. E domandandolo io in che modo, rispose che e' segni del veneno si viddono
certi, ma il modo è dubbio, e che lui n'aveva uditi contare tre.
Il primo, e che è creduto dalli più, fu che papa Alessandro, avendo bisogno di danari,
pensò di dare il veleno a tre cardinali ricchi et ordinò che il cardinale Adriano lo invitassi
una sera alla sua vigna, dove fece ancora chiamare quelli cardinali a' quali voleva dare il
veneno e delli altri per levare il sospetto. E del modo del veneno dette la cura al duca
Valentino, il quale fece tôrre dua fiaschi d'ottimo vino et in essi messe il veneno. E mandò
detti fiaschi per un suo servitore alla vigna, dove avevono a cenare, con ordine fussino
messi in fresco. Et era rimasto col suo credenziere a chi avessi a mettere di detto vino;
s'accorse il Valentino di conferire al Papa quello aveva ordinato. Occorse che il Papa
giunse alla vigna avanti al Valentino et, avendo sete, gli fu dato bere del vino di quelli
fiaschi. Et a pena aveva finito [61r] di bere che il Duca arrivò et ancor lui assaggiò un poco
del medesimo vino et, accortosene, subito conobbe che il Papa n'aveva beuto assai e che
non vi era rimedio. Et il convito fu tutto conturbato e per la sera non si cenò altrimenti,
perché il Papa subito ammalò et in quattro giorni morì. Et al Duca ancora venne male, ma
perché era giovane et aveva beuto poco, ebbe grande infermità, pure se ne liberò.
Altri dicono che il cardinale Borgia, nipote di papa Alessandro, il quale morì a
Urbino, aveva un fratello, chiamato messer Ramirro capitano della guardia del Papa, e
pensava che la roba del Cardinale avessi a essere sua. Ma, avendosela presa il Papa, lui
ogni giorno con importunità la domandava, onde il Valentino lo cominciò avere in odio e
pensò levarselo davanti. Et una sera che il Papa cenava alla vigna d'Adriano, fece invitare
messer Ramirro, che v'andò malvolentieri perché era stato malato et ancora non era ben
guarito. E però fu dato ordine al cuoco che ordinassi per messer Ramirro qualche vivanda
a proposito. Et il Duca si compose con un suo servitore, el quale adoperava a queste cose,
che mettessi in sulla vivanda di messer Ramirro certa polvere bianca, che era veneno. Il
servitore, andato in cucina, domandò il cuoco se aveva [61v]
ordinato niente da parte per
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messer Ramirro, et il cuoco disse di e gli monstrò certo biancomangiare in una pentola.
Il servitore, stato alquanto in cucina, appostò che il cuoco fussi occupato e messe la polvere
nella pentola e poi si partì. Il cuoco, come è di costume, assaggiando poi il
biancomangiare, subito si senti cuocere la gola, perché il veneno era ancor di sopra, e
pensò quello potessi essere stato, perché sapeva e' modi del Papa e del Duca. E,
conoscendosi mortale, volle che delli altri, e gran maestri, morissino quando lui. Et avendo
a fare una torta, prese la maggior parte di questo biancomangiare e ne compose la torta la
quale, portata in tavola, offese più o meno, secondo la quantità ne fu mangiata.
Il Papa, al quale simile vivande piacevono assai, ne mangiò tanta che subito cascò
malato e presto morì. Il Duca, che ne mangiò poca, ammalò ma guarì, e così feciono delli
altri. Messer Ramirro, che mangiò la minestra, in dua giorni andò via.
Sonci di quelli che dicano che al Papa fu dato il veneno da un suo cameriere, nel
modo che io dirò.
Era in Roma uno scrittore appostolico, cortigiano antico, uomo da bene, ricco e di
buon costumi. A costui dispiaceva assai la vita di papa Alessandro e non aveva altro
desiderio se non di sopravvivere a lui [62r] e, conoscendolo robusto e di gran
complessione, pensò che, se non fussi aiutato morire, era per vivere un tempo. E per
vedere se poteva venire a questo suo disegno, prese pratica stretta con uno cameriere del
Papa, el quale era spagnuolo ma molto semplice. Et ogni giorno gli donava qualcosa e gli
faceva conviti e l'accompagnava per Roma, onde il cameriere pose tanta affezione allo
scrittore che non sapeva vivere sanza esso. Et essendo molto forte innamorato d'una
vedova milanese e non trovando conrispondenzia in questo amore, lo conferì uno giorno
allo scrittore, richiedendolo d'aiuto e di consiglio.
Lui rispose: «El consiglio che io ti darei, sarebbe che tu ti levassi dalla fantasia questo
amore ma, quando tu non possa o non lo voglia fare, credo bene trovare modo di farti
conseguire il desiderio tuo. Ma bisogna che quello abbiamo a fare sia secreto perché sarà
forse necessario venire a certi incanti che, quando s'intendessi che io li usassi, potrei essere
disfatto dal mondo. Però voglio mi dica il nome di questa tua innamorata et il luogo dove
sta, et intra quattro giorni ne parleremo altra volta insieme».
Il cameriere gli disse quello che li domandava e li promisse tenere tutto secreto. Lo
scrittore, intesa chi era la donna, l'andò a trovare e [62v] tanto con parole e doni e
promesse la seppe persuadere, che essa si dispose in questo amore del cameriere
governarsi appunto secondo la volontà dello scrittore. Onde lui intra duo giorni trovò il
cameriere e gli disse che, se sapeva trovare ordine di fare dare alla dama certa polvere
incantata nella vivanda, che vedrebbe che ella gli porterebbe tanto amore che ne resterebbe
maravigliato. E rispondendo il cameriere che aveva tanta amicizia con una servente della
dama, che non gli mancherebbe modo a darli la polvere, lo scrittore lo menò seco verso
certi luoghi solitari di Roma. E, monstrandoli una erba che aveva le foglie molto grande,
gli disse che la mattina, due ore avanti giorno, venissi in quel luogo e ricogliessi la polvere
che troverebbe in su quelle foglie e di quella facessi poi dar mangiare nella vivanda alla
dama. E come furono partiti l'uno dall'altro, lo scrittore tornò e in su quelle foglie messe
certe polvere odorifere e partissi.
Il cameriere, la mattina sequente, all'ora ordinata, tornò a quel luogo e levò delle
foglie quella polvere, e pensò che la notte dal cielo vi fussi caduta. E per un suo servitore la
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mandò alla servente della dama acciò gnene mescolassi nella vivanda. Lo scrittore, come
intese questo, andò dalla vedova e [63r] la pregò che la sera, quando il cameriere vi
passava, gli facessi buona cera e l'altro giorno lo mandassi a invitare a cena, tanto che,
seguendo queste cose, il cameriere indicò che quella polvere fussi mirabile. La vedova era
fine e non li compiaceva però d'altro che di parole e d'accoglienze e piacevolezze, ma a
esso bastava questo, e gli pareva essere il più felice innamorato di Roma.
E pensando alla virtù di questa polvere et ancora che fussi cameriere del Papa non li
parendo essere favorito a modo suo, ringraziò un giorno lo scrittore del servizio li aveva
fatto, e li li conferì quanto fussi in grazia della dama e lo domandò se questa polvere
opererebbe così in uno uomo come aveva fatto nella sua innamorata. Lo scrittore, che gli
parve che la lepre andassi verso le rete, gli rispose che la virtù non era solo nella polvere,
ma era nelle parole e che, quando lui gli dicessi a chi la volessi dare, farebbe lo incanto di
nuovo, e che era certo ne seguirebbe il medesimo effetto.
Il cameriere allora li aperse l'animo suo che era che il Papa li ponessi più amore, acciò
ne potessi trarre più, donde tutti a dua ne diventerebbono felici. E però lo scrittore li disse
che andassi la notte sequente a il medesimo luogo e ricogliessi la polvere delle foglie e poi
la dessi al Papa. E partitosi da lui n'andò e messe in sulle foglie [63v] veneno in polvere
bianca la quale, raccolta dal cameriere e data nella vivanda a papa Alessandro, della quale
mangiò ancora il Valentino, fu causa che l'uno morissi e l'altro infermassi gravemente. E
così lo scrittore conseguì, con sottile arte, il desiderio suo e, venendo a morte, confessò il
caso e ne volle l'assoluzione da papa Iulio.
Arebbe il cappellano detto molte altre cose e l'archidiacono risposto ma, sendo già
gran pezzo di notte, noi volemmo cenare e poi dormire. E la mattina, rispetto alli diacci,
non cavalcammo per tempo et avemmo fatica condurci la sera a uno villaggio chiamato
Ulbach.
Nel medesimo alloggiamento trovammo certi servitori del Legato, intra quali n'era
uno spagnuolo nominato Gaioso che, vedendo una nipote dell'oste, o forse bisnipote
perché lui era vecchissimo (e dicevono le donne lo governavono che aveva più di cento
anni) gli parve molto bella e, considerato la sera dove s'andava a posare, vidde andava
nella stufa dove, in certe cucce separate, dormiva lei e quel vecchio. Et iudicò esser facil
cosa, non sendo altri nella stufa, entrarvi la notte e menar via la fanciulla perché il vecchio
non era atto a difenderla. Et in sul primo sonno entrò con un famiglio nella stufa e
s'accostò alla cuccia della fanciulla la quale, con timore destasi, cominciò tanto forte a
gridare che tutti quelli di casa, udito il romore, si levorono e chiamorono e' vicini, [64r] che
armati corsono: e le campane cominciorno a sonare e tutto il paese si voltava quivi.
A noi pareva essere a tristo partito; pure, avendo certi servitori tedeschi, facemmo
intender per loro alle brigate che venivono che quelli del Cardinale erano separati da noi
in modo che scampammo quella furia. Gaioso et il servitore furon morti e certi altri
spagnuoli che li vollono difendere; li altri furono lasciati liberi. Per questo pericolo noi, da
quel tempo avanti, non volemmo alloggiare in osteria dove fussino ispagnuoli.
La mattina, sendo freddo, ci partimmo tardi e la sera ci posammo a Fiessen che è
assai buon castello al principio di Svevia, signore del quale è il vescovo d'Augusta.
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Alloggiamo con un oste che pareva buon compagno: ma la notte vi stemmo, gl'intervenne
un caso strano e piuttosto tragico che altrimenti.
Lui era d'età d'anni cinquanta et, essendoli morta la prima donna e restatoli d'essa un
figliuol solo, d'età d'anni diciotto, gentile e grazioso, prese una altra donna giovane e bella.
E l'amava fuori di misura, pure non la poteva contentare in tutto di quello che le più delle
giovane donne desiderano. Teneva costui in casa, come è costume delli osti, più famigli,
onde lei tra tutti ne scelse uno più galante et, in conclusione, con esso suppliva a quello
che il marito mancava. questo poté fare sì cautamente che il marito, che [64v]
astutissimo era, non se n'accorgessi e, pensando intra se stesso come se n'avea a vendicare,
l'amore che portava alla donna fece che inclinò a punire il famiglio e deliberò amazzarlo.
Dormiva questo famiglio in una camera presso alla porta della casa, nella quale qualche
volta il figliuolo dell'oste, quando tornava tardi la notte, come fanno e' giovani, entrava
per non esser sentito dal padre e quivi dormiva il resto della notte.
Accadde a punto che l'oste pensò essequire la sua fantasia la notte che fummo quivi.
E quando li parve tempo che ogni uomo dormissi si levò et analla camera del famiglio,
la quale trovando aperta, perc il famiglio era ito fuori di casa e lasciato nel letto il
figliuolo dell'oste, accostatosi al letto, con dua ferite il proprio figlio amazzò, credendo
aver morto il famiglio. E, perché non si ritrovassi, prese a dosso il corpo morto e lo gittò in
un canale non molto lontano dalla casa sua.
La mattina per tempo l'oste si lieva e, fattosi alla finestra, vede il famiglio che
spazzava avanti la porta e, tutto tremante e pallido, corre al canale e trovò il morto corpo
in sulla riva e, sanza pensare a altro, nell'acqua furiosa si gittò e la misera vita finì.
Noi, che pensavammo a buon'ora mangiare, sentimmo a un tratto pianti e romore
per l'osteria de' parenti e vicini e per questo, quanto più presto potemmo montati a
cavallo, del castello ci partimmo e, con grande incommodo, la sera [65r] ci conducemmo a
Cofpair, che è una piccola terra libera in Svevia.
Era in quel luogo alloggiato lo Imperatore perché, sendo terra di piano e con palude
intorno, aveva commodità d'andare a caccia d'oche salvatiche e germani e simili uccelli; et
aveva gran piacere nel pigliarli. Per essere il luogo stretto vi era dificultà d'alloggiamenti.
Pure a noi fu dato uno oste ricco, ma oltre a modo fastidioso e villano e, perché vi stemmo
quattro giorni, venne tanto in odio a' nostri servitori, che volentieri li arebbono fatto ogni
male.
Lui non restava mai di gridare, sempre rimbrottando chi alcuna cosa li domandava.
Faceva mercantia di vino e n'aveva sempre nella volta gran quantità, onde uno de' nostri,
più astuto che li altri, chiamato Gianni, pensando di vendicarsi di questo vecchio, una
mattina a buona ora andò in corte e, cantando come era solito con certi cantori dello
Imperatore, venuta l'ora di far colazione come assaggiò il vino, disse che non valeva. E,
rispondendo il mastro di casa che in quella terra non era il migliore, Gianni soggiunse che,
se lui facessi cercare nella osteria dove era alloggiato il suo padrone, lo troverebbe buono e
di più sorte. E però il mastro di casa fatta insegnare la stanza a' suoi servitori e così e'
cantori non restorono in quello tempo vi stettono di mandare per esso. Il vecchio lo dava
malvolentieri, ma non poteva negarlo; se non che, quando n'ebbe consumato circa
cinquanta barili, cominciò a dire [65v] che il resto serbava per noi. Il che come Gianni
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intese, a tutti quelli che venivono per esso, diceva che del vino n'era assai, e che a noi non
aveva voluto dare, e che ci bisognava mandare per esso fuori. E però quelli di corte a gara
mandavono per esso; et il vecchio non voleva che l'attignessi altri che lui.
Onde Gianni, per fornirlo meglio, una mattina per la scala molte noce gittò e subito
fece venire uno de' credenzieri dello Imperatore a domandare il vino per la persona di
detto Imperatore. Onde l'oste, correndo g per la scala, trovando le noce, cominciò al
terzo scaglione a sdrucciolare e si condusse insino a basso. Era vecchio, aveva l'orciuolo in
mano, in modo che si percosse tutto e si roppe una gamba: e così fu gastigato della sua
avarizia e perversa natura.
Partendo di quivi lo Imperatore, noi lo seguimmo in un castelletto chiamato
Mindelen e la sera alloggiammo in casa uno sarto. La casa era grande e più bella che non
pareva ricercassi la condizione sua; e noi fummo ammirati che, sendo stati delli ultimi di
corte a comparire, trovassimo sì buono alloggiamento vacuo.
prima fummo smontati, che il patrone della casa ci si fece incontro e ci disse:
«Uomini da bene, io vi ricevo molto volentieri e di quello potrò vi farò onore e carezze.
Doggomi bene che arete una incommodità grande circa il dormire, perché in questa casa è
uno spirito che non resta mai in tutta la notte di fare romore: e però ci sto drento io che
sono [66r] povero compagno, e di sì buona casa pago un niente».
Il Venafro, stimando che lui dicessi queste parole per metterci timore, acciò non
stessimo quivi, li disse: «Buono uomo, pensa che da noi se' per trarre, perché ti satisferemo
di tutto quello torremo del tuo, e largamente, che non bisogna ci metta paura perché ci
partiamo, perché oramai non possiamo ire altrove».
Il sarto monstrò accettarci lietamente, ma replicò che lo spirito era verissimo e lo
affermò con tanti giuramenti, che gli cominciammo a credere. Ma, non potendo partirci,
pensammo vedere la notte questa festa e, sendo dieci in compagnia, ci riducemmo tutti la
notte a stare nella stufa e quivi facemmo portare e' letti. Aveva seco messer Antonio uno
che di sopra nominai Salimbene il quale, sendo soldato, volle fare la notte il bravo e
promisse di volere vedere che spirito fussi questo. Cenammo molto bene poi serrammo
molto bene l'uscio della stufa e ci mettemmo a dormire. Salimbene tenne appresso di sé un
torchio et un lume coperto, da poterlo accendere.
Era già circa a mezzanotte, quando sentimmo aprire per forza l'uscio della stufa; et al
romore tutti ci destammo e, stando in orecchi, sentimmo per essa strascinare a modo di
catene che facevono romore grandissimo. Salimbene, subito, salta fuori del letto et accende
il torchio e niente vedeva. Pure il romore del continuo cresceva e però lui si dispose
seguitare [66v] questo romore e chiamò Ulivieri, mio servitore, che ancor lui si faceva di
buone gambe, e lo menò seco. Et andavano a punto dove udivono il romore, il quale durò
nella stufa più d'una ora continuo, poi se n'uscì; e Salimbene et Ulivieri drieto, e quasi per
tutta la casa s'aggirorono seguendo queste catene. Quando fu presso a dì, il romore se
n'andò verso le scale e scese da basso nella volta. Et allora loro referirono avere visto uno
uomo grande, tutto vestito a nero lungo, che gli faceva tremare, con una barba lunga folta
e nera, che copriva la qualità del viso; et a un tratto in un canto della volta essere sparito, e
prima aver detto certe parole in tedesco, le quali loro, per non sapere la lingua, non
avevono intese.
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Tornorono di sopra tutti tremando e stettono più che mezza ora avanti potessino
parlare; pure, ritornati in loro, dissono quanto avevono visto. Et il sarto si fece condurre in
quel luogo e, cominciando a cavare, trovò ossa quasi consumate et appresso uno
calderotto di rame, pieno di fiorini di Reno che erano più che quattromila. Andò alla
chiesa pe' preti e fece portare l'ossa nel cimiterio; e li udimmo dire poi, più d'un mese che
vi passammo altra volta, che non aveva sentito più romore alcuno. Se danari li tolse per sé
o li dette al patrone della casa, non so; ma a' nostri fece buona mancia, che la meritavano.
E noi, seguendo lo Imperatore che era ridotto in Meming, in quel luogo [67r] il
medesimo che lui giugnemmo, dove stemmo fermi quasi un mese. E perché io avevo poca
faccenda, attendevo a passare il tempo con andare a torno fuori delle mura, che era
dilettevole gita perché la terra è posta in piano et ha dua ordini di fossi, pieni d'acqua di
pesci; e tra l'uno e l'altro fosso perché non vi possono ire e' cavalli, è bello andare a piè.
Et avendo preso pratica con uno della terra chiamato Guglielmo, ogni giorno con lui
andavo una volta a torno alla terra. E, se bene non intendeva italiano, intendeva un poco
di latino e tanto che di tutto quello domandavo ero da lui satisfatto. E lo domandai un
giorno come si governavono.
Lui mi rispose che quella terra dava l'anno allo Imperatore fiorini trecento di Reno e,
quando veniva quivi, li ordinavono l'abitazione e li donavono, quando giugneva, tanto che
poteva valere fiorini venticinque in pesci e vino; dipoi lui non s'impacciava in niente nelle
faccende loro. Creavono uno borgomastro per uno anno, e dodici consiglieri e questi
iudicavono de' casi criminali e civili come pareva loro, et alle sentenzie d'essi non si poteva
appellare. Et avanti finissino il magistrato, eleggevono da loro medesimi un nuovo
borgomastro e dodici consiglieri. E così si faceva successivamente, ragunavono popolo
né consiglio altrimenti.
Avevono le loro entrate delle gabelle e del sale, delle quali pagavano [67v] il diritto
all'Imperatore; poi tenevono guardie per potere castigare e' tristi, a fine che per il paese
loro si potessi ire sicuro. Spendevano in rassettare ponti e vie; comperavono munizione e
di vettovaglia e d'altre cose necessarie alla guerra e, se avanzava, cumulavano per potere
aiutare le città e principi della lega di Svevia, quando fussino molestati. E mi disse che in
quella terra era un vivere queto e pacifico e che ciascuno godeva il suo dolcemente.
Questo Guglielmo aveva preso tanta familiarità meco, che volle andassi una sera a
cena con lui: non a convito, ma a cena più che ordinaria. mi pare inconveniente, per
dare miglior notizia de' costumi d'Alamagna, scrivere l'ordine della cena.
Era del mese di dicembre et il freddo era grandissimo, e peera la stufa calda. Et a
una ora di notte ci mettemmo a tavola, lui, la donna, un portoghese servitore del Legato et
io.
La tavola era quadra et in ogni quadro stava uno; et il più degno luogo è quello che è
volto verso il muro. Avanti ci mettessimo a tavola, ci lavammo le mani a un cannellino a
vite, che era in un vaso di stagno appiccato all'asse della stufa, e sotto aveva un gran
bacino d'ottone da ricevere l'acqua.
In tavola la prima cosa fu posto un cerchio d'ottone nel mezzo del quadro, dove
s'avevono a mettere e' piatti, acciò non guastino la tovaglia. In su questo cerchio fu posto
un piatto di lattuga da paperi et in su li orli del piatto [68r] quattro uova sode divise pel
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mezzo. Levato questo, vi fu messo un piatto grande, dove era un bel cappone e certi pezzi
di vitella et il brodo con questa carne. E ciascuno aveva avanti una fetta di pane più bruno
che quello che mangiava et in su detta fetta tagliava la carne che levava del piatto et, a
ogni vivanda, da' servitori era mutato fetta. Dopo, venne un piatto piano, dove era pesce, e
certi scodellini d'aceto; appresso un piatto di vitella arrosto; poi un grasso cappone, pure
rostito; poi un piatto d'orzata con brodo di pollo; dopo, pere non buone e cacio tristo; vino
bianco e vermiglio, di più sorte e buono, in bicchieri d'argento; et acqua con dificultà a chi
la domandava. La donna non dimestica come in Francia né selvatica come in Italia.
Cenammo molto bene, parlammo di più cose e poi ciascuno se n'andò allo
alloggiamento.
Io stavo all'Osteria del Sole in piazza, con uno oste ricco e buon compagno, il quale
aveva la donna giovane. Alloggiava in questa medesima osteria uno spagnuolo, detto
Castro, che era a presso lo Imperatore, per avere danari per capo di fanterie.
Era uomo piccolo e sparuto e superbo e vano, e gli pareva che ogni femmina si
dovessi innamorare di lui. E sendoli piaciuta l'ostessa, che era piacevole come da quello
essercizio e scherzava e motteggiava qualche volta seco, prese tanto animo che, apostata
una sera la camera sua [68v] e sappiendo che il marito era ito a cena fuori, se n'andò a
quella camera. E stimando esser da lei raccolto amorevolmente, entrato drento, subito gli
gittò le braccia al collo.
Ella, spaventata, cominciò a gridare. L'osteria era piena: corsono là assai garzoni e,
tra li altri, il fratello dell'oste il quale, inteso il caso, gli menò d'una spada in sul capo e
ferillo a morte: e tal fine ebbe la matta presunzione dello ispagnuolo.
voglio omettere di narrare una giarda, o per meglio dire un furto, che fu fatto in
quel tempo a uno italiano, sottilmente.
Era alla corte un certo milanese, chiamato Franceschino, che diceva che negoziava
per il signore di Pesero, tristo il possibile, dispettoso e baro, et avea fatto in modo, con suoi
giuochi e barerie, che avea ragunato fiorini milleduecento; e li aveva messi insieme in un
legato di canovaccio e gli teneva nella stanza dove stava in una sua bolgetta. E perché era
vano e leggieri, come si trovava con altri italiani, parlava di questi suoi danari et, essendo
stato scoperto baro, non era alcuno che volessi più giucare seco.
Era allora in Meming un veniziano, detto Polo, el quale era stato servitore di messer
Vincenzio Quirino oratore veniziano et, innamorandosi d'una tedesca, era rimasto quivi.
Et essendo povero et avendo più volte udito dire a Franceschino che aveva questi danari e
[69r] che si voleva partire perché li consumava non trovando più con chi giucare, cominciò
a stare spesso intorno a detto Franceschino e trarseli di testa, lodarlo, accompagnarlo e,
perché il servitore suo s'era partito, a servirlo, tanto che, a poco a poco, Franceschino gli
pose amore e si fidava di lui in ogni cosa. Et ancora che non li dicessi dove teneva e' suoi
danari, usando spesso la camera, e con Franceschino e solo, s'avidde che non potevano
essere altrove che nella bolgetta. E, presa una volta la commodità, trasse il legato della
bolgetta e, scioltolo, prese e' fiorini, et in cambio di quelli, nel medesimo legato, messe
quarteruoli. E, per fare che il legato pesassi come prima, vi aggiunse tanto piombo che a
punto faceva il peso de' fiorini e, rassettato il legato, lo rimesse nella bolgetta.
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Ma, ancora che avessi tolti e' danari, non sapeva come fare a partirsi e dubitava,
partendosi, che Franceschino non se n'accorgessi e li mandassi drieto. Et, avendo a ire
molte giornate per Alamagna e sendo veniziano, contro li quali lo Imperatore aveva
dichiarato la guerra, temeva. E però pensò un modo che Franceschino lo mandassi fuori
per tre o quattro giorni, ne' quali piglierebbe tanto campo che non potrebbe poi essere
raggiunto. E, trovatolo una volta in pensiero e fantasia, li disse:
«Patrone mio, io conosco che tu stai maninconico perché pel passato hai giucato e
vinto et al presente, non trovando più chi giuochi teco, spendi e consumi. Ma io crederrei
darti un modo col quale non solo vinceresti quanto hai di bisogno [69v] per spendere, ma
ancora congregheresti grossa somma di danari.
Tu sai che messer Vincenzio, mio padrone, stette questo anno in Augusta dua mesi
senza faccenda alcuna et io, in quel tempo, quasi libero non attendevo a altro che a
giucare. Et avevo trovato uno che pareva il migliore uomo del mondo che faceva carte alla
romanesca, le quali io tutte conoscevo di fuori; et a ogni giuoco di carte guadagnai assai, e
guadagnavo più se non fussi stato una volta scoperto. Ma qui non se ne sa nulla, e però io
pensavo, quando ti paressi, d'andare insino in Augusta, per venti o trenta paia di simil
carte. E bisogna che io vadi e non mandi, perché colui che le fa teme tanto, che non le
darebbe a altri che a me. E, quando sarò tornato con esse, tu mi potrai far forte di danari, et
io giucherò per te, che a me ogni piccola parte basterà. E seguiteremo la corte, vivendo
grassamente alle spese d'altri, et avanzeremo ancor tanto da potere sguazzare in Italia».
A Franceschino, che era un fine tristo, non potette p piacere il partito e, perché
potessi andare più presto, volle che menassi un suo buon cavallo. E così Polo, con il legato
de' fiorini, la mattina sequente a cavallo si partì e, come fu fuori della terra, prese il
cammino verso Italia.
Da Meming a Augusta sono dua giornate e però Franceschino, insino in cinque dì,
non stette ammirato perché pensava che dua ne mettessi a andare, dua a tornare et uno a
star là. Ma come passò il sesto, cominciò a stare in fantasia e, per passarla, si pose [70r] a
giucare con uno che ne intendeva più di lui. Et avendo perduto quanti danari si trovava
acanto, mandò alla stanza sua per la bolgetta e, come fu venuta, ne trasse il legato e con
uno coltello l'aperse e subito s'avidde che, in cambio de' fiorini di Reno, v'erano suti messi
quarteruoli: e tardi conobbe che Polo l'aveva ingannato e, disperato, a piè si misse a
volerlo cercare. Et intesi che, per la fatica e dolore, presto s'ammalò et in pochi giorni a una
osterietta si morì.
Era già più che mezzo dicembre, quando allo Imperatore parve di partire da Meming
per ire verso Italia perché e' principi e città cominciavono a mandare le gente a piè et a
cavallo, convenute nella Dieta di Constanzia. Et a noi fu ordinato seguitassimo il Legato
che andava in Augusta per vedere quella città, che in vero merita d'esser veduta volentieri.
E però il Venafro et io ci partimmo un giorno dopo mangiare da Meming e, cavalcando
per luoghi piani et acquosi, la sera arrivammo a un borgo detto Underberg e ci posammo a
una osteria assai buona.
Quivi era la sera alloggiato Sigismondo tedesco, secretario del Legato, giovane d'anni
ventidua e pulito e bello. L'oste aveva intra l'altre brigate una figlia, chiamata Margherita,
d'anni diciotto, et ella ancora, secondo il costume della Magna, attendeva a servire e'
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forestieri. E nel servire e motteggiare gli piacque questo Sigismondo e pensò la notte, a
ogni modo, dormire con lui. Et, ordinatoli una buona camera, quando tutti gli altri [70v]
furono a dormire, fingendo rimanere nella stufa per rassettarla, n'andò alla camera di
Sigismondo e si voleva spogliare per entrare nel letto. Di che lui accortosi, perché aveva il
lume, gnene proibì, o che lo facessi per continenzia o per dubbio di non l'avere a pigliare
per moglie, se fussi suto trovato, o, forse, per essere assueto qualche anno a Roma non li
andassino le donne a gusto.
Basta, che lei non li poté mai persuadere, né con parole con atti, che lui si
contentassi che ella dormissi seco. Ma perseverando lei e con prieghi e lacrime, lui
minacciò di fare romore; onde ella, avendo convertito l'amore in odio, deliberò
vendicarsene. E la mattina quando fece colazione, o nel vino o nelle vivande che lui
mangiò, messe veneno; e perché si partì per tempo mangiò solo et altri non portò pericolo.
Come ebbe mangiato si partì; e noi dopo lui circa dua ore facemmo il medesimo.
E non fummo cavalcati dua miglia delle nostre, che trovammo il meschino secretario
stramazzato nel mezzo della strada e, per il dolore grande, non restava d'esclamare; et
aveva un servitore a presso. Noi ci fermammo e lo domandammo che male avessi e donde
potessi procedere. Lui narrò quello li era intervenuto la notte, e pensava che la Margherita
li avessi dato veneno. Il Venafro, che non era molto sano, faceva sempre portare seco
utriaca et altre medicine, e fece [71r] trovare detta triaca e ne dette gran quantità a
Sigismondo, in modo che in capo d'una ora cominciò a star meglio. E lo conducemmo a
una osteria vicina e si conobbe che il veneno era suto debole et in poca quantità. Pure ne
stette debole et intronato pche un mese, e portò la pena di non aver voluto ricevere nel
letto quella che volentieri vi si posava.
Per tale impedimento non ci potemmo condurre la sera in Augusta, come era nostro
disegno, ma stemmo lontano un miglio, in uno villaggio detto Trii, in osteria tanto trista
quanto altra ne trovassi in Alamagna. E la causa ci fu detta da un contadino vecchio, il
quale la sera in tal modo ci parlò:
«Io conosco che siete male alloggiati, ma non voglio ne pigliate ammirazione. Questa
soleva essere una delle belle ville di questo paese e, tra l'altre cose, c'era una chiesa bella e
ricca che aveva d'entrata più che fiorini seicento di Reno. Occorse che, morendo un prete
vecchio che aveva governato questo beneficio anni quaranta molto bene, il vescovo, contro
a nostra volontà, elesse per piovano un suo figliuolo molto giovane, et era dissoluto e
disonesto, sanza lettere, sanza costumi, sanza cerimonie. E bisognò stessimo pazienti.
Prese la possessione e subito cominciò a mettere in essecuzione e' suoi vizi: non diceva
ancora messa, né ci teneva chi la dicessi, vespri o altri divini ufici non mai; confessione, se
l'udiva, le ridiceva; rubava tutti noi popolani; voleva manomettere le donne e, se parenti
non volevono, a chi dava et a chi prometteva.
Noi più volte ci querelammo di lui al vescovo, ma niente giovava, [71v] in modo che
venimmo in tanta desperazione che, popularmente, pigliammo l'arme e l'andammo a
trovare. Lui, sentendo il furore, si rinchiuse in chiesa con quattro servitori, ma niente li
giovò che mettemmo il fuoco nella porta et, entrati drento, il tristo prete miseramente
uccidemmo; e la chiesa in gran parte per il fuoco si guastò.
58
II vescovo, inteso il caso, procedé contro a noi come sacrilego profanatori de' sacri
templi et interfettori de' sacerdoti; e, sendo signore di questa villa in temporale e
spirituale, ci venne con armata mano. Il che noi intendendo pensando potere resistere,
tutti ci fuggimmo e ne portammo quello potemmo; onde lui, giunto qua, ci trovando
uomini, rivolse l'ira sua verso le case, le quali tutte arse e li uomini messe in bando. Pure,
venendoci poi lo Imperatore, per intercessione di monsignor Gurgense, ottennemmo dal
vescovo perdono. E ci siamo ridotti qui e, trovando le case arse, bisogna le rassettiamo e
chi ci alloggia patisca come noi».
Stemmo la notte come potemmo e la mattina, a buona ora partiti, presto giugnemmo
in Augusta, la quale è grande e bella città, posta in piano, con fossi grandi murati da ogni
parte, grosse mura, pulite case et ordinate strade. La città è governata da buone legge e si
vive a republica et allo Imperatore non dà più che fiorini mille l'anno.
Quivi alloggiammo in buona stanza e vi stemmo sei giorni e, per onorare il Legato
nelle feste di Natale, qualche cittadino fece conviti e monsignor Gurgense fece recitare uno
atto scenico in tedesco il quale, avendomi [72r] fatto tradurre in lingua italica, non mi pare
inconveniente scriverlo a punto. E credo darà più diletto a' lettori, che non dette a noi che
fummo auditori quando fu recitato.
<ATTO SCENICO>
ARGUMENTO
Constanzia da Casale di Monferrato è amata da Pietro da Nocera, da Ferrando spagnuolo e da
Ulrico tedesco. Lei in fatto altri non ama che Pietro, ma con li altri finge per trarne. La madre ha in
odio Pietro e vorrebbe che lei contentassi Ferrando. Ingannono quando uno e quando l'altro di
questi amanti, et in ultimo si truova che Pietro è nipote di Ferrando, onde, d'accordo lui et ancora
Ulrico, cedono la Constanzia a Pietro.
PROLOGO
Sono assai lodati dalli uomini litterati questi dua poeti comici Plauto e Terenzio, né io
voglio essere tanto presuntuoso che nel conspetto vostro li danni. Pure non si può negare
che non mancassino d'invenzione, perché, avendo a comporre favole nelle quale si può
dire tutto quello che si pensa o s'imagina, sempre hanno voluto tradurre di greco, di
loro fantasia hanno composto cosa alcuna. Io liberamente confesso il vero e dico che
questo atto è nuovo, stato recitato così in lingua tedesca e dipoi tradutto in italica. so
per che causa le cose nuove non debbino piacere: et è stultizia di molti che con
ammirazione considerano le cose antiche e le nuove disprezzano. Se tra voi spettatori è
alcuno che la intenda in questo modo, partisi e lasci il luogo a quelli che delle cose
moderne si dilettono. Li altri stieno con silenzio e, [72v] se lo atto piace, nel fine ne faccino
segno.
59
Questa città, che vedete sì grande, è Roma perché quivi intervenne il caso. Una altra
volta sarà una altra città.
<SC. I>
P
AULINA
, C
ONSTANZIA
.
Paulina: Noi andremo insino a San Pietro; tu resterai in casa. Et apri al cuoco che manderà
Ferrando, e vedi che le vivande vadino per ordine e che li capponi sien lessi et il
cavretto arrosto, e soprattutto non sia arso; e per entrare di tavola, uno guazetto di
curatelle et animelle, poi, in ultimo, buono cacio e pere. E a Alonso che truovi
buono vino corso, ché in questo tempo non è da bere altro.
Constanzia: Matre mia, poi che Ferrando provede la cena, vorrà dormire meco et io ho
promesso questa notte a Pietro, e non li voglio mancare.
Paulina: Avendo la mala sorte condotto te e me a vivere in tanta meschinità, a noi bisogna
fare l'arte in modo che se ne tragga frutto, e se seguirai e' consigli miei saranno di
qualità che ci riuscirà questo effetto. Pietro è giovane e povero, Ferrando è ricco ma è
spagnuolo e, mentre che lui regge a spendere, a mandarci roba a casa, darti veste e
danari, è da fare ogni demonstrazione di volerlo contentare acciò non si sdegni. Pietro
è in modo legato che non ti può fuggire e da lui puoi trar poco e quel poco non ti può
mancare.
Constanzia: E mi pare strano romperli la fede. Ma che escusazione troverrò io con lui ?
Paulina: Ti mancheranno forse scuse che ti senta male, ch'el cognato [73r] sia venuto da
Corneto, che potrà venire domandasera? Che dico io? Secento scuse arai, se tu vorrai!
Constanzia: Malvolentieri t'acconsento! Ma dimmi: tu vuoi che io mandi Pietro a
domandasera; non sa' tu che tu et io promettemmo a Ulrico d'ire a cena con lui con
animo che io vi restassi a dormire? Che dire ma' a lui? Mandianli a dire oggi che non
possiamo andare.
Paulina: Questo non piace già a me, che non voglio in modo alcuno perdere quella cena.
Lascia pur trovare il modo a me come tu ti possa partire. Ulrico è di buona pasta e non
s'accorge delle nostre bugie. Et a lui bisogna dare buone parole e fare il fatto suo. Ha
donna, ha figliuoli e non è per stare qua molto; e da esso non si può sperare cosa che
abbi a durare.
Constanzia: In verità che Ulrico mi è stato buono amico, gli ho chiesto cosa non abbi
avuta! Pure farò a modo tuo. Seguitiamo la nostra via insino alla chiesa, acciò
torniamo più presto in casa a preparare la cena, ché mi pare vi sia ordine di rallegrarsi
perché io, a dirti il vero, come so avere ben da cena, tutto sto lieta e contenta, ma,
quando non è bene provista, di niente mi rallegro.
<SC. II>
A
GNESE
Serva, A
LONSO
famiglio, T
OSO
cuoco.
60
Agnese: Tu se' venuto a una bella ora! Che avevo pensato, avanti che le patrone
tornassino, ci dessimo un poco di piacere insieme, ma è sì tardi ch'el tempo nol
patisce.
Di' [73v] a Ferrando che qui non è comparso vino e che madonna vuole del corso,
e così non ci sono legne né frutte d'alcuna sorte.
Alonso: Anima mia, a me per al presente basta baciarti! Questa notte poi dormiremo
insieme a dispetto de' padroni! El vino corso sarà qui adesso; legna non crederrei già
trovare di presente, ma torremo de' pali delle vite che sono nell'orto; frutte non sono
di questo tempo se non mele, e di queste avete in casa voi, e massime la patrona
vecchia! E la giovane ancora non dà delle sua malvolentieri.
Agnese: Deh, lasciamo andare il motteggiare! Provedi che il vino ci sia presto. Et io voglio
andare insino in cucina a vedere come questo cuoco s'adatta, che mi pare, a vederlo,
un cuoco ordinario da frati. Vedi che m'è riuscito, che ha già messo a fuoco lo arrosto e
non sa che quello vuole esser cotto presto e con gran fuoco. Chi t'ha insegnato?
Toso: Se io avessi imparato non farei il cuoco.
Agnese: Oh, non hai tu imparato a cuocere?
Toso: Tu hai imparato meglio di me che, non che altro, sai cuocere te medesima. E mi pari
più cotta che non sarà alla cena questo capretto!
Agnese: Tu mi di' villania e non sai che io sono sopra tutta la casa.
Toso: Se fussi sopra alla casa saresti in sul tetto, e tu se' in cucina. Attendi alle faccende tue
e lascia fare l'arte mia a me.
Agnese: Tu se' il grande scimunito! Io [74r] voglio dire che governo tutta la casa, ma, per
la croce santa, che io dirò ogni cosa a Ferrando et a madonna e più non parlerò teco,
che mi pari una bestia.
<SC. III>
P
IETRO
, L
ANCILLOTTO
servo.
Pietro: Che di' tu? Che t'ha detto Constanzia?
Lancillotto: Quante volte vuoi te lo dica? Che facci la scusa sua, che non pdormire teco
questa sera perché li duole il capo, ma che domandasera sarà al piacer tuo.
Pietro: E questo t'ha detto?
Lancillotto: Questo m'ha detto.
Pietro: Deh, dimmi, per tua fe', pareva a te che si sentissi male?
Lancillotto: A me pareva sanissima.
Pietro: Eraci presente la matre quando li parlasti?
Lancillotto: Eraci, e del continuo gli sussurrava negli orecchi.
Pietro: Più volte t'ho detto che questa sua matre è donna che non è gran male non
meritassi. La Constanzia è più tosto troppo libera che mala, ma quella non pensa a
altro se non come possa trarre danari di mano a questo e quello, e non è sì vile uomo
al quale non sottomettessi la figlia se ne credessi trarre. Non ha discrezione alcuna e
consumerebbe il mondo! E credo che abbi straziato, in quattro anni che io la conosco,
de' ducati più che cinquemila, che è gran cosa a una femmina, et ha condotta la povera
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figlia sanza onore e sanza roba. Perdio, che di Constanzia m'incresce! ma è tanta la
malvagità di questa sua matre che ho deliberato non avere più pratica seco.
Lancillotto: Patrone mio, da una parte se facessi questo ti loderei, dall'altra [74v] no,
perché io non ho conosciuto mai la più bella la più dolce cosa che la Constanzia. E
se la matre la fa errare che colpa è la sua? Da oggi a domani è poco, e credo che tu ti
sia accorto già un pezzo che tu hai de' rivali e più di quattro. Piglia da lei quello che tu
puoi avere, che hai tanto speso, secondo ho sentito, in essa, che ora ne puoi trarre
qualche piacere alle spese d'altri. Perché in fatto lei è innamorata di te, ma la matre
non la lascia fare quello che ella vorrebbe.
Pietro: Io non credo che in tutta Roma in tutta Italia si potessi trovare la più scelerata
donna che è Paulina e molto bene conosco mi vuole male, come quella che è ingrata.
Et ora che non posso più spendere, non si ricorda di quello ho speso e de' benefici li ho
fatti, che sono tanti e molti più che tu non sai e non pensi. Ma, poi che sono
prolungato a domandasera, voglio sopportare con pazienzia, ma non sarò con loro più
quel Pietro che solevo, che me la piglierò per uno ordinario. Andiamocene in casa.
<Sc.> IV
S
ORBILLO
parasito, solo.
Non credo che sia uomo sotto il sole più infortunato di me, che mi sono
condotto in Roma pensando con l'arte mia contentare più il ventre che in altro luogo,
et il contrario mi riesce.
Ebbi in principio tanto favore che una volta fui condotto a cena col papa. Ma che
mi giovò? Erono intorno alla tavola trecento; chi mi guardava, chi mi [75r]
bestemmiava; quello non mi dava bere in modo che era di state et in tutta la cena non
potetti bere che una volta. Ho provato dipoi più volte a volere tornare dal papa e mai
ho possuto. Tutte le porte ho trovate chiuse! Di quelli camerieri nessuno conosce
Sorbillo e, se lo conoscano, fingano nol conoscere.
Con questi signori cardinali mai ho trovato modo di potere mangiare; con altri
prelati e cortigiani il medesimo. Pure a questi giorni, trovai in Santo Pietro un tedesco
et, entrando con lui in parlare, cominciai a lodare l'Alamagna; e volendosi partire,
m'invitò a desinare. Non aspettai il secondo invito e fui tenuto, sendo di quaresima,
molto bene. E gli piacque tanto la mia conversazione, perché in vero ho mille detti
salsi e belli, che nel partire mi disse che voleva che tutta questa quaresima cenassi
seco e che, per non dare malo essemplo alli suoi, ci ridurremmo in secreto e che
potremmo insieme far buona cera.
Satisfecemi assai il suo parlare e stimai, per un tratto, avere trovato la ventura
mia. E come s'appressava a notte, n'andavo là, et il pasto andava per ordine, e
cominciavo a esser noto a tutti e' servitori di casa. Iersera mi riducevo in là, secondo il
consueto. Voglio entrare in camera; uno mi si para davanti e dice: «Non entrare,
Sorbillo, che Ulrico ha questa sera occupazione».
Malcontento, risposi se avevo a cenare: dissemi di no. Puoi pensare se mi partì'
dolente! E ritrassi da un altro servitore [75v] che la sera cenava seco una femmina,
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chiamata la Constanzia, e la matre, e che aveva inteso che, insino a Pasqua, vi
verrebbono quasi ogni sera, in modo che io sono tanto avilito che non so che partito
mi pigliare.
Il ventre è male avezzo et a cibi ordinari non sta contento. Voglio cercare in
banchi se truovo qualche borioso e smemorato che si diletti delle mie buffonerie e, se
non lo truovo, bisognerà mi getti in Tevere.
Ma mi parve vedere venire di qua Ulrico, tutto penseroso, e Gaspar suo servo.
Metterommi qui da parte per vedere se potessi udire qualcosa a mio proposito.
<SC. V>
U
LRICO
, G
ASPARRE
servo, S
ORBILLO
par.
Ulrico: Più volte t'ho detto che io voglio in ogni modo rompere con queste meretrice
ribalde. E se mai fui in tal fantasia, ora vi sono, ché sono stato tanto iniurato da loro
che non è possibile ne facci pace.
Gasparre: Che cosa è nata di nuovo tra voi? Ieri sera cenavi insieme sì allegramente et ora
molto presto ti veggo mutato.
Ulrico: Io ti voglio contare per ordine la trama acciò mi possa consentire abbi ragione.
Come tu intendesti, la sera passata per loro medesime si profersono di volere cenare
meco, io le potetti ricusare. E, come furono giunte in camera, Constanzia si messe a
sedere in sul letto dicendo: Ceniamo presto, che ho gran sonno e, subito dopo cena,
voglio mettermi a dormire qui». Puoi pensare se tale parole mi piacquono! [76r]
Gasparre: Non solo lo penso, ma lo so di certo.
Ulrico: Cenammo di buona voglia e stati un poco a motteggiare, io chiamo Secondo, tuo
compagno, che accompagni Paulina a casa. E, come è venuto, ella gli dice che chiami
Guglielmo, suo servitore, perché li facci compagnia.
Gasparre: Oh, Secondo non bastava?
Ulrico: Ben sai che sì. Ma sta' a udire. Come Guglielmo fu giunto, Paulina, come era
composta con lui, li domandò se nessuno fussi stato a casa. «Come!» rispose
Guglielmo, «e c'è stato il marito di tua figlia!». Subito Constanzia e lei, impalidite e
tremante, si rizzorono e Paulina disse: «Noi siamo ruinate! È lui ancora in casa?».
Guglielmo rispose di sì e che aveva mangiato un poco e ch'el cavallo era nella stalla.
Infine, per non multiplicare in parole, loro si partirono dicendo che Constanzia
tornerebbe questa sera. A me venne tanto sdegno, non che si partissi, che non sono
grosso che pensi tenerla a mia posta, ma che usassino simili arte e non dicessino
liberamente volersi partire e mi stimassino di sì poco ingegno, che credessino darmi a
intendere simili favole: che ho disposto che loro attendino a fare e' fatti loro et io e'
miei. E da ora ti dica che in casa loro, per mio conto, non metta più piede né mi porti
loro novelle. E ricordati te l'ho detto!
Gasparre: Patrone, se tu non l'hai per male ti risponderò liberamente quello intendo.
Sorbillo: (Vogliomi accostare un poco per udir meglio, ché, forse, li dirò qualcosa li
gioverà).
Ulrico: Di' quello ti piace.
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Gasparre: Spesso interviene che li uomini, quando ordinariamente non hanno d'avere
passione, se la pigliono per qualche causa che non [76v] doverebbono. Tu, mentre se'
qui, hai poco a che pensare e niente hai che ti dia molestia; nondimeno se' caduto in
questa infermità d'essere innamorato. E t'ho veduto con tanta passione che qualche
volta di te m'è incresciuto. Pure, alla fine, se' venuto al desiderio tuo et hai avuto la
Constanzia tre volte e quattro e sette et otto, e non se' di tanta auttorità di tanta
ricchezza né di tale età, che tu la possa tenere a posta tua. Lei spende e però ha
bisogno di guadagnare, te li pare aver legato, come è in fatto, e che tu non li possa
fuggire. Se un altro tordo dette iersera nella rete, che non era per darvi ogni sera et ella
il volse pigliare, debbi tu avere di questo maraviglia? E trovò quelle scuse che stimò
t'avessino a esser capace. Parti, però, essere stato tanto iniuriato che per questo voglia
rompere ogni pratica, la quale domani vorresti poi rappiccare?
Ulrico: Non voglio credere a tue parole e voglio sia tagliata ogni pratica.
Gasparre: Di questa faccenda non ho se non fastidio ma, se ti governerai col mio consiglio,
andrai così seguitando tanto che l'amore per se stesso si raffreddi, ché tagliarlo a un
tratto sarà impossibile.
Ulrico: L'animo è fermo. Pure, se tu vi vai, vedi quello che lei dice.
Gasparre:. Ora mi comandi che io non vi vadi, ora vuoi che io intenda quello ch'ella dice.
Ulrico: Dico che non vi vadi per mio conto! Ma se v'andassi da te...
Gasparre: Tu mel comanderai dieci volte, avanti vi vadi una.
Ulrico: Io nol te comanderò.
Gasparre: Né io v'andrò! Ma non voglia parliamo più di questo al presente perché veggo il
parasito tuo che sta qua a origliare. Ben debbe [77r] avere poco dormito questa notte,
perché iersera non cenò. È pur meglio dare il suo a una bella femmina come è
Constanzia, che a un parasito briccone et adulatore che mai fa o dice altro che male.
Sorbillo: Io ti odo bene. E se Ulrico fussi prudente ti manderebbe a casa del diavolo.
Gasparre: Se fussi prudente, non vorrebbe mai li stessi a presso a un miglio, e ti
fuggirebbe più che la peste!
Sorbillo: Te dovrebbe fuggire che sempre lo conforti et indirizzi al male! Non ho io al
presente udito quello li dicevi, quando lui affermava volere lassare in tutto la
Constanzia? Ma io non voglio più parlare teco e parlerò a Ulrico el quale da tutta
Roma è amato et è tenuto un vero gentiluomo, ma, se seguita in questo amore,
perderà l'onore e la fama e la roba.
Gasparre: Parla a chi tu vuoi, pure che io ti oda! Et a quello che non vorrà rispondere il
padrone, risponderò io.
Ulrico: Hai tu udito, Sorbillo mio, quello ho parlato con questo mio servo?
Sorbillo: Ben sai che ho udito e mi pare che abbi parlato col sale.
Ulrico: Non iudichi tu che io abbi ragione a non volere più pensare alla Constanzia?
Sorbillo: Come! Ché, se vi pensassi, non ti terrei più in quel conto che io ti tengo! Ancora
io fui g innamorato e so quello sanno fare le meretrice che ti toggono la roba e
l'onore, consumanti la vita, et in ultimo, ti fanno perdere l'anima. Fingo alle volte non
vedere, ma credi che io mi sono più d'una volta accorto in quanta angustia ti truovi
quando [77v] ella ti prepone uno altro, quando non ti guarda con buon viso, quando
non vuole rimanere teco sola, quando ti richiede di danari, quando di cose in presto,
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quando che parli a qualcuno, e non solo lei, ma la matre, il zio, il famiglio, la fante,
ogni uomo che tu guardi per suo amore t'ha prigione! Che sarebbe meglio essere in
galea che penseresti averne a uscire! Ma questo tormento non sai quando abbi a finire:
ora temi che di lei non s'innamori un cardinale, ora un mercante! Che diavolo di vita è
la tua, che aresti da trionfare più che uomo di Roma, favorito, amato, roba a
sufficienza? E ti mancherebbono forse femmine, che crederrei fartele correre drieto per
quattro iuli l'una? Ma questo tuo servo è causa d'ogni male che, come vuoi spiccare
l'animo da essa, te lo fa rappiccare con sue novelle.
Ulrico: Conosco che mi di' il vero, ma è dificile seguire il tuo consiglio.
Gasparre: (Che vero patrone! Che mai, alli giorni suoi, lo disse che bisogna che lui biasimi
tanto l'amor delle donne, che non è cosa al mondo di che tanto giovi all'uomo quanto
d'avere in braccio la sua innamorata. Oh che felice notte è quella!) Né mi persuado che
le femmine faccino perdere l'anima, perché la felicità di quella consiste nel esser beata
e, quando l'uomo è colla amata sua, ha l'anima in beatitudine. Né la fama ancora ti
toggano, ma te l'accrescono, perché ti fanno trovare nuove arte e nuovi ingegni, e ti
fanno acuto [78r] il cervello: e con questi modi si viene in riputazione. Né consumano
la vita, ma la mantengono, perché le cose che piacciono, giovano. E se fanno dissipare
la roba a che fine si cerca d'averne se non per questo? Che vuoi tu spenderla in dare le
spese a un goloso, ribaldo, adulatore, come è qui Sorbillo, o in altre simili brigate, o in
tenere una caterva di servi? Non è più gentil cosa spendere in vestire e contentare una
bella e galante figlia che, sola a vedertela davanti, ti fa stare tutto allegro e gioioso?
Credi a me, patrone mio, che questi filosofi s'avviluppano e non seguitano quello che
dicono. A me pare che si tragga un gran piacere d'una formosa e linda femmina! Et
abbiamo sì pochi piaceri in questo mondo che, quando possiamo aver questo, lo
dobbiamo cercare. O tu consumi quello che hanno avere la moglie e' figliuoli tuoi?
Penso che la natura che li ha creati provedirà ben loro, et, a causa d'essi, non lasciar
preterire una ora di consolazione. Io t'ho detto l'animo mio, e se farai bene, manderai
via questo parasito. Et io me ne voglio ire a vedere Constanzia! E se tu se' irato seco a
me ne duole e non voglio essere adirato io.
Sorbillo: Se lui non fussi partito presto, avevo messo in ordine di risponderli per le
rime.
Ulrico: Tra tu e lui m'avete pieno il capo di confusione e l'amore di Costanzia mi tira.
Sorbillo: Deh, lasciamo da canto l'amore et andiamo a desinare.
Ulrico: Sono in tanto travaglio che questa mattina non voglio mangiare.
Sorbillo: (Oh, sventurato Sorbillo!) E questa sera a che ora ceneremo?
Ulrico: Non so. E però non venire se non ti mando a chiamare, ché forse sarò occupato.
Sorbillo: (Ora sono in tutto spacciato e voglio, in nome del diavolo, andare in qualche
luogo a impiccarmi!). [78v]
<SC. VI>
G
ASPAR
, F
ERRANDO
, A
LONSO
.
65
Gasparre: (Ho sentito in casa sì gran romore che non voglio salire le scale et Agnesa m'ha
accennato che Constanzia non v'è. Ma vedo uscire Ferrando tutto turbato.
Fermerommi per udire quello parla con Alonso suo).
Ferrando: Credi tu che io sia bene infortunato? Che maledetto sia il giorno che io viddi
questa falsa meretrice nella quale consumo la roba e la fama! Et in ultimo ci ho a
perdere la vita!
Alonso: Non t'ho io detto mille volte che faresti bene a pensare a altro e che lei t'inganna?
Ferrando: El caso è potere! Non vedi tu che ora, che non so dove sia ita, che non mi posso
fermare, e muoio di dolore? Questo che viene di qua mi pare Gaspar, servo d'Ulrico.
Parlerò con lui per intendere se sapessi cosa alcuna di lei che, se pure fussi fuggita a
casa Ulrico, arei manco dispiacere.
Gasparre: (Veggo Ferrando tanto turbato nella cera, che non voglio mi conosca e voglio
fuggire il più presto che io posso).
Ferrando: Non fuggire, Gaspar!
Gasparre: (Ora mi viene volontà di correre).
Ferrando: Fermati, Gaspar, di grazia, e rispondimi!
Gasparre: (È pur forse meglio gli risponda). Quale uomo mi chiama?
Ferrando: Uno tuo amico mal contento. Vieni in qua.
Gasparre: Oh! Ferrando mio! Io non t'avevo visto, ma sentivo tanto romore in casa di
Paulina, che dubitavo vi fussi seguito disordine.
Ferrando: E v'è ben seguito, e grande!
Gasparre: Che cosa è suta?
Ferrando: Constanzia è fuggita.
Gasparre: Fuggita?
Ferrando: Sì, fuggita.
Gasparre: Oh, patrone mio, mala nuova ti porterò! Ma dimmi dove è ita?
Ferrando: Questo non so. Ma ti voglio ben dire il modo.
Gasparre: Deh sì, che te ne priego!
Ferrando: Oggi tutto giorno sono stato a cianciare seco e rimasto d'accordo che mi dia
questa notte albergo. Come sono dua ore di nuovo mi manda [79r] a sollecitare. Vengo
e, come entro in casa, Paulina mi si fa incontro e mi dice che Constanzia parla con
Pietro in sala, ma che me ne vadi alla camera sua e l'aspetti quivi. Parvemi questa
proposta strana pure, tirato dall'amore, v'andai e menai meco Alonso; e stetti poco che
sentì' Pietro venire verso la camera. Chiusi la porta perché tra noi non seguissi qualche
scandolo. Constanzia venne alla porta e la volle aprire e non potette. E sentì strepito in
camera, in modo che, o per paura o per qualche altra causa, fuggì nell'orto e si gittò a
terra del muro e si misse a correre verso la casa del tuo patrone quanto poteva. Pietro,
credo la seguissi. Et io ho aspettato insino a giorno per vedere se torna e, non sendo
tornata, mi parto. Ho ben caro averti trovato per sapere da te se fussi venuta a casa
Ulrico.
Gasparre: Mal caso è stato questo et a casa nostra non è venuta, vi verrebbe perché
Ulrico è adirato con lei.
Ferrando: Et io sarò il medesimo e, se saremo d'accordo Ulrico et io, staremo tanto a
mettere il piede in questa casa, che ella e la matre ce ne pregheranno.
66
Alonso: Deh, patrone, lassa andare in che modo t'hai a governare in futuro e pensa come
l'hai a ritrovare!
Gasparre: Io so così certo dove ella è, come io so che noi siamo qui. Lei è a casa Pietro né a
altro fine s'è fuggita, se non per monstrarli quanto ella l'ami e che, per suo amore,
abbandona te. va a casa Ulrico che è vicino, ma si mette andare per tutta Roma a
mezzanotte.
Ferrando: Oh, come di' tu il vero, Gaspar! Ma per e' Vangeli di Iddio, che me non
ingannerà [79v] più! Io li ho prestato mule e veste tutto questo carnovale per far
maschere, donatoli danari e cose, provisto in casa da mangiare, e che al presente mi
preponga Pietro non lo posso sopportare! E tu, se amerai il tuo patrone, lo conforterai
a lasciarla in tutto.
Gasparre: Se li vorrò bene, m'ingegnerò conformarmi colla volontà sua, la quale so certo
che è di sapere dove ella sia. E però voglio andare a cercarne.
Ferrando: Deh, se la truovi, viemmi a dire qualche cosa.
Gasparre: Non passerà una ora intera che intenderai dove ella sia. Va' intanto e dormi, ché
n'hai bisogno.
<SC. VII>
G
ASPAR
solo.
Bene è sciocco Ferrando, ancora che sia spagnuolo, se crede quando la truovi gli
vadi a dire cosa alcuna. Se la truovo a casa Pietro, la conforterò a starvi e so che il mio
padrone arà più caro che stia che qua, perché Paulina ogni pone una taglia a
Ulrico e consiglia Constanzia male e vorrebbe metterla sotto a qualunque passa per la
strada, pure che li dessi danari, e, per un paio di galline, acconsentirebbe che in sua
presenzia la figlia li fussi abbracciata. Ma se starà a casa Pietro, non arà pratica con
altri che con Lui e potrebbe essere che, stando lei discosto, l'amore che il mio patrone
gli porta diminuissi. Ma io sono un matto perché questo sarebbe a proposito suo e
non mio, perché m'adopera a questo. E solevo essere uno de' più vili servi avessi in
casa, ora sono quasi il primo; comando alli altri e sono ubbidito; solevo ire a piè, ora
vo a cavallo, vesto bene e mangio meglio et in casa non fo se non quello voglio,
perché sempre ho scusa d'essere stato in qualche faccenda per Constanzia: [80r] e
però, essaminato tutto, per me fa mantenere questo amore.
Et ora, quanto più presto posso, voglio ire a ricercare di lei per poterne dire
novelle a Ulrico che, se stessi dua o tre giorni sanza intenderne nuova, l'amore
comincerebbe apassire. E, per non essere tenuto in ponte a parole da qualcuno che
m'incontrassi, andrò per Transtevere e passerò Ponte Sisto.
<SC. VIII>
L
ANCILLOTTO
e G
ASPAR
.
67
Lancillotto: (Quante volte ho io visto, e non sono però vecchio, uno uomo desiderare una
cosa et averla e, come l'ha avuta, venirli in fastidio, e pensare levarsela da dosso! Così
interviene ora a Pietro, mio patrone, il quale come non è con Constanzia muore et usa
ogni arte per essere seco et, al presente che lei s'è fuggita in casa sua, pensa il modo da
rimandarla e per questo mi manda a trovare Ulrico).
Gasparre: (Per questa via non scontrerò alcuno e se riscontrassi non li parlerò. Qua sta la
sorella di Constanzia: andrò per questa altra via perché non mi chiami).
Lancillotto: (Mentre cammino, vo da me medesimo essaminando quello abbi a dire a
Ulrico perché non abbi a male che lei sia venuta più presto a casa nostra, che è lungi,
che alla sua che è vicina. Se dico che lei picchiassi e non fussi udita, mentirò e potrei
esser riprovato perché da' suoi servitori, quando picchiò gli fu risposto. Se dico che lei
nol volessi destare, la conosce sia ardita et indiscreta che nol crederrà. Non so che
dirmi! Veggo un che va molto ratto e mi pare [80v] Gasparre, servo d'Ulrico, che
quasi corre; vorre'li parlare ma non potrò. Pure lo chiamerò: «Guasparre!» Sì, non s'è
volto! Chiamerollo più forte : «Guasparre!».
Gasparre: (Vedi che non si può ire per sì solitaria via che l'uomo non sia impedito! Non mi
voglio voltare).
Lancillotto: Gasparre!
Gasparre: (Chi diavolo mi chiama? Oh, è Lancillotto! Voglio tornare a lui). Che vuoi
fratello?
Lancillotto: Cercavo di te e con diligenzia.
Gasparre: Et io di te e t'ho a dire cosa d'importanzia.
Lancillotto: Non mi dirai cosa non sappi.
Gasparre: Ben sai che quella puttana s'è fuggita!
Lancillotto: E certo lo so e però ti cercavo! Perché lei è in casa nostra e Pietro vorrebbe che
ella ritornassi alla madre, perché stessi quivi con più onestà. E per questo venivo al
presente a trovare il tuo patrone.
Gasparre: Con onestà starà una che è stata cinque anni in bordello ? Ma ti so ben dire che
non bisogna per questo vadi a trovare il mio patrone, perché lui non ne vuole udir
parlare.
Lancillotto: Come faremo dunque a farla ritornare a casa?
Gasparre: Che tu pensi forse che Paulina non la rivoglia? Che se non fussi lei stenterebbe
come un cane!
Lancillotto: Penso che ella fingerà non la volere e vorrà fare un poco l'adirato.
Gasparre: E quando questo fussi, ve la rimetteremo per forza, avanti che gli togga ciò che
ha in camera.
Lancillotto: Non farà però gran prechi. Ma dimmi: quando vogliamo noi rimettervela?
Gasparre: Come si fa notte.
Lancillotto: Vieni adunque meco a casa e rimarremo d'accordo del rimenarla e la
conforterai a tornare [81r] per parte d'Ulrico, perché lei sta dura e non vuole tornare
da Paulina.
Gasparre: Andiamo! E son certo che come li parlo farà ogni cosa.
68
<SC. IX>
C
ONSTANZIA
, L
ANCILLOTTO
, G
ASPAR
.
Constanzia: Come una femmina nasce, si vorrebbe batterli il capo nel muro, e massime
quando è figlia a matre inonesta, perché cerca sempre che lei diventi simile a sé. E non
è al mondo la più meschina cosa che una femmina meretrice la quale perde l'animo,
sta sempre del corpo inferma perché mangia e bee troppo, veglia assai, usa lisci et
altre acque nocive, al mondo è vituperata, e' parenti la minacciono e nessuno ne tien
conto; roba non può congregare perché di raro si truova un solo che possa e voglia
farla ricca e, se ha pratica con più, faccendo piacere a questo dispiace a quello, e sta in
continua ansietà. Et io lo pruovo, che mi è testimone Iddio che mia madre, contro a
mia voglia, m'ha condotto come sono e mi truovo inferma, povera e meretrice. Che
maledetto sia il giorno che io nacqui ! Pietro cominciò aver pratica meco da putta:
posegli amore. Ora lui non mi stima e li è parso mille anni li esca di casa e temeva non
m'avere a dare le spese quattro giorni. Oh infortunata Constanzia, che bisogna per
forza torni a sottomettermi a mia madre et a Ferrando!
Lancillotto: Madonna, che giova lamentarsi? Dove non è rimedio è di necessità andare
avanti e far buon cuore e non si ricordare [81v] delle molestie che hai, ma de' piaceri. E
prima non cuci, non fili, non fai cosa alcuna di quelle fanno le donne oneste. Mangi
bene e bei meglio e non pensi donde venga; dormi sempre accompagnata e, se questa
sera non ti piace uno n'arai domandasera un altro che ti satisferà . . . Ma pensiamo, ché
siamo a casa, come abbiamo a entrare. Va' un poco avanti, Gaspar, e batti alla porta.
Gasparre: Ho battuto e mi è stato aperto che possiamo andare sicuramente. E tu
Constanzia, se farai a mio senno, te n'entrerai in camera, sanza parlare a nessuno di
casa questa sera; e Lancillotto et io staremo presso alla porta della camera, perché
nessuno ti possa fare iniuria.
Constanzia: Così mi piace.
<SC. X>
F
ERRANDO
, P
AULINA
, C
ONSTANZIA
.
Ferrando: (Io non voglio consumare il tempo in dolermi d'Imene e dell'arco e delle saette,
perché ne sono scritte tante cose che, a leggerle, mi vengono in fastidio; e così credo
faccino alli altri. Una volta io voglio bene a Constanzia e questa notte mai ho potuto
chiudere occhio. Sommi levato per tempo per ire a intendere se è tornata . . . La porta è
aperta. Sento Paulina ciarlare secondo il solito. Non voglio perdere le parole in salute):
«È tornata Constanzia ?».
Paulina: Sì, col male che Dio li dia e la mala Pasqua! Che si sarebbe fatto per me esser
prima morta che la partorissi, che è il vituperio di casa nostra e per suo [82r] amore
non mi pare potere alzare li occhi. Io non li ho parlato e, se non avessi riguardo al
vicinato, non li arei aperto, ma l'arei lasciata morir di fame col suo Pietro. Ma se lei
stessi cento anni dove io, non sono per parlarli.
Ferrando: Ah! Paulina, sangue dolce! non se' tu stata mai innamorata?
69
Paulina: Sono, ma con discrezione, né ho fatto le pazzie che fa lei.
Ferrando: Deh, lasciamo da canto tante querele, andiamo da essa!
Paulina: Ferrando mio, ogni altra cosa se' per ottenere da me che questa.
Ferrando: Et io non voglio altro e bisogna che venga meco... Ben tornata madonna
Constanzia!
Constanzia: El mal venuto sia Ferrando!
Ferrando: Oh, perché questo? Che iniuria ha' tu ricevuta da me?
Constanzia: Attendi alli fatti tuoi e di me non t'impacciare.
Ferrando: Se io lo potessi fare non bisognerebbe me lo dicessi, ma voglio essere amico tuo,
o vogli o no.
Constanzia: Sta' discosto!
Ferrando: Dilli qualcosa, Paulina.
Paulina: Che vuoi che io li dica che crede quello a me che a quel muro?
Constanzia: Io t'ho creduto tanto che mal per me, che a tua causa mi truovo povera e
puttana e tu, poi che hai gittata la roba di nostro padre, m'hai condotto in questo
termine.
Paulina: Condotta ti se' da te, che da me non avesti mai che buoni essempli.
Ferrando: Non romori, attendiamo a fare buona cera! Alonso mio ha portato, perché siamo
di quaresima, due lacce et altri buoni pesci et un vino corso dolce, che mai assaggiai il
migliore; et a tavola farem la pace. Però va', Paulina, et ordina [82v] il pranzo!
Paulina: Non so dove mi voglia andare, tanta ira m'è venuta!
Constanzia: Et io non so dove mi voglia stare, tanto sdegno ho contro a te a ragione!
Ferrando: Magnamo prima e poi farem la pace. Et io mi offero esser iudice tra voi.
Constanzia: Sento la porta esser battuta molto forte et esser dimandata. Ferrando,
andiamo da basso.
<Sc. XI>
D
IEGO
solo.
Sono lasso per andare tanto cercando Ferrando. Avanti un pezzo che io partissi
di Sibilia ebbi lettere da lui per le quali mi significava esser secretario del cardinale di
Pavia: è vero che sono più di tre anni.
Come arrivai a Civitavecchia, domandai di questo cardinale e mi fu detto era
stato morto e che la famiglia sua era tutta dispersa. Fui malcontento ma, sendo
presso a Roma, diterminai condurmi qui et investigare se ne potevo intendere cosa
alcuna. E, perché sapevo che lui si dilettava assai delle femmine, come giunsi,
cominciai a andare a casa le più celebrate ci fussino.
Fui a casa l'Albina, a casa l'Angioletta veniziana, a casa la Gumberta, a casa la
Zazerona fiorentina, a casa molte altre e tutte non lo conoscevono, in modo ero quasi
disperato dal trovarlo. Ma passando iersera da Torre di Nona, viddi in su una porta
una femmina grassa che mi disse si chiamava la Nannina. Andai da essa e la
domandai se conosceva questo mio fratello e li dissi di sua qualità e statura; e lei mi
affermò che lui stava [83r] col cardinale Cornaro. Ma, sendo l'ora tarda et io poco
70
pratico per Roma, mi stetti con lei; e questa mattina levato, subito ne venni a casa
Cornaro. Domando di Ferrando. Sono menato alla sua camera e mi disse un suo
famiglio che era partito poco fa per ire a casa madonna Paulina che stava vicina e
disegnavami un luogo che mi par questo . . .
Ho battuto la porta e non risponde alcuno. Batterò di nuovo.
<SC. XII>
F
ERRANDO
, D
IEGO
, P
AULINA
, C
ONSTANZIA
, L
ANCILLOTTO
, P
IETRO
, U
LRICO
, G
ASPAR
.
Ferrando: (Per mia fe' che nel farmi alla finestra ho visto quello che batte che mi pare mio
fratello Diego! Voglio correre alla porta... È esso certo...) O fratel mio! o refugio mio! o
consolazione mia! Come se' così qui?
Diego: Sonci solo per vederti e t'ho cerco più mesi fuor di Roma et in Roma molti giorni; e
la cagione è perché ti vorrei condurre al paese.
Ferrando: Tu sia il ben venuto! Ma di condurmi al paese non parlare, che siete tanti che la
roba che abbiamo non vi basta. Io voglio stare qua a seguire mia fortuna la quale,
insino a qui, non ho avuta molto prospera.
Diego: È necessario che tu facci pensiero a ogni modo tornare perché, di tanti fratelli, sono
rimasto io che sono vecchio, come vedi, e non atto a avere figliuoli e tu e però bisogna
sia quello che rilievi la casa nostra.
Ferrando: O come è possibile che sieno morti tutti nostri fratelli?
Diego: Così è. E nessuno ha lasciato figli.
Ferrando: O avevono pur moglie!
Diego: È vero! Ma nessuno ebbe figli, se non Sancio [83v] che n'ebbe uno il quale,
pervenuto all'età d'anni dieci, sendo battuto un giorno dalla matre, per sdegno, con un
famiglio se ne fuggì. Et il famiglio è dipoi tornato e dice che lasciò Pietro, che così
aveva nome, in uno piccolo castello, chiamato Nocera, e che stava per ragazzo con un
povero uomo.
Ferrando: Almeno si trovassi questo Pietro, che lui sarebbe atto a rifare la casa nostra, ché
io non sono per pigliar moglie! Ma tu debbi molto ben ricordare, partendosi di dieci
anni, della effigie sua.
Diego: Come se io me ne ricordo! A punto come se l'avessi avanti alli occhi! Era
collerichetto e leggieri, nero e sparuto et, intra gli altri segni, aveva una margine nella
coscia destra che li fece la madre incautamente col fuoco.
Constanzia: (Per mia fe', madre mia, che Pietro ha questo segno che dice questo forestiero!
Et ho inteso da Lancillotto, più volte, che lui è di Nocera . . .) Se vedessi questo Pietro
ora, riconoscerestilo?
Diego: Ben sai che sì, figlia cara!
Constanzia: Deh, Lancillotto, corri per Pietro!
Paulina: Lui è un contadino e ne fa ritratto, né è nato di gentiluomo come sono questi.
Pietro: Che vorrà adesso da me? Sempre ho a fare la pace?
Lancillotto: Non so, ma mi disse ti pregava venissi presto.
Constanzia: Guarda se conosci costui.
71
Diego: Ardirei di dire che questo è Pietro mio nipote.
Pietro: El cuore mi balza e pare m'intervenga qualche cosa nuova. Io non ho mai voluto
dire la mia progenie perché non mi sarebbe stata creduta, ma questo forestiero mi
pare Diego, mio zio.
Diego: Non posso contenermi non lo abbracci.
Pietro: Perché tante carezze?
Diego: Perché tu se' mio nipote e questo è Ferrando, tuo zio.
Pietro: Te [84r] mi pare conoscere come per un sogno, ma questo altro non viddi mai se
non in Roma. Se siete miei zii tanto meglio: et io voglio essere vostro nipote.
Ferrando: Et io ti voglio per nipote e da ora voglio pigli per moglie Constanzia, se lei e
Paulina se ne contenta.
Constanzia: Sta bene, che io me ne contento. Va', Gaspar, e chiama un poco Ulrico.
Ulrico: Ho inteso da Gaspar cosa che mi piace e di che sono molto allegro. Facciamo
questo sposalizio.
Pietro: Faccisi presto.
Paulina: Io lo vorrei fare intendere alli miei.
Constanzia: Io non lo voglio fare intendere a altri. Andiamo in casa, su, Ferrando e Diego!
Gasparre: Non aspettate pdi vedere o udire altro. Drento si farà il desinare e la cena,
drento si faranno le nozze, drento sarà il notaro che rogherà il contratto e poi il marito
e la moglie se n'andranno a letto e faranno quello hanno fatto più anni insieme; e
Lancillotto et io be'remo e mangeremo quanto potremo. Valete!
LIBRO QUINTO
Quando udì' recitare lo atto scenico scritto nell'altro libro confesso mi venne in
fastidio perché, recitandosi in lingua tedesca, poco o niente ne intendevo; ma, avendolo
poi fatto tradurre in lingua toscana e volendolo mettere in questi miei scritti, più volte ho
pensato non lo fare perché in fatto le cose false son belle a vederle et udirle, [84v] ma
scritte non riescono perché mancano le voci e le azioni che sono causa principale di farle
piacere.
Però volentieri ritorno alle mie vere narrazioni le quali, se non diletteranno chi le
leggerà, dilettano me che le scrivo. Perché intra li onesti piaceri che possino pigliare li
uomini quello dello andare vedendo il mondo credo sia il maggiore; né può essere
perfettamente prudente chi non ha conosciuto molti uomini e veduto molte città. Ma a
volere che questo succeda bene, bisogna che chi ha a ire a torno, abbi più condizioni: e
prima che sia robusto e sano, che sia ricco et abbi compagnia facile e sollazzevole. E, se
alcuna di queste qualità manca, il cammino non piacevole ma pieno di dispetto diventa.
Quello che spesso li duole il capo o lo stomaco o il fianco o li denti o le gambe, a
medesimo et a' compagni è fastidioso. Quello che ha a pensare donde abbi a trarre e'
danari o che li ha con dificultà o che bisogna pensi pel cammino di guadagnare, non può
pigliare piacere de' viaggi perché li duole il soprastare più un giorno in una città, non può,
72
per vederne una altra, allungare il cammino, piglia alterazione nel fare conto con l'oste,
guarda se ha speso più un ducato che il compagno. Se la compagnia non è a proposito,
similmente chi va pel mondo non può aver diletto; e chi ha seco tutti servitori non può con
loro motteggiare né parlare di cose grave sollazzare né [85r] giucare; chi ha compagni
fantastichi, ritrosi e strani non che abbi consolazione nel cammino, ha dispetto
grandissimo. Et oltre a tutte queste cose, bisogna esser libero, avere faccenda alcuna e
potere stare quindici dì in una città, andar per terra, andar per acqua e non essere ubrigato
a niente.
Io, nel viaggio scrivo, ero sano, con buona compagnia, con danari perché non sono
avaro et allora ne potevo spendere ché non mi davano molestia; ma non avevo questa
ultima condizione d'esser libero, et ero necessitato seguire lo Imperatore et andare dove da
lui mi era ordinato. Pure ebbi gran contento in questa peregrinazione e sempre me ne
ricordo, ne ho più satisfazione e volentieri scrivo tutto quello mi occorse.
Stemmo in Augusta dua giorni dopo Pasqua e ci partimmo quando il Legato con
freddo grande e neve. E la sera, adiacciati, giugnemmo a Lanzsberg in Baviera, castello del
duca Alberto. E, standoci nella stufa, mi fu referito da un prete cosa da considerarla.
È in quel luogo un convento di frati predicatori, dove stanno circa dieci frati e, tra li
altri, ve n'era stato uno di ottima vita in apparenzia, che da tutti era riputato un santo. E
quasi tutti li uomini e donne del castello di qualche qualità si confessavano da lui, onde li
accadde che udì la confessione d'una vedova ricca, alla quale era di poco avanti morto il
marito e li aveva lasciati, in denari contanti, oltre alle altre cose, fiorini diecimila.
E come fanno le donne che dicono a' confessori non solo e' peccati loro [85v] ma a
essi parlano d'ogni faccenda non solo appartenga loro, ma di quelle che attengono a tutto
il vicinato e parentado, la vedova gli disse di questi danari aveva. Onde il frate, mosso da
grandissima avarizia, poi che l'ebbe inteso non restava di pensare il modo col quale avessi
a levare alla vedova detti danari e ridurli a sé. E quando lei si confessava, instava sempre
in sul dirli quanto peccato fussi tenere le pecunie ascose, perché con quelle si potrebbono
lavorare panni et altre cose di che e' poveri si pascerebbono. E vedendo che la vedova non
teneva conto di questo peccato, incominciò a metterli sospetto de' servitori, de' parenti e
monstrandoli in quanto pericolo fussi la vita sua e che sarebbe facil cosa che dal qualcuno
di questi, per torli e' danari, fussi morta con ferro o con veneno. Alla vedova entrò questa
suspizione, e più la mosse il timore della vita che quello dell'anima, e domandò il frate che
consiglio gli dessi a ciò potessi fuggire tal pericolo. A che lui rispose che era bene
dipositarli in qualche cauto luogo dove fussino sicuri e non stessino perduti, a ciò che li
uomini ne potessino trarre profitto. E venendo la vedova a' particulari a chi li aveva a
depositare e nominandoli uno et uno altro mercante, questo diceva esser povero,
quell'altro usurario, l'altro di mala fede, l'altro inviluppato, et in effetto non trovava
nessuno li satisfacessi, se non qualche parente della vedova a chi sapeva che essa non era
per crederli. E, sendo stati insieme gran pezzo a dibattere e disputare sopra questa
materia, il frate li disse:
«Io ho uno amico mio el quale, se si [86r] contentassi pigliare questi danari, sarebbe
molto a proposito perché è ricco, essercitasi in cose lecite et è secreto; ma io non credo che
si volessi scoprir teco di volere pigliare questi danari, che li volessi ricevere da te,
73
parlarne teco perché non vorrebbe si credessi che lui li pigliassi per bisogno. Et inoltre,
quando fussi veduto parlarti, dubiterebbe non dispiacere a' tuoi parenti».
E gli disse il nome del mercante. La donna, conoscendo in lui quelle parti che diceva
il frate, rispose che gnene darebbe volentieri e, perché la cosa non si scoprissi, gli fiderebbe
a lui el quale poi ne piglierebbe cedola dal mercante, secondo gli paressi. Al frate parve
che il tordo avessi fatto un gran sacco nella ragna e, sospirando forte, disse che non
entrava in tali faccende sanza dispiacere, pure, per amore dell'anima della donna, non
voleva ricusare questo carico, onde la donna gli recò e' danari. E lui fatta una cedola di
mano sua, in nome del mercante, della ricevuta e promessa di restituirli, in capo di dua
la dette alla donna e li danari serbò appresso di sé. E del continuo pensava il modo come li
potessi fare suoi, né li occorreva il migliore [86v] che la morte della vedova. Né potendo
amazzarla con ferro sanza scandolo e pericolo, pensò al veneno. Né avendo commodità di
mangiar seco, di presentarla rispetto ai parenti, deliberò dargnene nel vino, quando era
comunicata. E la mattina della Assunzione di Nostra Donna, venendo la vedova a
comunicarsi secondo aveva di costume, gli mescolò nel calice veneno col vino, el quale poi
che ebbe preso, non stette dua ore che per il parlare et intra dua giorni morì; e fu
iudicato fussi morta d'apoplessia.
E' fratelli di lei dopo la morte cominciorono a cercare della roba e, sappiendo che il
marito li aveva lasciato buona somma di danari, si maravigliavono non li trovare. Et
avendo assai cerco trovorono la cedola et allegri andorno con essa al mercante e gli
domandorono la pecunia, come in essa si conteneva. Il quale, veduta la cedola, disse non
esser di mano sua e che dalla donna mai aveva ricevuto cosa alcuna e, monstrato loro li
altri scritti e libri scritti da lui, e' fratelli conobbono molto bene la donna essere stata
ingannata e rimasono malcontenti. Né potevono pensare chi avessi avuto detti danari.
Il frate, insuperbito per la pecunia, non poteva stare alla regola delli altri e,
dubitando che la fraude non si scoprissi, chiese licenzia al priore d'andare a Roma per
voto. E quivi condotto, [87r] ottenne dispensa di potere stare fuori dell'ordine e comperò
una casa e masserizie et offici da poter vivere. Et essendo venuta questa nuova a Lanzberg,
un fratello della donna, più esperto che li altri, ne andò a Roma con detta cedola et accusò
il frate al governatore. El quale, impaurito, per mezzo d'amici compose di restituire una
parte al fratello et una parte darne al governatore e qualcosetta, benché poco, rimase a lui,
con la quale ancora oggi traduce la vita sua misera et infame.
Stemmo la sera quivi e l'altro giorno ci conducemmo a Scionga, castello pure del
duca Alberto di Baviera che l'aveva murato di nuovo in modo vi erano poche case.
Alloggiammo in una osteria, dove la sera si ridussono assai forestieri e, tra gli altri, un
vescovo che era oratore all'Imperatore per il re Ferrando di Spagna. Costui, d'un
ragionamento in uno altro, saltò in sul lodare il suo Re da tutte le parte e massime diceva
che era eccellentissimo capitano nella guerra et iustissimo e laborioso nella pace.
Il Venafro, che volentieri s'opponeva perché gli pareva in quel modo dimonstrare
meglio la sua eloquenzia et aveva odio particulare col re Ferrando, perché aveva lasciato
perdere lo stato al re Federigo e toltone una [87v] parte per sé, gli rispose che non sapeva
che nell'arme lui avessi fatto cosa alcuna eccellente e, se aveva vinto in molti luoghi, erono
suti li suoi capitani e non lui, ma che molto più aveva ottenuto con fraude che con virtù; e
74
che aveva ingannato il re di Granata e poi il re Federigo il quale, quando sperava da lui
aiuto, si trovò l'armata, che credeva avessi mandato in suo favore, esserli contro; e che
Consalvo ottenne poi la vittoria contro a' Franzesi, quando il Re era in Ispagna (et il
premio che ne riportò fu che subito gli divensospetto e l'abdicò da tutte le faccende et
oggi si sta riposto in uno angolo di Spagna); e che nell'azione della pace non sapeva
vedere, non sapeva discernere tanta sua iustizia e bontà, perché vedeva lasciava governare
assai alla Regina e lui attendeva a darsi piacere, quando con altre donne, quando a giuoco,
quando a caccia.
Il vescovo lo escusava con dire che era assai che avessi ordinato in modo la sua
milizia che in essi fussino capitani che valessino, e che debellò la Granata per forza e non
con fraude; e che, conoscendo che il re Federigo perdeva il Regno di Napoli e non lo
potere aiutare, volle piuttosto averne una parte per che lasciarlo tutto al re di Francia,
donde [88r] ne seguì che Consalvo, con sua virtù e prudenzia, possette cacciare e' Franzesi
di tutto quel regno; e che gli diventò sospetto con ragione, perché seppe certo che esso
disegnava farsi re e nondimeno, avendo rispetto alla sua virtù, lo lasciò vivere e gli bastò
non li potessi nuocere; e che dava grande auttorità alla Regina perché li era ubrigato e la
conosceva donna che valeva assai; e, se si dava piacere con altre donne, era cosa naturale e
che nessuna ne volle mai per forza per mezzo d'esse elevò alcuno in grado; e che non
voleva negare che esso non fussi dedito al giuoco, ma che in quello non usò mai fraude e si
contentò sempre più presto di perdere che di guadagnare; e che la caccia è cosa propria de'
principi e' quali in essa si debbono essercitare per non impigrire e marcire nell'ozio e per
essere poi più robusti e nella milizia e nell'altre faccende hanno a fare.
Il Venafro aveva ordito di risponderli, ma, essendo gl'ora tarda e dubitando io che
da queste parole modeste non si precedessi a altre non convenienti, m'ingegnai di rompere
il ragionamento e che ciascuno s'andassi a riposare per potersi levare più per tempo la
mattina. [88v]
Levati, con un grandissimo freddo e triste vie le quali la neve faceva pessime, ci
conducemmo la sera a un borgo di case chiamato Ambringa, luogo molto salvatico e
povero. E la più parte delli abitanti, per possere vivere, attendono a intagliare ossi
minutamente e mettere crocifissi o altre imagine, cointagliate, in gusci di noce e simil
cose che si portono a torno a vendere. Quivi trovammo, la sera, alloggiato el
luogotene[n]te
(2)
del marchese Joachim di Brandiburg con cinquanta lance le quali
conduceva a Trento, secondo era stato deliberato nella Dieta.
Li uomini d'arme alamanni sono molto più espediti che gli italiani o franzesi, perché
sono armati leggieri e li cavalli non portano selle arcionate barde, hanno con loro
cariaggi; ma, tra dette cinquanta lance, era solo un carro lungo tirato da cavalli, in sul
quale tutta la compagnia usa mettere quello che vuole portare e, quando il campo si
raguna tutto insieme, quando accade, detti carri possono servire per riparo del campo.
L'altro giorno cavalcando pure per luoghi montuosi et aspri, con gran fatica ci
conducemmo a Portachirchen, borgo così chiamato. Et avendo mandato avanti i nostri
tedeschi a cercare il logiamento, smarrimmo il cammino perché tra noi non era chi ne
(2)
Nel testo "luogotenete" [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
75
sapessi domandare chi si ricordassi bene del luogo [89r] dove avammo a andare; e ci
conducemmo a un ponte, che era la via d'andare a Monaco in Baviera. Pure io mi ricordai
del nome e domandai il meglio seppi e presi una guida che ci conducessi a detto
Portachirchen.
Al Venafro, per il freddo e camino lungo e disagio, venne la sera febbre e bisog
tenere tutta notte lumi accesi e fuoco per fare creistieri, in modo che qualche suo servitore,
forse riscaldato dal vino o forse per stracchezza addormentato, messe fuoco in un letto
della camera dove lui era. El romore fu grande. Tutto il borgo concorse a spengerlo, come
il costume d'Alamagna che, per avere in gran parte le case di legname, è stato messo
grande ordine e provisione e rimedi da estinguere il fuoco, in modo che quivi, sanza molto
danno, si estinse. E noi ci partimmo avanti giorno et a buon'ora ci posammo a un
castelletto posto in uno monte alto, detto Zival.
Quivi, per l'essere lassi del cammino tristo e per non aver dormito la notte
precedente, a buon'ora cenammo e ce n'andammo a posare. Et il giorno sequente ci
conducemmo ad Ispruc dove la mattina appresso fu dal preposto della Iustizia
condannata una femmina a essere arsa per uno eccesso aveva commesso, il quale a
narrarlo sarà lungo, ma si considerrà per esso quanto le femmine sieno desiderose della
vendetta et astute al vendicarsi. [89v]
Riducevasi in Ispruc spesso uno gentiluomo che aveva lo stato suo quivi vicino,
chiamato Andrea Delitestan, parente di messer Paolo Delitestan, il quale era de' primi
uomini avessi lo Imperatore a presso di sé. Questo Andrea era giovane d'anni venti e li era
di poco morto il padre che li aveva lasciato buono stato et inoltre danari e gioie et altri beni
mobili. E, come interviene spesso a chi è ricco e pieno d'ozio, s'innamorò d'una femmina
d'Ispruc, figlia a uno fornaro e, di volontà del padre, durò qualche anno a darsi piacere
seco. E, benché fussi confortato da molti amici e parenti di prendere moglie, non ne voleva
udire niente. Pure cominciando già a essere in ed'anni venticinque, sendo tutto giorno
combattuto con parole e stretto in ultimo dall'Imperatore, prese per donna una figliuola
d'un gentiluomo del contado di Tirolo bella, onesta e galante e con buona dota.
II che venendo alli orecchi della fornara, che Lisabetta aveva nome, n'ebbe quel
dispiacere che si può pensare, iudicando avere a essere a un tratto priva e dell'innamorato
e della roba ne traeva, che non era poca. Pure, venendo esso da lei come prima e dicendoli
[90r] essere stato in modo astretto da Cesare che non aveva potuto negare il tôrre donna,
essa monstrò crederlo e gli fece buona cera come prima. E seguitorno darsi piacere insieme
insino che fu il tempo che Andrea doveva consumare il matrimonio.
Il quale, per potere fare le nozze più suntuose, deliberò farle in Ispruc, avendo
commodità del palazzo dell'Imperatore il quale era assente.
Venuto dunque il giorno delle nozze, la Lisabetta pregò Andrea che fussi contento, la
sera che si doveva coniungere con la moglie, come aveva cenato venire da lei e coniungersi
prima seco, e che voleva tal grazia da lui perché era l'ultima volta s'avevono a trovare
insieme in piacere. E lui gnene promisse. Lei dunque, pensando di nuocere a Andrea et
alla moglie, non si curò di mettere ancora sé in qualche pericolo.
E la mattina che doveva la sera coniungersi con Andrea, a buon'ora, vestita a uso di
servente, usd'Ispruc e, monstrando d'andare a certa chiesa per divozione, si fermò pel
76
cammino avanti uno uscio d'una casetta dove stavano dua giovani leprosi. Mentre [90v]
era quivi, passò un messo della corte che andava portando richieste pel paese, come è il
costume, e gli parve conoscere la Lisabetta e si maravigliò fussi in quello abito, sola a
quella ora; pure non disse niente.
Uno dei giovani leprosi uscì in su la porta e lei gli domandò un bicchiere d'acqua. Lui
rispose che, sendo infetto, non gli darebbe acqua perché non voleva essere causa di
nuocere a lei. La Lisabetta gli rispose che non solo be'rebbe col suo bicchiere, ma ancora
farebbe altro, quando lui volessi. Onde il leproso, sentendosi incitare et essendo giovine e
per quel male fatto più libidinoso che prima, accettò lo invito e, tiratola in casa, usò più
volte seco et il medesimo fece poi il compagno. E lei, quando li parve tempo, si partì da
loro et a casa sua se ne tornò, aspettando con grande desiderio la venuta d'Andrea.
Il quale, secondo la promessa, venne al tempo ordinato e con la innamorata si
congiunse e ne trasse la infezione della lepra e, quando gli parve tempo, non sanza
lacrime, si partì. La Lisabetta, subito che lui fu partito avendo ordinato un bagno, molto
bene si lavò e con esso [91r] rimosse da la infezione. Andrea la notte giacette con la
moglie e, seguitando nel coniungnersi con essa, l'uno e l'altro intra spazio d'un mese
diventorono leprosi. E non potendo pensare d'onde fussi causato tal male et increscendone
a ciascuno che lo intendeva e venendo a notizia al messo questo caso, si ricordò avere visto
la Lisabetta avanti l'uscio de' leprosi et, essendo noto che Andrea la teneva per concubina,
gl'entrò dubbio che, avendo tolto moglie, non si fussi voluta vendicare. E però, per
guadagnare, andal preposto della Iustizia e narrò il dubbio aveva. Il quale, mandato
subito per la Lisabetta, con poche parole ne trasse il vero perché lei confessò liberamente la
cosa a punto come era successa; li parve avere commesso errore alcuno, ma diceva
avere fatto tutto per vendetta. Onde il preposto, riscontrando con Andrea essere vero
quello diceva la Lisabetta, la condannò al fuoco e la mattina se ne fece l'essecuzione.
Seguitammo, a dì 6 di gennaio, il cammino con [92v] freddo grande e neve e, volendo
cavalcare il giorno poco, fummo condotti dalla guida a Sterzing, che è distante da Ispruc
miglia sette tedesche. Giugnemmo a notte. Tutte le case erano piene di fanti in modo
avemmo fatica d'avere una sola camera dove ci riducemmo il Venafro et Antimaco et io
con li nostri servitori. E perché la notte non era possibile dormire per lo strepito si sentiva
in quella casa, qualcuno de' nostri servitori cominciò a giucare con carte. Antimaco, che
faceva il religioso e forse l'ipocrito, vedendoli giucare si turbò e gli riprese. Il Venafro,
ch'era poco religioso e troppo largo, gli difendeva e disse a Antimaco che, poiché la notte
non era possibile dormire in quello loggiamento, che bisognava trapassarla con qualche
ragionamento e per questo, se lui voleva pigliare l'assunto di dannare il giuoco, lui voleva
pigliarlo difenderlo e risponde<re> a tutto quello diceva. E così convenuti, passorono gran
parte della notte. E perché il ragionamento fu lungo e piacevole e [93r] forse non inutile, lo
riferirò per modo di dialogo. E prima cominciò Antimaco.
ANT. Spesso sono stato ammirato che certi uomini, li quali sono tenuti prudenti,
sieno tanti dediti al giuoco e si escusano che lo fanno per fuggire ozio e passare il tempo
con manco fastidio possono. Et io credo in molte cose ingannarmi, ma in questo voglio
77
parlare audacemente et affermare che il giuco
(3)
, in ogni qualità di persona, è vizio tanto
pernizioso quanto alcuno altro perché e' principi, che hanno questo vizio, danno malo
essemplo a' sudditi et il tempo, che doverrebbono consumare in pensare a governare bene
et udire chi ha bisogno, dispensono invano, onde ne seguono innumerabili disordini. E'
nobili inviluppati in questo lasciono ogn'altra faccenda. E' mercanti ricchi impoveriscano e
poveri si conducano in disperazione. E' giovani, se cominciono a vincere, diventano
pròdigi e lussuriosi e libidinosi; se cominciono a perdere, perdono, insieme co' danari,
l'animo e s'inviliscono e quelli che sarieno riusciti valenti uomini doventano [93v] vili e da
pochi e fraudolenti. E' poveri artefici consumono nel giuoco e' danari et il tempo, co' quali
arebbono a nutrire la loro famiglia; e' contadini abbandonano la cultivazione. E così, da
questo maletto vizio, seguono tutti e' disordini che si possono non che dire, ma pensare. E
ci sarebbe da parlare sopra questo insino a domattina, ma voglio aspettare la risposta tua.
VEN. Giudicherai, forse, che io sia troppo lungo nella mia risposta, ma non è
possibile, con brievi parole, confutare le tua sottili e ben detta ragione. Io fo un
presupposto che tutto quello che li uomini fanno in questo mondo, lo faccino a fine di
conseguire piacere. E questo si dimonstra ogni giorno con la esperienzia perché,
cominciando a quelli che vivono col timore d'Iddio e che osservano appunto la religione
nostra, si vede certo che non hanno altro fine che il piacere, perché si persuadono, come è
la verità, che l'anima, partita che sarà dal corpo, abbi a godere a trionfare nel regno
celestiare e gustare tutte le beatitudine e felicità che si possono pensare e poi si debba
coniungere di nuovo con il corpo per stare sempre in quiete e gaudio.
Li uomini che vivono secondo il mondo, chi pone il suo piacere nell'ambizione, chi
nella gola, chi nella libidine, chi di congregare danari, chi d'allevare con buoni costumi la
sua famiglia, chi d'essere acerrimo difensore de' poveri et avere più presto per obietto il
bene pubblico, che il suo proprio.
Stante questo fondamento, [94r] se è stato trovato un modo che piacere quasi a
ciascuno, non so con quale ragione si possa biasimare il giuoco: non lascia sentire il dolore
dell'animo del corpo, diverte l'uomo dalla libidine, dalla gola, dall'avarizia, dalla
sevizia e così da tutti e' difetti che cascono nelli uomini; e se bene è causa di molti errori,
dicono e' medici che nessuna medicina è di tanto giovamento al corpo, che non abbi in sé
qualche nocumento. Il vino, preso con modestia, conferisce, ma, immoderato, nuoce: così il
giuoco ha molti difetti in sé, ma procede da non essere usato in quello modo si debbe. Il
coito è causa di mantenere la generazione umana, ma chi non attendessi mai a altro
sarebbe da biasimare; el mangiare sostiene il corpo, ma chi mangiassi sempre sarebbe una
bestia: però non è da dannare assolute il giuoco, ma sono bene da dannare quelli che
l'usono sanza considerazione e sanza modo.
E perché tu di' che occupa il tempo, questo non si può negare. Ma chi è quello a chi
non avanzi tempo? e che ne consumi una gran parte in dormire più che il bisogno, et in
parlare e dire male di questo e quello, et in contare favole e novelle che non sono di
profitto alcuno? Et Iddio volessi che i principi, quello tempo che distribuiscono in pensare
alle guerre et inquetare e' popoli e mettere nuove angarie e non li lasciare vivere, lo
distribuissino ppresto in giucare! Perché qual cosa è più contraria alla religione [94v]
(3)
Così nel testo
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nostra che la guerra? Et il Salvatore Nostro non ci essorta a altro che alla pace, nondimeno
è tanto la ignoranzia delli uomini che è laudato un principe inqueto, crudele e bellicoso et
uno queto, pio e che attende alli suoi piaceri è dannato...
Ma non voglio, Antimaco mio, che mi risponda perché il parlare nostro procederebbe
troppo in lungo. A me basta avere detto quanto mi occorre e so che tu se' di troppa ea
poterti rimuovere della tua oppenione.
79
III
SOMMARIO
DELLA ISTORIA D'ITALIA
(1511-1527)
EPISTOLA DI FRANCESCO VITTORI
A FRANCESCO SCARPI, SUO GENERO,
SOPRA IL SUMMARIO DELLA ISTORIA SEGUITA IN QUINDICI ANNI.
[8r] Sogliomi qualche volta maravigliare, Francesco carissimo, e dannare la
oppenione di alcuni uomini i quali, o per essere reputati dotti o per qualsivoglia altra
causa, biasimano e sprezzano quelli che istoria, o qualunque altra facultà, nella loro nativa
lingua scrivono. perciò sono io sì temerario, che non iudichi che siano da lodare et
ammirare quelli che ottimamente in lingua latina compongono. Ma questi sì rari sono che,
a mio iudicio, fanno molto meglio coloro che, non volendo fare esperimento di stessi in
cosa tanto difficile, nella loro propria lingua scrivono. In che sono imitatori di Iulio Cesare,
d'Ottavio Augusto e di Crispo Salustio, li quali non in greco, ma in latino composono;
come ancora fece Marco Tulio, li cui libri tanto sono letti e celebrati, e così tanti altri
degnissimi autori, li quali del continuo noi con ammirazione leggiamo.
Onde, trovandomi questa primavera alla villa ozioso, pensai di scrivere non intera et
iusta istoria, ma brieve et eletto sommario delli successi dal fine dell'anno MDXI insino al
principio del MDXXVII in Italia, quantunque cognosca non essere possibile non parlare
ancora di quello che è occorso fuori d'Italia perché le cose, delle quali si tratta, sono in
modo collegate insieme, che male si può scrivere di quelle d'Italia, omettendo l'altre
interamente. E certo in questi quindici anni si sono trattati negozi importantissimi e da
considerare in essi la varietà della fortuna.
Et a te tale libro ho voluto mandare, non solo perché ti amo e perché mi sei genero,
ma ancora perché conosco che ti diletti assai di leggere libri e latini e toscani. E, benché io
non abbi scritto con quella eleganzia e forse diligenzia che si converrebbe, voglio
nondimeno pigli, in compenso di questo, che ho scritto con verità, et essendo stato alieno
da ogni assentazione et avendo in modo fuggito il sospetto di essere tenuto adulatore, che
dubito di non avere errato. Però che essendo accaduto fare menzione di Paulo mio fratello,
uomo e prudente et animoso, la ho fatta tanto parcamente, quanto mi è suto possibile;
similmente di Lodovico Canossa, veronese, già vescovo di Tricarico et oggi di Baiosa, il
quale è così nobile, buono e degno prelato come ne abbi conosciuto un altro; così di
Filippo Strozzi, perché è noto quanto mi sia amico, non l'avendo commendato dallo
ingegno, dalla memoria, dalla nobiltà, dalle lettere, dalla fede, dalla gratitudine e da molte
altre parti, le quali [8v] laudi tutte con verità se li possono attribuire.
Saranno forse alcuni che mi calunnieranno come troppo affezionato alle azioni di
papa Clemente VII, alli quali io rispondo non avere detto cosa che non sia vera, mettendo
80
a questi in considerazione essere molto bene possibile che ad alcuno uomo duri molto
tempo la laude della virtù nelle sue operazioni e manchili di poi, o per mutazione di
fortuna, alla quale sono tutte le azioni umane sottoposte, o vero per essere suta maggiore
la comune opinione di lui che la vera essistenzia della virtù sua, come il più delle volte
interviene. Non sarà alcuno che nieghi che Pompeo Magno non fusse tenuto uomo
prestantissimo in pace et in guerra. Nondimeno, chi leggerà l'Epistole di Tulio ad Attico,
vedrà, quando cominciò la guerra civile con Cesare, quanto Tulio lo indicava essere allora
alieno da quello uomo che era gstato, il quale, non volendo ascoltare condizione alcuna
di pace, non ordinava la guerra, non provedeva i danari, non genti, anzi era irresoluto e
quasi attonito, sì come il successo di esso finalmente dichiarò. Io credo che chi ha a
scrivere il vero, debbi lodare o biasimare le azioni di uno principe, secondo quelle
meritono laude. Et io ho commendato le azioni di Clemente, quando, a iudicio mio, sono
state commendabili e così le ho dannate, quando sono state dannabili. E chi queste
essaminerà sottilmente e sanza passione, lo arà in gran parte escusato di molte cose delle
quali comunemente è vilipeso.
Potrei avere descritto più distintamente l'ordine delle battaglie, notato il numero delli
uomini morti in esse, i nomi propri de' luoghi dove siano suti li conflitti, l'orazioni fatte da'
capitani alli soldati, ma, come ho detto, il proposito mio non è suto di scrivere intera
istoria, ancora sono arrogante che, quando volessi pigliare tale provincia, mi
persuadessi di posserla perfettamente assolvere.
Leggi, adunque, questo summario di quindici anni, e, quando ti satisfacci, serbalo,
facendolo comune a chi ti pare, quando no, lo potrai supprimere da poi che lo arai letto. E
così non arò preso indarno questa fatica, perciò che, come è vero, così ancora è costante
fama a presso delli boni autori, che la istoria, in qualunque modo scritta, sempre diletti.
Sta' sano.
E quando tu non l'appruovi in modo iudichi sia da farne parte altrui, se arà dilettato
te, resterò satisfatto.
[9r] 1512
Poiché l'essercito di Luigi XII, re di Francia, che avea per capitano monsignor di Foes,
ebbe rotto e fugato presso alle mura di Ravenna l'essercito di Ferrando re di Spagna e di
papa Iulio II, guidato da don Ramondo di Cardona viceré di Napoli, parve che la fortuna,
come instabile, subito si mutasse. Et essendo morto nella giornata combattendo
arditamente monsignor di Foes, e rimanendo lo essercito a essere guidato da più capi, de'
quali erano alcuni italiani che subito, come è il costume loro, furono in discordia, e quando
era a proposito seguitare la vittoria e constrignere il Papa a pigliare le condizioni dal
vincitore o fuggirsi di Roma, essi, consumando il tempo in dissensioni e dispute,
perderono la occasione e lui, rassicurato, prese animo et in pochi giorni fece scendere i
monti a ventimila fanti svizzeri.
I quali, uniti con le genti d'arme de' Veniziani, collegati seco e col re Ferrando,
assaltorono lo stato di Milano con tanto impeto, che li Franzesi furono constretti a ritirarsi
di Romagna per far pruova di difendere quello stato. Et essendo in odio a tutti i popoli e
81
crescendo del continuo la discordia de' capi Sanseverini e Triulzi, l'essercito franzese non
confidò tenere la campagna li passi de' fiumi le città, ma fuggendosi del continuo,
come fugge la nebbia dal vento, e l'inimici seguitandolo, in pochi dì lo cacciorono di quello
ducato e loro ne restorono signori. E parendo a' collegati avere acquistato onore et utile
grandissimo, pensavono come potessino conservare e l'uno e l'altro. E convennono di fare
una congregazione a Mantoa, nella quale si trovassino il vescovo Gurgense, locotenente
dello Imperatore in Italia, il viceré don Ramondo per il re Ferrando e li oratori del Papa e
Veniziani.
Dove convenuti et avendo più giorni consultato, sendovi ancora ambasciadori delle
leghe de' Svizzeri, deliberorono che fusse restituto nello stato di Milano Massimiliano
Sforza, figliuolo di Ludovico che morì prigione in Francia, il quale era stato gran tempo in
Alamagna appresso lo Imperatore. Et in tal partito tutti li collegati pensorono avere la
satisfazione loro in particulare. Et il Papa prima considerò che, sendo uno duca di Milano
debole, potrebbe disporre de' benefici ecclesiastici a volontà sua, che è quello che i
moderni pontefici stimano assai. Gurgense, non avendo molto riguardo al futuro,
considerò trarne danari di presente per il patrone e qualche parte ancora per sé. Il Viceré,
sappiendo che il re Ferrando voleva nutrire uno essercito in Italia altrove che nel Regno di
Napoli, considerò che lo potrebbe alloggiare in quello stato e trarne ancora danari [9v] per
suvvenirlo. I Svizzeri pensorono avere da detto Duca ogni anno pensione in pubblico et in
privato e che il Duca fusse signore in parole e loro in fatto. I Veniziani, avendo una
repubblica stabile, iudicorno che uno giorno si potrebbe porgere occasione che, sendo un
principe debole in quello stato, facilmente ne diventerebbono signori.
Deliberorono ancora li sopradetti collegati che, non sendo rimasto in Italia chi tenessi
le parti franzesi eccetto la Republica Fiorentina, che si usasse ogni opera et ogni industria
di mutare quello stato, stimando ciascuno de' collegati avere nella mutazione di esso quasi
le medesime commodità che si dicono di sopra dello stato di Milano. Il quale assettorono
in questo principio così a caso, tanto che Massimiliano Sforza venisse d'Alamagna.
E poi il Viceré con circa seimila fanti spagnuoli e mille cavalli, fra di leggieri e grave
armatura, prese il cammino verso Toscana con ordine che il cardinale de' Medici, legato di
Bologna, scappato delle mani de' Franzesi per loro inavertenzia clo aveano prigione,
venisse con lui. E dava voce volere levare lo stato di mano al popolo e restituirlo a detto
Cardinale che ne fusse capo e lo amministrasse con quello ordine di republica che solea già
fare Lorenzo suo padre.
Era in questo tempo Gonfaloniere di Iustizia Piero Soderini, il quale era suto creato a
vita insino l'anno 1502, quando si riordinò alquanto la città: uomo certo buono e prudente
et utile, si lasciò mai traportare fuora del iusto, da ambizione da avarizia. Ma la
mala fortuna, non voglio dir sua, ma della misera città, non permesse che lui o che altri
vedessi il modo di ovviare alli insulti de' collegati o, se pure da alcuno fu veduto, non li fu
prestato quella fede che era conveniente.
Perché li Fiorentini non potevano avere soccorso dal re di Francia che avea perduto
non solo lo stato e la reputazione in Italia, ma si pensava che avessi avere molestie di là da'
monti. si potevono difendere con le forze proprie, le quali erano troppo deboli rispetto
a quelle delli avversari, e però era necessario venissino a composizione. Né accadeva
mandare a Gurgense, come mandorono, oratore messer Ioan Vittorio Soderini, perché lo
82
Imperatore non avea in Italia uno cavallo, accadeva mandarne al re Ferrando in
Ispagna, come mandorono messer Francesco Guicciardini, perché, avanti che si fusse fatto
la proposta et avuto la risposta, era necessario che il giuco fusse finito. Né doveano
confidare potere rimuovere il Papa dalla fantasia sua perché era nimico, e forse con
qualche ragione, non dico a' Fiorentini ma al modo del governo, e che [10r] non avea altri
soldati fuora di quelli che teneva il duca di Urbino, il quale lo obediva quando voleva.
Ma, se li Fiorentini si volevano liberare da questo assalto, bisognava accordassino col
Viceré, avido e per natura e per necessità, e, quando li fusse suta data qualche somma di
danari per lo essercito, e qualche cosetta da parte per lui proprio, sarebbe venuto a
condizioni dalle quali i Fiorentini non arebbono avuto causa discostarsi.
Ma erano allora uno napolitano, per il Viceré, ambasciadore in Firenze et uno
spagnuolo a Roma, per il re Ferrando, i quali con arte dicevano in privato a chi li volea
udire che li Fiorentini non aveano da temere delle forze del re Ferrando, perché il Viceré
conosceva benissimo che lo animo di papa Iulio era di cacciare così il suo re d'Italia, come
avea fatto il re di Francia, e che ogni volta che si mutasse il governo di Firenze e venisse in
mano del cardinale de' Medici, che egli, sendo Cardinale, dependeva dal Papa et in ogni
altercazione s'accosterebbe più presto al Papa che al suo Re, e però che il mutare lo stato di
Firenze sarebbe uno accrescere vigore al Papa, il quale il Viceré sapea certo che intra poco
tempo era per esserli inimico.
Il Papa, ancora che per natura fusse alieno dal simulare, questa volta, o con arte o
pure per l'ordinario, diceva al cardinale de' Soderini et a messer Antonio Strozzi, oratore
apresso a lui pe' Fiorentini, che non avea manco odio contro alli Spagnuoli che contro a'
Franzesi e che pensava a ogni modo trarli d'Italia; e che, quando il cardinale de' Medici
rientrasse in Firenze, che egli dependerebbe da quello a chi fusse più obligato e che
sarebbe più obligato a chi avesse usato in favore suo le forze, il quale sarebbe in fatto il
Viceré; e che non farebbe tale pazzia d'accrescerli potere, quando lo intento suo era
d'abbassarlo.
Queste erano le parole che erano dette in privato a' Fiorentini. Nondimeno il Viceré
era già a Bologna con lo essercito, et in Firenze era opinione che lui non avesse a venire più
avanti contro a quella. Et era tanto questa fantasia fissa nell'animo delli uomini (i quali il
più delle volte s'accordano mal volentieri a credere quello non vorrebbono) che,
proponendosi nel Consiglio Grande da' Signori provisione di danari per potere riparare
con essi allo impeto dell'inimici, non si otteneva.
Parlandosi poi in pratiche strette, chiamate da' Dieci preposti alla guerra, se era da
cercare convenzione col Viceré, tutti quelli vi si trovavano dicevono questo essere l'unico
rimedio alla salute della Città. Preponendosi poi nel Consiglio delli Ottanta, si deliberava
il medesimo. Ma [10v] come si veniva a pratiche più larghe, li uomini, chiamati a quelle,
non volevano sentire parlare d'accordo: e le pratiche larghe erano necessarie perché non si
poteva fare accordo sanza somma di denari e li danari si avevono a vincere per il
Consiglio Grande. E peera quasi di necessità che una parte di quelli uomini, che si avea
a trovare nel Consiglio a vincere i danari, si trovasse ancora a deliberare dello accordo.
Passa il Viceré con l'essercito Bologna, viene con lui legato il cardinale de' Medici,
vengono fanti comandati e pagati del Bolognese, vengono artiglierie: et allora li uomini in
Firenze cominciorono a credere et a temere. Ragunasi il Consiglio, vinconsi i danari; i
83
Dieci soldano e comandano fanti; creonsi oratori per mandare al Viceré. Ma avanti che
queste cose fussino in fatto, l'inimici erano intorno a Prato, dove erano dentro quattromila
fanti, tra pagati e comandati. Né l'inimici ne aveano più che otto e non aveano piu che due
pezzi d'artiglieria da battere mura, nondimeno, in mezzo giorno, feciono una piccola
apertura per la quale i fanti spagnuoli, atti molto a salire, entrorono dentro e tutto lo
messono a sacco. E feciono prigioni i soldati e li abitatori, e non solo li uomini, ma le
donne e li piccoli fanciulli, e vi amazzorono circa cinquecento, benché la fama andasse di
numero molto maggiore.
Come questa nuova si intese in Firenze, non vi fu uomo animoso che non invilisse
e si perdesse. E le parole di messer Baldassarre Carducci il quale, insieme con Niccolò del
Nero, come ambasciadore della Città avea parlato al Viceré dopo la presa di Prato,
accrebbono assai il terrore. Perché egli, tornato la sera medesima, volendo riferire quello
avea essequito avanti i Signori e molti cittadini che erano in Palazzo, come quello al quale
pareva avere bene l'arte oratoria, tanto accrebbe la vittoria delli inimici, tanto fece grande
la occisione de' soldati fiorentini, con tante lagrime deplorò il sacco, il sangue, gl'incendi,
gli stupri, i sacrilegi fatti a Prato, che a ciascuno pareva avere gi rabidi inimici non solo
nella città, ma nelle proprie case, e che i medesimi casi, o più atroci, succedessino quivi. E
si può dire certo che messer Baldassarre, inimico de' Medici, operasse più nella tornata
loro in Firenze, che qualunque altro reputato a essi amicissimo.
Perdessi Prato a 24 d'agosto e li cittadini tutti restorono attoniti, e certi, che si
trovavono danari da poter vivere fuori, si partirono della città e ne menorono le donne e li
figliuoli. [11r] Et universalmente per ciascuno uomo di bona mente si parlava che era da
pigliare quello accordo col Viceré che si potea avere. Ma lui, elato per la vittoria, dove
prima si satisfacea con danari sanza rimettere i Medici, dopo quella voleva fussino
restituiti e nella patria e ne' beni loro e maggiore somma di danari. E benché Piero Soderini
fusse consigliato da qualche uomo affezionato alla libertà di pigliare ogni condizione, pure
che l'essercito inimico si discostasse, la mala fortuna della città lo ritraeva da fare quello
che conosceva essere a beneficio d'essa: perché se li Medici erano rimessi con le leggi, non
arebbono avuto più auttorità di quelle, ma, sendo rimessi con le forze, potettono disporre
d'ogni cosa.
Attesesi il giorno a condurre le genti a piedi et a cavallo nella città et alloggiarli, il che
generò maggiore spavento perché li soldati licenziosi, e parendo loro che i Fiorentini ne
avessino necessità, facevono ruberie et insulti, come è costume d'essi.
Aveva la Signoria, quando l'inimici entrorono nel paese de' Fiorentini, fatto ritenere
in Palazzo circa venticinque cittadini come amici de' Medici, dubitando che non
suscitassino qualche tumulto nella città. Alli 31 di agosto quattro giovani nobili, i quali
furono Bartolommeo Valori, Paulo Vittori, Gino Capponi e Antonfrancesco delli Albizi,
andorono al Gonfaloniere la mattina per tempo e li dissero che era necessario pigliasse
partito e non tenesse la città in pericolo di andare in preda come Prato.
E rispondendo loro il Gonfaloniere parole grate et umane sanza venire a conclusione
e volendosi partire da essi e ritirarsi in un'altra stanza, Antonfrancesco, e più giovane e più
ardito delli altri, lo prese per la veste e disse che prima che partisse da lui, voleva che
relassassi li cittadini che la Signoria avea fatti ritenere. Lui, sendo troppo rispettivo e
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dubitando non avere a far male ad altri o che ne fusse fatto a lui et iudicando che, se si
veniva al sangue, dovesse seguire la ruina della città, fu contento licenziarli. E pensando
che avendo questi quattro giovani, e massime Antonfrancesco, preso tanto ardire, che non
mancherebbe loro animo a tentare più oltre, mandò subito Niccolò Machiavelli, secretario
della Signoria, per Francesco Vittori, fratello di detto Paulo, il quale era deputato dalli
Dieci commissario sopra i soldati. Et avendo inteso quello era seguito in Palazzo, né
potendo essere contro al fratello sanza manifesto pericolo, né volendo per modo alcuno
essere contro al Gonfaloniere et al Palazzo, voleva montare a cavallo per partirsi della
città.
Ma faccendoli [11v] Niccolò la ambasciata per parte del Gonfaloniere, n'andò subito a
lui e trovandolo solo et impaurito, lo domandò quello voleva operasse. Il Gonfaloniere li
rispose che era disposto partire di Palazzo pure che fusse sicuro di non essere offeso.
Francesco li rispose che li pareva che avesse sì bene governato il tempo che v'era stato, che
non voleva già essere in compagnia di quelli ne lo traevano. Ma pregando lui et instando
che operasse si potesse partire sicuro, Francesco, presa la fede da quelli che li erano contro
di non lo offendere, lo condusse a casa sua, dove lui volle più presto andare che alla
propria abitazione. E la notte medesima lo cavò di Firenze per lo sportello e lo
accompagnò con venti cavalli leggieri insino a Siena, sendo stato prima privato detto
Gonfaloniere da quelli magistrati che s'hanno a intervenire a detta privazione secondo li
ordini della Città, dove si pensò subito comporre col Viceré.
Et a questo effetto furono mandati a lui a Prato oratori messer Cosimo de' Pazzi,
arcivescovo di Firenze, Iacopo Salviati e Paulo Vittori. E la città si ordinò in quello tumulto
il meglio che la possette: e fu creato Gonfaloniere per uno anno Giovambatista Ridolfi, e si
fece che i Medici potessero tornare, e si accordò col Viceré di darli ducati
centoquarantamila, i quali lui avesse a distribuire ancora alli altri collegati, secondo
convenissino. E si ebbe da detto Viceré commodità a pagarli in mesi e promisse lasciare il
castello di Prato e rimuovere l'essercito del paese de' Fiorentini.
Tornò Giuliano, figliuolo di Lorenzo de' Medici, il primo in Firenze. Et in effetto, non
parendo a quelli cittadini d'età che si ricordavano di Lorenzo suo padre che il governo
fusse assettato a loro proposito, persuasono et al Cardinale et a lui et a messer Iulio,
figliuolo di Giuliano, che si dovea fare parlamento e pigliare il governo da vero, ché
altrimenti e loro e li amici vi stavano con pericolo. E furono tante le persuasioni, che
spinsono il Cardinale a fare forse quello non arebbe fatto, perché alli 16 di settembre, fece
pigliare il Palazzo, e la Signoria venne in ringhiera a fare parlamento. E fu data ampia
auttorità a quaranta uomini che si chiamorono della Balla, i quali subito feciono nuovi
Otto di Guardia. E Giovambatista Ridolfi, gonfaloniere, rinunziò il magistrato e non volle
stare più che due mesi: e si ridusse la città, che non si facea se non quanto voleva il
cardinale de' Medici.
È chiamato questo modo di vivere tirannide. Ma, parlando delle cose di questo
mondo sanza rispetto e secondo il vero, dico che [12r] chi facesse una di quelle republiche
scritte e imaginate da Platone, o come una che scrive Tomma Moro inghilese essere stata
trovata in Utopia, forse quelle potrebbono dire non essere governi tirannici; ma tutte
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quelle republiche o principi, de' quali io ho cognizione per istoria o che io ho veduti, mi
pare che sentino di tirannide.
è da maravigliarsi che in Firenze spesso si sia vivuto a parti et a fazioni e che vi
sia surto uno che si sia fatto capo della città, perché è città popolata assai e sonvi di molti
cittadini che arebbono a partecipare dello utile e vi sono pochi guadagni da distribuire. E
però sempre una parte si è sforzata governare et avere li onori et utili e l'altra è stata da
canto a vedere e dire il giuoco. E per venire alli essempli e mostrare che, a parlare libero,
tutti i governi sono tirannici, piglia il regno di Francia e fa che vi sia uno re perfettissimo:
non resta però che non sia una grande tirannide che li gentilomini abbino l'arme e li altri
no, non paghino gravezza alcuna, e sopra li poveri villani si posino tutte le spese; che vi
sieno parlamenti nelli quali le lite durino tanto, che li poveri non possino trovare ragione;
che vi sia in molte città canonicati ricchissimi de' quali quelli che non sono gentiluomini
sono esclusi. E nondimeno il regno di Francia è iudicato così bene ordinato regno, e di
iustizia e d'ogni altra cosa, come ne sia un altro tra Cristiani.
Vieni alle republiche e piglia la Veneta, la quale è durata più che republica alcuna di
che si abbi notizia. Non è espressa tirannide che tremila gentilomini tenghino sotto più che
centomila e che a nessuno popolano sia dato adito di diventare gentiluomo? Contro a'
gentiluomini, nelle cause civili, non si truova iustizia, nelle criminali, i popolari sono
battuti, i nobili riguardati. Ma io vorrei che mi fusse monstro che differenzia è dal re al
tiranno. Io, per me, non credo certo che vi sia altra differenzia se non che quando il re è
buono, si può chiamare veramente re, se non è buono, debbe essere nominato tiranno.
Così, se uno cittadino piglia il governo della città, o per forza o per ingegno, e sia
buono, non si debbe chiamare tiranno: se sarà malo, se li può dare nome non solo di
tiranno, ma d'altro che si possa dire peggio. E se noi vorremo bene essaminare come sieno
stati i principii de' regni, trovereno tutti essere stati presi o con forza o con arte. io
voglio entrare ne' Persi, [12v] Medi, Assiri e Giudei, ma la Repubblica Romana era
ordinata nella pace e nella guerra.
Cominciorno Silla e Mario, duttori di esserciti contro alli esterni inimici, a voltare le
forze l'uno contro all'altro; e Silla rimase superiore e tenne occupata la città per forza tanto
quanto volle. Cesare, similmente, d'imperatore di essercito diventò dittatore e signore di
Roma; e così sono seguiti dipoi li imperatori che si leggono. Et essendo declinato il
dominio romano per avere Costantino condotto la sede dello Imperio a Bisanzio, in Italia
sono surti molti principi, secondo che ha dato la occasione. E per coprire meglio il nome
del principato, si hanno fatto investire da uno imperatore che è stato in Alamagna e che
non ha avuto altro di imperatore romano che uno nome vano.
E però non si debbe chiamare tiranno alcuno privato cittadino quando abbi preso il
governo della sua città e sia buono, come non si debbe chiamare uno vero signore di una
città, ancora che abbi la investitura dallo imperatore, se detto signore è maligno e tristo.
Ma io sono uscito alquanto fuora del proposito.
Ridussesi, come ho detto di sopra, il governo di Firenze nel cardinale de' Medici,
ancora che vi fussero i magistrati e leggi ordinate. Il Viceré, avendo quasi avuto la
maggiore parte de' danari gli dovevono i Fiorentini per lo accordo, ritirò le sue genti verso
Lombardia. E fu gran cosa che in una città, alterata tanto di governo et essausta per le
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continue spese, si trovassino tanti danari che, dove i Fiorentini erano debitori di ducati
centoquarantamila in tempi, li ridussono a cento sedicimila e li pagorono di contanti.
E giunto il Viceré in Lombardia, attese a pigliare certi castelli che rimanevono nella
ducea di Milano in potestà de' Franzesi, e Massimiliano Sforza venne d'Alamagna e di
volontà de' collegati fu fatto duca di Milano.
1513
In Firenze questo nuovo modo di governo era a molti insoportabile. E congiurorono
Agostino Capponi e Pietropaulo Boscoli di amazzare Giuliano de' Medici. E furono
scoperti perché feciono una scritta, dove scrissono i nomi di quelli che credevono, seguita
la occisione, si avessino a scoprire in loro favore, ancora che prima non la volessino loro
conferire. Et ebbono poca avvertenzia, che se la lasciorono cadere; et, essendo ritrovata,
fu portata al Cardinale; e, conoscendo lui in essa essere nomi di uomini tutti sospetti,
dubitò di quello che era. Et essendo stata conosciuta la mano, ordinò fussino presi non
solo Pietropaulo et Agostino, ma tutti li altri che erano in su detta [13r] scritta, pensando
che tutti fussino nel medesimo errore. E tutti furono essaminati; ma solo furono trovati in
colpa notabile Agostino e Pietropaulo i quali dalli Otto furono condannati a morte. Delli
altri, qualcuno ne fu confinato, perché per le loro essamine si conobbe malissimo animo
verso i Medici, alcuni furono absoluti, benché tutti quelli che per questo caso furono
condannati e confinati, alla creazione del cardinale de' Medici in Papa, che seguì poi intra
non molti giorni, furono liberi et absoluti.
Papa Iulio in questo tempo, elevato dalla prospera fortuna, disegnava di crescere il
dominio della Chiesa il più che poteva. Et avendo publicato il Concilio Lateranense per
destruere il Conciliabulo (che così lo chiamava), cominciato l'anno avanti da certi cardinali
favoriti dal re di Francia, fece estrema diligenzia di condurre a detto Concilio il vescovo
Gurgense, locotenente dello Imperatore in Italia e che lo governava come voleva. E si
usava dire in quel tempo non che il primo uomo che avessi in corte sua lo Imperatore
fusse il Vescovo, ma che il primo che avesse il Vescovo a presso di sé, era lo Imperatore. E
tanto operò col prometterli di farlo cardinale, con donarli danari et altri doni, con
promettergliene in futuro, che lo condusse a Roma. Et intervenne nel Concilio et in nome
di Massimiliano imperatore lo aprovò; e convenne che il Papa avesse Parma e Piacenzia, le
quali soleano essere della ducea di Milano. Et il Papa avea trovato di nuovo certi
scartabelli antichi per li quali volea mostrare avervi su ragioni lasciate alla Chiesa dalla
contessa Matilde. Né li bastava Parma e Piacenzia, ché disegnava sopra Ferrara.
E fatto venire a Roma Alfonso da Esti, duca, sotto la fede di Prospero e Fabrizio
Colonna, per trattare convenzione, dopo che lo ebbe accolto gratamente, cercò di ritenerlo.
Il che inteso da detti signori Colonnesi, feciono fuggire detto Duca, il quale, per uno
grande circuito di miglia, si ridusse a casa e restò nella indignazione del Papa, e non solo
lui, ma li signori Colonnesi, per opera de' quali era fuggito.
Convenne ancora il Papa con Gurgense, poi che l'ebbe fatto cardinale, di dare ducati
trentamila a Massimiliano, e che lui dessi la investitura di Siena a Francesco Maria della
Ruvere, suo nipote. Il che quando s'intese a Firenze dette grande sospetto e si cominciò a
dubitare che non volesse colorire nel nipote quello che Papa Alessandro avea disegnato
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nel figliuolo. Ma, mentre minacciava Ferrara e voleva pigliare Siena, fu sopravenuto [13v]
dalla morte, sendo stato malato di febre qualche settimana: e morì a 13 di febraio.
Uomo, certo, più fortunato che prudente e più animoso che forte; ma ambizioso e
desideroso di grandezza oltre a modo.
Sendo suti pontefici Alessandro et Iulio tanto grandi, che più presto si potevano dire
imperatori che pontefici, è da credere che ciascuno delli principi cristiani, e massime di
quelli che avevano che fare in Italia, conosciuto quanto importasse il papa, era per fare
ogni opera di avere uno pontefice amico.
E per questo i cardinali, che n'erano allora in Roma ventidua, e perché pareva loro
che la Chiesa avesse uno bello dominio e loro essere signori grandi, perché avevono
entrate eccessive da potere spendere in loro voglie e non avevono cura né di guardare
fortezze né di tenere contenti i sudditi come gli altri signori, sollicitavano quanto era
possibile la futura elezione, la quale dovea farsi sanza simonia, secondo una bolla avea
fatto publicare nel Concilio papa Iulio, quattro giorni avanti la sua morte. arebbono
voluto i cardinali che si fusse differito tanto, che vi potessino venire i cardinali di Francia, i
quali, per avere inditto il Conciliabulo, erano suti privati da Iulio, acciò che, venendo, non
seguisse qualche disordine nella elezione. E però feciono l'essequie di Iulio, secondo il
solito; poi subito entrorono in Conclavi venticinque cardinali, ché ne erono venuti tre che
si trovavono fuori non molto lungi.
Fu openione di molti che il cardinale di San Giorgio fussi eletto papa perché, non si
potendo usare simonia, come si era fatto in qualche elezione passata, li fautori suoi feciono
fare uno capitolo in Conclavi, che disponeva che tutti li benefizi di quello che fusse eletto
pontefice si dovessino distribuire per rata ne' cardinali che si trovavano presenti alla
elezione. E questo feciono perché, avendo il cardinale di San Giorgio benefizi assai, et
essendo pure nel collegio cardinali, a' quali, secondo l'avarizia loro, pareva essere poveri,
tirati dalla avidità della distribuzione, eleggessino lui. Ma, sendo stati due pontifici
terribili et avendo fatto morire cardinali, avendone incarcerati, et a quali avendo tolto la
roba, e chi avendo avuto a fuggire, e chi stato in continuo sospetto, era entrato nelli animi
de' cardinali tanto timore di non eleggere uno papa di simile sorte, che unitamente
crearono Giovanni cardinale de' Medici. Il quale sino allora avea sempre mostro di essere
uomo rimesso e liberale o, per meglio dire, prodigo di quello poco che avea, et avea saputo
in modo simulare, che era tenuto di ottimi costumi.
Aggiunsesi a questo che, sendo in Italia [14r] potente il re Ferrando e disegnando il re
di Francia di nuovo tornarci, pareva necessario, a volere mantenere la grandezza della
Chiesa, che fussi creato pontefice di autorità: et avendo il cardinale de' Medici il governo
di Firenze, si poteva iudicare che, essendo eletto pontefice e coniungendo la potenzia de'
Fiorentini con quella della Chiesa, avesse più presto a mettere timore ad altri, che a temere
d'alcuno.
Giovòlli ancora molto a essere eletto la destrezza et industria di Bernardo da
Bibbiena suo secretario, uomo astutissimo e faceto, e che era stato molti anni in quella
corte e sapeva molto bene li omori non solo de' cardinali, ma di qualunque loro amico e
familiare, in modo che condusse fuori del Conclavi alcuni di loro a promettere, e nel
Conclavi a consentire a detta elezione, contro a tutte le ragioni. Fu publicato pontefice il
cardinale de' Medici a 11 di marzo 1512 che correva l'anno trigesimo ottavo della età
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sua, e si fece chiamare Leone x, con tanta letizia di tutti li uomini di Roma, che non si
potrebbe esprimere, con tanta espettazione di bontà e prudenzia, che difficilmente potette
in successo di tempo corrispondere alla openione concetta di lui.
In quelli pochi dì che la sede stette vacante, il viceré di Napoli occupò Parma e
Piacenzia, il che dispiacque assai a tutti i cardinali; e come fu creato il nuovo pontefice, lo
stimolarono a volerle riavere. E sappiendo il Viceré che il re Luigi preparava essercito per
mandare a ripigliare lo stato di Milano, indicò non essere a proposito che il Pontefice fusse
male satisfatto di lui e convenne restituirle, con volere però dal Papa ducati trentamila e
promessa di difenderle dal re di Francia. Il quale Re pensò non essere bene che Italia, in
questa nuova creazione del pontefice, si stabilisse e riordinasse. E però con prestezza fece
essercito e mandòllo di qua da' monti verso il ducato di Milano; et ordinò capitani di esso
il signor Ioan Iacopo Triulzi e monsignore della Trimoglia, uomini reputati prudenti et
esperti nell'arme.
Massimiliano, signore di Milano, sendo nuovo nello stato et uomo uso più presto in
corte che ne' campi, sappiendo come volesse procedere il Viceré il quale, se voleva
difendere quello stato, doveva andare verso Tortona et Alessandria, e lui aveva fatto uno
ponte a canto a Piacenzia, che mostrava volersi ritirare verso Brescia, deliberò di gittarsi
tutto in mano de' Svizzeri, pe' conforti massime di Ieronimo Moroni, milanese, nel quale
era tutta la fede sua.
Questo Ieronimo andò nel paese de' Svizzeri, [14v] e con pochi danari e con promesse
di più e con molte parole e ragioni ne levò circa diecimila. I quali, giunti a Noara, inteso
come lo essercito franzese veniva verso quella città, et ancora che non avessino cavalli, li
andorono affrontare con pronto animo e combatterono gagliardamente e li ruppono. La
occisione non fu grande, ma la preda fu grandissima. E li Svizzeri liberorono, per allora, lo
stato di Milano dalle mani de' Franzesi e ne ebbono dal Duca, con tempi, quelli premi che
vollono. Il re di Francia, con questo assalto, subito si concitò contro lo Imperatore, il re di
Spagna e d'Inghilterra e li Svizzeri, i quali tutti a uno tempo da diversi luoghi assaltorono
il regno di Francia.
Il Papa, poi che ebbe atteso alla coronazione e ceremonie consuete, le quali fece più
suntuose che li altri pontefici e spese grossa somma di danari, pensò che non era bene che
il regno di Francia fussi destrutto: e se bene li fu grato che le genti del Re fussino rotte a
Noara, perché li pareva che lui li avessi avuto poco respetto mandare ad assaltare Italia
sanza fargliene intendere, della quale egli era capo, considerò quanto importasse debilitare
quello Regno, rispetto al Turco, quanto profitto ne traeva la corte di Roma delle cose
beneficiali, quanto importerebbe quando lo Imperatore o re di Spagna pigliassino qualche
parte di quel Regno. E cercò con ogni industria ritrarre il re d'Inghilterra e Svizzeri dalla
impresa di Francia e si sforzò trovare modi di composizione tra questi Principi. Et a questo
effetto mandò più volte suoi uomini a questo principe et a quell'altro, ma niente giovò,
perché il re Ferrando voleva tanto indebolire il re di Francia, che non potesse pensare a
Italia, perché, mentre che esso ci disegnava, a lui non pareva possedere sicuro il Regno di
Napoli.
I Svizzeri, che in fatto erano signori di Milano, non volevono che lui potesse tornare a
ripigliarlo. Lo Imperatore faceva la guerra per piacere, altro fine ci avea dentro. Il re
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d'Inghilterra voleva contentare i popoli suoi i quali sono per natura inimici a' Franzesi. E
mentre che tutti i sopranominati si preparavano a fare guerra contro a Francia et il Re a
difendersi, i Veniziani sollecitavono il Papa che, sendo loro stati in lega con Iulio, re
Ferrando et Imperatore contro a' Franzesi, che operasse come successore di Iulio, che
fussino osservate loro le condizioni; e che, avendo il Viceré tolto Brescia delle mani de'
Franzesi che doveva, per li patti, essere loro restituita.
Leone conosceva essere così il iusto e ne parlava ogni [15r] giorno a don Ieronimo
Vic, oratore a Roma per Ispagna, e ne scriveva alli suoi nunzi, che erano presso al re
Ferrando; et aveva sempre le migliori risposte e parole del mondo, ma non si veniva a
conclusione, il che procedeva perché il re di Ispagna voleva nutrire un essercito in Italia, in
altro luogo che nel Regno di Napoli. Ma in fine i Veniziani, veduto di essere tenuti in
parole, s'accordorono col re di Francia et ottennero da lui che traessi di prigione
Bartolomeo d'Alviano, quale era suto preso da' Franzesi nella rotta di Adda, e lo feciono
capitano. E deliberorono fare una buona guerra, per vedere di riavere quello si
apparteneva loro con l'arme, poi ché non lo potevono riavere con le parole.
In Firenze della creazione del Papa si fece quella festa che si può stimare. E perché li
Fiorentini sono dediti alla mercatura et al guadagno, tutti pensavano dovere trarre profitto
assai di questo pontificato. Aveva il Papa delli suoi, in Firenze, Giuliano, fratello carnale,
messer Iulio, suo cugino, cavaliere di Rodi, priore di Capua, Lorenzo suo nipote. Nessuno
di questi voleva stare in Firenze perché Giuliano pensava a grandezza eccessiva, messer
Iulio disegnava, con l'essere uomo di chiesa, ottenere dal Papa degnità benefici assai,
Lorenzo era uso a vedere in che reputazione era in Roma uno parente di uno papa, ancora
che li attenesse poco; sendoli lui nipote, li pareva non si potesse trovare altra stanza più a
suo proposito che quella, perché in Firenze era necessitato a vivere con mille rispetti et a
Roma non ne avea avere uno al mondo.
Il Papa per niente voleva lasciare il governo di Firenze, perché iudicava, tenendo
quello, dovere essere di più autorità a presso a' principi. E benché li paresse conveniente
che Giuliano attendesse lui a quel governo, per essere oramai di età matura et uomo da
dovere satisfare a' Fiorentini, non trovando modo che lui volesse farlo, perché già era ito a
Roma e quivi si voleva stare, né iudicando essere bene rimuovere messer Iulio dalla
chiesa, si ridusse a fare pigliare a Lorenzo detto governo, il quale era di età d'anni venti in
circa et era uso a portare grande reverenzia alla madre, perché era stato a sua custodia
molti anni, poi che il padre fu morto.
Mandò dunque il Papa Lorenzo in Firenze e mandò con lui messer Iulio: il quale,
sendo morto messer Cosimo de' Pazzi, arcivescovo di Firenze, era successo in quello loco.
E si dette principio a ordinare uno governo civile, del quale Lorenzo fusse capo, in quella
medesima forma a punto, come avea tenuto Lorenzo suo avo. [l5v]
Et attendeva Lorenzo, ancora che giovane, con grande diligenzia alle cose della città:
che la iustizia fusse amministrata equalmente a ciascuno, che le publiche pecunie si
riscotessino e si spendessino con parsimonia, che le lite si componessino in modo che ogni
uomo ne restava satisfattissimo, e massime perché, sendo l'entrate grande per
l'abbondanzia del popolo e le spese non molte, i cittadini erano poco affaticati di danari,
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che è quello che piace a' popoli, perché l'affezione che loro hanno al principe procede dalla
utilità.
Pensorono alcuni cittadini, i quali si tenevono savi e reputavano che il bene della
Città consistesse in estendere assai li confini et in avere più una terra et uno castello, di
molestare i Lucchesi per provare di ridurli in servitù, o almeno riavere da loro Pietrasanta,
la quale altra volta era stata de' Fiorentini, ma era suta poi perduta nella passata del re
Carlo. E non si accorsono quanta infamia dettono al Papa a presso a tutti li uomini, e
quanto sospetto messono alli principi a farlo acconsentire che, ne' primi mesi del suo
pontificato, i Fiorentini assaltassino, sanza causa alcuna, i Lucchesi vicini e confederati e
che vivono in pace et in libertà sotto le loro leggi e con le loro arti.
Et in che modo potevono i Fiorentini ricordare poi al Pontefice che ponessi freno alle
immoderate cupidità del dominare per la Chiesa e per li suoi e pigliassi essemplo dalli
pontefici passati, i quali tutto quello che avevono acquistato per li loro attinenti con
grande infamia pericolo e spesa, in pochi giorni, alla morte loro, era ritornato alli primi
signori, quando loro erano suti i primi a incitarlo acconsentire cose non convenienti? E
quando loro lo dovevono confortare che arricchisse li suoi di possessioni e danari, e così
aiutasse li altri cittadini a conseguire benefizi et offizi, e che li mercanti potessino
guadagnare in vendere le loro mercantie a Roma et altrove, e che si rispiarmassino
l'entrate publiche per estinguere li interessi che pativa il comune, loro, mossi da una certa
vanità, entrorono di sua volontà, benché fusse volontà sforzata, in assaltare i Lucchesi da
più bande con genti comandate. E feciono prede nel paese loro con assai danni di essi e
con poco profitto loro e di quelli che rubavono.
I Lucchesi, trovandosi arse le ville e predato il paese, ricorsono a Roma a dolersi al
Papa et a' cardinali. Et in su queste querele, furono consigliati dalli amici loro di rimettere
le differenzie aveano co' Fiorentini nel Papa. Il quale fece loro levare subito la guerra da
dosso et iudicò che dovessino restituire Pietrasanta a' Fiorentini con certi capitoli, come
per il [16r] lodo appare.
E veramente il Papa malvolentieri permesse che i Fiorentini nocessino a' Lucchesi,
ma si lasciò persuadere a quelli che, intendendo poco, dicevono che, lasciando offendere i
Lucchesi, acquisterebbe in Firenze grandissima grazia.
Don Ramondo viceré, in questo tempo, vedendo i Veniziani essersi collegati con
Francia, deliberò di perseguitarli con aperta guerra; e loro si armorono di maniera che
pensorono di potere non solo difendersi, ma offendere l'inimici.
Il primo assalto che fece loro il Viceré fu a Crema, quale è molto vicina allo stato di
Milano, et oltre alle altre difficultà, aveva peste grande. Nondimeno, per industria del
signor Renzo da Ceri, si difese e l'inimici se ne levorono con danno e vergogna. Corse il
Viceré dipoi assai del paese de' Veniziani, et essi sempre si andavono difendendo. Ma,
trovandosi lo essercito spagnuolo una volta in uno luogo tra Padoa e Vicenzia, dove era
costretto o morire di fame o ritirarsi per difficile camino in Alamagna, Bartolomeo
d'Alviano, troppo ardito capitano et al quale pareva quante pvolte era rotto più fama
acquistare, volle apicciare il fatto d'arme.
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Li Spagnuoli, disperati, combatterno valentemente e, per opra massime di Prospero
Colonna, ruppono le genti venete et amazzorono e presono più loro capi. E potette poi il
Viceré andare liberamente per tutto il paese veneto e, per più pompa e gloria, andò insino
a Menstri, donde sparò qualche tiro d'artiglieria verso Venezia.
In Francia ancora si faceva grandissima guerra. Et il re d'Inghilterra avea passato il
mare e si era congiunto con lo Imperatore. E con gente grandissima assediorno Terroana,
avendo prima presa Tornai sanza difficultà, e presso a quella dettoro una rotta a' Franzesi.
Ma la obsidione di Terroana durò bene quaranta e, benché fussi presa, ritardò assai
l'impeto delli Inghilesi e Todeschi. Et in questa dilazione lo Imperatore, che per natura era
vario e quanto oro era al mondo non aria potuto riparare alle sue spese, venne a qualche
altercazione col re d'Inghilterra e, sanza mettere più tempo in mezzo o pensare più oltre,
se ne tornò in Alamagna.
Il re d'Inghilterra, per questo, et ancora perché avea fatto grande armata per mare e
mandatala a Fonteravia, con intenzione che il re Ferrando avesse a muovere per terra da
quella banda, vedendo la cosa andare in lungo, restò male satisfatto e richiamò l'armata
sua. E questo fece tanto più volontieri perché li Svizzeri, i quali secondo la composizione
tra loro collegati, con ventimila uomini assaltorono la Borgogna e messono la obsidione a
Digiuno, dove era [16v] il capo per Francia monsignore della Trimoglia che fece
gagliarda difesa, che detti Svizzeri, diffidando poterla sforzare o per qualsivoglia altra
causa, accordorono con monsignore della Trimoglia con convenzioni onorevoli et utili per
loro, e ritornoronsi subito indrieto.
La quale convenzione il re Luigi non volle ratificare né osservare. Onde, come è
detto, Enrico re d'Inghilterra per li modi del re di Spagna, dello Imperatore e de' Svizzeri,
conobbe che lui era quello che spendeva sanza profitto e che li altri collegati facevano
quello volevano, sanza tenere conto di lui; ritirò lo essercito di dal mare e volse l'animo
allo accordo con Francia. Et essendo morta di poco la regina Anna, moglie del re Luigi,
s'appiccò pratica tra questi duo Re d'amicizia e parentado e si fermò l'uno e l'altro. Et il re
Enrico dette al re Luigi, vecchio et infermo, Maria sua sorella, giovane e bella. E come fu
detto allora, Luigi trasse d'Inghilterra una achinea che caminò forte, che in pochi mesi lo
portò fuor del mondo.
1514
Lo avere permesso il Papa che li Fiorentini offendessino i Lucchesi e la stanza di
Giuliano suo fratello in Roma, con avere lasciato il governo di Firenze, dette sospetto a
tutti principi, grandi e piccoli, che avevono che fare in Italia, perché il re Ferrando dicea:
«Poiché Giuliano ha lasciato lo stato di Firenze, che è sì bella cosa, bisogna che abbi
fantasia a cose maggiori, che non può essere altro che il Regno di Napoli».
Il duca di Milano, di Ferrara, di Urbino dicevono il medesimo. I Sanesi discorrevono:
«Se il Papa lascia offendere a' Fiorentini i Lucchesi, che hanno la città forte, ben munita e
d'accordo, tanto più lascerà offendere noi che abbiamo la città debole, poco provvista e
desunita».
92
Il duca di Ferrara, oltre a questo dubio, era malissimo satisfatto del Papa perché nel
principio del pontificato era venuto a Roma et era suto veduto volentieri et accarezzato dal
Papa. E si era partito pieno di bona speranza e con promissione che li sarebbe restituito
Reggio e fattolo favore con lo Imperatore che riavessi Modona. Et aveva visto il Papa poi
non solo non li rendere Reggio, ma comperare Modona dallo Imperatore o pigliarla in
pegno per ducati quarantaquattromila.
Ma il duca di Urbino, Giovampaulo Baglioni e Borghese Petrucci, primo cittadino a
Siena, mossi dalla sospezione e come più deboli, feciono lega insieme, contr'a' quali il Papa
prese grandissima alterazione e fu del continuo poi inimico loro. Nondimeno essi allora
l'escusorono con dire esser fatta per difendere dal signore di Camerino il duca d'Urbino, il
quale vedevono esser favorito dal Papa per averli data per moglie [17r] una sua nipote,
sorella del cardinale Cibo.
Aveva ancora alterato l'animo de' cardinali la creazione di quattro cardinali, che il
Papa creò sei mesi dopo la sua elezione, contro a' capitoli che s'erono fatti e giurati nel
Conclavi, i quali furono messer Lorenzo Puccio, datario, Bernardo da Bibbiena, tesauriere,
messer Iulio de' Medici, suo cugino, et Innocenzio Cibo, figliuolo di una sua sorella.
E vedendo li uomini che rompeva i giuramenti e che pensava alle guerre e faceva
oggi una constituzione nel Concilio Lateranense e domane vi derogava, cominciò a
perdere a presso a molti il nome del buono e, benché dicesse l'officio ogni dì con divozione
e digiunasse due o tre giorni della settimana, oltre a' digiuni ordinati, non li credevono
più.
E certo è gran fatica volere essere signore temporale et essere tenuto religioso, perché
sono due cose che non hanno convenienza alcuna insieme. Perché chi considera bene la
legge evangelica, vedrà i pontefici, ancora che tenghino il nome di Vicari di Cristo, avere
indutto una nuova religione che non ve ne è altro di quella di Cristo ch'il nome, il quale
comandò la povertà, e loro vogliono la ricchezza, comandò la umiltà, e loro seguitono la
superbia, comandò la obedienzia, e loro vogliono comandare a ciascuno. Potrè'mi
estendere nelli altri vizi; ma basta avere accennato, che più oltre non mi pare mi si
convenga entrare.
1515
Erano le cose d'Italia e fuora d'Italia in questi sospetti e travagli, quando morì il re
Luigi XII, il quale, nel tempo regnò, provò e la fortuna prospera et avversa. E solo si può
riprendere che ebbe troppa voglia di ricuperare il ducato di Milano nel tempo che lui, per
la infermità, non era atto alla guerra et era necessitato il commetterla ad altri, il che, il più
delle volte, è pericoloso.
Per la morte sua venne il regno, secondo l'ordine di Francia, a Francesco duca
d'Angolem, giovane d'anni venti, dotato dalla natura di tanta bellezza, quanto altr'uomo
che fusse in Francia, e di più ingegno e memoria. Et avea consunta l'età sua in essercitarsi
in arme et ancora non alieno dalle lettere, ma era bene alieno da tutti i vizi, sobrio,
temperato, continente; e benché abbi provato qualche volta la fortuna avversa, si p
connumerare tra li principi eccellentissimi.
Questo, nel principio prese il regno, deliberò assaltare la ducea di Milano. E se bene
pensò che alla difesa di quella avessino ad essere collegati Papa, Imperatore, re di Spagna
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e Svizzeri, pensò ancora che le leghe, che sono di tanti pezzi, non sono mai d'accordo,
[17v] se non in parole. E nondimeno tentò ancora avere qualche parte in Italia e rinnovò la
Lega che avea fatta il re Luigi co' Veniziani e cercò di rimuovere Genova dalli altri
collegati, dove era doge Ottaviano Fregoso, il quale il Papa avea favorito assai che tornasse
in stato e mai pensava si dovesse partire dalla volontà sua.
Ma Ottaviano, pensando potere male tenere Genova sanza l'amicizia di Francia,
rispetto al navicare, et inclinando per molte ragioni che, venendo Francesco in Italia con
essercito, dovesse essere superiore ai collegati, si accordò e, di Doge, diventò governatore
per il re di Francia, il quale volle la signoria della Città, come era solito avere Luigi.
Il Papa, intendendo le preparazioni di Francia, stava molto ambiguo che partito
dovessi pigliare. Et essendoli preposto che dovesse dare per donna a Giuliano, suo fratello,
Filiberta, sorella del duca di Savoia, la quale era sorella della madre di Francesco che avea
grande auttorità a presso al figliuolo, inclinando molto Giuliano a detto parentado, come
nobilissimo, vi consentì ancora lui, benché non li pareva conveniente perché conosceva
tirarsi dietro spesa insopportabile. Pure stimava, da altra parte, di potere per questo
mezzo ritenere il Re, con le parole, dal venire in Italia e, quando non lo ritenesse, se bene li
fusse contro, trovare nella vittoria più facili condizioni.
Stette il Papa così dubio qualche settimana perché, accostandosi a Francesco, vedeva
che, se era vincitore, restava a sua discrezione e, se perdeva, conosceva che ne seguiva la
ruina sua manifesta, et esserci ancora un'altra cosa: che il Re potea farlo scoprire e poi non
volere o non potere passare, e lui trovarsi solo in preda de' collegati. Nello accostarsi alla
Lega conosceva che, quando avesse vinto, non lo poteva tanto offendere, perché erano più
collegati et era impossibile tirassino tutti a uno segno, e, se uno lo volesse offendere, l'altro
lo difenderebbe. Ma dubitava assai che la Lega non avesse a succumbere perché
considerava il medesimo ch'el Re, che queste leghe di pezzi non fanno mai cosa buona.
Aggiugnevasi che lo Imperatore e re Ferrando non erano in Italia e, come lo avevano
imbarcato, poco penserebbono alla guerra et a lui resterebbe il pensiero e di contentare i
Svizzeri e della maggior parte delle altre spese che si avessino a fare. E se egli ne mancava,
dubitava che li collegati non li diventassino inimici, i quali già lo avevono sospetto rispetto
a' Fiorentini, che per l'ordinario sono inclinati a Francia, e per il parentado che avea fatto
di nuovo con Savoia. Né li pareva potere stare di mezzo perché temeva che li Svizzeri, che
erano già sull'arme, [18r] uniti col Viceré, non li togliessino subito Piacenzia e Parma, e che
non paresse loro che la sua neutralità fusse il medesimo che dichiararsi in favore del re di
Francia.
Finalmente, dopo molte ambiguità e suspensioni, si risolvé entrare nella Lega et
opporsi a Francia. E la principal causa che lo indusse a questo fu che, essendo accordato
Ottaviano Fregoso, stimato tanto amico suo, a' Svizzeri entrò sospetto che non avesse fatto
tale accordo di volontà del Papa, e minacciavono, se non si dichiarava, farli la guerra
subito. Et il cardinale Sedunense gl'incitava, come quello che era desideroso di novità e
non li pareva essere suto remunerato dal Papa secondo meritavono l'opere sue nel
Conclavi, si che si collegò più presto per timore che per elezione.
Fatta questa dichiarazione et intendendosi del continuo che il re di Francia
sollecitava, i collegati cominciorno a fare il medesimo. E feciono scendere dodicimila
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Svizzeri, i quali pensorono tenere a Susa, et il signor Prospero, capitano delle genti del
duca di Milano, andò con la compagnia sua verso i monti, et il Viceré, che era a Verona, a
piccole giornate s'inviò con le genti sue a piè et a cavallo verso Cremona, et a Verona, in
suo luogo, andò Marcantonio Colonna, soldato del Papa.
Soldò ancora il Papa più altri capi, e Colonnesi et Orsini e Savelli et il duca d'Urbino
e, per l'ordinario, avea Guido Rangoni; et a tutti dette danari. E il di san Pietro dette il
bastone a Giuliano suo fratello e lo fece generale capitano della Chiesa, il quale era più
presto da corte che da guerra. E lo fece inviare verso Firenze et ordinò che tutte l'altre genti
sue, a piede et a cavallo, lo aspettassino a Piacenzia, dove si dovea fare la massa di tutto lo
essercito.
Lorenzo de' Medici, nipote del Papa, il quale, come io dissi di sopra, come cittadino
governava Firenze, intendendo come Giuliano suo zio, nello sposalizio della moglie, avea
promesso al conte di Ginevra, fratello di detta sua moglie, che farebbe opera che sarebbe
capitano de' Fiorentini con gran soldo, gli parve che, succedendo, avesse a essere con
diminuzione dello onore suo e che li Fiorentini avessino a restare male satisfatti e del Papa
e di lui di essere fatti spendere, quando Loro gli dovevano rispiarmare. E pensò di ovviare
a questo disegno con fare eleggere capitano con intenzione, però, di non volere genti
denari, ma gli bastasse solamente il titolo, acciò che il Papa e Giuliano si astenessino
dalla impresa. ancora prese questo partito sanza la volontà del Papa il quale, [18v]
quando egli gnene conferì, vi fece molte difficultà, ma in ultimo concluse che quando il
Consiglio delli Settanta vi acconsentisse volentieri, che egli ne resterebbe satisfatto,
stimando che tale Consiglio non l'avesse acconsentire.
Ma Lorenzo, avendo prima parlato con molti di detto Consiglio e mostro la causa per
la quale cercava di essere soldato, ottenne subito il consenso di tutto il Consiglio, il che
dispiacque assai al Papa, pure bisognò che avesse pazienzia. Ma disegnò che le genti che
avea Lorenzo in condotta in nome, avessino a essere in fatto e ne richiese la città. Lorenzo,
vedendo il consiglio suo non succedere perché, dove volea ovviare alla spesa, vedeva
bisognava spendere e, dove non voleva che le genti de' Fiorentini si scoprissino contro al
re di Francia, conosceva che, mandandole in Lombardia, seguiva contrario effetto (il che
era grande preiudizio alla città, sì per i molti mercanti fiorentini che sono per il regno di
Francia, i quali malvolentieri vi potrebbono stare et essercitarsi in faccende, quando la città
fusse contro a Francia; ancora perché, accadendo che il re di Francia vincesse, dubitava,
avendolo offeso, non cercasse torgli lo stato), però fece rispondere al Papa che li Fiorentini
non manderebbono le genti sanza capitano, sappiendo che il Papa non acconsentirebbe
che lui si partisse di Firenze et ancora non lo manderebbe in campo, dove fusse capitano
Giuliano, dubitando non avessino a essere discordi.
Leone, avuta questa risposta, non sapea che partito si pigliare. Ma accadde a punto
che Giuliano de' Medici non fu stato due giorni in Firenze che s'amalò di due terzane, le
quali lo afflissono in modo che presto fu conosciuto che il male sarebbe lungo e pericoloso
e per questo non era possibile cavalcassi. Onde il Papa si volse a dare il carico che avea
dato a Giuliano a Lorenzo. Il quale lo prese malvolentieri, sì perché dubitava che, andando
contro al re di Francia, la città non avesse a incorrere la indegnazione di esso e li mercati
ne avessino a patire; ancora perché conosceva che il titolo che avea preso di capitano,
perché la città non avessi spesa né di lui né d'altri soldati, faceva il contrario effetto: et a lui
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non poteva occorrere cosa più molesta, che dare spesa alla città. Pure, costretto dal
comandamento del Papa, ordinò le genti et alli 16 di agosto 1515 sì parti di Firenze insieme
col cardinale de' Medici, che andava a pigliare la legazione di Bologna et ancora era legato
in questa impresa.
Il re Francesco in questo tempo aveva sollecitato il passare suo, aveva fatto fare
allo essercito alla artiglieria il cammino di Monginevra, che conduce [19r] a Susa dove
erano i Svizzeri, ma l'avea condotta per un'altra montagna, chiamata l'Argentiera, luogo
difficile, non che a passarvi uomini e cavalli et a condurvi artiglieria, ma alle capre.
Nondimeno la potenzia di uno principe grande, quando vi concorre la volontà, supera
ogni difficultà.
Passò con lo essercito suo quello monte e condusse artiglieria e cavalli. Et alli
avversari pareva impossibile che passasse, che stavano sanza scolte o velette o guardia
alcuna e tenevono il campo sparso in più parti, in modo che, sendo alloggiato Prospero
con la compagnia sua a Villafranca in Piamonte, distante dal luogo dove lo essercito
franzese scese circa miglia sedici, ancora che fusse avertito che li Franzesi erano di qua da'
monti e che facesse buona guardia, non tenne conto di tale avertimento. E certi franzesi a
cavallo, con trattato di quelli del castello, furono condotti in detto luogo e trovorono
Prospero a desinare e presono lui e tutti li suoi, sanza trarre fuora spada.
Questa presa dette animo grande a' Franzesi e, per il contrario, invilì i collegati e
ciascuno di essi, in particolare, cominciò a pensare a' casi suoi. Lorenzo, locotenente del
Papa, venne avanti a maggior giornate possette e li Fiorentini mandorono con lui
commissario Francesco Vittori. E la massa delle genti del Papa si congregò a Piacenzia,
dove si trovorono, tra il Papa e Fiorentini, circa seimila fanti et ottocento uomini d'arme.
Il Viceré condusse ancora lui il suo essercito a Piacenzia di quattrocento uomini
d'arme e quattromila fanti e fece lo alloggiamento in sul Po, lungi uno miglio dalla terra
dove Goro Gheri, pistoiese, governatore di Piacenzia, aveva fatto fare uno ponte in sul Po
perché li esserciti potessino passare in qua e in là, secondo il bisogno.
Francesco, poi che fu sceso nel piano di Lombardia et ebbe preso Prospero, fece
tentare i Svizzeri d'accordo perché in fatto i gentiluomini franzesi non arebbono voluto
venire a giornata con loro, i quali da molti anni in qua avevono acquistate tante vittorie,
che erano reputati invincibili.
I Svizzeri prestorono orecchi, e massime quella parte ch'era contraria a Sedunense, la
quale fu gagliarda che minacciò di amazzarlo e lui, impaurito, se ne fuggì a Piacenzia.
Ma praticandosi poi tra Franzesi e Svizzeri il modo della composizione et essendo quasi
fermo, per poca cosa si ruppe. Et intendendolo Sedunense, col favore de' suoi partigiani e
di qualche cavallo del Papa che condusse seco, ritornò in campo de' Svizzeri e li riunì e
condusse in Milano. Questa pratica de' Svizzeri col Re tenne molto sospesi il Luogotenente
et il Viceré perché dubitavono non si condurre [19v] a Milano, e che i Svizzeri uscissino
loro a dosso con uno accordo, e che, dall'altro canto, lo Alviano con l
'
essercito veneto
passasse il Po in Mantuano et assaltasse Parma e Piacenzia, terre in quel tempo deboli et
inclinate a' Veniziani, che li sarebbe facile a pigliarle, e loro si ritrovassino in Milano
rinchiusi a discrezione del popolo e non avere essercito da potere combattere con la terza
parte dello essercito franzese.
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Francesco, intanto, prese Noara e Pavia d'accordo con chi ne avea la guardia e mandò
Ioan Iacopo Triulzi verso Milano, pensando che il popolo voltasse. Ma non riuscì perché li
Svizzeri erono sì forti in Milano, che tenevono il popolo in timore, onde il Re fu constretto
a voltarsi a pigliare tutte le terre e luoghi che erono intorno a Milano.
Il che quando il Viceré intese, sollecitava Lorenzo a passare il Po insieme con lui per
ire a occupare Lodi, avanti che li Franzesi lo pigliassino. E questo dicea non perché la sua
intenzione fusse così, ma perché Lorenzo negasse il farlo per potere sempre scusare e
caricare il Locotenente, quando Milano si perdesse. Perché conosceva molto bene che il
rinchiudersi in Lodi era andare a perdita manifesta, perché non v'erano vettovaglie, per
essere stata di pochi messa a sacco dal signor Renzo, quando egli partì da' Veneziani
per ridursi a' soldi del Papa (e volle monstrare, sendovi ancora l'utile suo, servire ai
padroni insino all'ultimo con fede), era possibile condurvene perché li Franzesi, per
essere superiori di numero e di valore, di cavalli e fanti, erano signori della campagna,
poteano sperare di essere aiutati dalli Svizzeri, i quali erano a Milano e, sempre che lo
essercito del Papa e del Re fusse uscito fuora per cercare vettovaglie e si fusse incontrato
con li avversari, sarebbe stato prima rotto, che li Svizzeri lo avessino inteso.
Nondimeno il Locotenente, conosciuta l'arte del Viceré, disse essere di pronto animo
a volere passare il Po. E la sera fece passare la più parte delle genti della Chiesa. E volendo
fare passare quelle de' Fiorentini, Francesco Vittori commissario, alla entrata del ponte, li
protestò che li signori Fiorentini non intendevono in modo alcuno che le loro genti
andassino a offendere il re di Francia e che erano bene contenti che le difendessino
Piacenzia e Parma, terre del Papa, e che stessino a quella guardia, ma non intendevono
procedessino più avanti, e che, se egli voleva passare il Po, lo facesse come Locotenente del
Papa e non come capitano de' Fiorentini, e che per niente conducesse seco genti loro, e che,
passando, li protestava [20r] che non correva più soldo né a lui né alle genti.
A Lorenzo parve questa proposta animosa e tanto più che non l'aspettava da
Francesco commessario. Et avendo fatte passare le genti della Chiesa et essendo passato il
Vice<ré> con le sue et alloggiate tutte in su la riva di da Po, pensò essere bene indugiare
la mattina sequente a passare lui e deliberare intanto quello voleva facessino le genti de'
Fiorentini, dubitando massime che Bartolomeo d'Alviano, intendendo che Piacenzia fusse
restata sola, non l'assaltasse. E però la notte ordinò circa mille fanti che restassino a
guardia di quella e lui determinò passare non come soldato de' Fiorentini, ma come
locotenente del Papa. E giugnendo al ponte con le genti a piedi et a cavallo in ordinanza,
trovò che il Viceré era ridotto di qua da Po e le genti sue del continuo seguitavano il
ritirarsi.
E perché lui stava ammirato di sì subita mutazione, il Viceré li fece intendere che
avea fatto questo perché avea inteso che li Franzesi il dì davanti avevono preso Lodi e che,
se loro andavano inanzi per ripigliarlo, i Franzesi erano tanto superiori di forze, che,
quando li assaltassino, non vi era remedio a non essere rotti, e che li Svizzeri di Milano
non sarebbono a tempo soccorrerli, per essere a piedi e discosto, e che alloggiare di da
Po non era sicuro perché, se si levasse voce che li Franzesi venissino avanti per assalirli, lo
essercito loro entrerebbe in tanto timore e confusione, che, avendosi a ritirare per uno
ponte solo, da sé medesimo si disordinerebbe e metterebbe in rotta, ma che il modo di
vincere la guerra era che li Svizzeri venissino verso Piacenzia e si fermassino in su la ripa
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di da Po, e subito le genti del Papa e spagnuole passassino et uniti insieme andassino a
trovare l'inimici, e sarebbono sufficienti a combattere e vincere.
Né si dovea dubitare che li Franzesi andassino a trovare i Svizzeri perché loro
possono fare cammino riparato assai da fosse, delle quali la Lombardia è piena, e dove li
cavalli non si potrebbono punto essercitare. Oltre a questo si conosceva chiaro che li
Franzesi non erano per venire alla giornata co' Svizzeri se non forzati: ancora si avea a
pensare che, quando li Svizzeri pigliassino tale partito, Milano si avesse a perdere, perché
vi restava la fortezza bene munita, e che si dovea credere che i Milanesi non avessino a
mutinare, insino che non vedevano dove la fortuna inclinava. Il Viceré dicea queste
ragioni alle quali non si potea replicare, e nondimeno aria voluto che il carico del non
passare si posasse sopra ad altri et arebbe voluto essere tenuto lui lo animoso e che altri
fusse stato riputato il rispettoso.
Mentre le cose erano in questi termini e che [20v] il Locotenente et il Viceré
sollicitavano i Svizzeri a coniungersi con Loro, e che li Svizzeri facevano instanzia che lo
essercito della Lega andassi verso Milano, il re Francesco avea fatto il suo alloggiamento a
San Giuliano e San Donato, villette fra Milano e Marignano, distanti da Milano circa miglia
sette. Né mancava di tenere la pratica dell'accordo co' Svizzeri e la avea tanto avanti, che il
cardinale Sedunense temeva non avesse effetto, perché il Re era ridotto in luogo che, se li
Svizzeri stavono fermi, male poteano sperare la vittoria, e per questo stringeva la pratica il
più poteva.
Onde Sedunense confortò li Svizzeri della parte sua ad assaltare i Franzesi,
monstrando loro, con la sua lingua usa a predicare, molte ragioni per le quali, faccendolo,
sarebbono superiori e che lo onore e utile saria tutto loro, lo arieno a partecipare con
altri, iudicando, quello che seguì, che, come li suoi Svizzeri uscissino alla battaglia, li altri
non li vorrebbono abandonare, desiderosi e di aiutarli e di essere compagni alla gloria et
alla preda.
Uscirono da principio circa seimila e non più, e li altri poi tutti seguitorono. Et alli 13
di settembre s'appiccò la zuffa, che era circa ore ventidue. I Svizzeri, non avendo cavalli e
sendo venuti sette miglia ad assaltare i Franzesi nelli loro alloggiamenti, giunsono lassi e
trovorono li avversari freschi. Nondimeno, ne' primi impeti, i Lanzichinech e Guasconi et
altri fanti che conduceva Pietro Navarra piegorono e, se il Re in persona non entrava nel
mezzo de' Tedeschi a ritenerli con prieghi et essortazioni e minacci che non fuggissino, la
battaglia andava male per lui, ma la prudenzia e fortezza sua riparò a molti disordini.
Durò la battaglia insino a due ore di notte, né si vedea ancora dove la fortuna volesse
inclinare. La sera, i Svizzeri, che erano usciti di Milano sanza ordine, ebbono poco o niente
da mangiare e bere; la notte stettono allo scoperto armati, sanza mai posare. I Franzesi
riordinorono lo essercito e lo rinfrescorono di viveri et indirizzorono le artiglierie dove
iudicorono fusse necessario, in modo che la mattina, a bona ora, apiccorono di nuovo la
zuffa et in due ore ottennono la vittoria con perdita, però, di alcuni signori de' primi di
Francia, e di assai gentiluomini et arditi cavalieri.
L'Alviano, sendo arrivato la sera a Lodi et intendendo del fatto d'arme incominciato,
si partì a mezza notte e, non potendo essere seguito dallo essercito, si spinse avanti con
celerità con circa sessanta cavalli e giunse quando già li Franzesi avevono avuto la vittoria,
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ancora che egli, come glorioso, e così li Veniziani attribuiscono questa vittoria in gran [21r]
parte a loro, ma in fatto non vi ebbono participazione alcuna.
La vittoria fu grandissima. Nondimeno i Svizzeri, così rotti, ritirorono l'artiglieria con
le loro proprie braccia in Milano e, benché la fama si spargessi che nella giornata ne
morissino dodicimila e chi dice di manco dice di ottomila, io ardirei di dire che non
passorono quattromila perché, come è detto, ritirorono l'artiglieria, il che non potevono
fare se non ve ne fussino restati vivi assai. Et il giorno sequente, in ordinanza si partirono
di Milano per ritornarsene a casa, ancora che si partissino molti di loro feriti.
Come la rotta s'intese in Milano, i più intimi e familiari del Duca se ne entrorono in
Castello da lui, et il popolo mandò ambasciadori al Re, i quali apuntorono: et il Re diventò
signore di Milano e di tutto quello teneva il Duca, eccetto che il Castello.
A Piacenzia, dove era il Viceré e Lorenzo, ancora che fussi poco più distante di miglia
trenta dal loco dove si fece la giornata, il fatto s'intese variamente, perché venne la prima
nuova che li Svizzeri erano vittoriosi, e durò questa opinione tutto il 14 di settembre, la
notte poi venne il vero, che lo scrisse Lodovico Canossa, vescovo di Tricarico, nunzio del
Papa a presso il re Francesco, il quale non avea voluto lo seguitasse in campo, ma fu
contento restasse a Turino.
Ma intendendo Leone che li Svizzeri tenevono pratica d'accordo e nessuno provedere
danari altri che lui, cominciò a voltare l'animo a convenire con Francesco e fece che
Lorenzo mandò in campo Benedetto Bondelmonti, il quale parlando col signor Ioan Iacopo
circa lo accordo, parve a detto signore che, per facilitarlo, Tricarico venisse dal Re, e
mandò per lui un corriere.
Tricarico venne subito e giunse in campo poco avanti si cominciasse la battaglia. E,
ragionando col Re del modo del convenire, lui gli disse: «Io non posso finire ora il
ragionamento, perché sono forzato ire alla battaglia. Se io perdo, il Papa non arà da curare
di convenire meco, se io vinco, farò il medesimo che farei al presente, e la vittoria non mi
farà sì insuperbire, che io voglia mutare condizioni col Papa.
Quando il Viceré intese il vero a punto, di nuovo metteva animo al Locotenente che
era da mandare a' Svizzeri e confortarli e con danari e con promesse a scendere i monti, e
che Francesco per questa vittoria non era più gagliardo che prima. E diceva molte ragioni,
se non demostrative, verisimili. Le quali Lorenzo udiva, ma non lo persuadevono, perché
in fatto vedeva il nervo della guerra essere la pecunia e che il pondo di provederla restava
tutto addosso al Papa, [21v] il che gli era impossibile. Però di nuovo mandò Benedetto
Bondelmonti in campo a Tricarico a persuaderlo che concludesse in qualunque modo
convenzione tra Francesco e Leone. E certo si può dire che la destrezza et ingegno di
Tricarico fusse causa che il Re non procedesse a destruere lo essercito ispano e quello della
Chiesa.
E di gmonsignore di Lautrec era venuto avanti con settecento lance per fare uno
ponte in sul Po, a rincontro di Pavia, e l'Alviano confortava il Re a seguitare la vittoria la
quale se lui seguiva, era facil cosa che lui diventasse signore d'Italia. Ma la mala fortuna
d'essa, che la voleva riservare a maggiore flagello, non volle che quella venisse in mano di
sì bono et eccellente Principe, sotto l'ombra del quale sarebbe potuta riposarsi molti anni in
pace, e li fece mettere avanti al signor Ioan Iacopo Triulzi ragioni assai e rispetti, di quelli
che hanno i vecchi prudenti, cioè che non era da entrare in nuove imprese perché li
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Svizzeri, esasperati per questa rotta, scenderebbono di nuovo più feroci che mai, che
l'Alamagna si unirebbe tutta, quando intendesse volesse occupare Italia, che il re
d'Inghilterra, temendo la grandezza sua, li moverebbe in Francia et il re Ferrando farebbe
il medesimo, e che attendesse a godere la vittoria e conservarla.
Ragioni che non sono così vere, come appariscono, perché una vittoria grande,
come era stata questa di Francesco, avea sì tolto lo animo all'inimici suoi, che non si
doveva lasciare loro ripigliarlo, ma era da seguire la vittoria, sanza mettere uno momento
di tempo in mezzo e pigliare essempio da Iulio Cesare, il quale fu maestro di sapere
vincere.
Ma lo averso fato d'Italia fece che il Re inclinò alla composizione, la quale Tricarico
concluse di ordine del Locotenente, perché l'uno e l'altro sapevano che così si contentava
Leone. E rimasono al Re Piacenzia e Parma, che soleano essere dello stato di Milano e nella
convenzione furono molti altri capitoli, i quali fu fatto tempo al Papa dieci giorni a
ratificare. E fatto questo accordo, il Re entrò in Milano e, benché piantasse l'artiglieria al
Castello che Pietro Navarro, a chi avea dato questa cura, gli promettesse in pochi giorni la
espugnazione di quello, non volle l'ultima vittoria, ma fu contento pigliarlo a patti da
Massimiliano, al quale promesse ciascuno anno scudi trentacinquemila di pensione. E
preso che ebbe il Re il Castello, si dimesse la guerra e le genti s'alloggiorono per la ducea
in vari luoghi, e una parte n'andò in favore de' Veniziani verso Brescia, sotto il governo del
Bastardo [22r] di Savoia.
Leone, intesi che ebbe i capitoli, tutti li confermò, eccetto uno che conteneva che
quello dovessino pagare i Fiorentini a Francesco, per esserli stati contro in questa guerra,
fussi rimesso nel duca di Savoia. Questo capitolo per niente il Papa volle ratificare,
dicendo che non era conveniente che lasciassi i Fiorentini a discrezione del duca di Savoia,
i quali non aveano fatto guerra contro al Re e, quando l'avessino fatta, erano stati tirati da
lui al farla contra loro volontà.
Approvati che furono i capitoli, e messi in gran parte in essecuzione, il Papa ordinò a
Lorenzo che andasse a fare reverenzia al Re a Milano. E li Fiorentini vi mandarono
Francesco Vittori e Filippo Strozzi, i quali avevano eletto oratori insino quando fu
incoronato, ma, rispetto alla guerra, non erano potuti andare. Ebbeno in commissione,
insieme con Francesco Pandolfini che era ambasciadore prima a presso al Re, di rallegrarsi
che lui fusse venuto al regno e della vittoria ottenuta.
Fece il Re grande onore e carezze a Lorenzo e, per stabilire una ferma amicizia col
Papa, deliberò andarlo a trovare insino a Bologna, dove il Papa si conferì con tutti li
cardinali e prelati et officiali di corte: et il Re poi venne con la corte sua, che non fu di p
che cinquemila cavalli, computati tra questi quelli che portono carriaggi et altri
impedimenti. E mostrò Francesco gran confidenzia in Leone, e Leone in lui; e fu alloggiato
in Palazzo et incontrato prima da prelati, poi da vescovi, poi da arcivescovi, poi da due
cardinali che vennono insino a Reggio, et in ultimo da tutta la corte. Il Re li dette la
obedienzia in Concistorio pubblico et alli 13 di dicembre, che fu il dì di santa Lucia, il Papa
cantò solenne messa in Santo Petronio, presente il Re e tutta la corte sua. Et alli 15,
Francesco si partì benissimo satisfatto dal Papa e compiaciuto di parole e promesse di
quasi tutto quello li domandò, che lo pregò, in tra l'altre cose, che restituisse al duca di
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Ferrara Reggio e Modona, per posare una volta Italia. Et il Papa acconsentì di farlo, pure
che li fussino restituiti li danari avea dati allo Imperatore per ricuperare Modona.
Ricercò ancora che perdonassi a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, la
offesa li avea fatta dello avere preso soldo da lui e poi non voluto cavalcare quando fu
ricerco, ma tenuto pratiche strettissime con Francia; e fu openione fusse convenuto seco,
ma di questo non si mostrava cosa alcuna. Il Papa non volle consentire a tale [22v]
domanda, dicendo che voleva punire i sudditi suoi secondo i delitti.
Tornossi Francesco a Milano, e Leone prima a Firenze e poi a Roma; e Lorenzo
seguitò Francesco insino a Milano, dove stette insino che lui partì per irsene in Francia. Et
a requisizione de' Veniziani, non avendo fatto il Bastardo di Savoia effetto, mandò il signor
Ioan Iacopo Triulzio con genti a espugnare Brescia.
Il Papa, prima che fusse a Roma, fu ricerco dal duca di Ferrara di osservare quanto
avea promesso al Re. Et ancora che detto Duca dipositasse i danari che il Papa avea
sborsato per Modona, fu tenuto più in speranza e bone parole, ma non si venne a
conclusione.
1516
Francesco se n'andò di là da' monti in poste e prese il cammino verso Provenza, dove
trovò la madre e la moglie ite alla divozione di santa Maria Maddalena. E tornandosene
verso Lione, ebbe nuova, in Avignone, come Ferrando, re di Spagna, era morto. Né si può
dire non morisse un grande et eccellente principe, perché di piccolo Re diventò
grandissimo. È vero che è dannato come uomo di poca fede perché avendo promesso al re
Federico d'Aragonia, suo cugino, di aiutarli difendere il Regno di Napoli e mandato in suo
aiuto genti per mare, sotto il governo di Consalvo Ferrando suo capitano, a un tratto,
quando Federigo credette che tali genti li fussino in favore, li furono contro. Et intese che
Ferrando era convenuto con Luigi re di Francia e diviso tra loro quel Regno, onde
Federigo fu costretto mendicare in Francia e cercare la misericordia di quel Re, la qual
pensò trovare maggiore che quella del cugino. Nondimeno lui si escusava dicendo che
Federigo non era sufficiente, ancora con l'aiuto suo, difendere il Regno, e che fu pur
meglio con accordo cercare che una parte ne rimanesse nella casa d'Aragonia, che si
perdesse tutto; e più, sapeva che Federigo, sanza tenere conto di lui o di suo capitano,
teneva strette pratiche con Francia e che lui prevenne avanti le concludesse.
È ancora da qualcuno ripreso d'avarizia. Et io sono forse in errore, ma iudico che non
si debbe attribuire questo vizio a un principe il quale non grava i sudditi suoi di essazioni
estraordidinarie, non fa accusare oggi questo e domani quello, per estorquere da loro le
pecunie iniustamente, non lascia che li ministri suoi succino le sustanzie de' poveri, per
spogliarli poi di quelle quando sono fatti [23r] ricchi, e più presto si astiene dal donare a'
servitori, buffoni, cinedi et uomini di simil qualità. Et uno principe che vive in questo
modo io, non avaro, ma liberale chiamerei. Ma interviene che, de' cento che usano le corti,
ve ne sono novantanove bisognosi e che in loro piaceri vogliono spendere più che non
possono. E perché il Principe a dare loro inclini, a uno principe rubatore e prodigo, danno
il nome di liberale; a uno astinente di quello d'altri e vero liberale, danno il nome di avaro.
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È biasimato ancora che si dilettava di giucare. io sono tanto ardito che
presumessi, contro una opinione inveterata, lodare il giuco, ancora mi risolvo a
dannarlo in uno uomo grande e, se bene uno principe doverebbe sempre stare occupato in
offici laudabili et utili alli popoli, quando essamineremo la vita delli principi passati, non
danneremo in modo alcuno quelli che, per fuggire ozio e passare malancolia, della quale
questa nostra vita è piena, si dilettono qualche volta di giucare, massime se lo fanno sanza
venire in collera, sanza fraude e sanza avarizia. E Ferrando intendo che nel giuoco mai si
turbava, che giucava liberissimamente e che quasi sempre perdeva, e spesso perché voleva
perdere. Et io non so dove uno uomo grande possi mostrare maggior liberalità che nel
giuoco, perché è proprio del liberale volere che quello in chi conferisce il beneficio non li
sia obligato, né conosca di esserli: e questo accade proprio a uno principe, quando si lascia
vincere giucando.
Morì Ferrando pieno di anni, ancora che si promettessi assai più lunga vita. E lasciò
erede di tutti li stati suoi, et in Spagna et in Italia et altrove, Carlo, figliuolo della sua prima
figlia, nato di Filippo, figliuolo di Massimiliano imperatore, che dovea essere allora di età
di anni sedici. Lasciolli ancora il regno di Navarra, la quale avea di poco tolto al Re che la
possedea.
Et essendo domandato, alla morte, dal confessore come volessi disporre di quel
regno, il quale avea tolto ad altri, rispose che lo avea tolto a chi ne solea essere signore,
perché papa Iulio lo avea escomunicato e privato del regno come scismatico; e che s'el
Papa era Vicario di Cristo in terra, come lui credeva, teneva con più iustizia quel regno che
stato ch'egli avesse.
Il re Enrico d'Inghilterra, quando intese che Francesco avea preso la ducea di Milano
[23v]
e rotto i Svizzeri, pensò di fare dopo la vittoria quello dovea fare avanti pigliasse la
impresa, dubitando che non diventasse tanto grande che li fusse formidabile. E con suoi
ambasciadori sollevò di nuovo i Svizzeri i quali, benché dopo la rotta avessino ferma certa
convenzione con Francia, non erano stati tutti uniti, ma vi erano di loro cinque Cantoni che
vollono restare nella nimicizia, i quali furono contenti pigliare danari da Enrico.
Lo Imperatore, ancora che si dilettava oltre a modo di ordire guerre, s'offerse a
Enrico di essere presto a passare in Italia per ricuperare lo stato di Milano, pure che lui gli
dessi danari. E lui et Enrico per loro ambasciatori tentorono il Papa, il quale credevono che
malvolentieri avessi lasciato Parma e Piacenzia, e li offerseno, quando ripigliassi quello
stato, rendergliene. Ma lui non si volle scoprire, dubitando della varietà dello Imperatore,
della poca fede e troppa avidità de' Svizzeri, ma non si oppose al principio con le parole
gagliarde, ancora poi co' fatti come Francesco arebbe voluto e come li pareva fusse
obligato, secondo i capitoli erano tra loro.
Lo Imperatore adunque, avendo avuti danari da Inghilterra, venne in Italia nel
principio della primavera dell'anno 1516 e menò circa quindicimila Lanzichinech et altanti
Svizzeri pagati pure dal re d'Inghilterra.
Francesco, quando partì da Milano, vi lasciò governatore il duca di Borbone e,
sendoli dipoi riferito che detto Duca non avea sincero animo verso di lui, vi mandò
locotenente Odetto di Foes, chiamato monsignor di Lautrec, uomo essercitato assai in
guerra et ardito cavaliere. E vi providde di fanti et, intra li altri, di diecimila Svizzeri di
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quelli Cantoni che erono d'accordo seco, e mandovvi più gentiluomini della sua corte.
Nondimeno i Franzesi non confidorono tenere la campagna li passi de' fiumi e sempre
si ritirorono in modo che lo Imperatore condusse il suo essercito presso a Milano a tre
miglia: e li capitani franzesi, che vi erano ridotti dentro, consultavono già tra loro se era da
abandonare Milano e ridursi a guardare le terre di qua da Po.
Lo Imperatore, come intese che il Re avea diecimila Svizzeri in Milano, prese
diffidenzia di quelli avea in campo e, ricordandosi quanto facilmente i Svizzeri sono usi a
essere corrotti da' Franzesi, li entrò sospetto non lo dessino pregione come già altra volta
avevano dato il Moro e, secondo il suo costume, dette volta indrieto; lo potette mai
persuadere Galeazzo Visconti, nobile [24r] milanese che avea avuto il carico di condurre i
Svizzeri, a non dubitare di loro. E la prima ritirata fece a Lodi, dove venne Prospero
Colonna, quale era stato pregione in Francia più mesi et, avendo pagato parte della taglia,
era suto libero dal Re con certe condizioni. E confortò Massimiliano a non desistere dalla
impresa, mostrandoli quanto la Francia fusse essausta di danari e con quanta debolezza i
Franzesi erano in Milano, dove era stato qualche giorno.
Ma non fece frutto alcuno, fu possibile che a passo a passo non si ritirasse in
Alamagna, lasciata ancora con poco presidio Brescia, la quale intra pochi giorni s'accordò
co' Franzesi e loro la renderono a' Veniziani. Seguirono poi li Franzesi di andare verso
Verona con intenzione di sforzarla, sì per osservare i capitoli a' Veniziani, sì ancora perché
allo Imperatore non restasse questo piede in Italia, donde spesso potessi fare insulto allo
stato di Milano.
Il Papa, poi che lo Imperatore se ne fu tornato in Alamagna, pensò di vendicarsi della
iniuria li avea fatto il duca d'Urbino nella passata del re di Francia e di torli lo stato. E
benché la Duchessa vecchia, quale era suta moglie di Guido Ubaldo, andasse a Roma e
raccomandasse al Papa la nipote, moglie di Francesco Maria, e destramente li riducesse a
memoria l'obblighi avea con suo marito, non poté fare effetto alcuno. E tanto meno potette
operare perché era di pochi giorni inanti morto Giuliano, fratello del Papa, dopo che era
suto malato dieci mesi, il quale avea grande affezione e reverenzia alla sopradetta
Duchessa, per essere stato, quando era in bassa fortuna, assai onorato da lei e dal marito.
Di questo si può dire che fusse veramente bono omo, alieno dal sangue e da ogni
vizio, e si può chiamare non liberale, ma prodigo, perché donava e spendeva sanza
considerazione alcuna donde dovessino uscire i danari. Dilettavasi avere a presso di
uomini ingegnosi et ogni cosa nuova voleva provare. Pittori, scultori, architettori,
alchimisti, inventori di miniere erano condotti da lui con tanto stipendio, quanto non era
possibile pagassi. Morì in Firenze e furono celebrate le essequie sue con pompa
grandissima.
Volle Leone che Lorenzo facesse la impresa d'Urbino, ancora che lui la facessi contro
a sua voglia perché conosceva che, come quello stato era facile a pigliare, così era
facilissimo a perdere.
Ma il Papa diceva [24v] che, se non privava il Duca dello stato, el quale si era
condotto con lui e preso danari et, in su l'ardore della guerra, era convenuto con l'inimici
né pensato che era suo suddito, né altro, che non sarebbe sì piccolo barone che non ardisse
di fare il medesimo o peggio, e che, avendo trovato il pontificato in riputazione, lo voleva
103
mantenere. Et in fatto, volendo vivere i pontefici come sono vivuti da molte decine di anni
in qua, il Papa non poteva lasciare il delitto del Duca impunito.
Non durò Lorenzo molta fatica, consumò molto tempo in spogliare Francesco
Maria di tutto lo stato di Urbino, et in ultimo li tolse Pesero e la fortezza. Et in pochi mesi
la terra e fortezza di San Leo, che è tenuta cosa inespugnabile, pur con ingegno fu presa.
mi estenderò a dire il modo particulare perché, ancora che questo luogo abbi gran
fama, non merita però se ne parli a lungo. Francesco Maria con la moglie e figli si ridusse a
Mantoa, al marchese Francesco suo suocero.
Come lo Imperatore fu partito dello stato di Milano, Carlo di Borbone si ritornò in
Francia, li parve che li fusse saputo da Francesco quel grado di avere in tanto pericolo
conservato lo stato di Milano, che li pareva meritare. Rimase governatore della ducea di
Milano e locotenente del re di Francia in Italia Odetto di Foes, il quale, presa che fu
Brescia, attese insieme con lo essercito veneto, che avea per capitano Teodoro Triulzio, a
seguitare la impresa contro a Verona per tôrla allo Imperatore, dove era a guardia
Marcantonio Colonna, uomo, e per esperienzia e per ogni altra qualità, eccellentissimo
nell'arme.
Restò, come io dissi di sopra, erede di tutto lo stato, che teneva Ferrando d'Aragonia,
Carlo d'Austria, suo nipote, al quale molti anni inanti era suta promessa da Luigi
XII
di
Francia Renea, sua figliuola, in certo accordo che detto Luigi avea fatto con Ferrando, del
quale s'era poi mancato, e per l'una parte e per l'altra, in molte cose. E però pareva
necessario che tra Carlo e Francesco re di Francia, se avevano a stare in pace, si venisse a
nuova composizione.
E per questo Artù di Buissì, gran maestro di Francia, in cui il Re avea tutta la fede
sua, andò a Nojon, ne' confini di Piccardia, dove venne monsignor di Ceures, il quale avea
governato e governava Carlo pacificamente. E dopo molte dispute, venneno a nuove
convenzioni e disfeciono il mariaggio, [25r]
fatto prima, di Renea, allegando che ella era di
troppa età. E Carlo promisse pigliare Luisa, figliuola di Francesco, che aveva due anni et,
insino non consumava il matrimonio, dare ciascuno anno a Francesco scudi centomila per
conto del Regno di Napoli, la metà del quale s'intendesse appartenesse a Francesco, come
in due altre capitulazione fatte tra Luigi e Ferrando si monstrava, e che avesse a essere la
dota di detta Luisa. E così fermarono lega, amicizia e parentado.
E perché il verno si approssimava, che renderebbe la espugnazione di Verona p
difficile (massime che a difesa di quella erono concorsi quasi tutti li Spagnuoli che erono
soliti stare nel Regno di Napoli, uomini cappati et usi a fare la guerra con pochi danari e
pochi viveri) però monsignore di Ceures, che iudicava che fusse a proposito che il padrone
suo stesse in pace e non spendesse per lo Imperatore, e sappiendo che lui non avea modo
di mandarvi nuovi omini di dare danari a quelli che vi erono, cominciò a trattare con
Massimiliano che lui la lasciasse pigliare a' Veniziani, a' quali non la liberasse
concedesse, ma, in uno certo modo, chiudesse li occhi e ne cavasse le genti, acciò loro la
potessino pigliare, et avessi da loro certa somma di danari e s'intendessi tra lui e Veniziani
fatta tregua per tre anni.
E dopo molti omini che andorono a torno, e dopo molte proposte e risposte, si fermò
la convenzione nel modo sopradetto. E li Veniziani riebbero Verona, da loro tanto
104
desiderata, donde uscirono circa cinquemila spagnuoli i quali, secondo i capitoli, avevono
a potere andare sicuri nel Reame.
Leone, come Lorenzo ebbe preso il ducato di Urbino, volle dargliene in titolo et in
Consistorio lo fece eleggere duca, avendo, avanti facessi la impresa, privato nel medesimo
modo Francesco Maria. Lorenzo per niente non arebbe voluto tale titolo di ducato, perché
conosceva che i popoli amano i principi quando ne tralgono profitto e che tre duchi, che vi
erano stati prima, avevono avuto i popoli affezionati perché, avendo soldi grossi da questo
principe e quell'altro, mettevono del continuo nello stato danari e non ne traevano,
edificavono, facevano cultivare, stavano in sul loco, e pascevano molti omini con pensioni
e soldi, come fanno le corti. Ma lui, che non era per potere stare in quello stato e che era
forzato trarne le imposizioni ordinarie per il soldo de' governatori et altri officiali, bargelli,
guardie di rocche e simili cose, et essendo [25v] il paese povero et i popoli inclinati a'
signori vecchi, e Francesco Maria vivo, vedeva che ogni piccolo tumulto gli faceva perdere
quello stato e che da una perdita ne potrebbono seguire delle altre. Ricuquanto potette.
Ma come poteva lui opporsi al zio Papa et alla madre che non restava di incitarlo e
sollecitarlo a diventare duca?
1517
Francesco Maria, in questo tempo che durò la guerra a Verona sendo rifuggito a
Mantoa, prese stretta familiarità con Lautrech con l'aiuto di Federigo Gonzaga, signore di
Bozzolo, il quale si teneva offeso dal Papa e cercava occasione di vendicarsi. Questi due, et
insieme e di per sé, instillorono nelli orecchi di Odetto che Francesco avea potuto
cognoscere la fede del Papa nella venuta dello Imperatore a Milano; e che questo era uno
potente Papa perché, oltre allo stato della Chiesa, avea quello di Firenze e nuovamente
disponeva di Siena, donde pochi mesi inanzi era stato per opera sua cacciato Borghese
Petrucci che governava quello stato, e messo in suo luogo Raffaello, pure Petrucci, vescovo
di Massa, il quale dependea tutto da lui et era nutrito sempre seco, e nel principio del
pontificato lo avea fatto castellano di Castello Santo Angelo, che si a' pconfidenti
amici e servitori che il Papa abbia; e che non era da lasciarlo fermare in modo che potesse
congregare danari perché, se ne congregasse, piglierebbe animo di volere cacciare e
Francesco del ducato di Milano, e Carlo del Regno di Napoli; e che si voleva molestarlo
subito, inanzi che morissino alcuni cardinali vecchi che l'odiavono, e prima che potesse
fare collegio da poterne disporre; e che, sanza che Francesco si scoprisse, pure che
chiudesse li occhi, pensavano con poca fatica in pochi poterlo condurre in tanti travagli,
che arebbe a ricorrere a Francesco e gittarsi tutto nelle braccia sue; e che egli gli potrebbe
fare rendere lo stato di Urbino e restituire Reggio e Modona, e farlo lasciare il governo di
Firenze e mutare quello di Siena: et in effetto lo ridurrebbe uno papa da farne più presto a
modo suo, che da temerlo.
Lautrec, parendoli che nella venuta dello Imperatore il Papa non si fusse portato
come dovea, et avendo in odio, per l'ordinario, tutti l'Italiani, e massime i preti, porse li
orecchi a queste parole e gustò le ragioni e lasciò che Francesco Maria e Federigo
ragunassino i fanti spagnuoli, che uscirono di Verona, e delli altri italiani e, del campo suo,
quelli che vollono essere con loro, in modo che feciono assai bono essercito.
105
Se Odetto fece questo [26r] o permesse con volontà del Re o no, io non ardirei
scrivere, perché Francesco affermava non ne avere inteso cosa alcuna et io non posso,
debbo, né voglio non prestare fede alle parole di un tanto Re.
Vennono dunque Federigo e Francesco Maria con detto essercito in Ferrarese, e
quivi, con qualche favore del Duca, passorono il Po et erono gin Romagna quando a
Roma se ne ebbe notizia vera.
Il Papa pensava a ogni altra cosa che guerra et era tanto possibile che lui tenesse mai
mille ducati insieme, quanto è possibile che una pietra vada in alto da per sé. Lorenzo era
a Roma, malato di doglie che lo tormentavano grandemente. I condottieri del Papa erono
poco satisfatti da lui, perché non dava loro danari come arebbono voluto e loro erano
disordinati, perché tutti volevano imitarlo nello spendere.
Comincia ad accattare danari, che è cosa che toglie la riputazione al principe nel
principio della guerra, solda con essi fanti, danne alli condottieri di genti d'arme. Lorenzo
corre così malato in Romagna in poste, dove vanno subito Renzo da Ceri, Guido Rangoni e
Vitello Vitelli. Ma non fu possibile vi conducessino presto tante genti da potere ritenere
che Francesco Maria non entrasse nello stato d'Urbino. Disputossi tra detti condottieri del
Papa come era da governare questa guerra.
Lorenzo diceva che in questo principio il Papa avea pochi danari e che il migliore
partito potesse pigliare era di soldare quattromila fanti e dividerli per le bone terre dello
stato di Urbino, e guardarle bene con levarne ancora li uomini sospetti; e che la stagione
non pativa, sendo nel mese di febraio, che li avversari potessino campeggiare terre; e che,
come avessino corso un poco pel paese e predato quel poco troverranno, non entrando in
bone terre donde possino trarre danari, né avendone Francesco Maria da da poterne
dare alli suoi fanti, che presto si risolveranno. I condottieri, e massime Renzo, a' quali nel
durare la guerra pareva guadagnare danari e riputazione e ridurre il Papa debole et in
necessità, dicevono si facesse essercito grosso, col quale si potesse andare a trovare i nimici
e rovinarli perché, quando bene al presente non riuscissi loro altro che ridursi nel Regno
salvi, ogni moverebbono di questi insulti e porrebbono taglie al Papa, e che nello stato
d'Urbino non erano bone terre, e che bastava guardare Urbino.
E mentre consultono e non deliberono e che non si risolveno Renzo Vitello chi
di loro due vadia in Urbino, secondo che [26v] Lorenzo, locotenente in quello essercito del
Papa, aveva comandato loro, Francesco Maria passò con l'essercito suo et in pochi dì, col
favore de' popoli, ridusse tutto quello stato in sua potestà, eccetto Pesero e San Leo. Et a
Pesero pensorono le genti del Papa fare testa. E Leone mandò subito a Milano a dolersi
con Lautrec di questo insulto e domandarli aiuto.
Odetto, benché monstrassi dolergnene, dicea che il Papa si avea causato questo male
da medesimo per avere lasciato passare per il paese suo li Spagnuoli alla sfilata, perché
andassino a soccorrere Verona, contro alli capitoli avea col suo padrone, e che lui non
manderebbe gente in suo favore, sanza commissione del Re, e che li restavano a presso
certe reliquie di fanti franzesi e guasconi i quali, quando egli dessi loro danari,
andrebbono in sua difesa.
Quello che era mandato dal Papa, parendoli che lui avesse necessità di soccorso
presto, intesa questa offerta, subito li accettò e dette qualche somma di danari a' capi,
106
promettendo che non indulgerebbe molto a dare il resto. Mandò ancora Leone a dolersi di
questa iniuria a Francesco in Francia et a Carlo in Fiandra. Francesco rispose che era presto
a osservare i capitoli e che, secondo quelli, era tenuto aiutarlo con quattromila cavalli e
seimila ducati il mese, e tanto provederebbe, e che scriverrebbe a Francesco Maria et a
Federigo che desistessino dalla impresa. E providde a' danari e scrisse a Lautrec che
mandasse quattrocento lance in favore del Papa.
Lo Imperatore rispose che ordinerebbe alli suoi che si ritraessino da molestare il
Papa, ma furono tutte parole. Li avversari seguivono e Lione non arebbe voluto che li
quattromila fanti, soldati a Milano dall'omo suo, venissino in suo favore, sì perché con
difficoltà potea fare tale spesa, perché dubitava non lo ingannassino. Ma Lautrech dicea
che sendo restati in Italia a instanzia del Papa, se non li venivono in favore, gli verrebbono
contro, e che egli non li potrebbe ritenere. Mandò ancora detto Lautrec dugento lance,
delle quattrocento li commisse il Re, in favore del Papa, le quali avevono capi italiani
affezionati a Francesco Maria.
Leone, trovandosi in una guerra tanto pericolosa et iudicando che Francesco e Carlo
li avessino tesa questa rete a dosso per batterlo, pensava a tutti i rimedi possibili per
liberarsene, ma si trovava in troppa scarsità di danari, e massime perché la opinione di
Renzo prevalse a presso al Papa di fare essercito grosso. E conclusse gran numero di fanti
guasconi, svizzeri, spagnuoli, tedeschi et italiani e non potea ragunare tanti danari da
potere dare loro una paga a un tratto. E quando avea pagato Guasconi [28r] et Italiani,
mancavono danari pe' Svizzeri, quando avea pagato i Svizzeri, mancavono per li altri.
Aveva questa guerra un'altra difficultà che il paese, dove la si maneggiava, era tutto
dedito a Francesco Maria in modo che l'essercito del Papa pativa assai di vettovaglie, e le
genti d'arme mandate da Lautrec ne consumavono sanza risparmio per far maggior
disordine. Per questo Lorenzo era deliberato tentar una volta la fortuna di venire alla
giornata e seguissi come volessi, ma Renzo e Vitello, sopra i quali il Papa avea posata la
guerra, dissuadevono il combattere.
Et essendo lo essercito del Papa in sul fiume del Metro copioso di fanti e cavalli, ché
vi era venuto oltre alli condottieri sopranominati Gian Paulo Baglioni con bona banda di
cavalli, e volendo li inimici passarlo, perché nol passando pativano di viveri, Lorenzo si
volle opporre et ordinò la battaglia. E già gli avversari erano entrati nel fiume per passare
et avevano grandissima dificultà
Lorenzo, avendo conosciuto l'arte de' condottieri, mandò Benedetto Bondelmonti a
far intendere a Leone quello era seguito, e che, essendo suo locotenente in nome, voleva
essere ancora in fatto, e che era bene contento pigliare consiglio con i condottieri, ma
voleva poi deliberare da sé medesimo, e che altrimenti non voleva stare in campo, perché
vi starebbe con troppo suo vituperio.
E volendo intanto ripigliare Mondolfo, castello del Vicariato, perché vi erono molti
viveri, e faccendo, nel pigliarlo, l'officio del capitano e soldato, fu ferito di uno scoppietto
nella testa e fu constretto lasciarsi portare per mare in Ancona a curarsi, perché la ferita fu
molto pericolosa.
107
Il campo del Papa restò in tanto pericolo e disdetta, che sempre che alcuno di quello
si scontrava, o per arte o a caso, con li avversari, ne andava col peggio. I condottieri erano
divisi tra loro, i fanti non ubidivano a nessuno et attendevono solo a rubare li amici e farsi
pagare, et, essendo di tante nazioni, spesso combattevono intra loro.
Leone, avendo notizia di questi disordini [28v] si volse a mandarvi legato il cardinale
di Bibbiena, omo molto destro nelle azioni del mondo, ma della guerra al tutto inesperto. E
però in campo non condusse seco riputazione, pure lo riordinò alquanto, ma non di
qualità che l'inimici non pigliassino animo a uscire dello stato di Urbino et andare verso
Perugia. E sendo stati certi intorno a quella, Giampaulo, con accordo, li fece partire
perché providde che li Perugini dettono a Francesco Maria scudi seimila. Il quale, ritirato
con li suoi, si voltò verso Anghiari et il Borgo, terre de' Fiorentini, dove trovò maggiore
difficultà che nelle terre della Chiesa. Et il Borgo, ancora che avesse le mura deboli e vi
fusse una parte che aderisse a Francesco Maria, nondimeno, per diligenzia et animo di
Luigi Guicciardini, che v'era commissario pe' Fiorentini, si salvò.
Lorenzo, dopo che fu stato malato tre mesi in Ancona, per la diligenzia de' medici fu
libero. E tornato prima in Firenze e poi andato verso il Borgo, ridusse in modo le genti sue,
che l'inimici cominciorono a temere.
Accadde ancora che Carlo e Francesco, come principi grandi, non stavano sanza
sospetto l'uno dell'altro e ciascuno di loro dubitava che Leone non tirassi l'altro alla volta
sua, e però ognuno di loro pensò essere il primo a levarli la guerra da dosso. E Carlo
mandò in campo di Francesco Maria don Ugo di Moncada; e Francesco mandò a Roma
monsignor dell'Escù, fratello di Lautrech, e don Ugo praticò con li fanti spagnuoli, che
erono con Francesco Maria, e l'Escù fece tenere pratica co' Guasconi et altri Franzesi che
erono in quel campo. E finalmente, con certi danari che il Papa promisse a l'una nazione et
a l'altra, si venne a composizione, nella quale si dispose che Francesco Maria lasciassi
libero il ducato d'Urbino e se ne potessi tornare sicuro a Mantoa. E seguiti questi effetti,
ebbe fine una guerra che dette al Papa grandissimo travaglio e spesa, quale non si
crederebbe.
E non ebbe solo Leone la guerra fuora, ma ancora in Roma, perché scoperse una
coniurazione di tre cardinali, San Giorgio, Petrucci e Sauli, quali operavano levarlo di terra
con veneno. E ritenuti in Castello et essaminati, confessorono che lo sapevano due altri
cardinali, Volterra et Adriano.
Volterra in consistorio non si scusò in tutto accusò, ma subito che uscì di Palazzo
se ne andò a Fondi. Adriano, ancora lui, benché il Papa gli volesse perdonare, si partì. E
l'uno e l'altro di loro pagò certa somma di danari per la necessità della guerra. San Giorgio
ancora fu condannato in danari assai; Sauli messo [29r] in carcere, dove in pochi mesi, per
tedio e dolore, morì; Petrucci deposto et incarcerato: e fu openione che in pochi giorni per
forza fusse fatto morire.
1518
Il Papa, dopo questo, cercò di fare una bona e solida amicizia con Francesco, re di
Francia. Et acciò che tutto quello che era successo tra loro per il passato si mettesse in
108
oblivione, fece praticare che Lorenzo togliesse moglie in Francia. E si concluse il parentado
per Francesco Vettori, che era oratore pe' Fiorentini a presso il Re, di Magdalena, figliuola
del conte Giovanni d'Alvernia, che era della stirpe di quello Gottifredi Bulioni che fece
tante prove oltre al mare, e la sorella era maritata al duca d'Albania. Et erono due sorelle
erede che avevono, intra loro due, scudi diecimila d'entrata per anno. E Francesco
aggiunse in dote a Lorenzo la ducea di Lavaur, che volle fusse d'entrata di scudi
cinquemila.
Fermo lo sponsalizio, sendo nato al Re il primo suo figlio maschio a 27 febraio
1517, Francesco ricercò il Papa che fussi suo compare e mandassi Lorenzo a tenere il figlio
al battesimo et a fare le nozze. Consentì Leone molto volentieri e mandò Lorenzo subito in
Francia in poste, nel principio del 1518. E fu onorato dal Re tanto quanto potesse essere
onorato principe, et alloggiato nel castello d'Ambuosa, dove si teneva in quel tempo
Francesco, nelle principali stanze vi fussino.
Fecesi il battesimo solenne, fecesi il convito per le nozze sontuosissimo, fecionsi balli,
feste e giostre. E Lorenzo si portò in modo che acquistò l'amore di tutta la corte di Francia,
ma più di Francesco e della madre. Ebbe soldo dal Re di cento lance, ebbe pensione di
franchi diecimila per anno e l'ordine di San Michele. E stato che fu tre mesi in corte e
seguito Francesco insino in Angieri, il quale voleva ire in Brettagna, prese da lui licenzia e
ne menò la moglie verso Italia.
E prima partissi di Francia, n'andò in Alvernia e divise lo stato col duca d'Albania,
suo cognato. Poi ne venne in Italia e fece di nuovo nozze e feste in Firenze. E poi che vi fu
stato un mese, an a trovare il Papa, che era allora a Montefiasconi, e praticò seco di
volere lasciare lo stato di Urbino alla Chiesa e non volere essere più capitano de' Fiorentini
e tornare a tenere lo stato di Firenze come cittadino, come sempre era stato il suo disegno.
Ma, mentre trattava queste cose e che era per venire alla conclusione, madonna
Alfonsina sua madre, la quale non era possibile volessi che Lorenzo stesse sanza titolo
[29v] di signoria, intendendo tale pratica, acciò che egli non gli dessi la perfezione, li fece
scrivere che era in pericolo di morte e che, volendola vedere viva, tornasse subito.
Il bon figliuolo credette alle lettere e si messe in poste e venne veloce, che, in capo
di pochi giorni che fu giunto in Firenze, s'amalò e, dopo una malattia di sei mesi di dolori
insopportabili, morì.
1519
La cui morte, iudichino li altri a modo loro, fu di tanto danno alla città di Firenze, che
saria difficile a scrivere, perché, sendo giovane, avea tutte quelle buone parte che si debbe
desiderare in omo d'età matura: amatore della patria, affezionato a' cittadini, parco delle
pecunie del comune, liberale delle sue, inimico de' vizi, non però rigido punitore di chi
quelli commetteva.
Cominciò a essercitare la milizia d'anni ventitré, nondimeno, in quel tempo stette con
li esserciti, sempre e notte tenne la corazza da omo d'arme a dosso. Dormiva
pochissimo, sobrio nel bere e mangiare, temperato circa il coito. E bene parlava come si
dovesse alloggiare l'essercito, donde battere una terra, come difenderla e delle altre fazioni
che si fanno ne' campi, come se fusse stato nutrito da teneri anni in quello essercizio e
come se fussi stato capitano molti anni. Et era tanto temuto dalli soldati suoi, che,
109
giugnendo a Piacenzia e trovandoli tutti quanti licenziosi, rubatori, sanza legge, sanza
freno, in breve tempo li ridusse di qualità che a' Piacentini doleva quando si ebbeno a
diloggiare. E questo fece più presto con le parole e diligenzia, che con rigide crudeltà.
Da' Fiorentini non era amato perché è impossibile che li omini, usi a essere liberi,
amino chi li comanda; egli la comandava volentieri, ma la volontà d'altri lo spigneva a
quello da che la sua lo arebbe ritratto. Facevali ancora molto odio et invidia madonna
Alfonsina, sua madre, la quale, sendo donna avara, da' Fiorentini, che avertono ogni
piccola cosa, era tenuta rapace. Et egli, se bene desiderava correggerla, non potea, perché,
come a madre onesta e nobile, gli portava troppa reverenzia.
Morì Magdalena, sua moglie, sei avanti a lui, avendo partorito una figlia che si
chiamò Caterina. Ma di Lorenzo sia detto insino a qui.
Carlo, poi che vidde Italia posata, sendo d'accordo con Francesco, volle andare a
pigliare la possessione de' regni di Spagna delli quali era rimasto erede. Né ebbe [30r] però
tanta confidenzia nel re di Francia, che si volesse mettere per terra per
(4)
il suo regno, ma
passò per mare, e senza dificultà alcuna prese la possessione pacifica di tutto quello se li
aspettava. Ma sendo egli governato da Fiamminghi, e' quali tutte le dignità et utilità di
quelli regni pigliavono per loro, e sendo morto lo arcivescovo di Tolleto, che è beneficio di
tanta entrata, quanto ne sia uno altro in Cristianità, lo Imperatore lo dette al nipote di
Ceures. E così accadeva ogni dì delli altri.
Li Spagnuoli malvolentieri stavono sotto questo giogo, pure e' grandi signori
iudicavono che le mutazioni non fussino a loro proposito e sopportavono ogni cosa come
potevono, ma li populari non potevono avere pazienzia, et usavono parole non
convenienti, escusandosi sempre che non intendevono parlare contro al Principe, ma
contro a' governatori.
E' Fiamminghi ancora, infastiditi de' modi delli Spagnuoli, sendo e' costumi molto
differenti, confortavono Carlo a tornare in Fiandra. E tanto pli dicevono che lo doveva
fare perché, mentre era in Ispagna, successe la morte dello Imperatore suo avo. Et era stata
grande altercazione di chi dovessi essere eletto re de' Romani, perché il re di Francia,
discorrendo con prudenzia, aveva fatto ogni conato d'essere eletto, perché pensava, quello
che è seguito poi con effetto, che, se il Re di tanti regni in Ispagna e di Napoli e Sicilia,
signore di Fiandra e di parte di Borgogna, duca d'Austria e conte di Tirolo, fussi eletto re
de' Romani, cercherebbe per ogni via ridurre Italia in suo potere: e non solo Italia, ma tutta
la Cristianità.
Il Papa conosceva questo medesimo e, se bene considerava che quasi il medesimo era
per seguire quando fussi eletto Francesco, non si poteva persuadere che li Elettori tedeschi
dovessino mai acconsentire di trarre lo Imperio d'Alamagna. E però confortò Francesco a
pigliare questa impresa vivamente e non perdonare né a danari né ad altra cosa per
conseguire questo suo desiderio, [30v] iudicando che, come Francesco tentava questo,
subito Carlo li diventava inimico. E se bene cognoscessi impossibile che egli fusse eletto,
perché non fusse eletto Carlo già fattoli inimico, volterebbe il favore a qualche principe
d'Alamagna. E questo disegno del Papa riusciva ancora che l'ammiraglio di Francia, el
(4)
Da questo punto ha inizio nel ms. la trascrizione autografa del Vettori.
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quale il Re aveva mandato a Treveri per condurre la pratica d'essere eletto con lo
Arcivescovo, uno delli Elettori, sempre con lettere dessi speranza e quasi certezza al
patrone ch'egli sarebbe eletto re de' Romani, nondimeno il Re non lo credeva et aveva
volto il favore suo al marchese di Brandeburg, uno degli Elettori. Et era contento che li
danari prometteva a quelli Elettori ch'eleggevono lui, darli a quelli che eleggevono detto
Marchese.
Ma Carlo aveva tanti amici e partigiani in Alamagna, per essere stato lo Imperio nella
Casa d'Austria più di settanta anni continui, e ne fece condurre tanti in Francfordia, dove
si doveva fare la elezione, et allo intorno, che si può dire che ella fussi fatta più presto con
le forze, che per l'ordinario, perché non vi fu elettore che ardissi fare parola di eleggere
altri in re de' Romani che Carlo, ancora che vi fussi chi desiderassi assai lo Imperio e per sé
e per altri.
Sendo dunque eletto Carlo re de' Romani et essendo in Ispagna, tutti i Fiamminghi e
Tedeschi, che egli aveva a presso, instavono che tornassi in Alamagna. E, benché in
Ispagna si vedessino segni di sollevazione, dicevono che la riputazione di tanti stati,
aggiunto lo Imperio, farebbe stare ciascuno a segno. Onde Carlo, stimolato da tante
persuasioni, si partì di Spagna per mare e pose nell'isola d'Inghilterra per fare una vera
unione con quello Re. La quale l'uno e l'altro d'essi pensorono avere fatta, ma durò tanto,
quanto ciascuno di loro iudicò essere a beneficio suo.
Francesco, intesa la elezione di Carlo, cominciò subito a pensare come s'avessi a
difendere, quando egli lo volessi offendere. E, benché la ragione volessi che Francesco
dovessi cominciare a muoverli guerra subito, mentre egli aveva la Spagna co' puntelli e
non era solidato nello Imperio, aveva danari, perché li [31r] aveva spesi in pagare li
uomini fece condurre in Francfordia et all'intorno perché dessino favore alla sua elezione,
non lo volle fare, perché non volle si potessi dire che da lui nascessi il principio di turbare
la pace de' Cristiani. Ma cercò di farsi amico il re d'Inghilterra e, per avere più reputazione,
recuperò da lui Tornai, che il re Luigi, suo antecessore, aveva perduto pochi anni avanti.
Poi, per mezzo d'imbasciadori, convennono di parlare insieme.
Et Enrico passò il mare e venne a Calese, e Francesco a Bologna. E ciascuno di loro
fece tendere padiglioni ricchissimi in su certi prati e nel mezzo di quelli si parlorono la
prima volta, e fecionsi carezze assai. Poi si convitorno, donoronsi, fecionsi giostre, balli et
ogni altra maniera di festa. E si partirono l'uno dall'altro con tanta dimonstrazione
d'amore, che si pensò che tra essi fussi fatta amicizia indissolubile, che altro non la
potessi partire che la morte. E per maggiore confermazione Enrico promesse la figlia per
sposa al figlio di Francesco, chiamato similmente Francesco. E sendo poco poi nato al re di
Francia un altro figlio, Enrico volle tenerlo a battesimo e gli pose nome Enrico.
In Italia, in questo tempo, le cose erono assai quiete. E dopo la morte di Lorenzo, il
Papa volle che a governo di Firenze venissi il cardinal de' Medici, il quale, per la
prudenzia e bontà che aveva dimonstro da' teneri anni insino a quel tempo, era in quella
città et amato e riverito.
1521
111
Poi che Carlo fu tornato in Alamagna, attese a fare le cerimonie consuete et indisse
una dieta di tutti e' principi a Vormacia. Francesco, parendoli avere fermo Inghilterra,
desiderava fermare il Papa, el quale, sendoli morto il fratello et il nipote, non aveva da
cercare stati per li suoi, ma desiderava bene d'acquistarne per la Chiesa e riavere Parma e
Piacenzia e, quando Francesco non li volessi rendere queste, almanco li aiutassi pigliare
Ferrara. Il che parendo a Francesco dificile per la qualità del sito e del Duca, che aveva
danari assai et intendeva della guerra, e non volendo ancora offendere uno principe, che
gli era suto sempre amico, senza iusta [31v] causa, teneva il Papa in parole.
El quale era afflitto da un'altra materia di grande importanza, che era che Martino
Luter, gfrate di santo Agostino et uomo assai litterato, col favore del duca di Sassonia
predicava in quella provincia, in pubblico, che tutti e' vescovi sono pari al papa e molte
altre cose eretiche e scandolose. E la sua dottrina era udita volentieri et aveva molti fautori,
non solo in Sassonia, ma in tutta Germania. Lione faceva ogni instanzia che Cesare
gastigassi Martino e facessi ogni opera d'estinguere la sua setta; et era da lui pasciuto di
buona speranza.
Come Cesare fu partito di Spagna, molte città presono l'arme non contro a lui, ma
contro a' governatori, e di quali furono cacciati, e di quali morti. E feciono quelli popoli tra
loro intelligenzia e chiamoronla la Santa Giunta. Ma è stata o gran prudenzia o gran
fortuna quella di Carlo perché i principi, il più delle volte, quando non fanno le guerre in
persona, le sogliono perdere, et a lui non è occorso così, ma sempre che ha commesso ad
altri è stato vittorioso.
Era questa Giunta da temere perché e' popoli, se bene dicono in principio fare contro
a' governatori, come hanno battuto i governatori iudicono avere offeso il principe e fanno
una aperta rebellione. E' signori di Spagna, benché fussino male contenti del governo de'
Fiamminghi, temettono tanto che i popoli non prevalessino contro ai nobili, che s'unirono
insieme e feciono una gagliarda difesa contro alla Giunta. Et il costume de' popoli è essere
ne' principii feroci, ma presto raffreddarsi e non essere concordi, e però e' principi
batterono quando una città e quando un'altra, di qualità che in poco tempo ridussono tutta
Ispagna a ubbidienzia di Cesare. E d'accordo si pacificorono e rimessono la pena di quelli
ch'erono suti capi di questi tumulti alla deliberazione di Cesare, quando egli venissi in
Ispagna.
Dove sendo pacificato, li crebbe il desiderio di potere disporre d'Italia e seguitava
con ogni instanzia di tirare a il Papa e, per gratificarlo, citò Martino Luter a Vormacia
dove teneva la Dieta. E, non volendo comparire sanza salvocondotto, gliene dette. E poi
che fu comparso et ebbe disputato [32r] la sua dottrina, l'ammunì che dovessi tornare alla
via vera e desistessi di calunniare il Pontefice e li altri prelati della Chiesa Romana e,
quando non lo facessi, minacciò di gastigarlo, aggiugnendo che non li mancherebbe modo
d'averlo altra volta nelle mani senza salvocondotto. Luter stette nella sua pertinacia et a
Carlo bastò avere gratificato il Papa col fare dannare nella Dieta la dottrina sua; e si escusò
di non potere procedere più oltre, rispetto al salvocondotto.
Ma la verità fu che, conoscendo che il Papa temeva molto di questa dottrina di Luter,
lo volle tenere con questo freno.
112
Lione, combattuto assai dal re di Francia d'accostarsi a lui, instava in sul volere
Ferrara, e Francesco, come dissi di sopra, gli dava parole.
Et in questo tempo, che fu alla fine dell'anno 1520, le reliquie de' fanti spagnuoli, che
erono stati p anni in Italia e poi erono iti a combattere le Gerbe contro a' Mori per
servizio di Cesare, e non potendo fare progresso, se ne ritornorono in Sicilia e poi in
Calabria. E si messono insieme e vennono insino alli confini della Chiesa, pensando che
Lione s'avessi a ricomperare da loro, come aveva fatto nella guerra d'Urbino. Il Papa
mandò loro incontro Giovanni de' Medici, suo congiunto e nell'arme ardito [e franco], con
qualche somma di fanti. E volendo detti spagnuoli pigliare uno castello del Papa in sul
Tronto, chiamato Ripatrasonna, furono ributtati con occisione di molti di loro in modo che,
vedendo li primi impeti non succedere, se ne tornorono nel Regno alle stanze.
Il Papa, per questo impaurito, deliberò di stare armato e proveduto e mandò messer
Antonio Pucci, vescovo di Pistoia, a' Svizzeri, el quale ne condusse in Italia seimila uomini
prontissimi alla guerra. Lione arebbe voluto che Francesco concorressi a questa spesa per
pietà e ne lo fece più volte ricercare. Ma egli, dubitando che il Papa non volessi assaltare
con essi Ferrara, differiva il rispondere. gli pareva possibile che, benché indugiassi a
rispondere, et ancora quando avessi negato concorrere a detta spesa, che il Papa ne
dovessi pigliare tanta indegnazione, che s'avessi a accordare con Cesare a nuocerli perché
Lione non era tenuto di poco ingegno, che non conoscessi che Carlo era troppo potente,
e che tutti li imperatori che sono stati potenti, quando hanno avuto adito in Italia, sono suti
inimici de' pontefici [32v] et hanno cerco non solo d'abassarli, ma di ruinarli, perché,
chiamandosi re de' Romani, non pare loro conveniente avere il titolo e che e' pontefici
abbino il dominio. Ma sempre le cose non si possono misurare con la ragione.
Il Papa, parendoli che Francesco non tenessi conto di lui e mosso dalle persuasioni di
don Ioanni Emanuel, oratore per Cesare a Roma, e da Ieronimo Adorno, genovese, e da
Ioan Matteo Ghiberti, pure genovese, che faceva in Roma le faccende del cardinale de'
Medici, concluse con Cesare contro al re di Francia.
E li soprascritti gli monstrorono che, subito che egli fussi collegato con Carlo, che la
fama sola gli farebbe vincere la guerra, e che non poteva avere poi dubbio alcuno della
grandezza di Cesare, perché, secondo e' capitoli, il ducato di Milano doveva venire a
Francesco Maria Sforza, secondo figliuolo del duca Lodovico, el quale Francesco Maria era
allora in Alamagna, e che il signore Antoniotto Adorno aveva a essere doge di Genova, e
che Piacenzia e Parma dovevono ritornare al Papa, el quale doveva essere aiutato da
Cesare a espugnare Ferrara, in modo che per queste convenzioni Cesare non acquistava
cosa alcuna in Italia né diventava più formidabile fussi prima. E fu questa lega conclusa in
poche parole e furono prima le galee del Papa sopra Genova, che si sapessi l'animo suo.
El quale, volendo poi escusare questo suo partito precipitoso, diceva averlo preso a
beneficio della republica Cristiana, ancora che fussi pericoloso per la Chiesa e per lui,
perché conosceva il re de' Turchi potentissimo per avere di nuovo vinto il Soldano e preso
il suo regno e per avere ridotto in termine il Sofì, che n'aveva da tenere poco conto, e che
era necessario che surgessi uno principe tra' Cristiani sì grande, che fussi atto a farli
resistenzia, e che solo questi duoi re erono atti a farla, Carlo e Francesco. Ma bisognava che
l'uno superassi l'altro, perché altrimenti nessuno di loro arebbe tanta potenzia tanta
113
riputazione, che ardissi opporsi al Turco, e che cognosceva che era più facile che Carlo
diventassi superiore a Francesco, che Francesco a Carlo, e che non li pareva inconveniente,
per la salute universale di tutti e' cristiani, mettere in pericolo lo stato della Chiesa. E se
[33r] questa era la principale causa che Lione diceva che l'aveva mosso a collegarsi con
Cesare, ma io, essaminato le qualità sue e quanto egli conosceva e quanto bene discorreva
e tritava e' partiti innanzi gli pigliassi e quanto desiderassi essaltare la Chiesa, non mi
posso persuadere che la ragione detta di sopra lo movessi e che egli non conoscessi certo
che la essaltazione di Cesare era la depressione sua, e che per niente la volessi.
Ma la mala fortuna di Italia lo indusse a fare quello che nessuno uomo prudente
arebbe fatto. E lo mossono assai le persuasioni di Ieronimo Adorno, al quale il Papa
prestava gran fede. Egli era stato assai in corte di Carlo e lo predicava per uomo religioso,
cattolico, osservatore di fede, alieno dal sangue, e che non desiderava più in Italia un
palmo di terra di quello avessi, e che la guerra che pensava di fare al re di Francia non era
a altro fine che per potere vivere in pace e venir seco a una composizione per potere
liberamente fare l'impresa contra il Turco.
E se bene Leone non doveva prestare tanta fede alle parole di Ieronimo, che lo
dovessino indurre a fare sì grande errore, fu tirato dalla oppenione che aveva che i
Svizzeri in ogni evento l'avessino a aiutare perché, poiché fu Papa, dava ogni anno loro
scudi trentamila di pensione, perché non li fussino contro e perché, quando n'avessi
bisogno, venissino a servirlo, pagandoli. Et indicava che essi non volessino la grandezza di
Cesare e pensava che, ogni volta che Cesare non stessi alle promesse, poterlo con le forze
loro battere e farlo tornare a segno. E forse gli sarebbe riuscito, se non fossi stato prevenuto
dalla morte.
Mandato che ebbe il Papa le sue galee a Genova e che non gli successi il disegno di
voltarla, gli bisognò venire alla forza aperta.
E Prospero Colonna subito andò in Lombardia, capo delle genti a cavallo di Cesare,
contro a' Franzesi, et il marchese di Pescara, capo delle fanterie, col quale andorono tutti e'
fanti spagnuoli ch'erono nel Regno. Il Papa ancora vi mandò le genti sue a cavallo e fece
soldare molti fanti italiani, e la prima impresa fu di porre il campo a Parma.
Francesco, giugnendoli questa guerra a dosso subito et improvisa, non si perdé
d'animo, ma pensò di fare e' rimedi possibili. E subito mandò a soldare Svizzeri, ma,
avanti [33v] scendessino, Parma era forte stretta, dove era governatore monsignor
d'Ellanson e con lui molti altri signori italiani e francesi. Ma avevono poca gente né
confidavono del popolo perché, quando era suddito della Chiesa, era uso a pagare poco.
Durò la obsidione di Parma più giorni et i Franzesi, diffidando guardarla tutta per
essere troppo grande e loro essere pochi defensori, abbandonoro la parte di dal fiume,
che guarda verso Piacenzia, dove li inimici facevano la batteria, e si feciono forti drento
della terra, in sul fiume della Parma, con ripari et artiglierie et altri ordini. Le genti della
Lega entrorono in quella parte di Parma abbandonata e messono a sacco quello poco vi
trovorono.
Lione aveva in quello essercito per suo capitano Federigo marchese di Mantova, el
quale, per essere giovane, si rapportava a Prospero, capo principale in questa impresa.
Entrate che furono le genti in quella parte di Parma, per molti si credeva che in pochi si
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dovessi pigliare il resto e che fussi una gran parte della vittoria. Ma, o che i capi imperiali
trovassino la impresa difficile, o che dubitassino che Lautrec o il duca di Ferrara non
venissino a soccorrerla e li trovassino imbarazzati tra le mura, o forse perché avessino
sospetto che, se avessino preso Piacenzia e Parma per il Papa, che egli non andassi poi nel
resto della guerra più rattenuto e gli bastassi avere conseguito il desiderio suo, ritirorno
l'essercito da Parma e si ridussono verso Reggio.
In Firenze, quando Leone prese questa guerra, fu una mala contentezza universale e
cominciò a perdervi l'amore e la grazia, per essere la città per l'ordinario inclinata a
Francia, perché in quel tempo e' mercanti fiorentini avevono a riscuotere in Francia, tra
dalla Corte e da altri particulari, più che ducati settecentomila, et ancora perché e' corsali
provenzali, soldati dal Re, impedivono la navicazione, cosa di molto preiudicio a'
Fiorentini et in publico et in privato, perché e' Fiorentini sono amatori della quiete, perché
vivono d'industrie et essercizi che fanno bene nella pace. E parve loro che il Papa ne
tenessi un poco conto a pigliare partito di tanta importanzia e non ne conferire niente, se
non dopo la conclusione della Lega. E se bene e' Fiorentini non intervennono, né con
oratori con mandato, prestorono [34r] consenso in detta Lega, il Papa, di sua
auttorità, promisse che lo seguiterebbono. E però, quando in Firenze s'ebbe notizia che lo
essercito della Lega era ritirato, li amici de' Medici temerono e li altri tenevono li animi e li
orecchi levati a ogni novità.
Lione, quando intese quello che avevono fatto e' capi imperiali, conobbe tardi avere
errato et essere entrato in luogo, che era constretto a fare tutta la spesa di questa guerra. E
non si trovando danari, avendo modo di provederne e sappiendo che in Firenze per il
Comune n'era congregata qualche somma, per il poco spendere che aveva procurato il
cardinale de' Medici si facessi e per la diligenzia che aveva usato che le pecunie publiche si
conservassino, si volse a mandare detto Cardinale in campo, legato e capo principale della
guerra, sì perché confidava molto nella prudenzia e virtù sua, sì perché conosceva che egli,
per avere onore di questa impresa, era necessitato spendere e' danari che erono conservati
in Firenze, e' quali insino allora il Cardinale mai aveva voluto acconsentire si spendessino.
Egli vi andò contro a sua voglia e contradisse assai, ma non poté disubbidire. E per
ingagliardire il campo in su la giunta sua fece calare diecimila Svizzeri e' quali, per essere
collegati col re di Francia, dicevono che, secondo e' capitoli avevono con lui, non potevono
pigliare uno palmo di terra di quella del Re, ma che tutta quella che il Papa facessi pigliare
a altri, potevono e volevono difendere.
Giunto adunque il Legato in campo, che fu del mese d'ottobre 1521, consultò con
quelli signori capitani come fussi da procedere. E si conobbe, nel consultare, che essi
volevono prima pigliare Milano et il resto del ducato, e poi Piacenzia e Parma, e
conclusono che fussi da passare il Po, per unirsi il ppresto che si poteva con i Svizzeri.
A' quali i Veniziani, benché fussino collegati col Re, non si vollono opporre nelle
montagne di Bergamo, perché vollono fuggire di non avere la guerra in casa.
Passò l'essercito della Lega il Po in Mantovano et andò in Cremonese, dove ebbe allo
incontro Lautrec con l'essercito franzese el quale, se non era pari di forze, era superiore per
molte commodità aveva, delle quali li avversari mancavono. Appressavasi il verno, le
115
piove [34v]
erono grandi e se i Veniziani volevono fare un poco di resistenzia a' Svizzeri, la
guerra era vinta per il Re. Non la feciono et i Svizzeri si congiunsono con l'essercito delle
Lega il quale, senza tentare Cremona, passò l'Adda in sulle barche et ancora che Lautrec
avessi ritirato prima le sua genti di dell'Adda, per guardare che gli inimici non
passassino, è cosa molto dificile guardare da uno essercito venti miglia di ripa di fiume. E
passò sopra a Cassano, presso a Milano a miglia venti. Come Lautrec conobbe li inimici
essere passati l'Adda, ché procedette assai, perché e' suoi Svizzeri non vollono combattere
contro a quelli che aveva condotti il Legato, ritirò il suo essercito in Milano, e vi condusse
Teodoro da Triulzi con parte dello essercito veneto.
In Milano, in fatto, la parte ghibellina è superiore assai, i popoli sono sempre
desiderosi di mutazione, chi lascia la campagna e si ritira drento alle mura, perde di
riputazione.
L'essercito della Lega, inteso che i Franzesi erono ritirati in Milano, gli seguitò e
giunse alle porte poco dipoi che li altri erono entrati drento, in modo che non avevono
avuto tempo a distribuire le guardie e fare quelli ordini che si ricercono in una città faziosa
e dove s'aspetti il campo. Quelli della Lega si presentorono alle mura e certi fanti
spagnuoli furono li primi che entrorono drento, da un luogo dove era un mulino.
Seguitorono delli altri, et in effetto, in poche ore, senza ostacolo entrorono nella terra.
Odetto, ancora che non invilissi, mai potette fare testa con li suoi e, vedendo la terra
perduta, pensò di salvarsi con più e migliori uomini potette et, uscito di Milano, si riti
verso Como. E' soldati cesarei arebbono voluto mettere a sacco Milano, pure furono
ritenuti con gran fatica da il Legato e da' capitani, ma a ogni modo presono molti milanesi
guelfi, e posono loro taglie e predorono le loro case; e così presono tutti e' Franzesi che
trovorono in Milano e le loro robe.
Leone ebbe nuova della presa di Milano alli 28 di novembre, sendo alla Malliana,
villa pontificia, distante da Roma cinque miglia. E qualcuno dice ne prese tanto piacere,
che stette gran parte della notte levato alle finestre a vedere fare festa alli suoi e, quando
era stato un poco alle finestre, tornava al fuoco, e che per questo prese, la notte, e [35r]
freddo e caldo et, essendo in quello luogo aria pessima, gli venne febbre ardentissima.
Altri dicono che ebbe dolore perché vedeva Cesare avere conseguito il desiderio suo et a
lui restare ancora a pigliare Parma e Piacenzia, dove li bisognerebbe spendere, e che la
spesa sarebbe tutta sopra lui, e non sapeva donde trarre più danari, e le lettere del Legato,
che davono notizia della vittoria, domandavono danari e grossa somma.
Basta, che, per qual causa si volessi, la notte medesima gli venne la febbre et il
sequente si condusse in Roma et il primo di dicembre morì. mai seppono i medici
trovare rimedio al suo male. Fu detto che morì di veneno: e questo quasi sempre si dice
delli uomini grandi, e massime quando muoiono di malattia acuta. Ma chi conosceva
Leone e considerava quanto aveva il corpo bene proporzionato dal collo in giù e poi
quanto avessi il capo grosso e fuori di proporzione dell'altre membra, si potrà
maravigliare che egli sia vivuto tanto, e massime perché nel vivere era poco regolato,
perché digiunava spesso e poi si caricava troppo di cibo: e per questo, e per avere il capo
grosso et umido, era sempre pieno di catarro.
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Quando morì, correva l'anno dell'età sua quadragesimo sesto. Uomo al quale la
fortuna durò favorevole otto anni continui perché, avanti fussi papa, sendo prigione de'
Franzesi, scappò a caso, prese lo stato di Firenze contro all'oppenione di ciascuno, fu
pontefice che non vi doveva avere parte. E questo è certo che il cardinale di Volterra,
vedendo che il cardinale di San Giorgio, che li era inimico, aveva gran parte nel
pontificato, si riconciliò con Medici, non credendo in modo alcuno che potessi essere Papa,
e discorse che, col confortare Medici a cercare il pontificato, farebbe due cose: l'una, che
torrebbe la voce di Medici e suoi aderenti a San Giorgio, che avevono inclinazione a
dargnene; l'altra, che qualunque fussi fatto papa, sarebbe inimico a Medici, reputandolo
presuntuoso, che sì giovane ardissi aspirare al pontificato. Ma questo suo pensiero riuscì al
contrario.
E poi che fu papa, a quanti più errori fece, a tanti più rimediò la fortuna. Spese nella
coronazione senza misura e consumò in essa tutti e' danari contanti et argenti che aveva
congregato Iulio, nondimeno trovò modo di fare nuovi ufici, e si trovò chi li comperò cari,
e fece con essi sempre e' danari che disegnò. Dette per donna a Giuliano una che si tirava
drieto una [35v] spesa incredibile, e la fortuna, acciò ne mancassi, gli levò il fratello. Se la
guerra contro al re di Francia nel quindici durava, tutta la spesa si posava sopra a lui e non
la potendo reggere aveva la inimicizia, per l'ordinario, di Francia et arebbe avuto quella
de' collegati. Francesco vinse presto e si posò ogni cosa. Se Massimiliano, quando venne
sopra a Milano, vinceva, trattava Leone come ha trattato in questi tempi Carlo Clemente, e
Massimiliano si partì con vergogna.
Ebbe la guerra d'Urbino, la quale scoperse l'animo e dei cardinali e de' condottieri in
modo che ebbe occasione di punire cardinali e fare Collegio nuovo: perché nel suo
pontificato creò in più volte quarantadua cardinali e trasse danari da parte di quelli che
creò e da quelli che condannò.
Gastigò ancora qualche condottiere, come Giovampagolo Baglioni, il quale fece
decapitare in Castello. E perché egli da un canto non arebbe voluto pensieri che
l'affliggessino, dall'altro era glorioso e desiderava fare grandi e' suoi, la fortuna, per
privarlo di questo pensiero, gli levò, oltre al fratello, il nipote. Et in ultimo, avendo preso la
guerra contro al re di Francia, nella quale vincendo perdeva et andava alla ruina
manifesta, la fortuna lo levò di terra, acciò non la vedessi.
Nel suo pontificato, in Roma, non fu peste, non penuria di vivere, non guerra,
fiorivano le lettere e le buone arti e vi erano ancora in culmine e' vizi.
Alessandro et Iulio usorono pigliare l'eredità di qualunque, non solo prelato, ma
piccolo prete et uficiale, che moriva in Roma. Leone s'astenne da tutte, onde vi concorse
numero infinito d'uomini e si pdire certo, che in otto anni che stette pontefice, crescessi
in Roma il terzo del popolo.
Se fu principe, nel quale fussino p le virtù che i vizi, o il contrario, lo lascerò
iudicare a chi n'ha più iudicio che non ho io. Aveva molte parti eccellenti e grandi; fu
biasimato che teneva poco conto di quello prometteva, ma lui aveva quella sentenzia
molto peculiare: "che il principe doveva rispondere in modo, a chi lo ricercava, che
nessuno avessi causa partirsi da lui se non allegro". E però prometteva nel principio tanto
e pasceva ogni uomo di tanta speranza, che non era possibile gli satisfacessi.
117
A' Fiorentini particulari fece molti e grandi benefici. Ma li uomini sono tanto ingrati e
poco discreti [36r] che, beneficando egli ancora delli altri che Fiorentini, come quello che
era ubrigato a molti, tutto quello che dava a altri, stimavano togliessi a loro. Fu notato
assai che si dilettassi troppo di buffoni, ma aveva tante altre parti che, chi le vorrà
considerare senza odio et invidia, troverrà che i popoli non si doverrebbono dolere
quando avessino uno principe simile.
Venuta la nuova in Firenze della morte di Leone, li amici de' Medici non invilirono,
ma ne dettono subito notizia al cardinale Legato a Milano, el quale ne venne in poste e
confortò li amici a stare di buono animo. Poi se n'andò a Roma per trovarsi alla creazione
del nuovo pontefice, la quale e' cardinali sollecitavano.
E fatto essequie, trentacinque cardinali che si trovorono in Roma entrorono in
Conclavi. La elezione andava in lungo et intanto le guerre non cessavono, perché Odetto
di Foes, ancora che avessi perduto Milano, non volle abbandonare la Lombardia. Ma da
Como, dove si ritirò, venne per le terre de' Veniziani a Cremona et ordinava nuove genti
per ritornare in su la guerra. È vero che la perdita di Milano dette tanto disfavore a'
Franzesi, che Parma e Piacenzia vennono nelle mani della Chiesa, per opera et industria di
Goro Gheri, pistorese, vescovo di Fano.
Francesco Maria della Rovere, che si trovava a Mantova, intesa la morte di Lione,
raccolse circa dumila fanti et insieme con Malatesta et Orazio Baglioni, figliuoli di
Giovampagolo, che erono a soldo de' Veniziani, vennono in Romagna e poi nel ducato
d'Urbino e lo presono tutto senza alcuna dificultà perché Leone, per consiglio di Renzo da
Ceri, per poterlo meglio tenere, a tutte le terre di quello stato aveva fatto levare le mura.
1522
Aveva ancora Leone dato a' Fiorentini in pegno Montefeltro e San Leo per le spese
avevono fatte quando Francesco Maria lo riprese nel sedici: e tutto il Montefeltro s'accordò
con Francesco Maria. San Leo, perché è forte et era pieno d'uomini fidati, si tenne, e Pesero
ancora, se bene aveva le mura, s'accordò col vincitore et il castellano dette la fortezza per
danari. Francesco Maria e Baglioni insieme n'andorono poi verso Perugia e mutorono
quello stato e ne cacciorono il signore Gentile Baglioni. Et a gran giornate venivono verso
Siena per mutare quello governo, et avevono preso il tempo che Raffaello Petrucci, [36v]
cardinale, che lo governava, era serrato in Conclavi. E riesciva loro il farlo, se non fussi
stato l'animo di Francesco Petrucci suo cugino, et ancora le nevi, le quali venneno in tanta
quantità, che essendo vicini a Siena a tre miglia, per non avere che vivere avere modo
di guadagnarne, furono constretti ritirarsi prima a Perugia e poi a Urbino.
Dopo che i cardinali furono stati in Conclavi molti dì, alli quattro di gennaio nel
ventuno elessono Adriano, vescovo di Tortosa, pontefice; il quale era suto fatto cardinale
da Leone a instanzia di Cesare, ché era suto suo precettore, et allora si trovava in Ispagna
perché quando Cesare si partì di quelli regni, lasciò lui come un'ombra di governatore, el
quale per ventura giovò più alli negozi di Cesare con l'orazioni, che un altro non arebbe
fatto con l'arme.
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Fu da considerare assai in questa elezione che li cardinali, che si trovorono nel
Conclavi, avessino tanto odio l'uno con l'altro, che volessino creare più presto uno che non
avessino mai visto, che uno di loro. Aggiugnesi che non solo tutta Italia, ma ancora
particularmente le terre della Chiesa erono in tumulto et in sollevazione et era necessità di
pontefice che con la presenzia rimediassi subito, e non d'uno che avessi a stare molti mesi
a comparire in Italia. Oltre a questo, loro avevono potuto vedere il buono animo di Cesare
di dominare Italia e non si vergognorono fare uno del seno suo. E quello che è più da
ammirare, conoscendo di quali costumi fussino, e se non tutti li più, feciono un fiammingo
che mai era suto in Italia.
Carlo, intendendo la elezione del Papa, senza mettere tempo in mezzo, si partì
d'Alamagna e, giunto in Fiandra, s'imbarcò per Ispagna. Dove arrivato, con la riputazione
sua congiunta con quella del Papa, non ebbe dificultà a castigare se vi era alcuna reliquia
della Giunta, e condannò chi a morte e chi in danari di quelli che erano suti capi d'essa.
Relegò ancora, per questo delitto, il vescovo di Zamorra in carcere, el quale poi, nel 26,
perché cercava d'uscire per suscitare cose nuove, fece decapitare.
La guerra in Lombardia era rinata perché Odetto aveva ragunato assai buono
essercito, e già aveva passato l'Adda per ire verso Milano. Ma venendo alle mani con li
Spagnuoli, a un luogo chiamato la Bicocca, furono li or[37r]dini de' suoi Svizzeri confusi
dagli archibusieri inimici, in modo che l'essercito franzese fu rotto e pochissimi se ne
salvorono. E si cognobbe certo in questa giornata che li Svizzeri temevono l'artiglierie e
non erono più li medesimi animosi che durorono a essere tenuti molti anni.
Avevali Lautrec, poche settimane avanti, condotti insino in su le mura di Milano e li
Cesarei non avevono ardito uscire fuori, ma mentre che Marcantonio Colonna, el quale era
con Franzesi, andava ordinando il campo, fu percosso da un colpo di falconetto in una
coscia, della quale ferita in poche ore morì; la cui morte impaurì tanto i Svizzeri, che
Lautrec fu forzato ritirarli, e pochi giorni appresso seguì la rotta che ho detto di sopra.
Il cardinale de' Medici, uscito che fu di Conclavi, e che tra loro cardinali ebbono dato
ordine che tre d'essi avessino il governo della Chiesa e si mutassino ogni mese, insino che
Adriano venissi, se ne venne per mare a Pisa e di quivi a Firenze. E trovò che Francesco
Maria s'era già ritirato da Siena. Ma di nuovo Renzo da Ceri, come uomo del re di Francia,
con danari di Francesco cardinale di Volterra, venne verso Siena per mutare quello stato e
poi quello di Firenze. Ma avendo poco ordine di vivere e non li reggendo sotto Orazio
Baglioni e Francesco Maria, balenando se ne tornò indrieto, senza fare effetto. E poco di
poi furono condotti a' soldi de' Fiorentini e Francesco Maria et Orazio.
Et in Firenze si scoperse uno trattato, il quale tenevono certi giovani più desiderosi
della libertà che prudenti. E pensavono, togliendo lo stato al cardinale de' Medici, ridurre
in Firenze uno stato civile e buono, e sarebbe loro riuscito il contrario, perché v'arebbono
ridotto uno licenzioso et al tutto tirannico.
Li capi erono Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni e Batista della Palla. Furono
presi Iacopo da Iaceto, che faceva professione di litterato, et uno altro Luigi Alamanni
soldato, che era stato più mesi alla guardia di detto Cardinale, e con poca tortura
confessorono il tutto. Zanobi e Luigi fuggirono perché, in verità, il Cardinale, alieno dal
sangue, non fece fare grande diligenzia che fussino presi. Batista era ito per questo conto
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in Francia tre mesi inanzi, Iacopo e Luigi, soldato, furono decapitati [37v] e li altri banditi.
E così ebbono bando Tommaso e Giovambatista Soderini, perché erono ancora loro in
qualche convenzione con li sopranominati. E queste punizioni non seguirono per volontà
del cardinale de' Medici, ma per satisfare agl'Imperiali, e' quali dicevano che chi voleva
mutare lo stato di Firenze, era inimico di Cesare e che l'inimici di Cesare s'avevano a
gastigare senza misericordia.
E' Cesarei, poiché ebbono rotto i Franzesi alla Bicocca, deliberorono assaltare
Genova, la quale non aveva voluto mai lasciare la parte franzese. E Ferrando Davalo,
marchese di Pescara, vi condusse il campo e per forza v'entrò drento e fu dagli Spagnuoli
messa a sacco. È vero che il sacco non durò che un dì, perché Antoniotto et Ieronimo
Adorni, che erono con l'essercito imperiale, s'ingegnorono rimediare, nondimeno il bottino
fu grande di danari, d'argenti, di gioie, di drappi e di qualche prigione, perché Genova era
allora connumerata una delle ricche terre d'Italia e forse la più ricca dopo Roma.
Alloggioronsi e' Cesarei per le terre di Lombardia. E perché il castello di Milano, che
era ancora in potere de' Franzesi, non potessi loro nuocere, per il consiglio di Prospero
Colonna lo circondorono, e di verso la terra e di fuori, con fossi larghi e profondi; e
disposono le guardie in modo che con manco di mille fanti si guardava, sì che non poteva
nuocere alla città, né chi v'era drento ne poteva uscire senza suo manifesto pericolo.
Fece ancora Carlo assaltare la Francia dalla banda di Fiandra e, desiderando Enrico re
d'Inghilterra essere arbitro della pace tra Cesare et il re di Francia e non lo acconsentendo
Francesco, Enrico gli diventò inimico. La guerra durò più mesi con spesa e danno grande
dell'una parte e l'altra, pure Francesco non perdé altro che Tornai, perché è posta nel
mezzo delle terre di Cesare con dificultà può essere soccorsa da Francia.
Adriano fu eletto Papa di gennaio nel ventuno, e di settembre nel ventidue venne per
mare a Genova e di poi a Roma, dove era cominciato la peste, et egli non ne tenendo conto
e volendovi prima andare e di poi stare, per il concorso che vi fu fatto per la venuta sua
crebbe tanto, che ha fatto a Italia grandissimi danni, e ancora fa.
Lo indugiare che fece il Papa a venire a Roma e la freddezza sua, poi che vi fu, fu
causa che non fussi soccorsa la città di Rodi, la quale in quel tempo fu assediata [38r] dal
Turco. E poiché quelli cavalieri Ierosolimitani l'ebbono difesa valorosamente sei mesi, non
avendo soccorso da alcuno, furono constretti a pigliare quelle condizioni che potettono. E
così la città et isola di Rodi venne in mano del Turco, cosa e dannosa et ignominiosa pe'
Cristiani.
1523
Ancora che Francesco re di Francia fussi afflitto da guerra di da' monti e di qua
avessi perduto tutto quello ci soleva tenere, eccetto il castello di Milano, non poteva, con
quello animo invitto non uso a sopportare ignominia, riposare.
Et essendo suto creato Andrea Gritti nuovo doge di Venezia, uomo prudente e nella
pace e nella guerra e che aveva seguito, a beneficio della sua republica, molti anni
vivamente le parti di Francia, pensò fare nuovo essercito, e con l'aiuto de' Veniziani
pigliare lo stato di Milano, e forse poi dell'altre cose. E' signori che governavono le
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faccende di Carlo in Italia, e' quali erono il duca di Sessa, oratore a Roma, don Carlo della
Noi, viceré a Napoli, Prospero Colonna, a Milano, et Ieronimo Adorno, a Genova, intesa
questa nuova preparazione, si ordinorono a fare tutti li ostacoli possibili. E per stabilire
bene Firenze, feciono che Adriano chiamò il cardinale de' Medici a Roma; e tutti li signori
sopradetti, e con lettere e con uomini, monstravono una grandissima confidenzia in lui.
E per levare il capo della parte franzese di Roma, operorno che Adriano fece mettere
in Castello il cardinale de' Soderini, monstrando certe sue lettere, le quali avevono
intercette, che confortavono il Re a venire a turbare la quiete d'Italia. Cercorno ancora
d'accordare co' Veniziani et a questo effetto vi mandorono Ieronimo Adorno e Marino
Caracciolo napoletano, uomini eccellenti a trattare simili negozi. E benché Francesco,
avvertito di questo, vi mandassi ancora lui uomini suoi, e, tra li altri, Lodovico Canosa,
veronese, vescovo di Baiosa, el quale in persuadere ha pochi pari, pure, contro a tutte le
ragioni, e' Veniziani accordorono con Cesare. si seppe vedere che gli movessi, se non il
desiderare che il ducato di Milano restassi in Francesco Maria Sforza, signore debile, per
poterlo un dì pigliare per loro.
Fu ancora oppenione che l'avere tenuto Andrea Gritti per il passato le parti franzese
nocessi a Francesco, perché e' Veniziani vollono monstrare che il loro principe non può
determinare delle leghe e pace a suo piacere. Basta, che quando Francesco credette [38v]
avere e' Veniziani in favore, li ebbe contro. per questo mutò proposito, ma congregato
grande essercito a piè et a cavallo, del mese di settembre nel ventitrè, lo mandò in Italia,
sotto il governo dell'Ammiraglio, con ferma intenzione di venire ancora lui subito.
Ma, partendo da Parigi per venire a Lione, per il cammino gli fu fatto intendere che
Carlo, duca di Borbone, gran conestabile di Francia, non aspettava altro se non che lui
partissi del regno per sollevarlo e fare novità in esso, e che era convenuto con Cesare e col
re d'Inghilterra. A Francesco, che per l'ordinario non aveva molta buona oppenione di
Borbone, fu facile a credere quello di che gli fu dato notizia. E passando da Mulins, terra di
detto Borbone, dove lui era e si fingeva malato, l'andò a visitare a letto e li disse che
s'inviava a Lione per passare i monti e che li piacessi subito seguitarlo, perché si voleva
valere e dell'opera e del consiglio suo. Borbone gli rispose che li medici gli dicevono che
intra quattro giorni starebbe in modo che potrebbe, se non cavalcare, farsi portare in
lettica; e come si sentissi da fare questo, non metterebbe dilazione a pigliare il cammino
verso Italia per trovarsi col suo Re alla vittoria.
Partito Francesco da Mulins, ebbe, e pel cammino et in Lione, più riscontri che
Borbone lo ingannava e che era accordato con Cesare, e che un certo monsignor di
Beurein, borgognone, era suto veduto a Mulins perché era quivi per condurre la
convenzione. E li fu fatto intendere come monsignor di San Valerio e Marco Depria et il
vescovo d'Otton erono consci di questo trattato. Nondimeno Francesco, moderato in ogni
suo negozio, non volle in questo, tanto importante, correre a furia e si fermò in Lione, et
aspettava lettere da uno suo gentiluomo, che aveva lasciato appresso a Borbone perché lo
sollecitassi. Il gentiluomo con modestia lo sollecitava, ma egli gli monstrava non
migliorare. Pure si misse in lettica e si fece portare una giornata verso Lione, stimando che,
come Francesco intendessi il partire suo da Mulins, non fussi più per diffidare di lui e
dovessi pigliare la via verso Italia e, come fussi partito, colorire il disegno suo. Ma come
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intese che Francesco l'aspettava a Lione, non volle procedere più avanti, ma si misse a
mezza notte in via con quattro a cavallo e ne andò verso i monti d'Alvernia.
Il gentiluomo, [39r] levato la mattina, intese il caso e, montato in poste, lo corse a dire
al Re: el quale, chiaro d'ogni dubbio che aveva, fece pigliare quelli che io nominai di sopra
e da loro intese Borbone avere ordinato il più scellerato trattato che si potessi pensare,
perché, sendo del sangue di Francia e non lungi da potere pervenire alla corona, era
convenuto che di quello regno si facessi tre parti, la Borgogna avessi Cesare, la Ghienna il
re d'Inghilterra, et il resto rimanessi a lui. Et era tanto l'odio e l'ambizione che lo portava,
che non considerava che distruggeva tutto il regno di Francia, perché non era possibile che
Carlo et Enrico, preso che avevono la parte convenuta, non volessino il resto, acciò non
potessi surgere uno del sangue di Francia che fussi atto a ripigliare il tutto.
Ma Borbone, sendoli suta promessa per donna la sorella dello Imperatore, rimasta
vedova per la morte del re di Portogallo, si persuadeva trovare quella fede in altri della
quale lui mancava al suo Re et alla sua progenie. E forse che era suto male trattato da
Francesco, che l'aveva fatto, come fu assunto al regno, gran conestabile di Francia, uficio
che era stato molti anni senza concedersi a alcuno perché è di troppa auttorità, lasciatolo
poi suo luogotenente a Milano, chiamatolo sempre alle sue più secrete deliberazioni, et
onoratolo e stimato più che altro signore di Francia?
Borbone, d'Alvernia, per occulti cammini, venne in Savoia e di quivi a' Svizzeri e poi
in Lombardia. Francesco, dubitando di qualche sollevazione nel regno, si fermò a Lione,
non volendo, per venire a recuperare la ducea di Milano, lasciare in pericolo il regno di
Francia. E così la vittoria quale, venendo, otteneva al sicuro, li uscì delle mani.
L'Ammiraglio felicemente condusse lo essercito in sulle porte di Milano e, non
facendo la città alcuno movimento, vi s'accampò. In Milano, oltre al Duca, era Prospero
Colonna. Corsevi subito Ferrando Davalo, venne dipoi il Viceré con tutte le reliquie di
genti, a piè et a cavallo, che erono nel Regno. E si preparorno li Cesarei non solo a
difendere Milano, ma, insieme co' Veniziani, che avevono per capitano il duca d'Urbino,
pensorono di ordinare di qualità il loro essercito, da potere affrontare e' Franzesi: e' quali
stettono duoi mesi interi in sulle mura di Milano, in luoghi bassi et acquosi per l'ordinario,
ma molto più allora, perché, sendo l'autunno, mai cessò di piovere. [39v] Nutrivali la
speranza che a' Cesarei avessino a mancare e' danari; e certo l'Ammiraglio monstrò, nel
tenere e' Franzesi intorno a Milano, che loro, quando era necessario, sapevano così stare
fermi, come vincere ne' primi impeti.
Pure era gvenuto il verno e li Cesarei avevono fatto essercito da potere, se non
combattere, impedire le vettovaglie. Onde e' Franzesi furono constretti ritirarsi a
Biagrassa, luogo assai vicino al Tesino, e dove avevono e' viveri con facilità. E' Cesarei,
come i nimici si levorono da Milano, crebbono non solo d'animo, ma di tante forze, che
iudicavono essere atti di potere combattere con li avversari.
Ancora che Adriano fussi uomo da non essere pontefice in tempo tanto travagliato,
non voglio però omettere le azioni sue.
Quando il duca di Sessa intese che il re di Francia si preparava per venire in Italia,
fece grande instanzia a Adriano che si dovessi collegare con Cesare e con li altri Italiani a
difesa d'Italia. Egli recussò qualche giorno volerlo fare perché diceva non essere oficio di
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pontefice pigliare parte. Ma quello lo faceva stare più renitente era il non avere danari
modo a provederne perché, ancora che fussi parcissimo nello spendere e togliessi donde
poteva, non bastava, perché Leone aveva tanto speso, che non aveva lasciato modo da
spendere a' successori. E li mancavono ancora e' ministri, perché e' suoi Fiamminghi non
intendevano e lui non confidava negl'Italiani, se non forzato, e' quali, conoscendo questo,
il più delle volte lo ingannavano. Pure, presentandoli il duca di Sessa una lettera di Cesare
la quale lo strigneva a entrare nella Lega, non seppe contradire e promisse concorrere alle
spese della guerra con quindicimila ducati il mese per tre mesi; e pagò li quindicimila pel
primo mese, li altri gli fu lecito non pagare, perché morì del mese di settembre.
E stette pontefice circa mesi venti, de' quali stette undici a Roma. E nuoce tanto l'aria
di Roma a chi non vi è assuefatto, che, benché lui fussi sobrio e continente, in capo di
poche settimane vi giunse, cominciò a essere indisposto e così, a poco a poco aggravando,
morì d'una febbre lenta. Uomo, certo, religioso e buono et atto più presto a essere frate che
papa; benché stette sì poco tempo, et era nuovo in Roma, che non si può fare vero iudicio
di lui.
Morto Adriano, e' cardinali, tutti d'accordo, feciono l'essequie e vollono che il
cardinale de' Soderini fussi libero et entrassi [40r] in Conclavi, el quale, Adriano, sendo
vicino alla morte, a instanzia de' Cesarei, per una bolla relegò in Castello.
Fatte l'essequie, entrorono trentatrè in Conclavi e ne vennono, poiché fu serrato il
Conclavi, tre di Francia per mare, et uno di Piemonte, e' quali tutti entrorono come è il
costume. E fu grande discettazione tra i cardinali di chi dovessi essere eletto papa e tanta
ostinazione, quanta fussi in elezione alcuna molti anni sono, perché erano quindici uniti a
fare papa il cardinale de' Medici e li altri, benché fussino più, non erono uniti tutti a fare
uno: e tra loro ne erono più che aspiravono al pontificato. Stettono in questa altercazione
cinquanta dì e finalmente la parte unita e minore superò la disunita e maggiore. E fu eletto
pontefice Iulio, cardinale de' Medici, el quale si fece chiamare Clemente settimo.
E come io dissi nel principio del mio scrivere che la fortuna, avendo dato la vittoria a'
Franzesi a Ravenna, di pietosa madre cominciò a diventare loro crudele matrigna, così fece
a Clemente, e parve si volessi pentire di tutti li onori e degnità li aveva contribuito, perché
chi essaminerà le azioni di Iulio de' Medici, quando era prima cavaliere e poi cardinale, le
troverà prudenti. È vero che entrò in uno pontificato consumato tutto dalle guerre e spese
di Leone le quali Adriano, ancora che parco, non potette riordinare perché, come ho detto
di sopra, sendo nuovo et in Corte et in Roma, era da ciascuno ingannato.
Oltre a questo, Clemente nella sua elezione restò ubrigato a quelli quindici cardinali
che nel Conclavi gli tennono sempre il fermo. Trovò l'Italia piena d'esserciti e la Cristianità
indebolita per la perdita di Rodi e per la preparazione che faceva il re de' Turchi contro
all'Ungheria. Trovò ancora la Chiesa romana in pochissima riputazione rispetto alla setta
luterana, che aveva occupata gran parte d'Alamagna e del continuo andava crescendo.
Ma L'ambizione delli uomini è così fatta, che non si può astenere dal cercare e' primi
gradi. Iulio conosceva dove entrava, non parlava non discorreva d'altro, nondimeno durò
una gran fatica per diventare, di grande e riputato cardinale, piccolo e poco stimato papa.
A pena era aperto il Conclavi che il duca di Sessa, oratore di Cesare, con l'arroganzia
spagnuola, li andò monstrando che lui era stato eletto pontefice con il favore di Cesare e
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che non bastava che egli seguissi nella Lega, che aveva fatta [40v]
Adriano, che disponeva
circa la spesa quello è scritto di sopra, perché bisognavano più danari, accennandoli che
Cesare pensava lasciare la spesa della guerra in gran parte sopra di lui.
Clemente, trovandosi senza danari e senza modo alcuno di poterne provedere, dava
parole, onde in pochi giorni divenne sospetto a detto Duca. El quale, non si volendo
alterare rompere col Papa, pensò a strignere e' Fiorentini e non solo con parole, ma con
minacce. Né Clemente vi poteva rimediare, perché era troppo debole, et i Fiorentini,
sentendosi minacciare in sulla creazione sua, scopersono che questo procedeva dalla poca
riputazione del Papa, perché non si potevono persuadere procedessi da poca affezione,
avendo, mentre vi era stato, non solo durato fatica e con la persona e con lo ingegno, ma
spesovi ancora danari assai. Et avendo preso conforto in sulla creazione sua stimando
avere a essere riguardati, s'aviddono che questo non era per riuscire: e li amici a poco a
poco cominciorono a meno amarlo, e li inimici a men temerlo. Andorono a Roma, secondo
l'uso, dieci oratori a darli l'ubidienzia. E Palla Rucellai, uno d'essi, fece in consistorio
publico una orazione degna di qualunque eccellente oratore.
Nella stanza feciono in Roma detti oratori, Clemente volle consultare con essi come si
doveva governare Firenze, poi che lui, che n'aveva avuto la cura qualche anno, non vi
poteva più attendere. Delli suoi aveva solo dua, uno chiamato Ipolito, figliuolo di
Giuliano, d'anni quattordici, et uno Alessandro, figliuolo di Lorenzo, di tredici; e nessuno
d'essi, rispetto alla età, si poteva preporre al governo della città. Però il Papa chiamò uno
giorno messer Francesco Minerbetti, arcivescovo turretano, Lorenzo Morelli, Alessandro
Pucci, Antonio de' Pazzi, Ruberto Acciaiuoli, Francesco Vittori, Galeotto de' Medici, Palla
Rucellai, Lorenzo Strozzi e Giovanni Tornabuoni, tutti imbasciadori, et aggiunse con loro
Iacopo Salviati e Piero Ridolfi, e' quali allora si trovavono in Roma; e pregò che ciascuno
dicessi l'oppenione sua liberamente circa il modo che si doveva tenere a governare la città,
e che a lui non s'avessi rispetto alcuno perché, sendo pontefice, non li mancherebbe facultà
di benificare questi suoi nipoti senza mandarli in Firenze.
Quasi tutti li uomini sono adulatori e dicono [41r] volentieri quello che credono
piaccia alli uomini grandi, benché sentino altrimenti nel cuore: e di tredici che lui
domandò, ve ne furono dieci che lo confortorono a mandare Ipolito in Firenze, sotto la
custodia del cardinale di Cortona, il quale governassi come aveva fatto Giuliano e Lorenzo
e lui.
Ruberto Acciauoli, Francesco Vittori e Lorenzo Strozzi furono d'altra oppenione e
monstrorono non essere onorevole né utile per la città che a governo d'essa fussi uno
cardinale, et uno cardinale delle terre suddite a' Fiorentini; e che i cittadini erono stati
pazienti al governo suo e l'avevono avuto in reverenzia come Iulio de' Medici e non come
cardinale; e che non interverrebbe così a Cortona, il quale attenderebbe a vivere giorno per
giorno e non arebbe affezione alla città; e che se voleva mandare Ipolito a Firenze, lo
mandassi, el quale attendessi a studiare et altri suoi piaceri, insino che fussi d'età che si
potessi conoscere se era atto al governo o no; e che in questo mezzo lasciassi governare la
città a' cittadini col fare uno gonfaloniere per uno anno, nel quale egli confidassi, e così si
seguitassi insino non si pigliassi altra forma. Et a questo modo egli potrebbe disporre della
città et a' cittadini parrebbe tenere il grado loro.
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Clemente udì l'oppenione di ciascuno, ma in fine la maggiore parte vinse la minore, e
forse la migliore. Venne il cardinale di Cortona a governo e, dopo qualche settimana,
Ipolito.
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In Lombardia, poi che l'essercito franzese fu ritirato e si fermò a Biagrassa, e' Cesarei
pensavono il modo di cacciarli e disegnavono fare ponti in sul Tesino e vie e trincee da
impedire loro le vettovaglie e andarli a combattere con gran vantaggio. E però non
iudicando l'Ammiraglio che l'essercito suo vi stessi sicuro, lo ritirò di dal Tesino verso
Noara.
Avevono li cavalli et uomini suoi, stando intorno a Milano l'autunno passato e parte
del verno, patito assai, onde l'essercito suo era attenuato molto di forze, e però lui con
grande instanzia domandava al suo Re e nuove genti e nuovi danari. E Francesco, con
celerità, preparava di provedere a quello li era domandato, e già nuovi Svizzeri erono a
Ivrea e nuove lance a Susa. Ma sendo passati e' Cesarei ancora loro il Tesino, trovorono e'
Franzesi nello alloggiare in qualche disordine. Et in una piccola scaramuccia, volendo
[41v] l'Ammiraglio tenere fermi i suoi, fu ferito di ferita pericolosa e bisognò ne fussi
portato a braccia. E per questo e' suoi, inviliti, si missono in fuga e tutto l'essercito si
risolvette in fummo.
E così una prudente et iusta e bene ordinata impresa ebbe infortunato essito.
Sollecitò subito Borbone il Viceré e marchese di Pescara che conducessino l'essercito
imperiale vittorioso in Francia e non lasciassino ripigliare il fiato al Re. E furono tante le
sue persuasioni, che l'essercito imperiale si condusse per terra in Provenza. Clemente,
ancora che dovessi desiderare che la guerra uscissi d'Italia, dubitava, come buono
Pontefice, ch'el regno di Francia non fussi da' Cesarei trovato sprovisto e patissi qualche
grandissimo danno, e s'ingegnava, quanto poteva con le parole, ritenere e' Cesarei dal
passare in Provenza, monstrando che, se si conducessino e non facessino effetto,
arebbono fatica a potersi ritirare e ne potrebbe seguire la destruzione di quello essercito, la
quale si potrebbe poi tirare drieto la totale ruina di Cesare in Italia, e forse altrove.
Il Viceré e Pescara non erono alieni da questa oppenione, ma avevono ordine da
Cesare di credere in questo a Borbone il quale, e per lettere e per uomini a posta, li aveva
fatto intendere di farlo in pochi giorni signore di gran parte di Francia. E quando il Viceré
e Pescara prolungavono l'andata, lui protestava che per esso non restava di non eseguire
quanto aveva promesso, e che loro erono causa di levare a Cesare la vittoria manifesta. E
tanto gl'infestò con prieghi, conforti e protesti che, come dissi di sopra, l'essercito andò in
Provenza per terra e l'artigliere s'imbarcorono a Genova e si condussono per mare drento
allo essercito dove ne era di bisogno.
Trovorono gl'Imperiali il paese senza provisione alcuna, li uomini imbelli e vili, e'
quali lasciavono a furia i luoghi deboli e si conducevono a' più forti. E però in pochi
presono molte terre e castelli, et, intra l'altre, Ais, capo della Provincia e dove si tiene il
parlamento, ché trovorono quella città quasi abbandonata. Ridussonsi poi a porre il campo
a Marsilia, dove era Renzo da Ceri per il Re, che la fortificò in pochi giorni, in modo che
potette sostenere per più giorni li assalti delli inimici.
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Francesco, avendo quasi perduto l'essercito in Italia [42r] e trovandosi assaltato in
Provenza, si volse a fare gran provisioni, e preste. Ma, non si potendo nel regno di Francia
fare numero di fanti buoni, fu forzato a ricercare Svizzeri et Alamanni li quali, secondo il
solito loro, non furono molto presti. Egli, in quel mezzo, attese a ordinare le genti a cavallo
e l'artiglierie e, come i fanti giunsono, con tutto l'essercito s'inviò verso Marsilia. Il che
come i Cesarei intesono, deliberorno non l'aspettare, ma subito voltare per tornarsene in
Lombardia.
Il Re, intesa la resoluzione dei nimici, avendo fatto grossa spesa e trovandosi buono
essercito, deliberò venire in Italia e pensò giugnere in Lombardia prima che gl'inimici,
perché essaminò che loro, avendo a fare la via per luoghi montuosi e dificili e per paese
inimico, fussino constretti tornarsene a piccole giornate. Li Cesarei, avendo avuto notizia
di questo suo disegno, affrettorono il cammino quanto potettono et a punto giunsono in
Alessandria, quando il Re in Noara. E passarono il Po e messono buona guardia in Pavia.
E Pescara e Borbone n'andorono volando in Milano, et il Viceré verso Cremona, perché
non si fidavano né de' Veniziani né del Papa.
Francesco, mosso da Noara, passò il Tesino, e andava con tutto l'essercito a Milano. Il
che come Ferrando e Borbone intesono, non confidando di quel popolo, si ridussono con le
loro genti verso Cremona, dove era il Viceré. Ma come Francesco lo intese, non volle più
seguire il cammino verso Milano, avendo dubbio, come buono e pietoso principe, non
potere riparare, entrandovi, che l'essercito suo non lo mettessi a sacco. E vi mandò solo
Teodoro Triulzio con dugento lance e dumila fanti, al quale il popolo di Milano subito si
dette. E così la troppa benignità di Francesco fece che non vinse la guerra, perché, se egli
andava a Milano e poi seguitava i Cesarei verso Cremona, li quali erano in fuga e
sbigottiti, loro erano necessitati o venire alla giornata con grande disavantaggio o
abbandonare tutto lo stato di Milano e salvarsi nelle terre de' Veniziani o del Papa. Ma
Francesco fu consigliato di vincere a passo a passo, si lasciare drieto Pavia, dove era
buona banda di inimici.
Era alla fine del mese d'ottobre, l'anno ventiquattro, quando il Re s'accampò a Pavia,
pensando in pochi [42v] ottenerla. Alla difesa di quella terra era capo Antonio di Leva,
spagnuolo, con circa mille fanti della medesima nazione e cinquemila Tedeschi. Il Re fece
piantare l'artiglieria e dare uno principio di battaglia, la quale successe poco felice. Et
avendovi posto il campo, non pareva se ne potessi levare con onore; e fu consigliato dalla
più parte delli suoi che stessi tanto intorno a quella città, che la pigliassi col batterla o con
obsidione. Francesco era venuto in Italia con grandissima celerità et aveva, col pigliare
Milano in su la prima giunta, acquistato assai di riputazione, ma la espugnazione lenta di
Pavia cominciò a fargnene mancare.
E' Veniziani, che avevono fatto la lega con Cesare e con papa Adriano, poi che egli
era morto, dicevono che quella era finita e si stavano quasi di mezzo, e p presto
inclinavono a Francesco. Ma vedendo e' Cesarei rassettarsi, dubitando che 'l Re non
succumbessi, sumministrorono viveri a' Cesarei, e' quali, sanza essi, erono spacciati.
Clemente ancora, sendo ricerco di danari dag[l]'Imperiali e negandoli perché non aveva,
dubitava non essere venuto loro sospetto et arebbe volentieri penduto dalla parte di
Francesco. Nondimeno non ardì fare se non il medesimo che i Veniziani.
126
Andando l'obsidione di Pavia in lungo, Francesco fu confortato a mandare una parte
delle genti sue verso il Regno di Napoli, acciò che li Cesarei avessino a lasciare lo stato di
Milano e ritirarsi verso il Regno. Il che se facevono, il Re aveva lo intento suo, se non lo
facevono, era possibile che nel Regno seguissi alterazione di sorte, che li Cesarei non ne
potessino trarre danari da nutrire l'essercito. Ma non poteva mandare questa gente senza il
consenso del Papa, perché non era tanta che si potessi guadagnare il passo per forza, et era
constretta passare per le terre de' Fiorentini e della Chiesa. E per questo, per opera
d'Alberto conte di Carpi, oratore del Re a presso a Clemente, si concluse convenzione tra il
Re e Papa, solo quanto a questo: che il Papa la lasciassi passare, pagando quello aveva
bisogno, e senza offendere terra alcuna de' Fiorentini sue. Et il Papa stimò certo, che
come questa gente del Re si metteva in cammino, che gl'Imperiali si dovessino ritirare
verso Napoli, onde seguirebbe che Francesco, senza altrimenti combattere, diventerebbe
signore di Milano e Carlo si terrebbe [43r] il Regno di Napoli, e ciascuno di loro arebbe
cura che l'altro non diventassi maggiore in Italia, acciò non fussi più potente a offenderlo.
Mandò adunque Francesco il duca d'Albania con dumila cavalli e tremila fanti. e'
Cesarei, per intendere che si movevano, si partirono per ritornare nel Regno, ma attesono
a prepararsi per andare a combattere l'essercito del Re, che era intorno a Pavia e stava in
quel luogo con gran dificultà, per essere basso e pieno d'acqua e per essere il verno più
piovoso che il solito.
1525
Albania passò con le genti sopradette per la Carfagnana in Toscana e dai Lucchesi
ebbe qualche suvvenzione di danari e d'artiglierie. Poi, passato pel paese de' Fiorentini,
entrò nel Sanese e si posò intorno a Siena, volendo ridurre quella città a un governo da
poterne disporre. E lo rassettò alquanto, ma non fece quello credette. Andò dipoi verso
Roma et entrò nelle terre delli Orsini, amici del Re. E quivi aspettava danari, per dare a'
fanti aveva e fare di nuovo delli altri, per entrare più gagliardo nel Regno.
E' Cesarei, conoscendo il pericolo che soprastava loro nel Regno, iudicorono che
quello che s'aveva a fare in Lombardia bisognassi farlo presto, e si mossono da Cremona
per andare a trovare e' Franzesi.
Non restava Clemente di confortare il Viceré e Francesco a accordarsi e mandò, per
questo effetto, Ioan Matteo Ghiberti, suo datario, al Re, et al Viceré Paulo Vittori,
fiorentino, el quale aveva avuto, a tempo di Leone, la cura delle galee e l'aveva a tempo
suo. Ma non potette fare effetto alcuno perché Borbone, el quale si persuadeva dovere
essere duca di Milano, impediva ogni trattato.
Andorono gl'Imperiali inanzi e presono per forza Santo Agnolo, castello vicino al
campo franzese a miglia venti, dove era preposto alla guardia Pirro Gonzaga, fratello di
Federigo. Questa presa dette arra della vittoria de' Cesarei, che crebbono assai d'animo e
s'accostorono al campo franzese a dua miglia e quivi feciono loro alloggiamenti. Et in una
scaramuccia, un giorno, fu ferito da' Cesarei Giovanni de' Medici d'uno archibuso in una
gamba, il quale aveva nello essercito franzese condotta di dumila fanti e cento lance.
Questa ferita fu d'importanza grande perché egli fu forzato a farsi condurre per barca a
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Piacenzia, e non era il più ardito capitano tra li soldati di Francesco che lui e sotto il quale i
fanti combattessino più volentieri. [43v]
Stettono li campi così qualche giorno presso l'uno all'altro, et ogni giorno si faceva
qualche leggiere scaramuccia; et i Franzesi avevono grande disavantaggio, perché erano a
campo a una terra che aveva in corpo più che semila buoni uomini per combattere et
avevono, a rincontro, uno essercito di numero e valore equale a il loro, e bene capitanato. E
benché il Re, cognoscendo queste cose, più volte proponessi in consulta che era da ritirarsi
a Binasco, li più del suo consiglio dissuadevono tale partito, iudicando essere grande
ignominia levarsi da una terra sanza vittoria dove la persona del Re fussi stata più che tre
mesi.
E mentre che i Franzesi erano in queste dispute del ritirarsi o no, Ferrando, capo de'
fanti ispagnuoli, cognoscendo non li potere più intrattenere con le parole e non avere
ordine di danari presti, deliberò tentare la fortuna. E la mattina di Santo Mattia, alli
ventiquattro di febbraio, assaltò il campo franzese dua ore avanti giorno. I Franzesi, inteso
lo assalto, corsono alla difesa et insisterono molte ore. Et ancora che quelli di Pavia
uscissino fuori, e' Cesarei non erono superiori. Ma crescendo del continuo il numero de'
fanti, de' quali in fatto gl'Imperiali avanzavono e' Franzesi, Francesco fece comandare alla
banda de' Svizzeri, che stava da parte in ordinanza per rispetto, che lo venissi a soccorrere.
I Svizzeri o per timore dell'artiglieria, perché avevono a passare dove la terra batteva, o
per qualsivoglia altra causa, non vollono venire. Di che seguì che, dopo che li altri fanti e
cavalli de' Franzesi ebbono fatto una gagliarda resistenzia, in fine, superati dalla
moltitudine, furono forzati a succumbere.
Il Re combatté tutto giorno valentemente et in ultimo si poteva salvare tra li Svizzeri,
che restavono interi e così se n'andorono, ma volle più presto essere prigione o morire, che
salvarsi tra quelli che non l'avevono voluto aiutare in tanto bisogno. E dopo che ebbe
combattuto molte ore sendogli suti morti d'intorno molti arditi cavalieri delli suoi, sendoli
suto ferito il cavallo nelle gambe e per tal ferita caduto, fu fatto prigione dal Viceré.
La qual cosa io non iudico punto ignominiosa, perché la guerra consiste assai nella
fortuna et il più delle volte si vince e [44r] perde, secondo che quella ne dispone. Et uno
capitano, che ordina bene la battaglia e poi combatte con prudenzia et animo, ancora che il
successo non sia buono, non è da biasimare. Ma si possono bene e debbono dannare quelli
principi e' quali, standosi per le camere in ozio, danno la cura ad altri delle guerre, le quali
pigliano senza necessità, non si curando se li popoli sono rubati e straziati. Questi, quando
bene ottenghino le imprese desiderate, meritono assai più calunnia che laude.
La vittoria de' Cesarei fece che tutto quello che Francesco aveva preso nello stato di
Milano subito ritornò a loro e Milano a Francesco Sforza, perché, come Teodoro Triulzio
ebbe la nuova della rotta, fece armare le sue genti e con esse s'uscì di Milano, e salvolle in
Piemonte.
Il Re, fatto prigione, fu condotto nella fortezza di Pizzicatone, a custodia di Larcone,
uno de' capitani spagnuoli, così uomo da bene e valente quanto ne fussi uno altro intra
essi. E' Cesarei, elati per questa vittoria, minacciavano e' Veniziani, il Papa et e' Fiorentini e
non si contentavono molto del duca di Milano. E feciono passare parte di loro genti in
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Piacentino e Parmigiano, dicendo volerle fare poi passare in Toscana per andare a trovare
il duca d'Albania, che era nelle terre delli Orsini, presso a Roma. Il Papa era confortato da
qualcuno di dare danari a detto Duca e soldare altri fanti, unirsi co' Veniziani, reintegrarsi
con Ferrara, con restituirli Modona, farlo capitano e fare a' Cesarei nuova e grossa guerra.
Ma sappiendo lui quanti pochi danari aveva, quanti pochi ne poteva provvedere, quanto e'
Veniziani pensino al caso loro proprio et imbarchino altri e poi, avendo la città sicura dal
sacco, si ritirino e non faccino le provisioni necessarie, sappiendo che avevono per
capitano il duca d'Urbino, del quale non poteva confidare, né volendo restituire Modona
al duca di Ferrara, ma pensando più presto riavere Reggio, il quale detto Duca aveva
preso nella sede vacante dopo papa Adriano, e tenendosi in questo molto iniuriato da lui,
perché il Duca era convenuto restituirlo a Clemente, con certe convenzione, ma come
intese che il re di Francia era in Italia, si ritirò dalla promessa, in effetto, Clemente volle
più presto accordare di dare agli Imperiali ducati centomila con certe condizioni, le quali
Cesare doveva ratificare, che attendere [44v] a nuova guerra.
Pagarono e' sopradetti danari in gran parte e' Fiorentini. Non che Clemente non
volessi pagarli lui, ma non aveva e non trovava modo a provederne, temendo d'aggravare
e' sudditi della Chiesa in tanta grandezza degl'Imperiali. E' quali, ancora che avessino li
centomila ducati, non levorono le genti delle terre della Chiesa né pensorono di fare
rendere Reggio al Papa, secondo il convenuto, ma convennono di nuovo con il duca di
Ferrara, et ebbono certa somma di danari. venne mai da Cesare la ratificazione delli
capitoli che li suoi avevono fatta col Papa. Vennono bene buone lettere et uomini che
pascevano il Papa di speranza.
Erano li Cesarei dubbi dove avessino a tenere il Re prigione perché, tenendolo in
Pizzicatone, erono constretti a tenerli gran guardia e non potevano disegnare di fare con il
loro essercito fazione alcuna di scemare spesa. Et ancora che in Italia non avessino
inimici scoperti, perché il duca d'Albania, per mare, con li suoi s'era ritirato in Francia,
pure non si fidavono del Papa de' Veniziani, né del duca di Milano né, per dire in una
parola, d'alcuno italiano. vedevono il modo da mandarlo in Ispagna perché i Franzesi
erano più gagliardi in sul mare di loro; e pareva si risolvessino più presto a condurlo per
mare a Napoli et il Viceré, che in fatto era quello in cui era l'auttorità, diceva volerlo
condurre a Napoli.
Il Re arebbe voluto condursi in Ispagna, stimando avere migliori patti da Carlo e
trovare ppietà in lui che nelli suoi. E manin Ispagna monsignore di Memoransì, in
cui aveva tutta la sua fede, per ottenere da Cesare d'essere condotto e, per tôr via la
difficultà a Cesare di non avere galee, li fece offerire che le sue, che erono a Marsilia,
servirebbono a questo effetto, e che il Viceré, per sicurarsene, potrebbe levarne li uomini
Franzesi e mettervi delli suoi.
Carlo, al quale pareva gran gloria che uno re di Francia venissi prigione in Ispagna,
rimesse tutto questo negozio al Viceré. Lui, elato di condurre prigione uno tanto principe
iinanzi al suo Signore et ancora desiderando satisfare al Re, si volse condurlo in Ispagna,
sanza conferirlo a Borbone a Pescara che credevono che, quando il Vicelo levò di
Pizzicatone per condurlo a Genova, lo dovessi poi fare imbarcare quivi per Napoli. Ma
egli, come l'ebbe in mare [45r], fece voltare le galee al cammino di Barzalona e sei galee del
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Re vennono da Marsilia a incontrarlo, secondo aveva ordinato Memoransì, in su le quali il
Viceré fece montare uomini suoi. Et in pochi giorni tutta questa armata arrivò a Barzalona.
Pescara e Borbone rimasono tanto male contenti, quanto non si potrebbe scrivere, e
Pescara, al quale infatto pareva avere dato la vittoria a Cesare, sfidò il Viceré a battaglia
chiamandolo traditore.
Clemente, oltre a essere male satisfatto delli Cesarei perché non li era ottenuta cosa
alcuna del convenuto, era tutto giorno sollecitato da' Veniziani di collegarsi con loro; e la
madre del Re lo stimolava con uomini e lettere, promettendoli cose grandi. Il duca di
Milano, che aveva molto sopportato in questa guerra, quando credette avere la investitura
libera del ducato da Carlo, intese che era venuta nelle mani del Viceré, ma con condizione
che non li fussi data, se non pagava ducati secentomila per le spese della guerra e
s'obligassi poi a dare ciascuno anno a Ferrando, fratello di Cesare, ducati quindicimila, e
che dovessi pigliare e' sali da detto Ferrando per tutto lo stato.
Condizioni insopportabili e le quali dimonstravono aperto l'animo di Cesare essere
che quello stato restassi a lui, per disporne come li venissi a proposito e darlo o a
Ferrando, suo fratello, o a Borbone. El quale era ito ancora lui da Cesare e, per potervisi
condurre, era stato servito da Clemente di buona somma di danari e di due sue galee. E fu
accolto da Carlo con grande onore e con manifeste dimostrazioni d'amarlo.
Era rimasto in Italia Ferrando Davalo, el quale il Papa, i Veniziani, duca di Milano,
tutti male satisfatti di Cesare e timidi della sua grandezza, cominciorono a tentare da lungi
con metterli inanzi alli occhi le fatiche sostenute, e' pericoli corsi, la vittoria acquistata per
sua virtù, e nondimeno la poca remunerazione ne riceveva, e che il Viceré, come
trionfante, aveva condotto il re di Francia in Ispagna et era stato et onorato e commendato
da Carlo, e pure nella giornata non si era più adoperato che un semplice uomo d'arme. E li
feciono offerire che, quando volessi attendere, non li mancherebbono favori a farlo signore
del Regno di Napoli, monstrandoli la facilità.
Pescara porse nel principio orecchi a questi ragionamenti, ma, rivolgendoseli dipoi
nella mente, li parvono dificili a riuscire. Et essendo per nazione spagnuolo, ancora [45v]
che fussi nato in Italia, deliberò, con la destruzione di quella, diventare grande. E fece
intendere a Cesare tutto quello di che era stato tentato monstrandoli che tutti l'Italiani,
generalmente, l'odiavono, e che il modo di castigarli era non diminuire l'essercito che egli
aveva in Italia, ma accrescerlo e con esso rre lo stato al duca di Milano, ruinare il Papa,
Fiorentini e Lucchesi. De' Sanesi non parlava perché, morto Raffaello Petrucci, cardinale,
che governava quello stato, v'entrò, col favore del Papa e delli Spagnuoli, a governo Fabio
figliuolo di Pandolfo; el quale sendone per dissensione civile cacciato, dopo molte
alterazioni che ebbe quella città, Alessandro Bichi vi era venuto in gran riputazione. Ma
sendo in oppenione di tenere le parti franzesi, quando il Re fu rotto e preso, lui fu da certi
populari morto, e ne furono cacciati di Siena tutti li uomini più nobili e ricchi e si ridusse
la città a essere imperiale e ghibellina, come è quasi stata sempre.
Poi voleva assaltare i Veniziani e tôrre loro tutto lo stato di terraferma, e ridurli a
pigliare quelle condizioni che li piacessino. egli voleva fare questo per affezione che
avessi a Carlo o per non li mancare di fede, ma cognoscendo Cesare non essere uomo di
guerra, pensava, col nome suo e con li suoi danari, acquistare tanto di riputazione
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vincendo, che tutto quello avessi guadagnato in nome di Cesare, facilmente potrebbe
ridurre a sé. Et era tanto superbo e tanto odio portava al nome italiano, che, per colorire
questo suo disegno, non si curava mettere in pericolo lo stato del patrone et essere causa
della ruina di tutti i popoli d'Italia.
Carlo, inteso il discorso e consiglio di Pescara, lo approvò e, per scoprire meglio
ciascuno, li commisse che tirassi inanzi le pratiche, tanto che avessi qualcosa in mano per
la quale potessi procedere con più pretesto di ragione. Il Papa et il duca di Milano
facevono tenere questo maneggio a Ieronimo Moroni milanese, uomo astutissimo e che
più volte aveva mutato mantello: e quando era suto franzese, e quando sforzesco, e
quando imperiale, e d'ogni mutazione era uscito con più sua grandezza.
Pescara, quando gli parve avere tanto da costui che gli bastassi, un giorno che egli lo
andava a vicitare a Noara e conferire certe cose per parte del suo Duca, lo fece prigione e
lo fece confessare tutte le pratiche e del Duca, Veniziani e Papa.
Il che come il Duca intese, si ritirò [46r] nel Castello di Milano, el quale molto tempo
inanzi li era pervenuto nelle mani perché li Franzesi che vi erano a guardia, constretti dalla
fame, dopo lunga obsidione, gnene dettono. E la città, per detta ritirata del Duca, restò
tutta a discrezione de' Cesarei, dove Pescara corse subito e, contro alle promesse che fece a'
Milanesi, vi condusse quasi tutte le genti a piè et a cavallo, che egli si trovava in
Lombardia.
Et essaminato diligentemente il Morone, gli fece dire quello sapeva e quello non
sapeva e manl'essamina in Ispagna a Cesare, confortandolo a insignorirsi d'Italia per
forza e non per accordo. E fece le trincee intorno al Castello di Milano, come vi erano state
fatte altra volta quando vi erono e' Franzesi dal signor Prospero.
Clemente, trovandosi scoperto d'avere tentato contro a Carlo, stava di malo animo. E
benché il Morone non potessi monstrare del Papa altro che parole, erono tante e con tanti
verisimili che, aggiunte alla mala disposizione che aveva Carlo e Pescara verso lui,
bastavano.
E del continuo si tenevono pratiche tra Luisa madre del Re, Veniziani e Papa di
collegarsi. Pure Clemente iudicava partito molto pericoloso convenire con Luisa, mentre
che il figlio era prigione, perché, sendoli madre, come Carlo avessi offerto liberarlo, arebbe
rotto ogni convenzione.
Francesco, poi che fu condotto in Ispagna, credette potere parlare a Carlo e farlo
inclinare alle condizioni convenienti, ma non li riuscì, perché fu condotto a Madrid, presso
alla corte a venti miglia, e quivi molto bene guardato. E benché più volte dimandassi di
potere fare riverenzia a Cesare, mai li fu concesso. Di che prese tanto dispiacere, che
ammalò e si ridusse in termine, che fu disperato dalli medici. Et allora Cesare, sappiendo
che stava in modo da non potere parlare di convenzione, l'andò a vicitare e lo trovò che
aveva più presto bisogno di raccomandare l'anima a Iddio, che il corpo a lui; e lo confortò
con buone parole, dandoli ottima speranza.
Della quale visitazione il Re prese tanto conforto, che incominciò a stare meglio e del
continuo seguitò, insino che guarì, ma con lunghezza. Et instava con spesse imbasciate e
lettere appresso a Cesare che si venissi alla conclusione della sua liberazione. E perché
seguissi più presto, fece venire in corte di Cesare Margherita, sua sorella vedova, credendo
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che ella avessi a facilitare le convenzioni, le quali si cominciorono a disputare. Et intra le
prime cose, Carlo dimandava la Borgogna; Francesco diceva ch'ella non [46v] se li
aspettava di ragione, e che per suo riscatto era conveniente pagassi danari e quella somma
che era solito pagare altra volta el re di Francia, quando era suto prigione. E monstrava
ch'el re Giovanni s'accordò di pagare, per suo riscatto, al re d'Inghilterra un milione di
scudi, e che egli voleva pagare il medesimo, e che, quando la ducea di Borgogna se li
aspettassi di ragione, era contento fargnene restituire, ma, quando non se li aspettassi,
fussi contento non li fare questo carico appresso a' popoli suoi, e' quali, sendo lui prigione,
non si disporrebbono a volere che per suo riscatto alienassi i principali stati del Regno.
E dopo molte parole che andorono a torno, rimasono che Francesco facessi venire di
Francia dua eccellenti iureconsulti, e' quali disputassino col cancelliere di Cesare se la
Borgogna s'aspettava a Carlo, come erede del duca Carlo, suo bisavo materno. E' quali
vennono e monstrorono chiaramente al cancelliere, et a ciascuno che lo volle intendere,
che le ducee di Francia, che sono sotto la legge Saliqua, che così si chiama, non si
transferiscono nelle femmine perché, quando è occorso che un re di Francia abbi più figli,
il primo, per l'ordinario, ha il Delfinato, l'altro il ducato di Borgogna, l'altro d'Orliens, di
Berri, di Borbone, d'Angolem e d'altri ducati, secondo la quantità de' figli avessi; e, subito
mancato la linea masculina, tali stati sono ritornati alla corona di Francia, perché, se
fussino iti nelle femmine, come elle si fussino maritate fuori del regno, arebbono tirati
quelli stati con loro et il regno presto sarebbe venuto a indebolire e distruggersi.
il cancelliere poteva rispondere a queste ragioni verissime, e pure Cesare insisté
sempre in volere detta Borgogna. Francesco per cosa del mondo la voleva consentire
perché conosceva che, cedendola, dava troppo grande adito a Cesare di distruggere tutto il
regno di Francia, e che si faceva troppa vergogna in modo che la pratica si ruppe e
Margherita si partì dalla corte dell'Imperatore, senza conclusione.
Pure il Viceré, il quale desiderava molto la liberazione del Re, non tanto per affezione
che li portassi quanto per l'odio che aveva a Borbone, propose di nuovo che Francesco si
contentassi restituire la Borgogna e pigliare per donna la sorella di Cesare, vedova, che era
suta [47r] moglie del re di Portogallo, la quale Cesare aveva promesso a Borbone, et ella
non si contentava molto di questo parentado. E monstrò il Viceré a Francesco che sarebbe
possibile che, seguito questo sponsalizio, la sorella potrebbe tanto operare col fratello, che
gli bastassi avere potuto riavere la Borgogna e non si curassi poi riaverla in fatto.
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Vennesi in fine a strignere e' capitoli e' quali per il Re furono strettissimi e si
monstrava che erono fatti in prigione perché [oltre] allo ubrigarlo a dare la Borgogna, vi
erano molte altre ubrigazione iniuste et inoneste. E perché Francesco avessi più causa
d'osservare, volle Cesare per statichi duoi suoi figli.
Fatti i capitoli, il Re venne alla presenzia di Cesare e li fu fatto quello onore se li
conveniva, pure era sempre ben guardato. Sposò la sorella di Carlo et, accompagnato dal
Viceré, si partì. E nella riviera vicina a Bajona il Viceré ricevette e' figli di Francesco e lui
lasciò libero. E questo fu del mese di marzo nel venticinque, al modo fiorentino. E venne il
Re a stare prigione circa mesi tredici. Ricercò il Viceré Francesco, poi che egli fu libero, che
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giurassi di nuovo e' capitoli fatti con Cesare e promettessi l'osservanzia, il che egli ricusò,
dicendo non volere farlo, se prima non consultava con li suoi.
Il Papa, intese tali convenzioni, subito espedì Paulo Vittori al Re, e per rallegrarsi
della sua liberazione e perché, quando lo trovassi inclinato a non osservare, li offerissi lega
e lo animassi a fare gagliarda guerra a Cesare. Il detto Paulo, sendo pure d'età d'anni
quarantanove e non molto sano, per la fatica durò a correre la posta, giunto in Firenze,
ammalò e morì. Onde il Papa seguitò in mandare Cappino da Mantova, che era stato in
corte di Cesare più mesi mentre il Re era prigione.
I Veniziani ancora vi mandorono uno secretario per fare il medesimo effetto. Enrico,
re d'Inghilterra, dubitando della troppa grandezza di Cesare e malcontento di lui perché,
avendoli dato più volte intenzione di tôrre per donna la figlia, aveva dipoi tolto la sorella
del re di Portogallo, mandò ancora suoi uomini a sollecitare Francesco al non osservare. El
quale arrivato a Bordeos in Guascogna e quivi trovato la madre e buona parte de' signori
del regno e l'imbasciadori e secretari sopradetti, concluse subito lega col Papa e Veniziani
per fare una gagliarda guerra a Cesare, accli restituissi i figli senza [47v] darli il ducato
di Borgogna.
Biasimano alcuni Francesco in questo atto di poca fede, et a me pare che egli facessi il
più generoso et eccellente atto che sia stato fatto da principe alcuno, non solo a' nostri
tempi, ma molte centinaia d'anni sono. lo voglio difendere con quella ragione comune
e vulgata, che è verissima, che li patti fatti in carcere sono fatti per timore e però non
vagliono e non si debbono osservare. Ma tutti li uomini sono ubrigati prima a Iddio e poi
alla patria. Francesco conosceva che, se egli non era libero, la patria sua andava in
precipizio e destruzione. E fece cosa molto conveniente a promettere assai con animo di
non osservare per potersi trovare a difendere la patria sua.
si può dire che egli promettessi perché lo stare ritenuto e quasi in carcere li
rincrescessi, perché, se l'avessi fatto per questo, non meriterebbe commendazione, perché
l'uomo debbe prima aspettare la morte che mancare di fede. Ma egli vedeva Carlo
potentissimo, vedeva la Francia, per la rotta che lui aveva avuto, nella quale si erono
perduti e' principali signori di quel regno, e per la presa sua, invilita et indebolita, e
considerava che se Cesare l'assediava, non vi era chi la difendessi, perché e' figli erono
piccoli e gli principi sarebbono stati in discordia tra loro di chi li dovessi governare. Et
iudicava non potere tenere altro modo a salvarla, se non questo che egli tenne. E se ancora
Carlo fussi voluto stare alla semplice fede e parola sua di quanto convennono insieme,
parrebbe, in un certo modo, si potessi dolere che egli fussi mancato di gratitudine, ma
avendo voluto i figli per obsidi, non ha causa alcuna di potersi iustamente querelare.
E ciascuno che intende sì prudente e nobile atto, come ho detto di sopra, lo debbo
estollere insino al cielo perché si può dire che Francesco, re di Francia, per liberare il regno,
abbi esposto li proprii e da lui tanto teneramente amati figli; e, se avessi fatto altrimenti,
meriterebbe grandissima riprensione perché si sarebbe potuto credere che egli amassi più
e' figli che la patria e che, per vivere in ozio et in piacere, non si curassi di quella: e li
piaceri, mentre era prigione di Cesare, non li erono per mancare.
Ma cosa avessi pensato bene al caso suo Clemente, come fece Francesco! E se bene
[48r] le azioni de' principi non debbono essere dannate o commendate secondo li effetti
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sortiscono, ma secondo sono cominciate e ordinate con ragione o no, il partito che prese
Clemente fu troppo animoso a un pontefice senza denari e che non può fare la guerra in
persona. È vero che lui, standosi, vedeva la ruina manifesta e, movendosi, pensò potersene
liberare.
Feciono lega, come è detto di sopra, nel principio dell'anno ventisei, Papa, re di
Francia e Veniziani, con intenzione di tirare presto in quella il re d'Inghilterra che così
promisse, allegando volere prima tentare, come neutrale, se poteva persuadere a Cesare
che restituissi e' figli a Francesco e che unissi tutta la Cristianità contro al Turco.
Carlo non aveva, in quel tempo, in Italia capi reputati nella guerra perché Pescara,
come ebbe mancato della fede a' Milanesi, infermò et in pochi giorni morì. Uomo che non
si può dire che nell'arme non avessi fatto qualche fazione eccellente, ma era superbo oltre a
modo, invidioso, ingrato, avaro, venenoso, crudele, senza religione e senza umanità, nato
proprio per destruggere Italia. E si pdire certo che del male che [ha] patito e patisce ne
sia stato in gran parte causa lui.
Il Papa e Veniziani, quanto più presto potettono, messono a ordinare le loro genti per
giungnere i Cesarei sprovisti. E cominciorono presto a muovere la guerra, che non fu
possibile che il Re avessi in ordine le genti che doveva mandare di qua da' monti. Il Papa
mandò Vitello Vitelli, Guido Rangoni, Giovanni de' Medici, el quale, benché avessi soldo
dal Re per cento lance, aggiunse dumila fanti. E fece suo luogotenente in questa impresa
messer Francesco Guicciardini e mandò in Francia nunzio al Re, per sollecitare le
provisioni, Ruberto Acciaiuoli.
Et i Veniziani messono insieme le loro genti d'arme e fanterie, sotto il duca d'Urbino,
e, senza dilazione di tempo, tutto l'essercito del Papa e Veniziani s'appresentò a Lodi alla
fine di giugno e quello prese per trattato d'uno italiano, capitano di fanti, che vi era alla
guardia. E di quivi si spinse a Milano con quindicimila fanti e circa quattromila cavalli. E
stimò certo il duca d'Urbino che gl'Imperiali che vi erano si partissino, impauriti del suo
essercito, che veniva con vittoria, e del popolo di Milano inimicissimo loro per li mali
trattamenti, e del Castello, nel quale era il Duca [48v] che era ancora lui nella Lega.
In Milano per Cesare erono capi il marchese del Guasto et Antonio di Leva, poi vi
erono altri buoni capitani spagnuoli et alemanni, e' quali avevono tolte tutte l'arme a'
Milanesi e mandatone fuori assai, e massime de' più giovani et animosi. Et avevono
ridotto in termine quella città che, quanto alli uomini della terra, non avevono dubbio
alcuno e determinorono aspettare che l'inimici li venissino a sforzare.
Il duca d'Urbino, poi che fu stato un giorno e quasi dua notte in sulle mura di
Milano, se bene vi poteva stare più, o per timidità o perché non avessi caro che la Lega,
nella quale s'interveniva il Papa, vincessi, senza conferire niente né a<l> Luogotenente del
Papa né a' suoi capitani, a mezza notte levò il campo, dicendo volersi ritirare solo quattro
miglia e quivi fermarsi insino venissino le genti franzese, e che, stando quivi col campo,
impedirebbe le vettovaglie a Milano. E con tutto quello diceva si ritirò a Marignano e
voleva la sera medesima ire a Lodi. Ma il Proveditore veniziano, persuaso da il
Luogotenente, non lo lasciò. Il campo si fermò a Marignano.
Et intanto s'intese che Borbone era arrivato a Genova con sei galee e che portava
ducati centomila perché Cesare, subito che ebbe notizia ch'el Re non voleva stare alle
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convenzioni, mandò il Viceré et Ilarcone a lui, perché lo persuadessino alla pace
ignominiosa e pericolosa. E commesse loro che, quando lo vedessino ostinato, cercassino
d'ottenere di passare in Italia. Ma intendendo che il Re non voleva concedere il passo, si
volse a mandare Borbone per mare. E mandò in Francia di nuovo don Ugo di Moncada,
perché venissi in Italia imbasciadore al Papa, il quale Francesco lasciò passare, non
volendo monstrare, nel principio della Lega, diffidare del Papa.
Borbone, arrivato a Genova, prese il cammino verso Alessandria, accompagnato da
cinquecento fanti. E di quivi una notte entrò in Milano e dette grande animo agli
Spagnuoli e Tedeschi, massime perché pensorono portassi più danari non portava.
Li oratori del Papa e Veniziani sollecitavono tuttogiorno il Re che almanco, per
riputazione della impresa, mandassi le genti a cavallo. E lui mandò il marchese di Saluzzo
non solo con secento lance, come era ubrigato, ma li aggiunse quattromila fanti. E già
cominciavono [49r] a comparire a Susa, quando il Castello di Milano, e per uomini e per
cenni, fece intendere nel campo della Lega che non si poteva tenere se non era soccorso,
perché non aveva da vivere. Fu messo in consulta più volte tra' condottieri della Lega se si
doveva soccorrere o no; e quasi tutti s'accordorono che si doveva e poteva fare senza
pericolo, eccetto il duca d'Urbino el quale diceva non confidare tanto ne' fanti italiani poco
esperti, che gli volessi mettere a paragone con li Spagnuoli. Il duca di Milano, vedendo
non li venire soccorso, stretto dalla fame, s'accordò come potette e, sendo ammalato, si
ridusse prima in campo della Lega e poi a Crema.
Il Papa, come intese ch'el campo si era ritirato da Milano, discorse che la guerra
dovessi andare in lungo e che gli bisognava pensare d'avere da spendere. E non avendo da
trarre più vivi né più presti danari che di Firenze, considerò che i Cesarei
cercherebbono di mettere fanti in Siena per tenere e lui et i Fiorentini in sulla spesa di
quelle bande, acciò che non potessino sumministrare danari in Lombardia. E fu persuaso
che, se mandava i fuorusciti sanesi verso Siena, con qualche somma di fanti comandati, e
facessi che i Fiorentini conducessino qualche pezzo d'artiglieria verso Poggibonzi, che il
governo di Siena si muterebbe e vi entrerebbono li usciti, inimici a Cesare, e de' quali egli
potrebbe disporre.
Credette il Papa facilmente quello desiderava, e mane' conti dell'Anguillara e di
Pitigliano con circa quattrocento cavalli e quattromila fanti, tra pagati e comandati, et
ordinò che Gentile Baglioni venissi con altri dumila del Perugino et assaltassi circa mille
fanti sanesi, e' quali erano a campo a Monte Rifré, castello di Giovanni Martinozzi, uno de'
primi usciti, e vi avevono condotto artiglieria per batterlo. Gentile, perché teneva le parti
Colonnese, non volle fare quello potette e dette spazio a' Sanesi di levarsi da campo dal
detto castello e salvare l'artiglieria et i fanti.
Poiché li usciti erono condotti quivi, come quelli che sempre col pericolo d'altri
cercavono tentare qualche cosa a loro benificio, feciono intendere al Papa che se loro con
quelli fanti s'accostavono alle mura e piantavono solo dua pezzi d'artiglieria, più per
dimonstrazione che per altro, che avevono tale ordine drento, che subito sarebbono
chiamati. Clemente, desideroso che tal cosa riuscissi, se bene conosceva [49v] di non avere
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capitani né fanti da potere sforzare Siena, si lasciò traportare a' consigli delli uomini
troppo passionati e permesse vi fussi messo il campo dalla parte che guarda verso Firenze.
Piantoronsi l'artiglierie, concorsonvi del paese de' Fiorentini tutti li uomini che si
dilettono di vivere di rapina e ciascuno attendeva a predare e rubare per quel contado. In
campo non era chi comandassi chi ubbidissi, non vi erano guardie, non scolte, non
luogo deputato per il mercato. Le quali cose, venute a notizia di quelli di drento, gli
feciono arditi, ancora che fussino pochi, a uscire fuori. Et il giorno di santo Iacopo
saltarono della terra trenta cavalli e quattrocento fanti; quelli di fuori erono più che
quattrocento cavalli e semila fanti. Nondimeno, trovandoli senza ordine, chi a rubare, chi a
dormire, chi a giucare, chi a bere, tutti li messono in fuga, mai fu possibile facessino
testa si fermassino insino non furono drento alla Castellina. Ruborono e' Sanesi
popularmente tutto il campo e con grande allegrezza e trionfo tirorno l'artiglierie delli
avversari in Siena.
Questa rotta dette grande sbattimento al Papa e la parte de' Medici in Firenze inviti
assai. E gl'inimici presono grande ardire e dicevono che il Papa voleva rimettere e' tiranni
in Siena e tôrre lo stato al popolo, e che Iddio aveva dimonstro non li piacere. E certi più
arditi dicevano che Iddio aiuterebbe ancora loro, quando tentassino. Ricevette il Papa
questa vergogna et a' Fiorentini, oltre alla ignominia, restò la spesa, perché sendo i Sanesi
sdegnati, e' Fiorentini erono constretti a guardare tutte le terre de' loro confini. Et era
impossibile che potessino contribuire alla guerra di Lombardia e guardare il loro paese.
Il campo della Lega in Lombardia si stava a Marignano, et attendeva a fare certe
leggieri scaramucce con l'inimici et ovviare che viveri non entrassino in Milano, dove era
penuria grandissima. Ma li soldati avevono ridotto quella povera città in termine che
nessuno uomo che vi fussi curava più di vivere, et a' soldati bastava avere che vivere per
loro e del popolo non tenevono conto alcuno e ne moriva ogni dì numero grande di fame.
Et essendo nel campo della Lega tante genti da potere tenere stretto Milano et ancora
fare qualche altra fazione a beneficio della impresa, si consultò tra li capitani quello fussi
da fare. Chi era d'oppenione andare verso Genova per mutare quello [50r] stato, e chi
voleva ire a Cremona. Vinse infine l'oppenione del duca d'Urbino, che era infatto quella
de' Veniziani, d'andare a Cremona. E vi andò, per capo delle gente vi si conduceva,
Malatesta Baglioni. La fortezza di Cremona si teneva per il duca di Milano e si credette da
principio potere entrare nella terra per la fortezza facilmente. Ma riuscì il contrario, perché
dumila fanti tra Tedeschi e Spagnuoli, che vi erono drento, feciono una difesa incredibile.
Durò quella espugnazione più che venti dì; andoronvi i migliori fanti che avessi la Lega,
andòvi in ultimo il duca d'Urbino e, con la morte di molti valenti uomini, fu presa, con
patti, però, che li fanti che vi erono drento, salvassino la roba e le persone.
Don Ugo, el quale io dissi di sopra che il Re lasciò passare per Francia per venire al
Papa, giunto che fu a lui e trovatolo ostinato a non si partire dalla Lega, perché in verità
non lo poteva doveva fare, se n'andò nel Regno e trattò con il cardinale Colonna (il
quale più mesi inanzi era partito di Roma sdegnato col Papa, perché gli domandava tutto
di cose inoneste et il Papa non le voleva fare) come gli potessino nuocere, e perché i signori
Colonnesi, non solo il Cardinale, ma quasi tutti li altri, stavono in sospetto del Papa et il
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Papa di loro. E spesso si facevono delle terre loro insulti a quelle del Papa e co pel
contrario. Et il Papa era necessitato a spendere per tenere fanti in Roma e nelle terre di
confini e non poteva reggere tanta spesa, perché aveva, oltre alla spesa di terra, quella di
mare, perché, dopo che fu morto Paulo Vittori, condusse Andrea Doria, genovese, con otto
galee e gli dava buona provisione.
E però e' Colonnesi erano certi che Clemente volentieri poserebbe con loro, quando
fussi sicuro, per levarsi da spesa. E ne li aveva fatti più certi il duca di Sessa, el quale era
stato quattro anni oratore a Roma per Cesare, e, quando cominciò la guerra, il Papa l'aveva
licenziato. Ma egli, partito, ammalò a Marino e domandò grazia a Clemente di potere
tornare a curarsi in Roma, dove in pochi giorni morì.
Ma in quel mezzo (per rendere merito al Papa della grazia li aveva concessa) fece
intendere a Don Ugo et a' signori Colonnesi in quanta penuria di danari si trovava il Papa
e quanto sarebbe facile ingannarlo sotto uno accordo, pure che s'avedessi d'alleggerire di
spesa. Venne adunque Vespasiano Colonna, figliuolo di Prospero, [50v]
in Roma, et
appiccò pratica con Clemente d'accordo, e in pochi dì la condusse; e dette la fede sua per il
Cardinale, e per li altri signori Colonnesi e per don Ugo, che non offenderebbono lo stato
della Chiesa. E cosí il Papa promesse non offendere li stati de' Colonnesi il Regno di
Napoli. E credette tanto a questa fallace triegua, che subito si disarmò e settecento fanti,
che gli restavono in Roma, gli mandò a Andrea Doria per metterli in Port'Ercole e nelle
maremme di Siena.
Come il cardinale Colonna intese che il Papa era disarmato e si fidava, subito ordinò
ingannarlo. E fatto tutto intendere a don Ugo, giunsono insieme a dosso a Vespasiano a
Fondi, e lo invilirono, e gli monstrorono che per servizio di Cesare, loro signore, era lecito
mancare di fede e fare ogni altra cosa, pure che si vincessi, e con prieghi e con minacci lo
tirorono nella volontà loro. E condussono dumila fanti del Regno e ne ordinorono assai
delli altri comandati delle terre de' Colonnesi. E con cavalli, pure del Regno, il detto
Vespasiano et Ascanio Colonna et altri signori, che seguivono la loro fazione e don Ugo,
vennono verso Roma. Et in un dì et una notte camminorono circa sessanta miglia e
giunsono alle porte di Roma a' dicianove di settembre, che erono circa ore quattordici,
et entrorono drento per la porta di Santo Ianni. il Papa lo intese se non quando furono
fermi in Colonna alle case loro a rinfrescarsi. Né li occorrendo potere fare rimedio presto et
intendendo ch'el popolo di Roma, sendo stato giunto sprovisto, stava come attonito,
ordinò di soldare certi fanti e fece capitano d'essi Stefano Colonna, inimico alli altri
Colonnesi, e pensò con questi tenere il Borgo.
Già li inimici venivono in ordinanza per Ponte Sisto e poi inverso il Borgo, per la via
che passa inanzi al palazzo d'Agostino Ghigi, e Stefano Colonna, con quelli pochi fanti che
aveva potuto ragunare in sì breve tempo, con franco animo difendeva quella porta. Ma
gl'inimici salirono il monte e, per il muro rotto e senza riparo e senza difesa, riuscirono
nella vigna di Santo Spirito sopra il capo di Stefano. Onde egli fu constretto abbandonare
la porta con qualche uccisione delli suoi e tutto il resto delle genti inimiche entrorono
drento per quella porta e se non che attesano a mettere a sacco dove prima potettono,
giugnevono il Papa in palazzo con alcuni cardinali, e' quali erono concorsi da lui in su
questo romore. [51r] Il Papa, confortato e pregato da molti che si partissi di palazzo, non lo
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voleva fare, pure, quasi forzato da Filippo Strozzi, pel muro doppio si salvò in Castello
con li cardinali che erano seco et altri amici e servitori.
E' Cesarei e Colonnesi messono a sacco i palazzi, le case e botteghe di Borgo, il
Palazzo tutto e la chiesa di San Pietro, cosa che alli Turchi sarebbe paruta impia e crudele:
che si potevono vedere portare per il Borgo i paramenti da dire le messe, le croci, e' calici,
li arazzi da ornare le chiese e, non che altro, quello poco d'argento e oro in che solevano
stare incluse le reliquie sante.
Ridotto che fu il Papa in Castello, don Ugo, che non confidava molto nel cardinale
Colonna e conosceva trovarsi con pochi delli suoi in mezzo d'uno gran popolo, el quale, se
si fussi svegliato, li arebbe potuto nuocere assai, cercò di parlare all'arcivescovo di Capua,
che s'era ritirato col Papa in Castello. El quale, ancora che Clemente solessi confidare assai
in lui, poiché aveva principiato la guerra perché era tedesco, per non dare sospetto ai
collegati, non intendeva tutti i secreti come prima.
Venne don Ugo a parlamento con detto Arcivescovo, el quale andò e tornò più volte
dal Papa, et in ultimo condusse don Ugo in Castello e, per sua sicurtà, andorono in
Colonna i cardinali Cibo e Ridolfi. Don Ugo, venuto alla presenzia del Papa, escusò il fatto,
monstrando non essere proceduto a questo per offenderlo, ma per difendere gli stati di
Cesare, ma, che se egli si voleva spiccare da' collegati e non s'impacciare più di guerra e
perdonare a lui et a' Colonnesi la iniuria ricevuta, che ritrarrebbe subito le genti e
lascerebbe Roma libera, ma che della osservanzia voleva sicurtà.
Il Papa, vedendo il popolo di Roma stare a vedere il giuoco e non cognoscendo modo
da cacciare li avversari se non con chiamare genti in suo soccorso, le quali non potevono
essere preste, e dubitando che don Ugo et i Colonnesi non ne chiamassino ancora loro, che
sarebbono state più preste perché erono più vicine, e che non si facessi una confusione di
qualità che Roma andassi tutta in preda, fu contento cedere a quello che volle don Ugo,
con animo però di non osservare cosa che promettessi, perché, sendo forzato, non era
tenuto. E dette statico per la osservanzia Filippo Strozzi. E si feciono e' capitoli di questa
triegua (che così la chiamorono) in fretta [51v]
e non ebbono, a beneficio de' Colonnesi e
don Ugo, parole che esprimessino bene la intenzione loro. Ma chi è in sull'arme non
guarda queste cose per il sottile.
Partironsi don Ugo et il cardinale Colonna e ne menorono tutte le genti che vi
avevono condotto e promissono restituire la preda e ne menorono Filippo Strozzi. E prima
che partissino delle terre della Chiesa, vollono che il Papa scrivessi alli capitani, che aveva
nel campo della Lega, che si ritraessino, et a Andrea Doria, che strigneva Genova con
l'armata, che si levassi e si riducessi a Civitavecchia. Il Papa, benché malvolentieri, fece in
quel principio tutto.
Come in Firenze s'intese il caso, quelli che iudicono delli eventi, che infatto sono e'
più delli uomini, dannavono Clemente di poca prudenzia e di poco animo. E li Otto di
Pratica, che erono quelli che avevono il pondo del governo della città, cominciorono a
dubitare, che volendo seguitare in osservare e' suoi ricordi, non andare alla ruina
manifesta. E partirsi da lui non volevono, per la reverenzia et affezione li portavono, et
ancora perché la città non si poteva discostare dalla volontà sua senza mutazione di stato,
nella quale la ruina delli amici de' Medici era certa e di quella della città s'aveva poco da
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dubitare. Però mandorono subito Francesco Vittori a farli intendere e ricordare con
riverenzia che loro desideravono, avanti che egli si risolvessi, saperlo, per potere
consultare e deliberare, et ancora a ricordarli che avessi riguardo a non li caricare troppo
di spesa perché, sendo incominciata a mancare la riputazione a' cittadini, non si potevono
strignere come si era fatto qualche altra volta.
Clemente, udita questa proposta, gli dispiacque ma, avendo Francesco per
confidente, pensò gli dicessi queste cose per affezione e perché conoscessi così essere a
proposito, et avendolo ancora per troppo respettivo, non credette che le cose in Firenze
fussino in tanto pericolo, quanto egli dimonstrava; e stimando quello che era, che il caso
successo a Roma de' Colonnesi li avessi tolto assai reputazione, et iudicando che i
Fiorentini, come inclinati a Francia, avessino per male che egli si partissi dalla Lega,
deliberò tornare in sulla guerra come prima. Nondimeno la triegua con don Ugo fu fatta a
ventuno di settembre e la fama volò per tutto. Il duca d'Urbino, capitano de' Veniziani,
si riposava volentieri [52r] et aggiunto che il Papa, fatto la triegua, richiamò le sue genti,
fermò la guerra, e gli bastò avere preso Cremona a patti e, quando doveva andare o
mandare a Genova, egli andò a stare a Mantova con la moglie.
Il marchese di Saluzzo con le genti franzese si stava verso Asti, Guido Rangoni se ne
tornò a Modona, Vitello venne verso Roma e Giovanni de' Medici [solo con gli suoi si
mantenne in sul luogo].
Ma essendo il Papa da nuovi uomini del re di Francia e dei Veniziani confortato e
pregato di tornare nella Lega e fattoli promesse grande e promessoli, intra l'altre cose, che
il re d'Inghilterra lo soverrebbe di buona somma di danari, e detteli molte simili cose, le
quali parte riuscirono e parte no, e sendoli ancora in Roma gridato nelli orecchi da molti,
che in questo caso non mettevono altro che parole, che, se non si vendicava, poteva
deporre la mitera et andare mendicando come romito, e che mai fu pontefice tanto
vituperato quanto lui, onde, stimolato da tante bande, tornò in sulla guerra e lasciò stare
Giovanni de' Medici in campo con li fanti pagati da lui, e quando don Ugo se ne doleva,
diceva che Giovanni non era soldato suo ma del Re.
Fece ritornare Andrea Doria verso Genova e se ne escusava con dire che egli li aveva
domandato licenzia d'andare a aiutare la patria sua e che, secondo e' capitoli co' quali era
condotto, non gnene poteva negare. Fece venire Vitello et Alessandro Vitelli verso Roma e
circa tremila fanti, tra' quali ve n'erono mille Svizzeri, e ne soldò in Roma insino in
cinquemila e li mandò ad alloggiare nelle terre de' Colonnesi. E dolendosi li agenti di don
Ugo di questo, egli rispondeva che i Colonnesi erano suoi sudditi e che, volendo stare
guardato e non essere giunto sotto la fede, come l'altra volta, non poteva fare di non
alloggiare le sue genti nelle terre loro. E dopo molte proposte e risposte, che andorono di
qua e di là, si venne alla guerra aperta.
Il Papa fece ruinare qualche castello de' Colonnesi e privò in Consistorio il cardinale
Colonna delle degnità e benifici; e citò e' signori Colonnesi et altri capi che erono venuti
con loro in Roma. E nondimeno mandò l'arcivescovo di Capua a don Ugo a escusare tutte
queste cose e monstrare che non erono contro a' capitoli e ricercare che gli rendessi Filippo
Strozzi. Don Ugo usò buone parole, [52v] senza venire a conclusione, et intanto e'
Colonnesi feciono qualche somma di fanti e vennono verso le terre loro.
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D'Alamagna ancora, con qualche poca somma di danari mandata da Cesare, si mosse
Giorgio Transberg, capitano di fanteria, con quattordicimila buoni fanti, e' quali inviò
Ferrando duca d'Austria in favore degli Imperiali.
Di questi fanti si cominciò a parlare più mesi avanti, ma non si credeva dovessino
venire perché il re de' Turchi, questo anno medesimo, era venuto in persona con grande
essercito contro al re d'Ungheria e li aveva dato una rotta, della quale egli, fuggendo, era
affogato; et una gran parte de' signori ungari, così temporali come spirituali, era suta
morta: in modo che in pochi giorni il Turco era diventato signore di tutta Ungheria, e li
uomini che non erono stati presi, tutti erono fuggiti.
E mi è suto affermato da uomo degno di fede che, quando il Turco entrò in Buda, che
è la principale terra d'Ungheria, non vi trovò più che quaranta uomini. E si credeva che il
Turco volessi seguitare la vittoria e procedere contro all'Austria, provincia più bella e più
ricca e più atta a essere vinta, né si vedeva come don Ferrando vi avessi a potere resistere e
però non si iudicava che fussi possibile che mandassi fanti in Italia. Nondimeno il Turco
stette pochi in Ungheria, e per qual causa si fussi non si sa, ma non la volle tenere, e
lasciò solo guardati certi migliori castelli in sul Danubio, e de' prigioni, parte ne menò e
parte ne amazzò, et a gran giornate si ridusse in Constantinopoli.
E dove si pensava che dovessi nuocere a Ferrando, li giovò perché una parte di quelli
signori d'Ungheria, che restò viva, lo elesse re. E perché il re d'Ungheria morto era ancora
re di Boemia, fu eletto ancora re di quello regno, benché in Ungheria abbi di poi avuto
qualche dificultà col vaivoda di Transilvania.
I fanti tedeschi erano già vicini a Italia e, benché il re di Francia e Veniziani
pensassino provedere non passassino più oltre, il Re non fu a tempo et i Veniziani non
vollono, i quali alli passi stretti facilmente l'arebbono potuto fare, ma fuggirono il tirarsi la
guerra in casa. E si conobbe che lo intento loro era levare la guerra di Lombardia e
condurla in Toscana. Vennono dunque in Mantovano, [53r] dove il duca d'Urbino e
Giovanni de' Medici, con buona banda d'uomini a pet a cavallo, li seguitorno. El quale
Giovanni, [andando un giorno a speculare un sito dove i nimici s'erano fatti forti con
animo di tôrlo loro con gran lor danno], fu ferito d'un tiro d'un moschetto in una gamba
[ché di poco tempo innanzi avevono avuti certi pezzi d'artiglieria minuta dal duca di
Ferrara, senza che i nostri n'avessino notizia, e di questa] ferita in quattro giorni morì.
Come lui fu morto, il duca d'Urbino, che prima si vantava che li Tedeschi non
passerebbono il Po, subito, lasciate spargere le genti sue per il Mantovano, si ridusse a
Mantova; e loro, senza ostaculo alcuno, passorono il Po, non in su ponte ordinato, ma in
sulle barche, a cinquanta e cento per volta, e si missono tra Reggio e Modona.
Clemente, intesa la morte di Giovanni et il passare che avevono fatto i Tedeschi il Po,
cominciò forte a temere. E quasi in uno medesimo tempo ebbe nuove che il Viceré era
arrivato al porto di Santo Stefano, in quel di Siena, con ventitré navi, il quale aveva
combattuto con Andrea Doria e con Pietro Navarro in mare, vicino alla Corsica, e ricevuto
danno assai. Et intra li altri, li avevono affondato una nave, dove erono su cinquecento
uomini da guerra e qualche signore. Pure il vento levò la sua armata dinanzi alle loro
galee e male condizionata giunse a quel porto, dove non stette più che un perché,
avendo vento a proposito, andò a disbarcare e' fanti a Gaeta, e' quali si dicevono essere
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settemila tra ispagnuoli e tedeschi. Ma furono in quel viaggio tanto battuti dal mare, che
poco si poterono adoperare nella guerra che seguì poi.
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Clemente, vedendosi venire tanta gente a dosso e da più bande, et ogni disegno
succederli a rovescio, pensò di convenire col duca di Ferrara, el quale gli pareva lo potessi
aiutare a impedire che i Tedeschi non venissino in Toscana. E ne dette commessione a
messer Francesco Guicciardini, che era a Parma. Ma non fu a tempo, perché il Duca era già
convenuto con gl'Imperiali, che fu di gran momento in questa guerra.
Non si volle però, ancora che fussi ridotto in tanta estremità, risolvere a fare cardinali
per danari, allegando che non voleva, mentre era libero, potere essere notato di simonia.
Mandò bene a Firenze Vincenzio Duranti, secretario del cardinale de' Ridolfi, a fare
intendere a quelli cittadini che, sendo ridotti in tanti pericoli, provedessino a' casi loro in
quel modo iudicavono a proposito, senza avere rispetto alcuno a lui, perché non voleva in
modo alcuno che per conto suo la patria patissi. [53v] Arrivò detto Vincenzio a Firenze che
il Viceré era già partito da Santo Stefano et i Tedeschi avevono preso il cammino verso
Piacenza. E però il cardinale di Cortona, al quale pareva dolce cosa il comandare, non
volle che tal commissione fussi conferita.
Il Papa, non avendo modo di provedere danari perché, se bene Roma era la più ricca
città d'Italia, lui era venuto in sì poca riputazione, che non ardiva richiedere alcuno con
prieghi con minacci, e vedendosi la guerra a dosso di verso il Regno et intorno a Roma
dai Colonnesi, cognoscendo avere a guardare Piacenza, Parma, Modona e Bologna con
grande spesa, vedendo che, per essere il verno, non erono pervenire nuove genti di
Francia, vedendo ancora che Francesco et Enrico li porgevono qualche somma di danari,
ma non tale che fussi per bastare alla minima parte delle necessità sue, considerando
ancora che i Veniziani poco si movevano a darli sussidio con danari e genti, benché, per
sollecitarli, avessi fatto mandare da Firenze oratore a Venezia Alessandro de' Pazzi, suo
cugino et uomo dottissimo e prudentissimo, si voltò a tentare il Viceré d'accordo. Et
avendo appresso di sé uno spagnuolo, Generale de' Frati Minori, el quale Cesare gli aveva
mandato pochi avanti per pascerlo di speranza, con auttorità piena di comporre, ma
non senza il Viceré, lo mandò a Napoli per intendere l'animo suo. E soprastando a
rispondere più che non li pareva, mandò di nuovo l'arcivescovo di Capua, sotto colore di
visitazione. E l'uno e l'altro scrisse che trovava buona disposizione, ma, venendo a parlare
de' capitoli, il Viceré domandava tanti danari, che se il Papa li avessi avuti non bisognava
cercassi accordo, perché arebbe potuto facilmente vincere la guerra. Aggiugneva ancora il
Viceré che per pratica alcuna non voleva desistere una ora dalla guerra, credendo con
queste parole invilire il Papa: el quale si voltò a fare quelle preparazioni potette in tanta
scarsità di partiti e liberò Orazio Baglioni, el quale aveva tenuto in Castello più anni.
Venne Renzo da Ceri di Francia, Andrea Doria riordinò l'armata, mandò legato sopra
li fanti, che aveva a Prenestina, il cardinale Triulzio, il quale rividde le genti d'arme e
fanterie e le ridusse in assai buono ordine.
Il Viceré ordinò che le sue genti fussino tutte a Gaeta e di quivi si transferì verso
Pontecorvo, terra del Papa, [54r]
con ottomila fanti e mille cavalli, tra condotti in
sull'armata e fatti nel Regno e delle terre de' Colonnesi. E con queste genti venne a
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affrontare quelle del Papa le quali resisterono gagliardamente e combatterono presso a
Frusolone e gl'Imperiali n'ebbono il peggio, et ebbono di grazia che la notte spiccassi la
zuffa e si cominciorono subito a ritirare. Renzo ancora, dall'altra banda, fece rivoltare
l'Aquila, l'armata prese Castello a Mare, luogo d'importanzia assai, vicino a Napoli, et
Orazio Baglioni, fattosi porre in terra, prese Salerno e con grande animo andava verso
Napoli.
Mentre che queste fazioni si facevono nel Regno, e' Tedeschi, senza essere offesi da
alcuno, camminavono a piccole giornate verso Piacenzia. Et ogni piccolo impedimento,
che fussi stato loro fatto, gli constringeva a morire di fame perché erono di verno, in piano,
in mezzo di fiumi e del continuo pioveva; et erono necessitati guadagnarsi il vivere per
forza.
Stettono in Piacentino molti giorni, tanto che Borbone compose dissensioni che erano
in Milano tra i fanti et impose taglie assai a quel popolo e cavatoli, non che i danari, il
sangue e la vita da dosso, trasse gli Spagnuoli, così fanti come cavalli, di Milano. E lasciò
alla guardia di quella città Antonio di Leva, et egli con li suoi venne verso Piacenza a
coniungersi con li Tedeschi.
Il marchese di Saluzzo, capo delle genti del re di Francia, il duca d'Urbino di quelle
de' Veniziani, Guido Rangoni di quelle del Papa, feciono una guerra di questa sorte, che
mai vollono unirsi per opporsi all'inimici, ma venivono loro drieto e si poteva dire che li
accompagnassino, come fanno i servitori e' patroni. Li avversari vennono vicini a
Piacenzia e Guido, con li fanti del Papa, la guardò in modo che non vi s'accostorono. Il
medesimo intervenne di Parma e Modona. E feciono e' capitani e condottieri, nominati di
sopra, come alcuni medici poco esperti e poco dotti che, senza purgare il corpo dalli mali
umori, sanano con loro unguenti forti le piache delli membri non nobili e non s'accorgano
che riducono la materia al cuore.
Gl'Imperiali si condussono presso a Bologna, dove erono drento tutte le genti del
Papa e de' Franzesi. Il duca d'Urbino era restato in Mantovano, alquanto indisposto. Li
Cesarei, non potendo entrare in Bologna correre molto il paese, rispetto alle piove e
nevi, arebbono patito assai, ma il duca di Ferrara gli soccorse e di vivere [54v] e di danari.
Carlo della Noi, viceré, vedendo le cose del Regno succedere male et essaminando
che, col convenire col Papa, si levava la guerra da dosso e faceva Cesare signore d'Italia e,
quando bene riuscissi che l'essercito che era presso a Bologna vincessi, in quel modo che
Borbone sapessi disegnare, Cesare sarebbe signore d'Italia, disfatta e rovinata, si volse alla
convenzione. E Clemente, non avendo danari a Roma né a Firenze, la fece volentieri; e
pel mezzo del Generale, del quale dissi di sopra, si concluse. Et il Papa subito richiamò le
sue genti del Regno et il Viceré venne a Roma e mandò Cesare Fieramosca a significare a
Borbone come aveva accordato, con condizione che avessi ducati sessantacinquemila a
Bologna e che non procedessi più inanzi contro alle terre del Papa e Fiorentini.
Borbone, come quello che non voleva accordo perché pensava dovere essere duca di
Milano, e come ritirava gli Spagnuoli in quello stato, dove loro stavono volentieri, gli
pareva che ne fussino signori loro, subornò qualche capitano spagnuolo e così tedesco,
non Giorgio Transberg perché lui era malato d'apoplessia a Ferrara, che dicessi che quelli
che portava il Fieramosca erono pochi danari e che li fanti non si potevano contentare con
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essi; e lui disse al Fieramosca il medesimo. Ma per giugnere il Papa più sproveduto, usò le
migliori e più dolce parole del mondo, aggiugnendo che voleva a ogni modo l'accordo, e
che con qualche somma più di danari s'ingegnerebbe contentare i fanti, ma che intanto il
Papa non si doveva maravigliare se egli camminava con lo essercito, perché li bisognava
andarsi intrattenendo con li fanti, acciò avessino causa di prestarli fede. E come il
Fieramosca fu partito, mosse le genti verso Romagna. E quelli della Lega ancora vi
andorono, e si ridussono a guardare quelle terre perché il male avessi più causa d'andare
verso il cuore.
Tornò il Fieramosca a Roma e riferì quello aveva operato. Et il Viceré, per la gran
volontà che aveva che la convenzione andassi avanti, si mosse in poste e venne in Firenze
e monstrando che bisognavono più danari, perché queste genti si ritirassino, condusse e'
Fiorentini a promettere agl'Imperiali centocinquantamila ducati: ottanta di contanti, et il
resto intra duo mesi. E furono presenti a questo accordo dua uomini di Borbone, mandati
[55r] da lui, e vi acconsentirono e ne restorono satisfatti.
Mentre che lo accordo si trattava in Firenze, Borbone del continuo procedeva con
l'essercito: il che non piacendo al Viceré, subito che ebbe convenuto co' Fiorentini, n'andò
verso Borbone et intese che era già entrato nella valle di Galeata con lo essercito, il quale
aveva rubato et arso tutto il paese, in modo che il Viceré portò gran pericolo che li paesani
non li facessino insidie, e durò fatica a scappare, fuggendo dalle mani loro. potette
parlare prima a Borbone che presso alla Pieve di Santo Stefano, che è un castello de'
Fiorentini, el quale Borbone volle sforzare, ma non gli riuscì, perché fu difeso
valentemente.
Come in Firenze s'intese che Borbone veniva avanti, li uomini furono chiari
dell'animo suo maligno e senza fede. Ma male si poteva rimediare perché la città non
aveva tempo a provedersi d'uomini e li ottantamila ducati, che s'erono mandati secondo lo
accordo, non erono ancora tornati, e si dubitava non fussino capitati male, e la città era
ridotta in tanta estremità che, per provederli, aveva tolto insino alli argenti delle chiese.
Pure, in tanta afflizione, s'ebbe questa buona sorte che li ottantamila ducati tornorono e
messer Francesco Guicciardini cominciò a inviare le fanterie, che aveva in Romagna, per la
valle d'Arnone e per la valle del Montone. Le quali fanterie, licenziose e ladre e senza capi
che temessino, rubavono e ardevono tutto il paese e facevano tutti li altri mali che arebbe
fatto qualunque crudele inimico.
Feciono ancora i Fiorentini intendere al marchese di Saluzzo et al Provveditore
Veniziano et al duca di Urbino lo inganno che aveva fatto Borbone et il pericolo che
soprastava loro; e rinovorono la Lega con quelli patti che seppono domandare i Veniziani
e, perché il duca d'Urbino venissi con migliore animo in loro soccorso, gli restituirono San
Leo. Et in pochi giorni si condussono in sul paese de' Fiorentini tutte le genti di guerra del
Papa, del re di Francia e Veniziani, le quali messono a sacco tutto il Valdarno, e non solo le
case sparse, ma Feghine, San Giovanni e Montevarchi, buoni e popolati castelli. Et intorno
a Firenze tutte le ville de' cittadini erono rubate et il bestiame predato e li contadini fatti
prigioni e le donne sforzate.
Di che nacque che certi giovani della città, cognoscendo che il duca d'Urbino,
venendo e' Cesarei verso quella, vorrebbe fare [55v] lo alloggiamento per li soldati della
Lega in Firenze, e che non era però da sopportare che li fanti potessino sforzare la moglie,
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le figliuole e sorelle di questo e quello cittadino, e per ovviare a questo era da dare l'arme
con ordine alla gioventù fiorentina acciò potessi riparare a tale inconveniente, [e]
conferirono questo loro pensiero a Luigi Guicciardini gonfaloniere, el quale ne dette
notizia al cardinale di Cortona. Et egli ne volle il consiglio di più cittadini e fu consigliato,
senza discrepanza alcuna, che si facessi.
Ma egli, insospettito di dare l'arme alla gioventù, andava differendo e per questo, alli
ventisei d'aprile dell'anno ventisette, si levò tumulto nella città, chiusonsi le botteghe e,
volendo li cittadini amici de' Medici correre a quella casa, trovorono che il cardinale di
Cortona et il cardinale de' Ridolfi, che vi era venuto pochi dì inanzi mandato dal Papa, et il
cardinale Cibo, che era venuto nuovamente da Bologna, et Ipolito de' Medici, tutti erono iti
a incontrare il duca d'Urbino, che doveva entrare quel giorno in Firenze. E stimando detti
cittadini che li sopradetti cardinali, udito il tumulto, si fussino partiti per timore,
tornorono alle proprie case e qualcuno andò in Palazzo per fare pruova di riparare al
disordine, dove concorsono tutti e' nimici de' Medici armati e sforzorono e' Signori con
minacce e ferite a sonare a martello e scendere in ringhiera a gridare Popolo, e dare bando
a' Medici.
Il cardinale di Cortona e li altri, inteso che ebbono il caso, subito tornorono nella città
e chiamorono e' fanti tenevono per guardia, che in fatti erono circa millecinquecento, de'
quali era capitano principale il conte Pier Noferi da Montedoglio. Questi, messi in
ordinanza con loro picche et archibusi, vennono verso la piazza. Come questo s'intese in
Palazzo, tutti quelli che vi erono cominciorono a invilire e temere, così li amici de' Medici
come l'inimici, stimando che se li fanti vi entrassino per forza, ogni uomo andrebbe a filo
di spada senza distinzione.
Pure il cardinale Ridolfi e messer Francesco Guicciardini, avendo affezione alla patria
et alli loro cittadini e discorrendo che se si veniva al sangue, che erono tanti i soldati e
drento e fuori della città, che sarebbe impossibile non andassi a sacco, pregorono il signore
Federigo da Bozzole che andassi in Palazzo a trattare l'accordo: e non lo trovando la prima
volta, vi tornò di nuovo insieme col Guicciardino [56r] e si concluse che le cose tornassino
nel termine di prima, e che fussi perdonato a ciascuno e che di quel dì nessuno si
ricordassi.
E Francesco Vittori fece la scritta di tal convenzione, sottoscritta dalli cardinali, dal
duca d'Urbino e dal signore Federigo. E per allora si posò il tumulto, ma con timore
grandissimo di tutti quelli che si erono trovati in Palazzo, o amici o inimici che fussino: e
molti pensavano d'assentarsi dalla città, pure volevano stare a vedere dove s'indirizzava
l'essercito di Borbone.
Il quale, venuto insino a Montevarchi et inteso come in Firenze et allo intorno erano
genti assai, e come si era durato sei mesi continui a fare ripari drento alla città, et
intendendo ancora quella essere tanto consumata, che aveva posto mano alli argenti delle
chiese, diterminò a gran giornate pigliare la via di Roma, dove sapeva che il Papa non
aveva fanti cavalli, ordine farne presti, e che ultimamente, confidato in sulla
convenzione fatta col Viceré, aveva licenziato mille fanti, che gli restavano di quelli che
erano chiamati della Banda Nera delle reliquie di Giovanni de' Medici. E da Montevarchi
prese un cammino che lo condusse poco di da Siena. E quivi lasciate l'artiglierie da
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campo, perché quelle da battere aveva lasciate al duca di Ferrara, e provedutosi bene di
vettovaglie, seguitò il cammino con gran celerità.
Il duca d'Urbino e marchese di Saluzzo pensavono bene d'andare a soccorrere il
Papa, ma con tutti quelli ordini e commodità, con le quali vanno e' soldati, quando vanno
a soccorrere chi può aspettare. Guido Rangoni, presa una banda di cinquemila fanti e mille
cavalli leggieri, si misse a volere ire verso Roma con prestezza.
Borbone arrivò ne' Prati a canto a Roma alli quattro di maggio: e data il dì medesimo
un poco di battaglia al Borgo di San Pietro, conobbe esservi pochi defensori, perché il
Papa, come fu certo che l'essercito inimico veniva verso Roma, aveva proveduto quelli
pochi fanti aveva potuto in tanta brevità di tempo e trepidazione, e si fidava assai nelle
promesse gli faceva Renzo da Ceri, e la speranza che aveva che il soccorso dovessi venire
presto lo manteneva.
Alli cinque, Borbone rividde le genti sue et ordinolle, e la mattina delli sei,
appresentò la battaglia tra il portone del Borgo, che è drieto alla casa del cardinale Cesis, e
quello di Santo Spirito, dove ne' più de' [56v] luoghi non è muro, ma bene vi era fatto
qualche poco di riparo. Era la mattina nebbia grande che causava che l'artiglieria non si
poteva in modo indirizzare che nocessi alli inimici, e' quali dettono la battaglia. E quelli di
drento si difendevono gagliardamente, ma furono tanti quelli di fuori, che con le mani
guastorono e' ripari, che erano di terra e deboli, e si ridussono a combattere al piano. E
quelli di drento erono pochi che, combattendo, tutti furono morti, ma feciono difesa di
qualità che nel primo assalto ributtorono e' Cesarei; e volendo Borbone farli tornare alli
ripari, gli fu necessario pigliare una scala et essere il primo a cominciare a salire; e salendo,
fu morto da un colpo d'archibuso: uomo a chi, per il tradimento aveva fatto al suo Signore,
non conveniva sì onorevole morte; pure ebbe questo dolore nel morire, che vidde la
vittoria in viso, la quale con tanta fraude e scelerità acquistava, e conobbe non la potere
godere.
Entrati che furono gl'Imperiali drento e morti tutti e' soldati che trovorono,
s'inviorono verso il Palazzo. Et il Papa ebbe gran fatica a rifuggirsi in Castello con pochi
cardinali e pochi servitori, perché assai ne morirono difendendo e' ripari. Et il cardinale de'
Pucci stette sempre, così vecchio e debole, alle mura, gagliardo et interrito, confortando et
animando i difensori, et infuriando di parole li avversari. Et intorno a lui perirono molti
suoi servitori et egli, poi che vidde li inimici drento, fuggendo fuori mezzo morto e ferito
dalli urti delli altri cavalli, fu tirato in Castello, dove ancora si ridusse Orazio Baglioni, poi
che ebbe fatto assai difesa.
Poi che li Cesarei ebbono preso il Borgo, sendo rimasti senza capo, erono in
confusione. Nondimeno l'avidità della preda li faceva audaci et uniti e, non trovando né in
Borgo né in Palazzo molto da rubare, per il sacco avevono fatto in quelli luoghi pochi mesi
inanzi e' Colonnesi, n'andorono alla via di Transtevere e, non trovando solo un defensore a
quelle mura, le ruppono facilmente. Et entrati per le rotture alcuni drento, apersono la
porta, donde entrò subito tutto il resto dello essercito.
Restava a' Cesarei entrare nella parte di Roma abitata e ricca, et erono necessitati
entrarvi per i ponti, che erono tre, e' quali, se avessino avuto niente di riparo e guardia, era
impossibile fussino sforzati. Ma quando è dato [57r] di sopra che una cosa segua per un
verso, nessuno vi può riparare.
145
E' Cesarei che vennono a Roma non erono più che ventimila, tra a piè et a cavallo, tra
buoni e cattivi. In Roma erono almanco trentamila atti a portare arme, da anni sedici
insino in cinquanta; e tra questi erono molti uomini usi alla guerra, molti Romani altieri,
bravoni, usi a star sempre in brighe, con barbe insino al petto, nondimeno mai fu possibile
s'unissino cinquecento insieme per guardare uno di quelli ponti, in modo che i nimici,
circa a ore ventidua, entrorono in Roma con pochissima dificultà. Amazzorono chi e'
vollono, predorono le piccole case, le mediocri, le botteghe, i palazzi, e' monasteri
d'uomini e donne, le chiese; feciono prigioni tutti li uomini e donne, et insino a' piccoli
fanciulli, non avendo rispetto a età, né a sacramenti né a cosa alcuna.
La occisione non fu molta, perché rari uccidono quelli che non si vogliono difendere,
ma la preda fu inestimabile, di danari contanti, di gioie, d'oro et argento lavorato, di
vestiti, d'arazzi, paramenti di case, mercantie d'ogni sorte; et oltre a tutte queste cose, le
taglie, che montorono tanti danari, che chi lo scrivessi sarebbe tenuto mentitore. Ma chi
discorrerà per quanti anni era durato a venirvi del continuo danari di tutta Cristianità, e la
maggior parte d'essi vi restava, chi considerrà e' cardinali, e' vescovi, e' prelati, li ufficiali
che erono in Roma, chi penserà quanti ricchi mercanti forestieri, quanti Romani, e' quali
vendevano tutte le loro entrate care et affittavono le loro case a gran pregi, pagavano
alcuna tassa o gabella, chi si metterà inanzi alli occhi li artigiani, il popolo minuto, le
meretrice, iudicherà che mai per tempo alcuno andassi città a sacco, di quelle che s'abbi
memoria, donde si dovessi trarre maggior preda. E se bene Roma è stata altre volte presa e
messa in preda, non era quella Roma che era a' nostri tempi; et, ancora, il sacco durò tanto
tempo, che quello non si trovò ne' primi giorni, fu trovato poi.
Questo fu uno essemplo che li uomini superbi, avari, omicidi, invidiosi, libidinosi e
simulatori, non possono mantenersi lungamente. Et Iddio punisce spesso quelli che hanno
questi vizi con li inimici suoi [57v] medesimi, e con li uomini più scelerati di quelli che
sono puniti, e' quali, quando gli pare poi tempo, non li manca modo a castigare.
E non si può negare che li abitatori di Roma, e massime e' Romani, non avessino in
loro tutti e' vizi detti di sopra, e maggiori. Non voglio già dire così di Clemente perché, chi
considerrà la vita de' pontefici passati, potrà veramente iudicare che sono pche cento
anni che nel pontificato non sedette il migliore uomo che Clemente settimo, alieno dal
sangue, non superbo, non simoniaco, non avaro, non libidinoso, sobrio nel vitto, parco nel
vestire, religioso, divoto nelle messe et ufici divini, e' quali non ha mai usato omettere.
Nondimeno la ruina è venuta a tempo suo e li altri, che sono stati pieni di vizi, si può
iudicare che, quanto al mondo, sieno vivuti e morti felici, di questo si può ricercare
ragione da nostro signore Iddio, el quale punisce e non punisce in quel modo e in quel
tempo che gli piace.
Andò Roma a sacco alli sei di maggio l'anno ventisette et in Firenze ne fu notizia alli
dodici. Tutti li nimici de' Medici si risentirono e tanto più perché li Fiorentini ebbono di
danno in Roma molte centinaia di migliaia di ducati, e ciascuno di questo danno attribuiva
la colpa al Papa.
Tutti quelli che si erono scoperti alli ventisei d'aprile, iudicando stare in pericolo, non
pensavono a altro che a novità. Li amici de' Medici, delli quali una parte era diventata
sospetta al cardinale di Cortona, inviliti per il successo di Roma e cognoscendo certo che lo
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stato non si poteva tenere se non per forza e che bisognavano a questo effetto alla guardia
almanco tremila fanti, spesa insopportabile alla città essausta, e che il Cardinale era
constretto a levarsi dinanzi qualche cittadino de' più riputati e ricchi, dubitando ancora
non avere la guerra di fuori e temendo che il Papa, sendo rinchiuso in Castello, quando
non fussi soccorso, non avessi a venire nelle mani degl'Imperiali, i quali li avessino a tôrre
la vita o mandarlo prigione in Ispagna, proposono l'onore e l'utile della patria al bene
essere loro. E benché fussino certi, che se i Medici deponevono lo stato, che loro
rimarrebbono a discrizione di quelli che li tratterebbono male e li affliggerebbono [58r]e
nella roba e nella persona, vollono correre questo pericolo. E monstrando al cardinale di
Cortona a che termine la cosa era ridotta, lo confortorono e pregorono che lasciassi lo stato
in mano dell'universale, senza scandolo. Al che egli, benché malvolentieri, acconsentì.
E però alli sedici di maggio si deliberò una provisione nella Balìa, per la quale si
provedeva che Iulio de' Medici, chiamato papa Clemente settimo, Ipolito, figliuolo del
duca Giuliano, Alessandro e Caterina, figliuoli del duca Lorenzo, potessino godere le loro
possessione e case liberamente e stare in Firenze o altrove, dove venissi loro a proposito. E
fu promesso che tutti e' delitti, non cognosciuti insino a quel dì, sarebbono perdonati,
eccetto che a quelli che avessino tolto danari o roba al publico o al privato, e che si tornassi
al Consiglio Grande come si viveva d'agosto nel dodici, prima che i Medici tornassino.
Ottenuta la provisione, il cardinale di Cortona si partì alli diciasette, e ne menò
Ipolito et Alessandro. E della provisione fu osservato quella parte che è parso a chi è suto
poi in magistrato.
Sarei suto desideroso scrivere quello che è successo questo anno ventisette, ma sendo
stato assente dalla città, rispetto alla peste, e non avendo modo d'avere vera notizia di
quello segue per dì, differirò a farlo altra volta in uno altro libro et in tempo manco
travagliato di questo, al quale Iddio ci conceda grazia pervenire.
147
IV.
VITA DI PIERO VETTORI
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Volendo io scrivere la vita di Piero Vittori mio padre, confesso quella non scrivere
perché stimi da altri avere a essere letta et aprovata perché in me non è né stile né
eloquenzia che abbino a tirare alcuno quella a leggere; delle cose del padre al figliuolo,
ancora che in la verità ne parli, è costume prestargnene fede, benché che io per testimonio
non solo la conscienzia mia chiami, ma ancora molti e’ quali al presente vivono e che la
più parte delle cose ho a scrivere sanno. Questa, adunque, scrivo a mia consolazione, a
utilità di quegli nasceranno di me o di mia frategli, acciò che, leggendola, gli egregi fatti
d’esso e loro et io c’ingegnamo imitare.
Visse Piero, insi<no> a anni trentaquattro, occupato la prima adolescenzia nelle
lettere, nelle quali, ancora che fermare non si potessi, fece non mediocre profitto; dipoi,
sendo constretto a tôrre donna e mancandogli el padre, el quale molasciato lui d’anni 22,
alle faccende della casa et alla mercatantia fu necessario si dessi perché gli rimasi un
fratello ancora fanciullo e 3 sorelle a maritare; et una, poco poi restata vedova, bisognò a
nuovo marito congiugnessi. Maritò, adunque, le sorelle secondo che lo stato suo e di suo
fratello richiedeva, e nelle mercantie in modo s’essercitò che onore et utile insieme
acquistò. Pervenuto dipoi a anni 34, fu eletto capitano di Volterra, alla quale, sendo di
nuovo stata presa, bisognava preporre uomini e di buono iudicio e consiglio.
Era l’anno 1478 nel quale, come ogni uomo può sapere, fu nella città nostra grande
novità per la morte di Giuliano de’ Medici e ferite di Lorenzo; di che seguì la morte di
quegli l’assaltorono e rebellione e confini. Lui in quel tempo, come io dissi, a Volterra,
quella città dubbia e sospetta molto bene ritenne in fede, dipoi, finito l’uficio, a Firenze
tornò.
Nel qual tempo e dal Pontefice e dal re Ferrando fu mossa alla città nostra grande e
pericolosa guerra, e la città, avendosi a difendere, e soldati assai condusse e creò Dieci di
Guerra, come in simili tempi è consueto fare; e’ quali in loro proveditore Piero elessono, et
a quello in gran parte la cura della guerra commessono; et, ancora che uomini eccellenti e
gravi et esperti per commissari mandassino, nientedimeno lui sempre ne’ campi tennono;
lui a Faenza a tenere quel signore in fede mandorno; lui, mentre in quello di Siena, che
f<anterie> si pigliavano, mentre le nostre si difendevono a ogni pericolo sempre
s’espose. Et essendoci mossa la guerra dalla parte di Siena, dove lui aveva la possesione e
beni assai et olii e bestiami, quasi ogni cosa si perdé, in modo che poco altro gli rimase che
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la possesione; nientedimeno, preponendo sempre il publico al privato, ogni cosa con tanta
diligenzia e celerità essequiva che essi Dieci maraviglia n’avevono.
Era in quel tempo e nella città e ne’ campi la peste grandissima, e lui in mezzo a
quegli viveva come se fussi in aria salubre e tra uomini sanissimi. Acquistò in quel tempo
et a presso amici et inimici tanta fama che avendo l’essercito inimico rotto i nostri al
Poggio Imperiale, e la rotta era a punto succeduta in tempo che e’ Signori Dieci l’avevono
per qualche bisogno chiamato in Firenze, fu certo l’eccellenzia d’Alfonso duca di Calavria
e capitano dell’essercito inimico avere dopo la vittoria esclamato: «L’assenzia di Piero
Vittori ci ha fatto vincitori». Le lettere ancora, scrittegli e d’Alfonso [2v] duca e da
Federigo, duca d’Urbino governatore del campo inimico, questo medesimo dimonstrano,
delle quali io qui la copia non pongo per non essere lungo più che il bisogno. Ercule
Estense, duca di Ferrara, capitano della Lega, Ludovico marchese di Mantova, Nicola
Orsino conte di Pitigliano, Gostanzo Sforza signore di Pesaro, tanta affezione gli
portavono che ogni volta del campo s’aveva a partire grandemente se ne dolessino, e,
dopo la guerra, quante volte da esso di cosa alcuna richiesti furono, gratamente gli
compiacquono.
Finita questa guerra nell’anno 1480, attese a rassettare quelle poche cose gli erono
rimaste per potere la sua famiglia nutrire; e, sempre stando in fatica, per il contado di
Volterra e maremme di Pisa, cercò se potessi trovare miniera da fare allume, e, con gran
fatica, qualcosa trovò, ma non di molto utile.
Venne l’anno 84, nel quale la Repubblica nostra, per qualche iniuria ricevuta da’
Genovesi, deliberò por campo a Pietrasanta, dove lui con alcuni altri cittadini fu mandato
commissario.
Fu la espugnazione di detta terra assai dificile; lui notte e sempre stava pel campo
ordinando quello bisognava, spesso visitando l’artiglierie, la qual cosa, per il gran
pericolo, pochi sono lo voglino fare, anche che importi assai. E fu lodata molto la industria
sua nel pigliare un monte sopra Seravezza, così è detto il luogo vicino a Pietrasanta,
dov’era un bastione; e qui fu necessario condurre l’artiglierie, che fu cosa mirabile perché
il monte era dificilissimo; nientedimeno lui, a piè, tanto gli altri confortò che vi si tirorno.
Fu preso il bastione che fu cagione dell’acquisto di Pietrasanta; la quale acquistata, lui fu
deputato quivi commessario per ordinare quella terra, dove stette qualche mese mettendo
ad essecuzione quello gli pareva fussi di bisogno.
E’ Genovesi in quel tempo, parendo loro avere ricevuto e danno e vergogna di
Pietrasanta, deliberorno por campo per mare a Livorno; et ordinato armata grande e con
essa uno ingegno chiamato il pontone, nuovamente trovato, dove si posavano l’artiglierie,
e’ traevano con gran forza alle rocche di Livorno. Per questo fu subito mandato a Piero a
Pietrasanta lettere che a Livorno si transferissi, dove cogli altri comessari attese a riparare
quanto era possibile.
Ma meritò grande laude perché un giorno deliberò vicitare una torre scosta a terra
circa a un miglio, chiamata il Fanale; e quivi, con poca compagnia andando, non fu sì tosto
giunto che l’armata gli fu drieto, e lo schifo che l’aveva portato tolse e cominciò
aspramente a dare la battaglia. Erano in quella torre pochi fanti, non credo passassino 12,
la battaglia era aspra, soccorso non si vedeva; lui quasi al primo colpo fu ferito nella testa,
nientedimeno tanto quegli pochi attese a confortare, tanti ripari ordinò, anzi di sua mano
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quasi fu necessario facessi, che i nimici sanza la vittoria, dubitando de’ nostri che di terra
cominciorono a trarre loro, furono forzati partirsi. E così fu per sua opera salvata quella
torre, la quale, se era presa, era di ignominia grande alla città nostra, e molto facile a
offendere Livorno, in modo che, presa quella, si giudicava spacciato. [3r]
Seguì non molto dipoi che Innocenzio ottavo, creato di nuovo pontefice, deliberò
privare del regno Ferrando, et a questo effetto tutti e baroni d’esso Regno quasi fece
ribellare. <+>cente cominciò a seguitare Alfonso duca di Calabria, el quale per aiuto alla
Lega era rifuggito. La città nostra deliberò aiutarlo; fu mandato Piero commissario, el
quale tanto operò che le gente della Lega, ridotte a Pitigliano, per paese inimico a
Bracciano condusse, e la guerra che il Papa a altri voleva fare, in su le porte di Roma
provò; et il signor Virginio Orsino e gli altri Orsini, che alquanto vacillavano, nella fede del
re Ferrando ritenne, e tanto operò che onorata pace si conchiuse.
E ricordomi che, andando dipoi qualche anno Piero a Napoli imbasciadore, passando
da Roma vicitò esso Innocenzio, el quale, me presente, gli disse che in quella guerra gli
aveva più nociuto lui e le sue lettere che tutti gli altri che di quella s’erano impacciati.
Trovossi ancora commissario a rompere e’ Genovesi a Sezanello e porre il campo a
Sezzana, e pigliarla; dove durò tanta fatica, tanti vigilie ancora che non fussi ben sano e
pieno di carne, che non fu uomo che lo vedessi non restassi amirato. E Lorenzo de’ Medici,
el quale circa l’espugnazione di quella quivi s’era transferito, usò dire che dove era Piero
Vittori sempre credeva s’avessi a vincere.
Posata questa guerra e la città posandosi, alle sue private cure alquanto attese; ma
sendo morto il conte Girolamo e la città rivolendo Piancaldoli, che lui ci aveva usurpato, e
mandatovi qualche gente e soprastandovi alcun sanza fare frutto, mandoronvi Piero, el
quale non prima fu giunto che il castellano liberamente la fortezza dette. E subito tornato,
fu mandato ambasciadore a Napoli nell’anno 1488, dove stette circa a uno anno; e tanto
amore gli pose il re Ferrando, e di tanto gran iudicio gli parve che di rado di cose
d’importanza aveva a trattare che non pigliassi il consiglio suo per il migliore.
L’eccellenzia del Duca, che prima l’avea conosciuto, tanto onore gli fece che poco sanza
esso voleva stare, et in nessun modo volea si partissi; pure, sendo tratto vicario di San
Miniato e l’aria di Napoli non la trovando al corpo suo sana, ottenne licenzia et a San
Miniato stette, et in modo si portò che non v’era uomo non l’amassi.
Volle la Repubblica allora mandarlo a Faenza commissario per cose importante e
levarlo da l’uficio; lui per essere indisposto del corpo lo ricusò. stette molto dopo la
tornata sua in Firenze, che sendo Pistoia, il contado e la montagna, in grande disensioni,
si trovando modo a posarla, fu eletto commissario insieme con Giovan Battista Ridolfi,
uomo eccellente e per governare la città drento e per ministrare le cose di fuori. Né molto
dopo la giunta loro ridussono ogni cosa in pace; nientedimeno per potere meglio solidare
quella città, parve a chi governava la Repubblica stessino qui circa a mesi 20, nel qual
tempo la ridusson in modo che nonché disunita ma unitissima pareva; qui facevono
sangue, come era consueto, comandavono nessuno operassi arme e chi le adoperava
gastigavono.
Tornò, ridotta Pistoia in buon termine, e non molto dipoi moLorenzo de’ Medici et
incominciossi per Italia a spargere [3v] qualche voce che il re di Francia voleva passare in
Italia per pigliare el Regno di Napoli. Quella parte di Romagna, la quale tiene la Città
150
nostra, era in grande disunione, et ogni vi si faceva furti et omicidi assai; per questo la
città diliberò di comporre inanzi che arme s’avessino a muovere perché, sendo su confini,
era pericoloso averla disunita.
Per questo s’ordinò una provisione di mandare in quella parte un rettore, che lo
facessino gli Otto di Pratica e non si traessi a sorte. Non si vinceva la provisione perché già
lo stato non era gagliardo come nel tempo governava Lorenzo, e credevono gli uomini
che Piero de’ Medici vi volessi mandare uno perché guadagnassi; in modo fu necessario
che el Nove delle Riformagioni dicessi quando ebbe letta la provisione: «Io vi fo intendere
questo, che questa provisione si fa perché il tempo lo richiede e che sarà fatto capitano il
migliore uomo di Firenze».
Allora, tutti giudicando avessi a essere Piero, si vinse la provisione, e lui fu eletto et
in quella provincia si portò in modo che quasi tutta l’unì e fermò gli omicidi. Ma, sendovi
stato un anno, amalò e non poté finire l’uficio, ma fu necessario tornassi in Firenze per
medicarsi.
In questo tempo e’ romori di Francia più si sparsono, e dopo la fama venne la cosa in
fatto: el Re passò in Italia, et in Firenze seguì la rinovazione come e’ più sanno. Quante
volte lo viddi io in questo tempo piagnere, affermando che vedeva la rovina della città, e
ch’e’ Franciosi venivano per comune distruzione d’Italia! Nelle mutazione dello stato
sempre consigliò si perdonassi e che gli uomini s’unissino a mantenere la libertà.
Mentre che e’ Franciosi stettono in Firenze sempre animava gli uomini a sperare bene
e non temere. Et un dì che e’ Franciosi presono l’arme e cominciorono a correre per la
terra, lui, sendo in casa, fece aprire gli usci e, postosi a sedere, si stava in mezzo la sala in
modo che qualche francioso vi passò; l’ebbono in reverenzia, et, al detto suo solo et alla
fede a quegli parlò, posorno l’arme.
Partito il Re, lui fu fatto de’ Dieci; nel qual tempo, sendo la città in grande angustie e
pericoli per la perdita di Pisa e per la infidelità del Re, molte volte andò commessario in
quello di Pisa e l’essercito condusse in Val di Serchio, guastò le mulina aPisani, liberò
Librafratta dall’obsidione e passò colle genti sulle mura di Lucca. Dipoi andò a
Montepulciano, che s’era ribellato, et a Cortona per obstare agli Orsini et a Piero de’
Medici che da quella parte ne veniva, el quale, come intese essere quivi con m<olt>e gente,
indrieto si tornò; e lui andò a Pistoia dov’era suto eletto capitano.
Et in quel tempo a punto el castellano della fortezza di Pisa, che a noi la doveva
restituire, a’ Pisani la dette; di che come Piero intese in tanta mestizia cadde che subito
infirmò di febre gravissima, né mai per cosa alcuna gli fussi detta si potette rallegrare; e
vicitandolo Piero Capponi e Cosimo Ruccellai, equali lui amava grandemente, niente si
rallegrò e così confesso e fatto quello si richiede a buono cristiano, passò di questa vita a
22 di gennaio 1495, d’età d’anni 52.
Uomo certo che se la fortuna gli avessi concesso esser suto principe, non sarebbe suto
inferiore a qualunque degli antiqui, e’ quali dalli antichi scrittori sono tanto lodati. [4r]
Attese, come nel principio dissi, alle lettere latine in modo che in quelle fece assai profitto
e scrisse versi ancora nell’ultimo dell’età; nelle lettere greche ancora s’essercitò, et era di
tale ingegno che in quello sarebbe stato eccellente se per le occupazione gli fussi stato
lecito attendervi. Fece versi volgare molto buoni, et in prosa molto bene scrisse; e
cominciava istoria de’ tempi sua, la quale lasciò imperfetta; veggonsi le lettere scritte da lui
151
a’ principi et alla Repubblica et a Lorenzo de’ Medici, le quali sono da compararle a
qualunche scritte ne’ nostri tempi. Fu di mediocre eloquenzia non atto a parla<r> in
concione pubbliche a persuadere popoli, ma in ogni altro luogo era attissimo; e quello
diceva sempre con buone ragione confermava, e quasi ogni uomo a chi parlava si faceva
benivolo, adducendo sempre essempli assai, perché era di memoria tenacissi<mo>.
Continentissimo circa alle cose veneree insino nella adulescienzia; e trovandosi a
Bracciano d’età d’anni 40, infermò, e, promettendogli il medico la salute molto presta
volendo usare il coito, volle più tosto quella qualche tempo più sopportare. Circa il
mangiare e bere tanto temperato che non credo facilmente un altro se ne possa trovare,
ogni volta che fussi stato bisogno, per pubbliche faccende o per private, del cibo niente
curandosi né avedendosi quello si mangiava.
Liberale quanto le sue facultà sopportavono, e mai quando era fuori per cose
publiche, considerava quello spendessi; teneva uno che spendeva, el quale sempre menò
quasi seco, mai gli vedeva conto se non alla tornata. Doni alcuno ne’ magistrati non
voleva, ancora cose da mangiare, affermando essere cosa servile obligarsi e che chi
piglia doni s’obriga, in modo che ancora che avessi buone possessione e nelle mercantie
non perdissi et assai tempo stessi con salari publici, nientedimeno a’ figliuoli altro che le
possessione non lasciò perché agli amici venuti in bisogno ogni volta lo richiedevono
sovveniva e qualche volta senza essere richiesto.
Tanto benivolo inverso tutti gli uomini che non si potrebbe esprimere, et ogni volta
che fra cittadini vedeva nascere dissensioni s’ingegnava comporle come lo monstrano le
sua lettere le quali non adduco per non caricare alcuno. Gli amici tanto amava che per loro
ogni pericolo, disagio, spesa essere necessario comportare giudicava; e massime Piero
Capponi col quale alle volte 5 o 6 ore e tutta una notte parlava.
E’ contadini molto stimava e quegli a presso ogni magistrato s’ingegnava difendere; e
quand’era in campo, e guastatori che sono contadini e’ quali sempre a’ pericoli
dell’artiglierie si sogliono esporre, si sforzava fussino riguardati et avessino quei ripari
fussi possibile. Co’ servi tanto facile che quando divenne a morte n’ebbe di quegli che
mentre stette malato mai da lui si partirno, e poi che fu morto, ci fu dificile custodirgli che
la vita non si togliessino.
La donna, efigliuoli amava assai, ingegnandosi imparassino buone lettere e buoni
costumi, lasciando loro sempre in casa e nelle cose sue la medesima auttorità aveva lui.
[4v]
Paziente oltra modo, in modo che io affermerei non l’avere mai veduto adirato se
non una volta, e quella fu nell’ultimo, più presto per la malattia che l’aveva infastidito;
d’animo grandissimo, et in quanti maggiori pericoli era, meno s’aviliva. Quando andò per
soccorrer Librafratta e levarne e’ Pisani, fece portare vettovaglie per il bisogno
dell’essercito. Inanzi fussino pervenuti al luogo e che avessino cacciati e’ nimici, gli uomini
del conte Rinuccio toglievono delle vettovaglie. Mandò a dire al Conte che vietassi gli
uomini sua dalle vettovaglie: non lo fece il Conte, in modo che lui fece venire tutte le genti
inanzi a e comandò al Conte e gli uomini sua ponessino gl’arme e scendessino. Poi,
inteso quanto pane avevon tolto, lo fece loro pagare; poi disse al Conte che voleva essere
ubidito e che rimontassi, e seguitò il cammino.
152
Religioso era quanto bisogna, ma non superstizioso, facendo una volta l’anno quello
comanda la Chiesa; e così udendo la messa e’ dì festivi, estimava ch’el fare elemosine a chi
ha bisogno e sovvenire l’uno all’altro fussi quello dovessi fare un cristiano < . . . >
E benc in lui fussino tutte queste virtù, non era però biasimatore degli altri,
ancora ne’ magistrati rigido essecutore; puniva sola<mente> gli omicidi e furti e molestie,
nell’altre cose chiudeva gli occhi. E, sendogli ricordati gastigassi e’ giucatori e chi portava
arme, diceva ch’e’ giucatori avevono pene assai a perdere, e che gli bastava punire chi
adoperava l’arme ingiustamente, e che il gastigare simili delitti era volere ragunare danno
negli esserciti.
Quanto valessi, di sopra è dimonstro; amavonlo tanto e’ soldati che con lui a ogni
gran pericolo si sarebbono messi; e ricordomi io sentirlo più volte e col duca di Calabria,
col marchese Gian Iacopo da Triuzi, col conte Nicola Orsino dell’arme disputare, del
difendere una terra, d’offenderla, d’apiccare gli esserciti, quale sia atta sorte d’artiglierie e,
secondo il giudicio de’ più, ne intendeva tanto quanto gli uomini in detto mestiere molto
esperti.
Morì, come ho detto, nel tempo che Italia e la città nostra era in grande tribolazione, e
dipoi è stata in maggiore, e fu a quella di danno assai, et ardirò di dire, forse
presuntuosamente, che io credo lui a molte cose arebbe riparato.
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COMPOSTA PER FRANCESCO VITTORI
E MANDATA ALLA ILLUSTRE E PRUDENTE MADONNA CLARICE,
SORELLA DEL SOPRADETTO DUCA E MOGLIE DI FILIPPO STROZZI.
Ho qualche volta meco medesimo pensato, illustre Madonna mia, onde proceda che
de’ principi giovani pochissimi ne sieno lodati dalli scrittori. Et in verità si può credere che
pochi ne sieno stati che abbino meritato laude, perché e’ giovani sono traportati assai dalla
libidine, la quale è poi causa d’avarizia e di crudeltà e d’infiniti altri mali. E se noi vediamo
li giovani privati, tirati dalla voluptà, commettere mille scandoli e non considerare a’
pericoli, che dobbiamo noi credere che abbi a fare uno principe el quale può ciò che vuole,
non è sottoposto alle leggi, né ha a rendere conto delle azioni sue se non a sé medesimo ?
Puossi bene considerare che la causa di dannare e’ principi giovani proceda in
qualche parte dagli scrittori e’ quali, il più delle volte, si mettono a scrivere quando sono
nell’età matura e quasi senile. Et è il costume de’ vecchi avere invidia a’ giovani e
dall’invidia nasce l’odio, dal quale accecati, ogni piccolo errore d’uno giovane principe
accrescono e le virtù, ancora che grandi, deprimono e diminuiscono.
Ma c’è ancora una terza causa, la quale è che uno principe giovane rare volte si regge
da medesimo, e quando ha madre, quando zii, quando altri parenti, quando amici o
servitori ordinati dal padre, che li abbi in osservanzia, in modo che spesso li errori d’altri
sono imputati a lui e le buone opere sue sono attribuite a altri. E questo massime
interviene quando che chi si mette a scrivere le azioni d’un principe, non sa a punto li
secreti né le cause particulari le quali, quando s’intendessino, escuserebbono assai quel
principe del quale s’ha a scrivere.
Iudicando, adunque, essere officio mio scrivere la vita di Lorenzo de’ Medici, duca
d’Urbino, non solo per esserli suto intimo servitore, ma per satisfare [59r] a Voi a che porto
la medesima affezione e reverenzia che portavo a lui, e tanto più volentieri l’ho fatto
perché credo che, chi la leggerà, abbi a conoscere egli essere da connumerare tra li ottimi
principi, perché esso è dannato di molte cose, nelle quali si conoscerà più presto meritare
commendazione, che avere colpa alcuna. alcuno sia che pensi che io per affezione mi
sia partito dal vero, perché, sappiendo io quanto lui, vivo, aveva in odio le falsità et
adulazioni, stimerei offenderlo così, morto.
Nacque Lorenzo sopradetto del mese di febbraio l’anno millequattrocentonovantuno,
poco inanzi che morissi il magnifico Lorenzo, suo avolo. Il padre fu Pietro, de’ progenitori
154
del quale dire cosa alcuna iudico al tutto superfluo, perché sono notissimi i gesti del
magno Cosmo e di Piero, suo figliuolo, e di Lorenzo, suo nipote. La madre si chiamò
Alfonsina, di casa Orsina, figliuola del cavaliere Orsino, che fu figliuolo di Nipoleone e
fratello di Virginio. Ma della nobiltà di casa Orsina, e così di quella de’ Medici, sono state
dette e scritte cose assai, perché, in verità, possono non solo compararsi a qualunque
nobilissima casa d’Italia, ma ancora esserli superiori.
Aveva poco più che anni dua, quando Piero suo padre, dubitando che nella venuta
del re Carlo ottavo di Francia in Firenze non seguissi tumulto, lo dette a Piero da Bibbiena,
suto secretario del magnifico Lorenzo, che lo conducessi a Venezia. Et essendo dipoi
venuto detto re Carlo in Firenze, e parendo a Piero et al Cardinale, suo fratello, di cedere
alla fortuna e partirsi della cit acc che quella avessi manco a patire, detto Lorenzo
ordinorono stessi a Venezia. E fu allevato in casa e’ Lippomanni, gentili uomini, antiqui
amici insino di Cosimo, dove stette insino all’età di sei anni. Dipoi, per ordine del padre,
fu condotto a Roma e fattoli insegnare, secondo l’età, e lettere latine e greche, nelle quali
fece tanto profitto, che l’una e l’altra lingua intendeva molto bene, e la latina scriveva e
parlava. Andando dipoi Piero suo padre a Monte Casino, nel Regno di Napoli, a servire e’
Franzesi, egli, benché fanciullo, andò [59v] seco. E quando Piero annegò nel Garigliano per
salvare l’artiglieria de’ Franzesi, egli era in Gaeta con la madre e sorella. E poco dipoi, per
ordine del Cardinale suo zio, con loro se ne tornò a Roma et attese di nuovo agli studi. Et
alla madre portava tanta riverenzia, che sarebbe impossibile a scriverlo, e così al Cardinale
et a Giuliano et a messer Iulio, suoi zii, né mai usciva della volontà loro.
Mutossi lo stato in Firenze di settembre nel dodici. E li zii e lui tornorono nella città,
dove usò tanta umanità e modestia, che, in pochi mesi, tirò a l’animo della maggior
parte de’ giovani fiorentini, co’ quali familiarmente conversava.
Seguì, nella fine del dodici, che, sendo morto Iulio pontefice massimo, fu assunto al
pontificato il rev.mo Cardinale suo zio, el quale si chiamò Lione decimo. Il che come
Lorenzo intese, subito corse a Roma, pregando il Papa che fussi contento tenerlo appresso
di sé, perché conosceva essere conveniente che Giuliano, suo zio, governassi lo stato di
Firenze. Acconsentì il Papa a questa sua dimanda ma, venendo poco dopo Giuliano a
Roma e non si contentando in questo modo, si mutò e volle che Lorenzo fussi quello che
tornassi in Firenze e Giuliano rimanessi a Roma.
Acconsentì Lorenzo a quello piacque al Papa, e se ne tornò in Firenze per ordinare
nella città un modo di vivere come quello che era a tempo di Lorenzo, suo avolo, e Piero,
suo padre. E già ne aveva cominciato a gittare ottimi fondamenti e durava tanta fatica in
dare audienzia, in comporre differenzie tra cittadini, in volere che le pecunie del Comune
fussino amministrate rettamente, in dare opera che si facessi severa iustizia al povero, al
ricco, al piccolo, al grande, che pareva maraviglia che uno giovane come lui volessi tanta
subiezione e servitù. E la madre, che era avezza in terra di Roma e nel Regno, spesso lo
riprendeva, monstrandoli che non teneva il grado suo, e che a’ cittadini fiorentini pareva
essere suoi compagni, e che non era conveniente fussi così, e che, se egli voleva vivere in
quel modo, ella voleva tornarsene a Roma a pregare il Papa che dessi al figliuolo stato nel
quale [60r] avessi sudditi e non compagni. Lorenzo, ancora che alla madre portassi
riverenzia assai, per queste parole non si moveva punto dallo instituto suo. Non poteva
già fare che, facciendo ella molte cose che non erano convenienti in una città come Firenze,
155
non le tollerassi perché dubitava che, sendo ella stata tanto vedova e riputata d’ottimi
costumi, se veniva a rottura seco, non essere da ciascuno biasimato, e, senza venire a
questo non era possibile la ritraessi dalla fantasia e modi suoi. Sopportavala adunque, ma
con tanta molestia, che più volte ne l’udì’ sospirare e querelare né sapere che partito
pigliare in questo caso.
Occorse, in questo tempo, che Giuliano, suo zio, prese per donna Filiberta, sorella del
duca di Savoia, e dal Papa fu fatto capitano di Santa Chiesa. E per conroborare meglio il
parentado di Savoia, promisse al conte di Ginevra, fratello del Duca, che opererebbe in
modo che sarebbe fatto capitano de’ Fiorentini. Il che quando madonna Alfonsina intese,
cominciò subito a esclamare col figliuolo, monstrandoli che, se questo seguiva, era il
vituperio e ruina sua, e che nessuno lo iudicherebbe degno di tenere stato, e che questa era
una occasione ragionevole a farsi grande nell’arme, perché poteva farsi capitano de’
Fiorentini e tirare seco molti gentiluomini e valenti, de’ quali in ogni tempo si potrebbe
servire.
Egli, dubitando che la Città non fussi stretta dal Papa di osservare la promessa che
aveva fatta Giuliano al conte di Ginevra di farlo capitano con gran soldo, il che li pareva e
pericoloso e dannoso per la Città, acconsentì alla madre di volere essere lui capitano, con
animo nondimeno d’essere contento al titolo tanto, senza soldare uomini né pigliare
danari dalla Città, perché gli bastava con questo modo ovviare che il conte di Ginevra non
venissi a tal grado. Ma volendo il re Francesco di Francia, primo di quel nome, passare in
Italia per pigliare il ducato di Milano, e papa Leone, insieme con altri suoi collegati [60v]
deliberando opporseli, ordinò di mandare in Lombardia Giuliano con molte genti a piè et
a cavallo. El quale, partendosi da Roma, come fu giunto in Firenze, gravemente ammalò,
onde il Papa fu constretto a dare il carico a Lorenzo che aveva dato a lui. E per questo
bisognò che pigliassi il capitanato in fatto che aveva preso in nome e che conducessi
trecento uomini d’arme e li pagassi: il che non li potette essere più molesto, ma non poteva
mancare di non fare la volontà del Pontefice.
Partissi, adunque, di Firenze con le sue genti in compagnia di messer Iulio de’
Medici, suo zio, cardinale e legato in questa impresa, el quale si fermò a Bologna,
iudicando così essere a proposito. Lui andò inanzi con le sue genti e si condusse a
Piacenza, dove erono molti signori condottieri, dove era ancora don Ramondo di Cardona,
viceré di Napoli, dove erono fanti assai et ispagnuoli et italiani.
Era giovane et era la prima volta era suto in campo, nondimeno rena tutti quelli
capitani ottimo conto di sé, e nel consultare e nel deliberare si monstrò non manco
prudente che animoso, perdonava a fatica, o d’animo o di corpo, faccendo al bisogno
l’uficio del soldato e del capitano, stando e notte con l’arme indosso, sobrio nel cibo,
abstinentissimo da ogni altro piacere, in modo che aveva ridotto uno essercito, che prima
era licenzioso e scorretto, obbedientissimo e regolato. vi sarebbe stato uomo ardito
che avessi presunto molestare o donne o uomini che portassino vettovaglie, di qualità che
Piacenzia, dove erono ridotti assai soldati, non un campo di gente d’arme, ma una città
ordinatissima pareva. Et io, che mi trovavo allora seco per commissario de’ Fiorentini,
posso rendere ragione quanto fussi amato e stimato da’ soldati e da tutti li altri ch’erano in
quello essercito.
156
Seguì il fatto d’arme di Marignano per ordine del cardinale Sedunense. lui il
Viceré si potettono trovare alla giornata, ché, senza dubbio, sendosi trovati con il loro
essercito, eSvizzeri restavono superiori. [61r] Furono rotti, come volle la fortuna che può
assai in ogni cosa, ma massime nelle guerre. Nondimeno a Piacenzia venne nuova che i
Franzesi erono restati inferiori, et il Viceré e molti altri capitani italiani erono d’oppenione
si passassi subito il Po e si seguissi la vittoria drieto a’ Franzesi, che si credevono rotti. Lui,
essaminando li avvisi li iudicando certi, con buone ragioni dissuase il passare: il che
quando si fussi fatto, e lo essercito della Chiesa e lo ispano era rotto e fracassato e tutta
Italia restava a discrezione di Francia.
Venne poco poi la nuova vera, onde egli, dubitando che i Franzesi subito non
facessino un ponte in sul Po e venissino a affrontarli, mandò Benedetto Buondelmonti
fiorentino in campo de’ Franzesi a trovare il vescovo di Tricarico, oratore appresso il re di
Francia per il Papa, e lo confortò a fare composizione in nome del Papa per raffrenare
l’impeto de’ Franzesi. E di già Bartolomeo d’Alviano, capitano de’ Veniziani, e monsignor
de Lautrec erono venuti verso il Po, e l’Alviano predicava che voleva fare il re di Francia
signore d’Italia, pure, con la industria e diligenzia del Vescovo e Benedetto sopradetti, si
fece composizione tra il Papa et il Re, d’un modo che il Papa avessi tempo quindici giorni
a ratificare. El quale mutò certi capitoli, e massime stimolato da Lorenzo, perché e’
Fiorentini non avessino a patire. Et il Re facilmente tollerò detta mutazione,
Lui, sendosi conclusa pace, mandò le genti d’arme alle stanze et andò a Pavia a fare
riverenzia al Re, dove fu onorato e carezzato assai. Et in Milano si trovò a molte feste con
detto Re e fece ogni opera ch’el Re venissi liberamente a Bologna a rendere obbedienzia al
Papa e così ch’el Pontefice confidassi nel Re. El quale venne a Bologna a baciare i piedi a
Leone et, avendosi a partire, volle che Lorenzo tornassi seco a Milano. Il quale, sendo di
natura libero sappiendo punto fingere, conoscendo che il Papa, ancora che avessi fatto
molte cerimonie e parole et offerte e carezze al Re, non era ben chia<ro> con lui, perché gli
doleva avere perduto Parma e Piacenzia, e dubitando che [61v] di nuovo non avessino a
venire a rottura, non volle mai avere a mancare della fede sua. E per questo non domandò
al Re ordine lance pensione, onde non restò alla partita di Milano molto satisfatto
di lui.
molto poi, lo imperatore Massimiliano venne in Italia per tôrre lo stato di Milano
al Re e condusse seco grande essercito di Svizzeri e Lanzchinet. Il che quando il Papa
intese, arebbe voluto che Lorenzo fussi ito a fare riverenzia a detto Imperatore; il che egli
recusò, sì per non mettere in pericolo e’ Fiorentini che erono in Francia e la roba loro, sì per
non iudicare a proposito del Papa, né suo, che lo Imperatore ottenessi tale impresa. La
quale non ottenendo, perché Milano si difese gagliardamente, detto Imperatore se ne tornò
in Alamagna et il Re restò molto male satisfatto del Papa.
Morì al principio del sedici Giuliano de’ Medici e madonna Alfonsina cominciò a
infestare il Papa che dovessi dare uno stato al figliuolo. E tanto operò con parole e pianti,
ch’el Papa fu contento che Lorenzo cercassi di tôrre lo stato a Francesco Maria della
Ruvere, duca d’Urbino, nipote di papa Iulio, allegando che nella venuta del Re in Italia,
avendo presi danari da lui, non aveva voluto poi cavalcare. Dissuadeva Lorenzo tale
impresa, dicendo che se bene riuscirebbe tôrre lo stato presto al Duca, riuscirebbe ancora il
perderlo prestissimo, perché questo era uno stato povero nel quale il duca Federigo et il
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duca Guido avevono sempre messo, perché avevono avuto condotte da questo e quello
altro principe, e non avevono tratto, perché erono stati il più che potevono nel paese, e che
non era possibile che lui, che non era per starvi, ma quel poco ne traeva era per spenderlo
altrove, vi fussi sopportato, e che ogni piccolo moto che si levassi in Italia, farebbe
mutinare li uomini di quello stato. Il Papa, stimulato da madonna Alfonsina e dalla iniuria
ricevuta da Francesco Maria, non volle acquiescere a queste ragioni, onde lui, contro a sua
voglia, fu constretto assaltare [62r] quello stato, il quale, con arte, tutto in pochi giorni
ridusse al dominio della Chiesa. E Francesco Maria con la moglie e figli se ne fuggì a
Mantova.
Voleva Lorenzo che, poiché la vittoria era successa, il Papa tenessi il ducato di
Urbino per la Chiesa, perché lui non si contentava pigliarlo in titolo. ancora a questo
acconsentì il Papa, ma ne lo investì in Consistorio, secondo la consuetudine, e lo chiamò
duca d’Urbino. Di che egli si dette tanto dolore, conoscendo per questo avere acquistato la
inimicizia del re di Francia et avere avuto uno stato povero e debole et essere cresciuto, per
il titolo del duca, di spese ma non d’entrata, che s’infermò di certa infermità, che qualche
medico diceva essere male franzese, ma il più s’accordavono essere malattia procedente da
umori melancolici. E gl’intervenne a punto quello che aveva pensato, perché come Odetto
di Fois, luogotenente del Re in Italia, ebbe accordato Verona, Francesco Maria, con ordine
del sopradetto, sollevò gran parte delli Spagnuoli, che erono in Verona, et una parte de’
Guasconi, che erono con Franzesi, et insieme con Federico da Bozzole vennono verso
Romagna per ripigliare lo stato d’Urbino.
Lorenzo era in questo tempo a Roma, malato, e poco si poteva muovere, pure,
intendendo questo moto e considerando gnen’andava lo stato suo, si mosse in poste e
venne in Romagna, dove g erono Renzo da Ceri, Vitello de’ Vitelli, Guido Rangoni,
condotti chi dal Papa e chi da’ Fiorentini. Et il Papa aveva commesso a Lorenzo che per
ordine di questi capi lasciassi governare la guerra, e però vennono in consulta del modo
del procedere.
A Lorenzo, sendo di verno e lo essercito di Francesco Maria sendo raccolto con pochi
danari, occorreva non fare campo grande spesa, ma solo a guardare e’ buon luoghi,
perché gl’inimici, se così si procedeva, erono forzati presto a risolversi. Non piacque al
signor Renzo questo partito, ma volle si soldassino fanti assai, perché a lui pareva essere in
più riputazione mentre durava la guerra e che il Papa aveva bisogno di lui; et, oltre alla
riputazione, [62v] sperava trarne danari. Soldoronsi fanti italiani, guasconi, tedeschi e
spagnuoli e nondimeno Renzo non voleva venire alla giornata. Ma Lorenzo era
d’oppenione contraria perché, avendo grande e buono essercito, gli pareva che,
combattendo, la vittoria dovessi essere per lui et, ottenendola, avere finito la guerra, ma
quando non fussi, gli pareva avere modo a rifarsi. E nel passare che volle fare coll’essercito
Francesco Maria il Metro, Lorenzo ordinò le squadre per combattere e lui, così ammalato,
era tra li primi soldati per dare drento; ma Renzo dissuase il combattere e sbigottì li
uomini, di qualità che l’essercito inimico passò senza opposizione alcuna. E sendosi
perduta l’occasione del vincere, Lorenzo fu constretto a ridurre l’essercito suo in su certi
monti dove, sendo ancora di verno, patì assai.
Et avendo conosciuto quanto potessi confidare nell’animo e fede de’ capitani, pensò
governarsi da medesimo. Et avvertendo che, stando quivi, presto l’essercito verrebbe in
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penuria di viveri, deliberò entrare in certo paesetto, chiamato il Vicariato, e tentare
d’espugnare uno castello, detto Mondolfo, abbondante di grano e di vino. E nel volerlo
sforzare, faccendo l’uficio del capitano e del soldato, fu ferito d’uno schioppetto nel capo.
Nondimeno, così ferito, voleva persistere nella obsidione, ma, confortato da Iacopo
Salviati che era con lui commissario pe’ Fiorentini, con gran fatica acconsentì d’andarsene
per mare in Ancona, dove si conobbe la ferita essere importante. Quivi comparsono
cerusici di più luoghi, e’ quali furono constretti scorticarli gran parte del capo e trapanarlo;
e tutti questi dolori sopportò con tanta pazienzia, che non si potrebbe credere. E d’una
ferita sì pericolosa, e con la buona cura de’ medici e con l’abstinenzia e tolleranzia sua, in
dua mesi fu libero.
E nel tempo stette malato, nel campo procederono le cose con gran danno e vergogna
del Pontefice, e si conobbe, allora, quello operava la persona sua. Nello essercito conobbesi
ancora questo, ché, come s’intese lui essere libero e tornato in Firenze, [63r] e gli Spagnuoli
e Guasconi, ch’erono con Francesco Maria, pensorono d’accordare, e Francesco Maria e
Federigo da Bozzole il simile, e gli lasciorono lo stato d’Urbino libero, perché dubitorono
che, sendo egli sano, non rifacessi essercito del quale dovessino ricevere danno e
vergogna.
Come egli fu uscito di questa guerra, si dispose fare ogni opera di ridurre in fede il
Papa col re di Francia, perché gli pareva che il Re avessi gran parte in Italia. E perché gli
riuscissi più facilmente, pensò di tôrre moglie in Francia e scrisse a Francesco Vittori, che
era oratore pe’ Fiorentini appresso il Re, questo suo disegno. El quale, parendoli a
proposito, andò essaminando che figlie fussino in Francia conveniente a lui. E si risolvé
che madama Magdalena di Bologna fussi più per lui che altra, perché era nobilissima et,
alcuni dicevano, di quella casa che fu Gottifredi Bollioni di cui tante cose sono scritte;
aveva una sorella maritata al duca d’Albania, primo signore di Scozia et al quale
s’apparteneva il Regno, quando quel Re non avessi avuti figli maschi, ancora perché
aveva buone entrate e non era assueta a molta spesa.
Scrissene detto oratore a lui e poi, di sua volontà, ne parlò al Re, in modo che il
parentado si concluse. Et il Re gli dette, di suo proprio, in dota il ducato di Lavaur di
rendita di scudi cinquemila l’anno.
Concluso il parentado, il Re si contentò che egli venissi in corte e per menare la
donna e per tenere a battesimo il suo primogenito in nome del Papa. Dubitava il Pontefice
mandarlo e gli era detto da qualcuno che il Re lo riterrebbe in Francia per avere una
sicurtà di lui. Nondimeno il Duca, che così si chiamava poi che riebbe lo stato d’Urbino,
confidato nelle lettere del sopradetto oratore fiorentino per le quali gli scriveva che andassi
liberamente, ch’el partire e lo stare sarebbe a posta sua, andò e fu dal Re onorato
eccessivamente.
Tenne Francesco suo primogenito a battesimo in nome del Papa, menò la moglie, et il
Re fece la spesa delle nozze. Fecionsi feste e balli e giostre; et il Duca in ogni cosa monstrò
la gentilezza e destrezza sua, e [63v] massime in giostra. E di tanti signori che giostròno in
quella festa, fu iudicato che nessuno avessi provato meglio di lui. Il simile fece poi in
assaltare uno castello, nel quale assalto, armato tutto d’arme bianca, monstrò agilità et
animo.
159
Stette in quella corte circa tre mesi e si partì con grande grazia del Re e di tutta la
corte, e massime di madama Luisa, madre del Re, e d’Artù di Buissì, gran maestro, che
allora governava assai. Divise, avanti si partissi di Francia, col duca d’Albania lo stato
appartenente alla moglie et, onorato per tutto il cammino, la condusse in Firenze, dove
fece nozze splendide e suntuose alle quali furono molti signori d’Italia.
Parendoli, adunque, avere solidato con questo parentado l’amicizia tra il Papa et il
Re, pensava lasciare il capitano de’ soldati fiorentini et il ducato d’Urbino, e ridursi a
ordinare uno stato in Firenze civile e che potessi durare ancora a’ figliuoli. Et a questo
effetto voleva ire a Roma per conferire col Papa, ma la madre, troppo ambiziosa, non gli
potendo dissuadere questo suo pensiero con ragione, s’ingegnava lo mandassi in lungo. Et
essendo malata, fingeva la infermità più grave, acciò che lui non avessi a ire dal Papa. Pur
egli deliberò andare e lo trovò a Montefiasconi e, conferendoli questo suo disegno, ci trovò
il Papa inclinato et il cardinale de’ Medici inclinatissimo. Ma madonna Alfonsina ogni
scriveva al Papa lettere di fuoco pregandolo non lasciassi seguire tanto disordine, e perché
il Duca s’avessi a partire senza conclusione, gli fece scrivere che stava per morire e che, se
la voleva vedere viva, venissi subito. Il buono et amorevole figliuolo, credendo fussi vero
quello li era scritto, presa licenzia dal Papa, senza altra conclusione si partì in poste. E per
l’amore e reverenzia portava alla madre, dubitando non la trovare viva, corse sì presto che
poco poi che fu giunto in Firenze, infermò de febb<r>e acuta e fu consigliato da’ medici si
traessi sangue. Il che in quindici giorni lo liberò dalla febbre, ma restò tanto debole et
estenuato e pieno d’umori grossi, e’ quali gli feciono venire dolori colici. E furono chiamati
a questa cura, oltre alli medici fiorentini eccellenti, [64r] delli altri da Bologna, da Napoli,
da Venezia. E’ quali, vedendo e’ dolori grandi, furono constretti a darli acque minerali et
altre medicine le quali lo indebolirono tanto che lo condussono etico. Et in capo di sei mesi
che il male li era cominciato, morì.
Sopportò in questa egritudine dolori intollerabili, prese medicine assai e mai deviò
dall’ordine de’ medici, sempre ebbe la mente libera e lo intelletto sì spedito, come se fussi
stato sano. Conobbe, molti giorni avanti, non potere scampare di quel male e fece
chiamare il suo solito confessore e si confes con diligenzia grandissima, poi prese la
comunione divotamente. Volle fare testamento, ma la madre lo proibì, con ordinare non
avessi a posta sua né notaro né testimoni,
Mentre stava così malato grave, madama Magdalena, sua moglie, partorì una
figliuola alla quale lui fece porre nome Caterina. E la moglie, dopo il parto quattro giorni,
morì, di che lui si dette tanto dolore che non visse più che sei dopo lei. E morì a
quattro di maggio l’anno dicianove, nel vigesimo settimo anno dell’età sua.
Lasciò la figliuola femmina, come ho detto, et uno naturale chiamato Alessandro.
Amava, oltre a modo, madonna Clarice sua sorella, moglie di Filippo Strozzi, e, se poteva
fare testamento, lasciava a lei et a’ figli d’essa gran parte della roba che aveva, perché la
figliuola gli pareva avessi assai di quello della madre.
Fu di statura mediocre, di volto bello, nel quale somigliava assai alla madre, e del
corpo gagliardo et agile. Cavalcava così bene quanto a ’n altro alli tempi suoi; correva e
faceva tutti li altri essercizi, ne’ quali si monstra destrezza e gagliardia. Dormiva poco,
sobbrio nel bere e mangiare, piacevonli le femmine, ma per esse non offese mai alcuno e si
contentava di quelle gli volevono acconsentire, dalla oscena libidine de’ maschi tanto
160
alieno, come se fussi nato in mezzo d’Alamagna. Dilettavasi di giucare et alla palla et a
ogni altro giuoco, ma, quando giucava con li amici, non arebbe voluto vincere. Della roba
era assegnato e non arebbe voluto debito, ma con gli amici liberalissimo. Amò assai
Filippo Strozzi, Francesco [64v] Vittori, Alessandro de’ Pazzi e Gherardo Bartolini. Era
alieno da ogni invidia e detrazione, dilettavasi della caccia di cani et uccelli et in ultimo
pigliava piacere di tutte quelle cose che debbe pigliare un vero signore e gentiluomo.
La morte sua fu di danno assai alla città nostra, ma non è ancora stato cognosciuto
per la bontà e prudenzia del rev.mo cardinale de’ Medici, el quale in modo fa
amministrare la Repubblica Fiorentina, che ciascuno ragionevolmente se ne può
contentare. Nondimeno, se il duca Lorenzo fussi vivuto e messo ad essecuzione il pensiero
suo, ordinava uno governo di qualità che arebbe potuto sostenere qualunque impeto di
fortuna ancora che gravissimo.
161
VI
SACCO DI ROMA
D
D
I
I
A
A
L
L
O
O
G
G
O
O
Interlocutori: B
ASILIO
et A
NTONIO
Basilio: Ben sia venuto il mio Antonio!
A
NTONIO
: Ben sia trovato Basilio!
B
ASILIO
: Io t’arei veduto sempre volentieri, ma molto più ti veggio di presente perché io
tenevo per certo che tu fussi morto, perché sono già passati sei mesi che Roma, dove
tu eri, andò a sacco e di te mai ho inteso cosa alcuna. E pensavo che tu fussi morto o di
ferro, nell’entrare degl’Imperiali in Roma, o poi di peste.
A
NTONIO
: Io ho patito tanto, e nella persona e nella roba, che sarebbe suto meglio per me
ch’io fussi morto.
B
ASILIO
: Non voglio dica così perché io non potrei avere cosa più grata che vedere un tale
amico vivo e sano. Ma se non se’ molto occupato, vorrei parlassimo un poco insieme
perché desidero sapere a punto come passò la ruina di Roma et i casi che a te sono
accaduti.
A
NTONIO
: Se bene io non ho occupazione alcuna e, quando io n’avessi, lascierei per te ogni
faccenda, parlo malvolentieri di quello mi ricerchi, perché mi rinnuova il dolore,
perché è di necessità biasimare alcuni e di quelli a’ quali per le buone qualità loro
porto affezione.
B
ASILIO
: Deh, Antonio mio, per l’amicizia nostra antica satisfammi di quanto t’ho ricerco!
Perché, circa il dolore, n’hai avuto tanto che non lo puoi aver maggiore, e se dannerai
qualcuno, non lo farai per odio, ma per dirne il vero : et è ben possibile che uno uomo
abbi molte buone parti et in qualche cosa erri.
A
NTONIO
: Orsù, io ti voglio contentare. Ma sarebbe necessario, a voler darti bene ad
intendere ogni cosa, repetere molte azioni insino al tempo di Lione, ma sarei troppo
lungo e però ometterò molte cose e mi sforzerò esser breve. Ma quando, per la brevità,
il parlar mio non ti paressi aperto a sufficienzia, non ti sarà grave interrompermi e
domandarmi di quello non intendessi.
Che hai a sapere che, come il duca d’Urbino, capitano de’ Veniziani e governatore
in fatto di tutto lo essercito della Lega, ritirò le genti di Milano, dove quelle erono
condotte animosamente, pensando avere a dare la battaglia a quella città et ottenerla,
subito papa Clemente cascò d’animo e cominciò a navicare per perduto, perché
conobbe che il re di Francia non faceva la guerra vivamente e non osservava quello
aveva promesso, non per voluntà, ma per non potere più. Conobbe che i Veniziani
cercavono d’indebolire Italia e destruggere prima la Lombardia e poi la Toscana e
162
Roma et il Regno di Napoli, e che avevono capitano che gli serviva a punto secondo
volevono, perché desiderava vivere.
Conobbe, ancora, che li era mancato la reputazione e che non poteva più fare
provisione di danari che bastassi a reggere tanta guerra. E benché amassi assai la città
di Firenze, amava più medesimo e però, contro a quello che era di diretto contrario
all’intenzione sua, cominciò a lasciarla aggravare oltre a modo di danari. E ciò fece per
provare se questo remedio bastassi, indicando che, se lui si salvava, non li
mancherebbe modo a satisfarla de’ danni patiti e, quando lui rovinassi, non gli pareva
inconveniente metterla in pericolo che insieme seco andassi in ruina.
B
ASILIO
: Non iudicavi tu che egli facessi male a mettere in periculo la patria sua, per
mezzo della quale e lui e li sua erono venuti in tanto grado?
A
NTONIO
: Come s’io iudico che facessi male! E per questo ti dissi che malvolentieri
parlavo di tal materia, per non dannare uno al quale porto affezione e reverenzia. Ma
siamo tutti uomini imperfetti e la grandezza quasi tutti ci fa deviare dal cammino
dritto: e se ne potrebbono dare mille essempli. Et è verissimo quello proverbio che
dice che li onori mutano i costumi, e quell’altro che dice: ‘Il magistrato fa cognoscere li
uomini’.
Ma seguitando il parlare, ancora che li Fiorentini spendessino assai, non fu
possibile resistere agl’inganni de’ Veniziani supplire alla povertà et inavertenzia
del Papa.
B
ASILIO
: Tu di’ che il Papa faceva spendere a’ Fiorentini? Come poteva lui, stando a Roma
et avendo già perduta la reputazione, come tu di’, stringerli a spendere?
A
NTONIO
: Tu sai che io non sono stato in questa città quaranta anni sono, posso saper
bene il modo del governo. E tu ne puoi essere meglio informato di me che eri sempre,
secondo intendo, tra’ primi chiamati dal cardinale di Cortona il quale governava qui
per il Papa. E so bene che, se il Cardinale non avessi acconsentito alle inoneste
domande del Papa, circa i danari, che il Papa era constretto ad avere pazienzia. Pe
tu, che sei stato qui, dimmi la causa perché Cortona facessi questo.
B
ASILIO
: Se bene tu hai detto che io ero traprimi chiamati da Cortona, tu hai a intendere
che io e li altri ci pasciavamo di questo. Et è poco più d’uno anno che, domandandomi
il Papa in qual cittadino Cortona più confidassi, io gli risposi che credevo confidassi in
me più che in alcuno altro, e che di me non si fidava punto. Et in fatto, è gran difficultà
a saper tenere lo stato in questa città et è necessario che chi lo tien bene, sia uomo di
eccellente ingegno e poi sia nato e nutrito in essa, et a pena ancora gli riuscirà perché
bisogna pasca gli uomini di speranza, di cenni, di parole e di fatti, facci altro che
investigare la inclinazione delli uomini per potere, quando gli vengono a parlare,
accomodarsi secondo quella, et all’uno dire le nuove, all’altro parlare de’ paesi dove è
stato, ad un altro de’ casi et iudici mercantili, a chi di possesione e di cultivare, a chi di
edificare, a chi di belle donne et a chi di cacciare et uccellare.
E certo quelli che aiutono tenere lo stato in questa città, sono uomini ambiziosi,
avari, rovinati, viziosi o sciocchi. Perché li uomini che sono alieni dall’ambizione non
si travaglieranno volentieri di stato come quello hanno tenuto li Medici, né d’altro.
Perché io fo poca differenzia da quello stato che molti chiamano tirannico a questo che
163
al presente molti chiamano populare, o vero republica, perché in quello conosco molta
servitù et in questo ancora il medesimo.
E però uno uomo, che non sia tirato dall’ambizione, vorrà godere la sua quiete, né
si implicherà in uno stato pericoloso in una repubblica turbulenta. Similmente, chi
non sarà avaro, starà contento al poco penserà con lo stato rre il suo a questo e
quello. Chi arà le sue faccende ordinate, seguiterà quelle, ma chi sarà rovinato e fallito,
sempre s’ingerirà nel governo e, quando non li riuscirà participarne, cercherà
mutazione. Quelli che sono dediti alla gola et alla libidine, non possono mandare ad
effetto i loro inordinati desideri in questa città, se non si vagliono dello stato. Gli
sciocchi si pascono delle dignità della città in quelle hanno fine alcuno, se non che
pare loro una bella cosa essere de’ Signori, delli Otto o de’ Dieci.
Et avendo a trattare il cardinale di Cortona con questi uomini che io dico, non era
di tanto ingegno da saperli maneggiare, perché se gli ambiziosi si tengono sanza
degnità, non stanno pazienti e cercono movimento, se ne dai loro troppe, fanno lo
stato odioso agli altri e diventono insolenti. Se agli avari non si dà, non reggono ne’
pericoli, se si loro, si toglie quello delli altri e spesso, come son fatti ricchi, pensono
più alla conservazione loro che alla tua, e vanno essaminando come possino restare in
piè ad ogni stato. E se dai dignità a’ rovinati, dai loro causa d’imbolare per riaversi et
acquisti odio universale. Se non consenti a’ viziosi, manchi del favor loro, e’ quali
spesso sono di più ingegno e di più animo che li altri, se li contenti, offendi Iddio e gli
uomini. Se adoperi gli sciocchi, lo stato viene in derisione, se non li adoperi, non hai
ne’ magistrati chi facci a modo tuo.
Il cardinale di Cortona, che era nato a Cortona e nutrito a Roma, non discorreva
queste cose a punto e li pareva che la grandezza dello stato consistessi in farsi ubbidire
e che li magistrati non facessino cosa alcuna sanza suo ordine. E pensava che in
Firenze fussi un numero di cittadini i quali fussino constretti seguitare la fortuna de’
Medici in ogni evento, e poterli trattare come li pareva; e non pensava ad altro se non
satisfare al Papa in ogni cosa e compiacere a’ cardinali et altri prelati e signori e gran
maestri, con danno e disonore della città. E benché li fussi ricordato che lui era
mandato in Firenze per essere di quella difensore, e che aveva ancora a difendere il
Papa, il quale glien’arebbe poi buon grado, non lo voleva credere. E pensava che chi
gliene diceva, lo facessi per non poter sopportare quel modo di vivere, e seguitava in
fare spendere la città senza discrezione. E da questa spesa procedè che l’aggravò di
dua accatti, che si venderono i beni dell’arti, che si fece imposizione a’ preti, in modo
che non ci restava uomo che non fussi malcontento, poiché l’amore che hanno i popoli
a chi li governa, procede tutto dall’utile e, quando quello manca, l’amore si converte in
odio.
A
NTONIO
: Intendo molto bene come si governò il cardinale di Cortona circa a’ danari.
Ma seguitando dico che, levato che il duca d’Urbino ebbe lo essercito da Milano e
ridotto a Marignano, attese a fortificare un campo come una città, pensando di
consumare lo Imperatore con la spesa; e non s’avvedeva che consumava molto più i
collegati e, se e’ se n’avvedeva, non se ne curava. E per consumare più tempo e
pigliare una città vicina al dominio de’ Veniziani, mandò una parte dell’essercito a
164
Cremona, dove stette a campo più settimane. Morironvi molti valenti uomini et
animosi e si spesono danari assai, e poi la prese a patti.
Et in questo mezzo seguì a Roma il caso di che tu hai molto bene notizia, che li
Colonnesi e don Ugo messono a sacco il Borgo di Roma et il palazzo e la chiesa di San
Pietro, et il Papa ebbe a fuggire in Castello, e seguì lo accordo con don Ugo, o vero
triegua, per quattro mesi. E puoi pensare che il Papa, in questo caso, perdé se punto di
riputazione gli era restato, e rimase come attonito sapeva che partito si pigliare
perché, se non osservava la triegua, non vedeva modo a difendersi da’ Colonnesi e da
don Ugo, e, se l’osservava, conosceva certo che li avversari lo ingannerebbono, come
avevono fatto altra volta, e gli torrebbono Roma e forse lo piglierebbono et
amazzerebbono.
E prese un modo d’osservare nel principio, tanto che li avversari si discostassino
da Roma. Poi soldò fanti in Roma, faceva venire di campo et Italiani e Svizzeri e
ragunò assai buona banda di gente e la fece alloggiare nelle terre de’ Colonnesi. E
questo alloggiare era un modo di ruinarle perché li soldati sono venuti in tanta
insolenzia che, quando bene sono tenuti stretti, mettono in rovina li luoghi dove
alloggiono, sì che puoi pensare quello facevono in quelle terre, quando era dato loro la
briglia in sul collo. Il cardinale Colonna, e per questo e perché il Papa procedeva alla
privazione sua, cominciò a querelarsi con don Ugo che il Papa non osservava.
Et intanto vennono nuovi Tedeschi d’Alamagna, et il Viceré arrivò al porto di
Santo Stefano: cose che tutte sono note, però io non te le replicherò, ma solo dirò che,
avendo fatto processo lo essercito del Papa nel Regno, il Viceré, temendo di Napoli,
accordò con il Papa per mezzo di Cesare Fieramosca. E venne detto Vicerè in persona
a Roma.
B
ASILIO
: Deh, fermati un poco! Tu di’ che il Papa aveva fatto, cioè l’essercito suo, processo
nel Regno e che Napoli era in pericolo. Se questo è vero, perché accordò il Papa e non
seguitò la vittoria?
A
NTONIO
: Perché non aveva danari né modo alcuno da farne.
B
ASILIO
: Perché non faceva lui cardinali, come hanno fatto altri papi, quando sono stati in
manco necessità et in minor pericolo che non era lui?
A
NTONIO
: Non li voleva fare. E veramente lo intento suo era buono, perché non voleva
vendere dignità benefizi. E se avessi possuto fare di non entrare in guerre, arebbe
fatto ogn’opera di ridurre la Chiesa, non voglio dire come quella primitiva, ma in
modo che si sarebbe iudicato, all’apparenza di fuora, che li pontefici, cardinali et altri
prelati, se non potessino essere immitatori di Cristo, almanco potevono non li essere in
tutto contrari, come sono stati da molto tempo in qua. Ma seguitando il mio parlare...
B
ASILIO
: E’ mi pare che questi preti abbino detto compieta, e li chierici voglino serrare la
chiesa.
Et io non ti vorrei questa sera lasciare prima che m’avessi finito il ragionamento
incominciato, et ancora ci restono a dire molte cose. Però tu mi farai piacere grande a
venire questa sera a cena meco e potrai ancora dormire in casa mia, perché non ho
altri in Firenze che uno servitore. E manderò a dire a casa il tuo nipote che non
t’aspetti.
165
A
NTONIO
: Io farò quello ti piace, ma per la via non voglio seguire la materia principiata,
ché voglio stare con commodità per ricordarmi meglio d’ogni particulare. Ma ti voglio
domandare d’una cosa e ti priego me ne dica il vero: se questo vivere populare, o per
dir meglio republica, ch’è ora nella città, ti piace.
B
ASILIO
: Se io ti volessi rispondere a quello mi domandi, non bisognerebbe parlassimo
d’altro questa notte, perché io non ti direi questo modo dispiacermi, se io non
adducessi le cause, né direi piacermi sanza fare il medesimo.
Et a volere far questo sarebbe necessario discorrere tutta la Politica d’Aristotile e
la Republica di Platone, e venire poi alli essempi delle republiche di Grecia, poi alla
Romana e, ne’ nostri tempi, alla Veniziana et alle republiche d’Alamagna. io sono
per entrare in questo, perché t’infastidirei, ma ti dirò bene assoluto, che se la città
nostra non amplia di dominio o d’entrate o non scema la metà de’ cittadini, che in
quella non può essere republica stabile.
E se tu noterai, da dugento anni in qua che la città nostra cominciò a crescere,
sempre una fazione ha superato l’altra et una parte ha avuto le dignità e gli utili, e
l’altra è stata a dire il giuoco. E questo procede perché l’aria in Firenze è molto
generativa e ci multiplicano assai uomini et il dominio non è grande l’entrate
sono tante, che si possino pascere tutti; e però, una parte si pasce e l’altra sta
malcontenta et aspetta il tempo per fare il medesimo.
credere che in questa città sia uomo che pensi a vivere libero, ma ciascuno
pensa all’utile suo. E questi essempi di Bruto e Cassio, che si danno tanto per il capo,
sono favole da dirle al fuoco, perché similmente loro non si mossono a congiurare
contro a Cesare per zelo di Libertà o della patria, ma per ambizione et utilità perché,
vedendo che in quel modo di vivere non potevono avere i primi gradi, come pareva
loro meritare, non si curorono, per l’ambizione, mettere sottosopra tutto il mondo e far
diventare la città di Roma, non serva, ma stiava a tanti crudeli tiranni o vogliamo dire
uomini bestiali, quanti dipoi la dominorono.
Ma io non voglio procedere più oltre in questo parlare, e massime che noi siamo
già a casa. Poserenci qui in camera terrena e, mentre s’ordinerà da cena, tu seguiterai il
tuo parlare.
A
NTONIO
: Io lasciai che Carlo della Noy, viceré di Napoli, per fermare meglio lo
accordo col Papa era venuto in Roma. E di quivi manCesare Fieramosca in campo a
monsignor di Borbone, che era vicino a poche miglia a Bologna, a significarli che aveva
fatto composizione col Papa e che li mandava ducati sessantacinquemila tra del Papa,
Fiorentini e suoi, perché li distribuissi all’essercito e lo ritirassi verso la Lombardia.
Borbone gli parve strano aver a ritirare lo essercito nel ducato di Milano, del quale
pensava avere a essere duca, e li pareva, mentre vi stava questo essercito, che
guastassi la città et il paese, et esserne signore in nome, ma in fatto patroni ne fussino
li soldati. E pensò d’ingannare il Papa et il Viceré e, sotto questo accordo, procedere
avanti e trovare il Papa sprovisto di gente e di danari e che, avendo fatto l’accordo,
non avessi più modo a riunirsi con la Lega. E suburnati certi capitani che dicessino a
Cesare che non volevano star contenti a sì pochi danari, lui, da parte, gli disse che
facessi intendere al Viceré che l’accordo gli piaceva, e che era non solo utile per lo
Imperatore, ma necessario, ma che le fanterie erono bestiali e che bisognavono più
166
danari, accennando di ducati dugentomila; e, quando questi si provedessono, credeva
che lo essercito starebbe paziente, ma che il Viceré non si maravigliassi se intanto lui
procedeva, perché lo faceva per monstrare alle fanterie di fare tutto quello poteva a
loro benefizio.
Il Viceré, inteso questo, subito si mosse di Roma in poste e venne in Firenze per
confortare e pregare e’ Fiorentini, sapendo che il Papa non aveva danari, a provedere
più somma che potevono. E dopo molte dispute, concluse che detti Fiorentini
darebbono ducati centocinquantamila, ottantamila di presente et il resto per tutto
maggio. E furono presenti a detta convenzione e consenzienti dua uomini di Borbone.
E’ Fiorentini providdono li ottantamila ducati con grandissima difficultà.
E perché s’intendeva che del continuo Borbone procedeva, il Viceré determinò
andare in persona per fermarlo e darli li ottantamila ducati e trovò lo essercito
presso alla Pieve a Santo Stefano. E Borbone e li altri capi dissono che questi erono
ancora pochi danari, onde il Viceré, disperato e non si fidando tornare in Firenze, se
n’andò a Siena.
B
ASILIO
: Se’ tu uno di quelli semplici che creda il Viceré non tenessi le mani a questo
trattato?
A
NTONIO
: O semplice o astuto che io sia, io credo che gli uomini faccino quello che
iudichino sia a loro proposito.
Questo accordo, che il Viceré aveva fatto, era molto a benefizio di Cesare e di esso
Viceré, in particulare, perché lui non poteva desiderare maggior grandezza che godere
uno Regno di Napoli pacifico. E considerava che se questo essercito procedeva, se
bene era vittorioso, quel Regno si empiva di soldati e si ruinava, come era ruinato il
ducato di Milano, ma, se lo essercito avessi perduto, era certo di perdere ancora il
Regno. E non so che maggior dimonstrazione poteva fare di volere lo accordo, che
venire a Roma in mano d’uno Papa che non li era stato molto amico, poi mettersi a
venire a Firenze in poste e mettere in pericolo la vita e l’onor suo.
E credo certo che lui sia morto poi di questo dolore, perché li è parso che con
questo accordo il Papa abbi perduto Roma e Firenze e si sia ridotto in Castello come
prigione, e lui esserne stato causa né poter fuggire la infamia di traditore.
B
ASILIO
: Il medesimo stimavo io, ma alli più non si trarrebbe del capo che il Viceré e
Borbone non sieno stati d’accordo a ingannare il Papa.
A
NTONIO
: Borbone con celerità seguì il suo cammino e lasciò tutte l’artiglierie a Siena e
s’ingegnò d’avere più vettovaglie che potette da’ Sanesi. Et alli 4 di maggio, in sabbato
arrivò con lo essercito in Prati. E per non monstrare gagliardia, di nuovo fece tentare il
Papa d’accordo, ma voleva tanti danari che era impossibile a provederli.
Il Papa aveva in Roma il signor Renzo da Ceri et Orazio Baglioni e circa
millecinquecento fanti sotto vari capi. Et il sabbato che arrivò, uscirono fuori certi
cavalli leggieri di Giovan Paulo, figliuolo del signor Renzo, e più presto furono
superiori che altrimenti.
Il Papa, ancora che avessi pochi fanti, non stimava che Borbone si mettessi a dare
la battaglia a Roma, sanza piantare artiglierie almanco da levare difese; sapeva
l’avessi lasciate in Siena e si persuadeva, avanti che Borbone potessi avere ordinato di
dare la battaglia, che una parte almeno della gente sua più espedita dovessi essere
167
arrivata in Roma; e per questo stava di buono animo. E perché altri facessino il
medesimo, aveva fatto bandi aspri che nessuno si partissi né levassi robe. Et alle porte
erono preposti a questo offizio Romani, quali proibivono a ciascuno il partire e
mandar via robe e non accettavono licenzia alcuna, se bene fussi del Papa. E però io,
ancora che prevedessi questa ruina qualche dì avanti, mi trovai ingabbiato.
Alli 5, Borbone andò vedendo le mura del Borgo, si vidde disegnassi piantare
artiglieria alcuna. Pure inverso la sera fece dare un leggieri assalto alle mura, quasi
drieto a Campo Santo, e lì fanti ch’erono quivi a guardia lo ributtorono, onde ciascuno
prese animo. Et ancora che non fussi venuto soccorso alcuno s’intendessi fussi per
venire, il Papa pensava con questa poca gente difendere il Borgo dua giorni, e sapeva
che, in capo di dua giorni, per mancamento di vivere o che lo essercito inimico
tornerebbe indrieto, o passerebbe il Tevere per ridursi, prima nelle terre de’ Colonnesi,
dipoi nel Regno.
Alli 6, che era in lunedì, Borbone ordinò di dare la battaglia a punto drieto a casa
il cardinale di Cesis e poi presso al monte, dov’è, drento, la vigna di Santo Spirito e,
fuora, quella di mastro Bartolommeo da Bagnacavallo.
Et accadde a punto che fu nebbia grandissima in modo che li bombardieri del
Papa non vedevono dove avessino a indirizzare l’artiglierie per offendere li nimici. I
quali dettono uno assalto gagliardo, pure furono ributtati, onde Borbone, disperato,
prese una scala et andò verso le mura per dare animo alli altri a fare il medesimo. E,
nell’andare, ebbe una ferita d’archibuso nella testa e subito morì.
L’inimici, per questo non inviliti, seguitorno di nuovo in dare la battaglia et
essendo li ripari deboli, li salirno. E come furono al pari de’ defensori ebbono vinto,
perché erono assai e li defensori pochi, e quelli pochi che volsono fare il debito del
buon soldato, restorono morti. Li altri si missono in rotta et in fuga, chi per entrare in
Castello e chi per fuggire per Ponte in Roma.
Il Papa, intesa la vittoria dell’inimici, ebbe fatica a salvarsi in Castello con pochi
servitori e qualche cardinale.
L’Imperiali, poiché furono entrati in Borgo, lo missono a sacco, benché vi fu poca
preda perché di pochi mesi avanti aveva avuto un repulisti da’ Colonnesi e don Ugo.
Et ancora che avessino ottenuto per forza il Borgo, avendo perduto il capitano e
restando loro a entrare in Transtevere e poi in Roma, non pareva loro avere vinto. E
veramente che se fussi stata fatta loro un poco di resistenzia, erano in peggior grado
che avanti avessino preso il Borgo, sì per la morte di Borbone, si perché la preda li
aveva disordinati; e in Borgo non avevono trovato da vivere per un dì.
Ma i loro capitani, considerando che non era da dar tempo a chi era sbattuto di
ripigliare l’animo, in capo di quattro ore, poiché ebbono preso il Borgo, dettono lo
assalto alle mura di Transtevere dove, non trovando alcuno defensore, ebbono facilità
di romperle e, per la rottura entrati alquanti, aprirono la porta vicina a Ponte Sisto.
Restava loro a entrare per li ponti in Roma e questo riuscì sanza alcuna difficultà
perché non vi ebbono opposizione.
E non credo che nell’entrare dell’Imperiali in Roma morissino cinquanta uomini
combattendo. Ciascuno si stava alle case sua e guardando quelle, pensava li bastassi. E
li Romani erono tanto insolenti e bestiali, che si persuadevono, chi per un mezzo e chi
168
per un altro salvarsi, e che lo Imperatore avessi a pigliare Roma e farvi la sua
residenzia, e dovere avere quelle medesime commodità, onori et utili che avevono del
dominio de’ preti.
Io, che non ero atto all’armi avevo in casa altri che un servitore tedesco, uomo
di pace, mi stavo in su la mia porta, ché avevo una casetta in Campo di Fiore. E, per
non avere possuto mandar fuora la roba, avevo in certo secreto riposto le scritture e
panni e drappi per ducati duomila e ducati mille di contanti e cinquecento tra argenti
e altre masserizie migliori, et avevo pure lasciato fornita la casa ordinariamente. Né ti
dirò più oltre quello seguissi in Roma, perché io non lo so, e mi basterà dirti quello
intervenne a me.
Come io intesi che l’inimici erono drento, sendo pure in Roma molte case infette
di peste, feci mettere alla porta la insegna della peste et io, avendo una bolla in una
gamba portata molti mesi, la feci con il sangue rossa intorno, poi, fasciatomi el capo,
me n’entrai nel letto e dissi a quel servitore tedesco dicessi, a chi veniva, che ero
malato di peste; et una serva fiorentina feci stare in su l’uscio della camera, afflitta e
dolorosa.
Ecco comincio a sentire il romore per la piazza, vengono quattro tedeschi alla
porta mia e, veduta l’insegna della peste, domandorno il mio servitore, che era a
sedere in su l’uscio, quello voglia dire quella insegna. Lui risponde che al patrone
della casa erano in pochi giorni morti quattro figliuoli e la donna di peste, e che lui era
malato nel letto, onde loro, inteso questo, segnorono l’uscio col gesso e lasciorono uno
di loro innanzi all’uscio e si partirono. E stettono a tornare circa a quattro ore e
menorono con loro un becchino della peste tedesco, che aveva fatto lo essercizio in
Roma più anni, e lo mandorono in casa a intendere come io stavo. Lui, o che mi
trovassi alterato per la paura, o che indicassi avere a trarre più profitto quando dicessi
essere peste, affermò che io ero malato, ma che credeva fussi per guarire, onde loro,
lasciatolo quivi a mia custodia, si partirono. Et io attendevo a starmi nel letto,
volevo sapere cosa alcuna che seguissi in Roma.
E già erono passati quindici dì et io avevo fatto un parentado con quel becchino
tedesco, in modo pensavo del male averne a patire manco degli altri. E mentre io mi
pascevo di questa speranza, li tedeschi tornorono una mattina. E dimandando il
becchino et il servitore mio come io stavo, e l’uno e l’altro dicendo male, cominciorono
a sospettare e si missono a entrare in casa e dipoi in camera e tôrre tutto quello vi era.
Et in ultimo mi posono di taglia ducati cinquecento, li quali dicevo non potere pagare
perché ero povero, vecchio e malato di peste. Loro cominciorono a minacciarmi et in
ultimo a battermi di modo che io dissi che, se avevo commodità mandare fuora di
Roma il mio tedesco, provederei ducati trecento, di che loro si contentorono.
Io, simulando mandarlo a Tiboli, cavai del secreto ducati trecentocinquanta, de’
quali pagai loro trecento et il resto mi serbai in certo luogo della casa, che
malvolentieri essi potevono trovare, e finsi che il servitore me li avessi portati. Loro,
vedendo che io avevo provisto li danari presto, stettono dubi donde io li avessi avuti
et entrò loro sospetto che io non fussi ricco. E quando io credevo, avendo avuto la
taglia, mi lasciassino partire, loro mi tenevano, non però molto stretto. Pure male mi
sarei potuto fuggire, massime di giorno, ma la notte, perché io ero malato o lo fingevo,
169
loro non mi guardavono, onde io presi partito una notte partirmi. E conferito questo
mio pensiero con il mio servitore e pregatolo mi volessi accompagnare, lui fu
contento. E la notte sequente, che fu il primo di luglio, ci partimmo e la mattina,
all’aprire della porta, uscimmo per la Porta del Popolo e, con gran fatica, arrivammo la
sera a Civita Castellana. E se io non avessi avuto meco quel tedesco, sarei suto preso e
rubato sei volte, ma lui diceva che avevo pagato la taglia al suo patrone e però mi
accompagnava.
A Civita Castellana, trovammo male da mangiare e da bere e peggio da dormire.
E per questo disagio e per quello avevo preso a camminare a piè insin quivi, e per li
dolori auti in Roma, il sequente che io giunsi, mi prese una grandissima febbre. E
venendo io di Roma, dove gli uomini morivono a migliaia, fu creduto certo fussi
malato di peste e fummo, il mio servitore et io, serrati in una piccola stanza e da una
finestra ci era porto un poco di pane e di vino, e bisognava pagarlo bene. La febbre
andò seguitando di modo che, in capo di quindici dì, quelli che erono deputati sopra
la peste furono chiari che il male mio non era contagioso, e dettono licenzia a me et al
mio servitore d’andare per tutto.
Ebbi male dua mesi e quando fui presso a guarito, ammalò il mio servitore et in
capo d’un mese morì. Et io avevo speso tanto tra il mal mio et il suo, che delli
cinquanta ducati avevo portato meco di Roma, non me ne restavono che dua, e con
quelli mi partì’ di Civita Castellana a piè, al fine d’ottobre, et in otto giorni mi
condussi ad Arezzo; dove trovai un fratello di messer Paulo Valdambrino, che avevo
già conosciuto a Roma, el quale mi fece carezze e mi condusse a casa sua, dove volse
stessi quindici a riavermi. E lui mi dette notizia della mutazione seguita qui tanti
mesi avanti e del termine in che si trovava il Papa e generalmente di tutte le cose che
andavono a torno, delle quali io ero in tutto al buio. Poi mi dette danari e mi prestò
una bestia et uno contadino che mi accompagnassi.
E quattro fu arrivai qui, credendo trovare Benedetto mio fratello. Et intesi che
era morto lui e la brigata sua, né era restato altri di lui che Simone, suo figliuolo, d’età
d’anni ventidue, al quale è parso strano che io li sia giunto a dosso vecchio e povero.
Et avendo il padre goduto sempre come suo un buon podere che abbiamo in Mugello
e la casa nostra qui di Firenze, non li par giuoco ch’io dica al presente volere di queste
cose la metà. Et in verità, che se mi fussi restato altro modo a vivere, che io non
enterrei a domandargli la parte mia.
Basilio: Che fu della roba che tu avevi nascosta?
A
NTONIO
: Quando io mi parti’, non l’avevono trovata. Dipoi non te ne so parlare, ma
stimo bene, per esservi stati tanto, che non sia possibile non abbino trovato ogni
secreto. Tu hai inteso in che modo io mi son condotto qui e ci sarebbe da dire assai
altre novellette, ma vorrei cenare.
B
ASILIO
: Tu hai ragione et è suta poca discrezione la mia a non avere già fatto ordinare.
Ma si farà subito perché la cena sarà da poveri come siamo tu et io.
A
NTONIO
: Che? Ancor tu sei povero?
B
ASILIO
: Povero, poverissimo! E’ mi è suto tolto da certi privati potenti la maggior parte di
quello avevo. Ma non ti voglio parlare di questo, attendiamo a cenare di quel poco ci
è.
170
A
NTONIO
: Deh! dimmi tu, che sei stato in Francia, se avevi notizia di questo duca di
Borbone e che uomo era tenuto in quel tempo.
B
ASILIO
: E’ si può bene, mentre si cena, parlare di qualcosa attenente ad altri, come è
questa di Borbone, che non perturbazione a parlarne. Io n’avevo notizia benissimo
e mi parve sempre simulatore, vario et ambizioso.
Lui era della casa di Borbone, figliuolo di monsignor di Mompensieri che morì
l’anno 1495 a Napoli dove era rimasto viceré, o vogliamo dire governatore, per il re
Carlo
VIII
. Aveva piccolo stato, ma, sendo del sangue regio, Anna duchessa di
Borbone, ch’era stata moglie del duca Piero e sorella del re Carlo sopradetto, li dette
una sua unica figliuola della quale ebbe grande stato, ma era brutta, quanto donna
alcuna sia mai stata vista, brutta piccola, nera, gobba, non solo nelle spalle, ma nel
petto. E lui era tanto simulatore, che dava voce per tutto che non usava con altra
donna che con quella; et era tanto vano che, ancora che avessi grande entrata,
spendeva tanto, per volere tenere stato non da duca ma da re, che faceva ogni anno
debito molte migliaia di ducati et impegnava gli stati sua.
Nel principio che Francesco venne al regno, a Carlo di Borbone, secondo la
genealogia dei re di Francia, toccava ad esser re, dopo il duca d’Alanson, i progenitori
del quale, non so bene se l’avolo o il bisavolo, per avere fatto contro alla corona, erono
suti privati della successione. Ma il re Luigi
XII
, volendoli dare per donna Margherita,
sorella di Francesco, duca d’Angolem che è ora re, fece che il parlamento dette
sentenzia che Carlo d’Alanson fussi riabilitato alla successione e fussi il primo dopo il
duca d’Angolem.
Monsignor di Borbone, malcontento di questo, non voleva in modo alcuno che
Carlo li precedessi, e però Francesco lo fece stare tacito con farlo gran conestabile. Il
quale officio era stato molti anni sanza crearsi in Francia, perché si conobbe, quando il
re Luigi
XI
fece decapitare il conte di San Polo gran conestabile, che tale officio si tira
drieto troppo seguito e troppa reputazione. E Borbone, sendo fatto gran conestabile,
cominciò, di umile che monstrava prima, a doventare superbo. Et essendo rimasto a
Milano governatore, si portava da signore in modo che il Re, avvertito di questo, li
dette per compagno monsignor d’Averre.
E quando l’imperatore Massimiliano venne presso a tre miglia a Milano nel 1516,
Borbone, se Averre non lo riteneva, si voleva partire. Nondimeno, partendosi lo
Imperatore sanza fare effetto, attribuiva tutta la gloria dell’aver difeso Milano a sé.
Pure il Re non si contentò che restassi in Lombardia, ma lo richiamò in Francia, dove
lui stava malcontento et attendeva a spendere per conciliarsi uomini.
E sendo morta la suocera, che lo sovveniva assai, e poi la moglie senza figliuoli, e
trovandosi gran debito e sendoli mosso lite in su lo stato possedeva, s’accordò con lo
Imperatore e re d’Inghilterra con uno accordo che so n’hai notizia perché è publico, il
quale è tanto vergognoso per lui, quanto si possa dire. E si vede voleva, per
l’ambizione sua, destruggere tutto il regno di Francia perché, se lui aveva odio col Re
perché gli paressi governassi male o per qual si voglia altra causa, o che desiderassi
essere re lui, doveva cercare d’amazzare il Re e li figliuoli et Alanson, generosamente,
e non inducere Cesare et Inghilterra a destruggere Francia. Ma di Borbone sia detto a
171
bastanza, che non merita se ne parli tanto, ché di simili uomini sarebbe bene che
insieme con la vita s’estinguessi la fama, o buona o rea che la fussi.
Ma dimmi, avendo preveduto il male di Roma pmesi avanti, come tu m’hai
detto nel tuo parlare, come fu possibile che tu non ti partissi a buon’ora e ne portassi
teco più cose che tu potevi?
A
NTONIO
: Cotesta è una dimanda che a volerti satisfare richiede una risposta lunga. Et a
me pare che tu non abbi fame sonno; et io son vecchio e desidero posarmi e
domattina parleremo.
B
ASILIO
: Così si faccia! Ma perché staremo ambiduoi in questa camera, che ci sono duoi
letti, se ti destassi questa notte, non ti parrà fatica, per passare il tempo, satisfarmi di
quanto io t’ho dimandato.
A
NTONIO
: Io pensavo, poi che sono stato desto, che io andai a Roma a tempo di papa
Paulo molto fanciullo, nondimeno sentivo dire tutto il giorno a’ Fiorentini et ad altri,
che era impossibile, alle sceleratezze che si commettevono in Roma e massime per li
preti, che quella città potessi indugiare a capitar male. Nondimeno Paulo morì felice,
quanto al mondo, perché estirpò il conte d’Everso dell’Anguillara, il quale non
stimava né preti né religione né Iddio.
Seguì Sisto, uomo uso ad essere frate, e col saper fare l’ipocrito et accomodarsi con
ciascuno, pervenne a quel grado. E questi frati, con la loro logica e teologia,
s’assettono una religione nella fantasia a modo loro, e vanno seguitando; e c che
fanno pare loro ben fatto e lecito. Lui, sendo di vilissima condizione, fece fra Pietro
cardinale, il quale molti dicevono che era suo figliuolo (lui diceva che era figliuolo
d’uno savonese amico suo) e li dette tanta entrata di benefizi, che, insino a quel tempo,
non si trovò mai cardinale alcuno n’avessi avuta tanta.
Questo fra Pietro, assueto ne’ poveri conventi, diventò tanto splendido e dilicato,
che, nel vestire e nel mangiare e nell’abitare, poteva compararsi a qualunque re. Ma la
fortuna lo levò di terra giovane. Et il Papa volse tutto l’animo suo ad un fratello di
detto fra Pietro, chiamato Girolamo, e li dette Imola e Furlì e li dette titolo di conte. E
volse che pigliassi per donna una figliuola di Galeazzo duca di Milano, non legittima;
et in Roma non si faceva altro che quello che voleva il Conte.
Fece cardinale di San Piero ad Vincula uno figliuolo di uno suo fratello e detto suo
fratello fece prefetto di Roma e gli dette Sinigaglia. Et in effetto fece, con l’essere papa,
li sua grandi e di stato e di danari; fece guerre iniuste, concesse per danari tutte le
grazie spirituali, e morì vecchio.
Successe Innocenzio, per patria genovese, ma nobile uomo, che per la facultà
pervenne a quel grado e con non dire cosa alcuna che dispiacessi ma più presto
adulando, inclinato a questo non per astuzia, ma per natura. Pure, nel principio,
s’intrigò in guerra della quale rimanendo al disotto, inclinò l’animo alla pace. E tutto il
resto della vita sua consumò in ozio et in quiete e pensò lasciare
il mondo come lo trovava, et attese a far buona cera. Pur dette qualche somma di
danari a Franceschetto, suo figliuolo naturale, e li comperò l’Anguillara e certi altri
castelli, e li dette per donna una figliuola di Lorenzo de’ Medici. Et infine, sendo
vissuto qualche anno infermo, si riposò in pace.
172
E li cardinali si rinchiusono in Conclavi per fare nuova elezione. E sendosi
considerato assai che cosa era il pontificato, più cardinali feciono ogni estrema
diligenzia di pervenire a questa dignità. Ma sopra tutti la fece Roderigo Borgia
Valentino, vicecancelliere, il quale pensò ad ogni modo con danari ottenere tal grado,
di modo che non restò in Conclavi cardinale alcuno che volessi accettare, el quale da
lui non fussi promesso grossa somma. E non solo dette a’ cardinali, ma a qualunque
era in Conclavi. Ma sopratutto s’ingegnò guadagnare il cardinale Ascanio Sforza,
parendoli che nel collegio avessi gran parte, e li promisse la cancelleria et un bel
palazzo che lui aveva murato nel più celebre loco di Roma.
E seppe in modo usare quest’arte del donare che gli riuscì d’essere eletto
pontefice. E come chi compra una possessione cara pensa di trarne più frutto che lui
può, così lui, avendo comprato il pontificato caro, deliberò non perdonare a cosa
alcuna per trarre danari assai e far li figliuoli (ché n’aveva tre maschi) grandi. Et al
primo comprò uno stato in Ispagna e chiamollo duca di Candia; il secondo fece
cardinale e gli dette benefizi assai; al terzo comprò il principato di Squillaci nel Regno.
Una femmina che aveva, chiamata Lucrezia, dette prima al signor di Pesero, poi, non
li parendo il parentado nobile a suo modo, non volse seguissi e la dette a uno figliuolo
bastardo del re Alfonso, il quale sendo suto morto da Cesare, suo figliuolo cardinale,
per parerli troppo in grazia al Papa, la dette dipoi ad Alfonso figliuolo del duca di
Ferrara.
Ma Cesare, suo figliuolo cardinale, che si chiamava di Valenza, avendo uno animo
efferato e che non pensava ad altro che a dominare, e parendoli che il duca di Candia,
maggior figliuolo del Papa, ostassi a questo suo disegno, lo amazzò una notte di mano
sua e lo gittò in Tevere. Di che il Papa ebbe grandissimo dolore, pure, non volendo
arrogere male sopra male, finse non sapere chi avessi commesso tale omicidio e pensò
dare quelli stati e quella grandezza che disegnava per Candia a Cesare; e lo disfece
cardinale, facendo allegare che, non sendo legittimo, non poteva tenere tal dignità, et
avendo prima fatto provare, quando lo fece cardinale, che era legittimo e nato d’un
cittadino di Valenza, fece provare il contrario. E lo mandò in Francia a portare
l’absoluzione al re Luigi
XII
di poter lasciare la moglie tenuta molti anni, per essere
sterile, e tôrre Anna, duchessa di Bretagna, quale era suta donna del re Carlo
VIII
.
Andò detto Cesare in Francia per mare con tanta pompa e fausto, quanto non si
potrebbe scrivere e fu dal Re accolto con tutte le cerimonie e carezze che si possono
usare. E fece con lui convenzione di ripigliare tutti gli stati che la Chiesa aveva per il
passato dati in feudo e che erono in quel tempo occupati da questo signore e da
quell’altro. Il Re promisse aiutarlo conseguire questo effetto.
Tornò in Italia pieno di speranza e cominciò ad assaltare Imola e Furlì; e ridusse
dette dua città in sua potestà e prese la Contessa, e la mandò a Roma a stare in Castel
Sant’Agnolo. Dipoi messe il campo a Faenza e, sendovi stato più settimane, la prese
d’accordo; et ebbe prigione un giovinetto signore che vi era, e poi che l’ebbe tenuto
più settimane in la sua corte, lo fece strangolare una notte al Bianchino da Pisa il quale
adoperava per ministro in simili crudeltà.
Tolse lo stato a’ signori di Pesero, di Rimini, di Camerino, d’Urbino, e venne verso
Firenze, pensando che vi nascessi qualche novità. Ma considerando poi meglio che, se
173
vi rimetteva Piero de’ Medici, accresceva forza alla parte Orsina la quale desiderava
annichilare, stato che fu alquanti giorni a Campi, e guasto e rubato il paese, si partì
con certo accordo che volse ppresto per cerimonia che perché pensassi s’avessi ad
osservare. E ne andò verso Piombino e lo prese subito, et il signor Iacopo
IV
d’Appiano
si fuggì.
Volse assaltare Bologna, avendo certo trattato co’ Mariscotti per cacciarne e’
Bentivogli e, non gli succedendo, scoperse detto trattato per fare in questa città
maggior confusione, e li Mariscotti furono morti. Venne dipoi a rottura co’ Vitelli et
Orsini che dubitavono della troppa grandezza sua. Nondimeno tanto gli seppe
ciurmare che, sotto uno accordo, li prese e fece morire Vitellozzo et il signor Paulo
Orsino et altri Orsini et il cardinale pure Orsino, e caccGiovan Paulo Baglioni di
Perugia e Pandolfo Petrucci di Siena; e tutti li Colonnesi s’erono partiti dello stato
della Chiesa e ritirati nel Regno di Napoli.
E detto Cesare si fece investire di gran parte delli stati donde ecacciò li signori e
si chiamava duca di Romagna; et era salito a tanta superbia, che disegnava pigliare
Siena per sé e Firenze. Et aiutò il re Luigi pigliare il Regno di Napoli e tôrlo a Federigo
d’Aragonia. Il quale Luigi, per contentare il re Ferrando di Spagna, partì seco detto
Regno, e Cesare pensò che per detta divisione dovessi nascere discordia tra loro et
esser facil cosa che esso avessi a succedere in quel Regno.
Ma, mentre faceva queste cose e pensava a delle maggiori, sopravvenne la morte
di papa Alessandro in tempo che lui si trovava malato gravemente, in modo che restò
prigione del Papa nuovo e tutto lo stato che aveva preso con fatica, con arte, con
inganni e sceleratezze, in pochi giorni mutò signore.
E veramente chi essaminerà bene la vita di papa Alessandro, la troverrà simile a
quelli imperatori romani che facevono ogni cosa per regnare. Lui, per aver danari,
vendeva tutti li benefizi; se alcuno prelato moriva in Roma, voleva tutta la sua eredità;
se sapeva alcuno che fussi ricco, o di danari o di offizi, s’ingegnava farlo morire:
prometteva, accordava e, sotto accordo e fede, pigliava gli uomini et amazzava.
Della libidine non voglio parlare, perché di lui si dicevono cose tanto infame, che
mi è difficile crederle et io malvolentieri dico quello di che facilmente si può mentire,
e, come i principi cominciono a essere odiosi, ciascuno accresce, finge et accumula in
lui ogni vizio. Basta questo, che papa Alessandro, secondo e’ disegni suoi e quanto al
mondo, morì felice.
Fu creato dopo lui Pio III, sanese, uomo vivuto lungamente nella corte romana e,
secondo che sono li prelati, di assai buoni costumi, ma pochi giorni stette pontefice.
E dopo lui fu fatto Iulio
II
, cardinale di San Piero ad Vincula, nipote di Sisto,
chiamato Iuliano da Savona, di vilissima nazione e non solo confidente, ma più presto
audace. In la creazione sua andorono a torno molte promesse di danari, come in quella
di papa Alessandro. È vero che, poi papa, osservò quello che volse. Costui, nel
principio del pontificato, attese a congregare danari, e delle guerre che andavono a
torno fra il re di Francia e di Spagna, non travagliava; ingegnavasi rassettare Roma e
dava gran libertà a’ preti.
Come ebbe congregati tanti danari che li parvono a bastanza a potersi scoprire
pontefice formidabile, cominciò a pensare di liberare Bologna dalla signoria di messer
174
Giovanni Bentivogli e ridurla al governo della Chiesa; e per questo fece lega col re di
Francia et andò in persona a quella impresa, la quale gli successe. Poi, parendoli che
Francia pigliassi in protezione Ferrara, disegnando ridurre ancora quello stato alla
Chiesa et avendo per male che il re di Francia avessi sforzato Genova, fece accordo col
re di Spagna contro a Francia, in modo che Francia rimesse li Bentivogli in Bologna et
il Papa s’ebbe a fuggire a Roma quasi ruinato e, se era seguitato, il caso suo non aveva
rimedio. Aiutollo la buona sorte; ché mandò a fare scendere Svizzeri et in pochi giorni
cacciò Franzesi d’Italia et acquistò Parma e Piacenza, Reggio e Modona; e prima aveva
fatto molte altre cose contro a’ Veniziani.
B
ASILIO
: A punto io volevo dire che tu avevi narrato le faccende aveva fatto papa Iulio e
ne avevi lasciate assai, e massime quelle aveva fatto contro a Veniziani, che erono
sute grande, perché aveva cavato loro delle mani Rimini, Faenza e Ravenna.
A
NTONIO
: L’intenzione mia non è narrare la vita di Iulio, ma monstrare quante cose fece
contro a ragione che li successono bene. E benché fussi immerso ne’ vizi, si riposò alla
fine in pace e fu tenuto un grande e buono papa.
Di Leone voglio parlare poco, perché le azione sua ti sono note come a me, e forse
più. E, mentre che lui era papa, stette molto tempo a Roma; et in effetto, o per buona
sorte o per buon governo, nel suo pontificato a Roma non fu peste, non carestia, non
guerra. E benché in molti luoghi d’Italia fussi guerra, questo faceva che Roma era più
abitata, perché ogn’uomo concorreva quivi, come in porto sicuro; e chi aveva danari
comprava offizi e di quelle entrate viveva commodamente. Morì adunque Leone,
quanto al mondo, felice.
Quello sia successo a tempo di questo lo sai tu. Fatto senza simonia, è vivuto
sempre religiosamente e prudente quanto un altro uomo. Non vende li benefizi, dice
ogni giorno il suo offizio con devozione; alieno da ogni peccato carnale, sobrio nel
bere e mangiare, dà ottimo essemplo di sé. Nondimeno a suo tempo sono sopravenuti
a Roma et a lui tanti mali che poco peggiori ne potrebbono venire.
che ti ho fatto questo discorso de’ pontefici perché tu intenda che, se bene
sempre è stato detto che i peccati di Roma meritano fragello, pure non è successo se
non al tempo di questo Pontefice, quando io credevo avessi manco a succedere. E
benché io prevedessi questo male qualche poco di tempo prima, pe non potetti
riparare a questo disordine, levare le robe me di Roma, per le cause sopradette.
Onde, per concluderla, io voglio attendere a vivere questo resto che mi avanza di
tempo e non voglio dibattermi il cervello a investigare le ragioni delle cose, né voglio
pensare quello abbi a essere. Viverò in su questo mio mezzo podere il meglio potrò e
te conforto a fare il medesimo.
B
ASILIO
: Io non voglio allungare più questo nostro ragionamento, ma che proviamo
ancora a dormire un poco. Domattina ci leveremo e saremo a tempo a parlare di
questa materia e d’altre.
Basta, che per questa volta m’hai satisfatto in tutto quello ch’io desideravo.
175
VII
DISCORSO
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[6r] Noi intendiamo, per la tua delli tre, che Nostro Signore desiderebbe intendere
l’oppenione nostra, se fussi di presente da fare una lega nella quale intervenissino Sua
Santità, Veniziani, duca di Ferrara, Fiorentini e chi altri d’Italia volessi, contro a ciascuno
che volessi molestare questi stati; o vero accordare con Cesare, o suoi agenti, con le manco
triste condizioni che fussi possibile. Sopra che noi abbiamo pensato assai, perché, sendo di
tanto momento e dall’una parte e l’altra possendosi dire molte ragione, non ci siamo potuti
resolvere prima.
Noi possiamo pensare che Cesare aspiri al dominio di tutta Italia, e non solo d’Italia,
ma della maggiore parte della Cristianità, e che sarebbe officio di tutti e’ potentati italici, e
massime del Pontefice, ovviare a questo suo disegno. E cognosciamo ancora, che se li è
permesso di presente che assalti il regno di Francia, il quale la ragione detta che debba
essere pieno di mestizia, terrore e confusione, che sarà facil cosa ne diventi padrone; e,
come questo li sarà riuscito, non vediamo che rimedio abbi Italia.
E però quando questa lega si facessi e si monstrassi allo Imperatore, conducendo
prima gente d’arme e fanti e poi ancora Svizzeri, che detta lega vuole che lui tenga il
Regno di Napoli in Italia, e che li altri stati sieno di chi li possiede, e che non vuole per
niente che si facci signore di Francia, che lui e li suoi agenti si contenterebbono di quello
tengono e non procederebbono più oltre; e veramente questa sarebbe impresa gloriosa e
che si converrebbe proprio a Pontefice Massimo [6v] et illustrissimi Signori Veniziani:
nondimeno tutto quello che apparisce glorioso non è poi utile.
A noi pare che questo corpo d’Italia sia infermo gravemente e che, dandoli una
medicina forte quale sarebbe il pigliare la guerra, lo potrebbe liberare, ma lo potrebbe
ancora condurre alla morte sùbita. Lo accordo mantiene il male a dosso e lo consume: pure
il tempo assetta di molte cose e rompe molti disegni; et il pigliare il beneficio d’esso
qualche volta è molto a proposito.
E’ principali che hanno a essere in questa lega sono il Pontefice e Veniziani. Il
Pontefice entrò in uno pontificato consunto e, sendo stato poi del continuo il mondo
travagliato e non avendo voluto fare cose extraordinarie, crediamo si truovi sanza un
soldo et i danari sono il fondamento della guerra. può sperare molto dai Fiorentini e’
quali, dal ’21 in qua, abbiamo speso più che 600 mila ducati e ne abbiamo perduti per mare
più di 200 e ne restiamo a riscuotere in Francia, cioè e’ nostri mercanti, più che 700 mila: et
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il cominciare accattare nel principio della guerra avvilisce chi l’ha a fare con questo mezzo
e dà animo allo inimico, perché considera che non può molto durare.
E’ Signori Veniziani hanno avuto, da 15 anni in qua, spese e perdite infinite, pure
crediamo arebbono modo a fare danari e gente. Ma non sappiamo come loro potessino,
sendo assaltato Nostro Signore per la via del Regno di Napoli, mandando l’Imperiali gente
contro a Piacenza e Parma per venire poi a Bologna et in Toscana, come loro potessino
soccorrere Sua Santità avendo a pensare a l’altra parte dell’essercito che restassi in
Lombardia, [7r] et ancora, bisognando che stieno provisti dalla banda della Magna, ché
non è da credere ch’el principe don Ferrando, in tanto pericolo dell’Imperatore, non
pensassi da quella parte fare qualche diversione. E’ Signori Veniziani hanno Brescia,
Verona e Padova, oltre all’altre città, fedele forte e ben munite le quali sarebbono per
tenere a tedio ogni grosso essercito qualche tempo. E quando bene la mala sorte dessi che
si perdessino, hanno la città di Venezia nel mezzo dell’acqua e bene ordinata, con uno
governo tanto perfetto et antiquato, che non porta pericolo né d’alterazione drento
d’assalto alcuno fuori. Ma la Santità di Nostro Signore e noi siamo in altro termine, e
massime Sua Santità che in tutte le terre sue ha le fazzione, et in Roma medesima, in modo
che gli bisogna e tenere essercito contro alli inimici, entrando in guerra, e poi tenere
guardato con fanti molte delle sue terre.
E però noi saremmo di parere d’accordare di presente con Cesare, con quelle
condizioni si potessino avere: cioè con dare qualche somma di danari in tempi, d’un modo
che non fussi somma che ci conducessi alla morte sùbita; ché quando Sua Maestà volessi
quello che non fussi possibile, si potrebbe pensare volessi e la libertà e stato di ciascuno, e
sarebbe in tal caso da mettersi a ogni pericolo et a ogni sbaraglio et indicare che fussi
meglio morire per man d’altri che occidersi da sé medesimo.
può Sua Santità scoprirsi apertamente in condurre Svizzeri, che sarebbono
necessari in questa guerra, perché ha dificultà nel mandarvi e poi nel <ne>goziare; e
sarebino prima scoperti [7v] e’ disegni suoi che li abbi, nonché coloriti, ma cominciati. Ma
e’ Veniziani, che sono loro vicini e vi possono mandare sanza che nessuno ne abbi notizia,
gli potrebbono bene tentare facilmente e con pochi danari, come fece papa Iulio nel ’l2,
farne scendere gran somma; la quale, avendo gl’Imperiali ancora il re di Francia prigione
in Italia, darebbe loro che pensare assai e, forse, dove al presente vogliono dare le
condizioni a altri, s’accorderebbono a quello potessino. Ma Nostro Signore per le ragioni
dette di sopra, bisogna proceda con altri respetti.
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VIII
PARERI
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Reverendissimo Signor mio,
a volere determinarsi che qualità di governo sia conveniente pigliare, ci bisogna
essaminare quanti nimici abbiamo nella Città e di che qualità. Et essaminando questo,
troverreno delli giovani atti all’armi che hanno, come usiamo dir noi, el benefizio averne
inimici, delli cento, novanta. procede questa inimicizia da iniurie che abbino ricevute
pel passato dal nostro governo, ma procede perché tutti li uomini sono tirati dalla voluptà,
e li giovani libertini, con la licenzia dello stare armati, giudicavono esser signori delli altri
uomini, avere ben da mangiare, meglio da bere, aver femmine et altri senza timore di
legge, vestire come volevono, far debito e non pagare, commandare in casa al padre et agli
altri fratelli non atti all’armi; in modo che non è cosa non facessino, non è pericolo al quale
non si mettessino per ritornare ne’ medesimi termini.
Abbiamo dipoi inimici tutti quelli libertini, da trentacinque anni in su, che
frequentavono il Consiglio, i quali si giudicavono esser felici nel primo grado quando si
trovavono nel Consiglio a deputare e’ Signori, li Dieci, li Otto e li altri magistrati d’onore e
d’utile della Città; e’ quali non è possibile contentiamo, e sempre saranno intenti alla ruina
nostra.
Sonci dipoi quelli che conseguivono e’ primi magistrati: erono de’ Signori, di
Collegio, de’ Dieci, delli Otto, de’ Nove, delli Ottanta; e’ quali avevono un piacere
incredibile quando un di noi, a chi erono soliti domandare d’esser veduti Gonfalonieri o
de’ Settanta, capitava loro alle mani o con difficultà otteneva d’essere udito. Di questi, che
son forte ambiziosi, ce ne potreno fare amici alcuni più deboli; ma li maligni, se non son
dati loro e’ primi gradi, non si muteranno e non ci possiamo fidare di darli loro.
Restono nella Città li artefici minuali, che non intervenivono nel Consiglio,
partecipavono di governo, e’ quali ci doverremmo sforzare farci amici; ma non lo
possiamo fare, perché le spese necessarie che abbiamo ci constringono a porre danari: e
l’amore de’ popoli verso il principe procede dall’utile. Questi commessari ecclesiastici
cercono di tôr loro compagnie e spedali per mettervi monache, e’ quali loro hanno
posseduti lungamente e fattoli con le loro spese e fatiche; e, quando ne saranno privati,
resteranno in malissima satisfazione. Hanno ancora questi artefici, nel tempo della guerra,
178
comperato da arte e da spedali perché guadagnavono, et ora il privarneli gli dispererà in
tutto.
Considerato adunque l’inimici che abbiamo, siamo necessitati a pensare di tenere
questo stato per forza, né possiamo avere molti respetti che ebbe Cosimo e poi Lorenzo.
E sarebbe forse il più vero modo di tenere questo stato che il duca Alessandro ne
ottenessi l’investitura dall’Imperatore e se ne facessi in tutto signore et avessi il titolo e li
affetti. Ma questo non approverrà, perché l’Imperatore è uomo giusto e, nella
capitolazione che fece don Ferrando con la Città, promisse conservarli la libertà; e sarebbe
possibile che, quando fussi ricerco da Nostro Signore di questa investitura, la negassi: di
che seguirebbe qualche alienazione d’animo tra l’uno e l’altro, il che iudicherei pernizioso
e per Nostro Signore e per noi. Ma dato che l’Imperatore acconsentissi, a me pare che il
Papa ne sarebbe biasimato da tutti li uomini; e, soprastandoli un concilio, non credo fussi a
proposito di Sua Santità incorrere in questa nota. Perché quello è seguito insino al presente
si può molto bene difendere et escusare per molte ragioni, le quali quando io adducessi
sarei troppo lungo, ma il pigliarne il titolo, non si potrebbe escusare. E però siamo
necessitati venire a un modo: che in fatto Alessandro sia padrone e facci quello ch’e’ vuole,
et alla Città resti questo nome vano di libertà.
E perché, com’io dissi di sopra, non possiamo procedere co’ modi che procedeva il
Magnifico Lorenzo, perché abbiamo pochi amici, ci bisogna senza respetto pigliare quelli
modi che iudichiamo essere a più nostra sicurtà, perché chi trovò il Consiglio, trovò
l’opposito a punto al governo di Cosimo e di Lorenzo, perché Cosimo, quando confinò
tanti cittadini nel ’34, tirò su, in cambio di quelli, molti uomini nuovi, e’ quali li aiutorno
conservare lo stato.
Ma noi non possiamo fare così e la sperienzia ce l’ha monstro, perché li più di quelli a
chi noi abbian dato lo stato dal dodici in qua, ci sono stati contro. E questo procede perché
a un uomo nuovo non si posson dare li primi gradi, ma è fatto de’ Signori e di Collegio,
poi resta quivi; ma lui che sa che, mutandosi modo, per aver acquistato il benefizio sarà
del Consiglio e si troverrà a fare li Signori e li altri magistrati, desidera la mutazione e, poi
ch’è seguita, fa ogni opera che si mantenga lo stato populare.
Non potendo, dunque, noi usare li modi di Cosimo e Lorenzo, siamo necessitati
imitare Pandolfo Petrucci, il quale, o voglianlo chiamare tiranno o primo cittadino, si
governò in modo che merita d’essere lodato et imitato. E però noi terremo la guardia, con
buon capo, bene ordinata e ben pagata; e leveremo l’arme, massime all’inimici, e non la
lasceremo portare a persona, perché non possiamo fare cosa più utile alla conservazione
della Città e nostra che ridurre li uomini all’arte et a’ piaceri, e Lorenzo non studiò in altro.
Ma perché, volendo mantenere quest’ombra di libertà, abbiamo bisogno delli uomini,
io credo che sia bene ingegnarsi di avere bisogno di pochi. E però io non farei più Collegi,
ridurrei la Signoria a cinque, c ci gioverebbe a aver bisogno di manco uomini et a
spender meno, farei li Otto di Pratica e li Otto di Guardia, dieci Accoppiatori, tredici
Procuratori, e mi governerei con questa Balìa, la quale, avendo da vincere le deliberazioni
per la metà, raro sache non s’ottenga quello che si prepone. E quando intendessi che
nessuno che fussi in questi magistrati andassi variando, non dico in cose frivole, ma in
quelle che concernessino lo stato, subito bisognerebbe privarlo; et avendo tanti nimici
quanti abbiamo, non si ha a guardare di averne più o manco uno. Et in effetto noi siamo
179
constretti a tenere lo stato con timore, perché tutti li uomini sono amatori, per natura, della
vita, ma e’ Fiorentini più che tutti li altri.
Lo squittino delli ufici che danno qualche utilità, credo sarebbe a proposito fare, con
animo, però, che li Accoppiatori imborsassino a punto quelli che paressi loro e non
guardassino a chi avessi vinto o no; in modo che lo squittino fussi per cerimonia e non per
altro effetto. Questo squittino farà che li uomini stimeranno pure poter avere qualche
ufizio e pagheranno le loro imposizioni con questa speranza; le quali sarebbe gran
difficultà riscuotere con avere a pigliare tutti li uomini e gravarli. Importa assai, pigliando
questo modo di vivere, avere ministri a proposito, e massime alle Reformazioni, alle Tratte
et alli Otto di Pratica e di Guardia, perché, in fatto, abbiamo di necessità di ministri secreti
e che faccino a punto a modo nostro e che non la guardino pel sottile.
Ma quello che importa il tutto è che il Duca sia uomo che pigli piacere d’esser signore
in fatto d’una città come questa e d’un paese che non è il più bello in Italia: e se bene è di
presente consumato e ruinato, egli è sì giovane che può credere averlo a vedere tornare
com’era prima.
E perché non sarà possibile che egli pensi a molte cose che occorrano, sarà necessario
che Nostro Signore pensi darli un uomo appresso, di buona qualità. E perché, insino ch’el
Duca non viene, siamo constretti andarci ordinando, e Vostra Signoria mi ricercava con chi
avessi a consultare, a che io rispondo, a quello che a me occorre, che Vostra Signoria
chiami li Otto di Pratica e li Procuratori, o insieme o di per sé, secondo la qualità delle cose
che accade essaminare: perché chiamando altra pratica, certi che ci sono di buona qualità,
restando indrieto, resterebbono ancora poco contenti, et il chiamare assai, oltre al generare
confusione, fa poca riputazione.
Non voglio mancare di ricordare a Vostra Signoria che, non potendo noi mancare
della guardia che costa scudi tremila il mese, si facci ogn’opera di mancare dell’altre spese.
Noi abbiamo San Secondo, Bellotto et il figliuolo di Malatesta, con cavalli leggieri, che
costono l’anno scudi quattordicimila. Io crederrei fussi bene, quando si trovassi modo, che
non tenessino cavalli e che si dessi a loro tal provisione, si contentassino: ché quando se ne
dessi a loro quattro o cinque, non sarebbono male spesi, e rispiarmare il resto. De’ cavalli
non abbiamo che fare e ci consumano el paese, e per le fazioni che occorressino, ci varremo
più d’un bargello che delli cavalli leggieri.
Sarebbono molte altre cose da ricordare, massime come noi altri cittadini ci
doverremmo portare, le quali Vostra Signoria prudentissima per medesima intende e,
di giorno in giorno, intenderà meglio. E prego Vostra Signoria mi abbi escusato se con
questo mio scritto non ho satisfatto a Quella, perché confesso essere stato sempre poco atto
a scrivere sopra e’ negozi tanto importanti, e l’età e la dessuetudine me n’ha alienato in
tutto. Pure non ho potuto mancare non satisfare a Vostra Signoria di quanto mi ha ricerco;
alla Quale del continuo mi raccomando.
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Non piacendo a Nostro Signore ch’el Duca diventi principe assoluto della città, è
necessario che quella si governi co’ magistrati, e’ quali abbino el nome, ma il Duca sia
quello che in fatto governi il tutto. Ma perché gli uomini che saranno ne’ magistrati e che
hanno el nome, male si contentano se non hanno ancora il fatto, come tutto giorno
proviamo per esperienzia, a noi bisogna pensare di levar via quelli magistrati, i quali si
tiron drieto più riputazione, e quelli che la sperienzia ha monstro che son causa o, per
meglio dire, danno il moto alla mutazione. E questi sono li Signori, perché è magistrato
antiquato nella Città, et, a poco a poco, si ha tirato drieto tanta auttorità, che, ancora che
non l’abbi dalle leggi, fa quello che vuole sanza averne a rendere conto. E si è visto nel ’94,
nel ’98, nel 1512, nel ’27 dua volte, nel ’30, che li Signori, o per loro propria voluntà o
sforzati, mutano lo stato.
Però io giudicherei che fussi a proposito nostro levare tal magistrato, e li negozi che
fanno loro, parte darne alli Otto di Pratica, parte alli Otto di Guardia. Il levare la Signoria
fa che loro, quando fussino d’accordo a nuocerci, non lo possono fare; fa, ancora, che non
possono essere sforzati a nuocerci, quando fussino di buono animo. E se mi fussi risposto
che quelli che saranno tanti potenti che possino sforzare li Signori, saranno ancora potenti
a superarci e cacciarci, risponderei che questo non seguita, perché è possibile che venti o
trenta uomini sforzino la Signoria, faccingli fare deliberazioni, faccingli sonare la campana,
convocare il populo, mandare bandi et, infine, voltarci tutto l’universale contro; ma
quando ci aranno a cacciare per forza, bisognerà che sieno superiori a noi e di numero e di
valore. Il che non riuscirà loro, perché la maggior parte degli uomini, infino non precederà
il partito della Signoria che levata non potrà precedere, starà da canto a vedere il giuoco,
come si vidde fece a 26 d’Aprile nel ’27, perché, insino che la Signoria non fu forzata a
far sonare la campana, pochissimi si mossono per ire a Palazzo.
Potrebbemi esser detto che, non potendo l’inimici sforzare li Signori, sforzeranno chi
sarà in lor luogo, come dire gli Otto di Guardia: a che io rispondo che gli Otto staranno in
Palazzo quattro ore del dì e non più, e sono ore che la piazza è più frequentata che l’altre, e
mal potranno gli avversari congregarsi per nuocer loro, che non si vegga. Inoltre, non
hanno ancora tanta riputazione, non possono sonare la campana, perché, se si leva la
Signoria di Palazzo, è bene levare ancora le campane e non vi lasciare se non quella che
convoca la Balìa. Non è ancora il medesimo pericolo nelli Otto che ne’ Signori, perché non
hanno commodità di stare insieme tutto giorno, come e’ Signori; e nello stare e parlare si
può ordinare molte cose, che non si può far così quando si trovono insieme poche ore del
dì et in quelle hanno molte occupazioni.
Sarammi detto che questo è a proposito, perché gl’inimici non ci possino nuocere, ma
che bisognerebbe trovare il modo a mantenere gli amici o accrescerli. A che io dico che
questo si pfare con dar loro onori et utili; e, levando li Signori, si leva tanta spesa che si
può dar utile alli magistrati che hanno onore: come sono Dodici Buoni Uomini, ch’è ora
tutt’uno con li Conservatori delle mura, Otto di Pratica, Otto di Guardia, Conservatori di
legge, quali sino a qui non hanno avuto salario, et al presente si potrà dar loro: e gli
uomini sono tirati assai dall’utile.
Non approverrei già quello ch’io ho inteso dire a qualcuno, che si dichiarassino
cinquanta famiglie nobili le quali avessino tutta la dignità et utilità, e gli altri tutti fussino
plebei potessino avere cosa alcuna. Perché, se voi pigliate le famiglie intere, pigliate
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molti che vi sono stati nimici; se ne pigliate parte, pigliate pochi uomini; se volessi pigliare
molti uomini, non gli potete pascere; se pochi, rimangono debili.
Però io iudico che sia bene dare speranza a ciascheduno di poter essere de’ nostri.
li Fiorentini hanno tanta generosità d’animo che ritenghino ostinatamente l’ostinazione
delli avoli e padri loro; e nenostri tempi abbiamo veduti molti, e’ padri de’ quali sono
stati amicissimi de’ Medici, avere variato, e così di quelli che sono stati avversari, essere
stati et essere al presente amicissimi.
Se si levono li Signori, ci sarà nella città da pascere molti uomini; o, se questo
squittino per li altri ufizi fuora e dentro paressi troppo largo, il modo è facile a correggerlo,
senza che lo sappi altri ch’el Duca e l’Arcivescovo e ser Bastiano delle Tratte, el quale è
uomo astuto: così ne avessimo noi nelli altri luoghi! E fu necessario nel principio un poco
allargarlo rispetto a fare gli uomini paganti delle gravezze.
Ma, se noi pigliassimo un modo, e non si ponessi altra gravezza che la decima, non
importerebbe il fare gli uomini paganti: percla decima io la vorrei vendere all’incanto,
comune per comune, o per pieviere o populo, secondo ch’io trovassi, e quello si traessi per
detta decima, vorrei rendere alle paghe del Monte, e non altro.
Et è ora mai questo Monte ridotto in luogo che le povere donne, o altri che ne hanno,
parrà loro una bella cosa se si mantiene quello che è fatto quest’anno; e se vedranno
assegnamento buono, tanto più ne saranno sicuri. L’albitrio il vorrei avere posto, ma per
non lo usare se non in tempo di necessità. E così, avendo ordinato el Monte, avendo
ordinata la gravezza e le degnie gli ufizi, si potrebbe dire che iI nostro stato fussi assai
ben fermo.
E chi considera bene, la dissensione che è stata fra noi, non è stata fra gli nobili e
plebei, come è al presente quella di Lucca; ma li tristi, gl’ignoranti e li poveri volevono
superare li buoni e prudenti e ricchi. E però questi doverrebbono essaminare a che termine
sono stati et a che termine verrebbono, se mala sorte dessi che perdessino; e però
doverrebbono stare vigilanti, e non pensare ad altro che a conservare e difendere questo
stato quando ne avessi bisogno.
Molte altre cose sarebbono da scrivere circa a questo, ma si possono molto meglio
dire che scrivere. Et il tutto consiste, in fine, che il signor Duca, sendo di tanto buono
ingegno quanto è, voglia durar fatica e mettere la fantasia a queste nostre cose perché le
leggi non le possono regolare, ma lui bisogna sia quello che le regoli tempo per tempo. E
volendo tenere questo stato, come è detto di sopra, co’ magistrati, bisogna abbi confidenza
ne’ cittadini, cosa alcuna fa p gli uomini partigiani che quando conoscono che sia
confidato in loro.
Questo che ho scritto arebbe avuto bisogno di più considerazione, ma pensi Vostra
Signoria proceda da affezione. E se altro mi occorrerà, essaminerò con più diligenzia e ne
darò notizia a Vostra Signoria, alla Quale mi raccomando.
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Che si deliberi una provisione nella Balìa, per la quale si dia auttori a’ presenti
Signori di eleggere
XII
uomini con auttorità, per dua mesi, di riordinare el governo, in quel
modo e forma parerà loro. Ancora, abbino auttorità di rassettare molti disordini et abusi
che seguono al palagio del Potestà et Indici di Ruota, circa le lite; et ancora, di ridurre la
gravezza della decima, in forma sia pviva e meglio ordinata; e riordinare li libri di essa
in quel modo parerà a loro. E generalmente, abbino tutta l’auttorità, per dua mesi, che ha
la presente Balìa; e tutto che per loro sarà deliberato, vaglia e tenga come se fusse
deliberato da quella.
Provveghino, detti Dodici, che per lo avvenire non si faccia li Signori e Gonfaloniere
di Iustizia: e che le faccende si trattavono dinanzi a loro, parte ne trattino li Otto di Pratica,
parte li Otto di Balìa, parte li Conservatori di legge: e si distinguino tali faccende secondo
ordineranno detti Dodici deputati.
Ancora, provveghino che la Balìa si accresca fino al numero di dugento; e perché
dificile è il congregare tanto numero di dugento della Balia, sia deputato Quarantotto, li
quali si chiamino Accoppiatori et abbino auttorità secondo di sotto si dirà.
Infra di loro si vinca, per la metà delle fave nere, tutte le provisioni attenenti al
Comune, così di provisioni di danari come d’altro; e basta si raunino li dua terzi di quelli
saranno in la città, e, così adunati, vinchino li loro partiti per la metà delle fave nere et una
più, come è detto. Duri l’offizio di tali Accoppiatori uno anno; ma si possi raffermare per
la metà delle fave et una più, d’anno in anno.
Non abbino alcuno salario né mance, o procedino in Palazzo; di che vacandone
alcuno per morte, si facci lo scambio del numero della Balìa per partito de’ Quarantotto,
come di sopra.
Siano dodici de’ Quarantotto divisi secondo parrà alli Dodici che al presente aranno
l’auttorità per tre mesi; abbino a creare li magistrati, si dirà di sotto, in modo che in un
anno tocchi a tutti li Quarantotto.
E perché, levandosi la Signoria e Gonfaloniere, non è conveniente quella auttorità si
spenga e vachi in tutto, per molti casi che potranno avvenire, bisogna provvedere che la
detta quarta parte delli Accoppiatori faccia, del numero de’ Quarantotto, quattro cittadini,
li quali succedino in luogo de’ Signori e si chiamino similmente Signori; ma non stieno in
Palazzo, abbino altra preminenzia ch’il precedere a tutti li altri magistrati in ciascuno
luoco, riservato il grado e degnità a cavalieri e dottori. E duri tale uffizio mesi tre; et il
Duca sia sempre capo di tali Signori, quasi come et in luoco di Gonfaloniere; e si raunino
in Palazzo, o dove parrà alla Eccellenzia del Duca, possino debbino alcuna
deliberazione né partito fare sanza la presenzia di Sua Signoria. E, perché può accadere
Sua Signoria non si trovassi in la città o si trovassi in altro occupato, possa substituire in
suo luoco un cittadino fiorentino, per poco tempo o assai, come li piacerà; il quale
intervenga con detti quattro Signori, e quali insieme con Sua Signoria saranno cinque.
Debbesi infra di loro vincere li partiti per tre fave nere almeno; et in questo magistrato sia
la suprema auttorità che si usa dire avere la Signoria al presente.
Faccino ancora, detti dodici Accoppiatori, il magistrato de’ Dodici Buoni Uomini; de’
quali sempre faccino almeno uno del numero de’ Quarantotto, tre del numero della Balìa,
il resto cittadini con le qualità eccellenti; ma basti, chi a tal magistrato sarà assunto, avere
anni ventiquattro forniti.
183
Li Quarantotto Accoppiatori, o li dua terzi di loro, insieme radunati, presidente la
Signoria del Duca o substituto suo, deliberino infra di loro, come si fa al presente in la
Balìa, li dodici Procuratori, li Otto di Pratica, li Otto di Guardia, li Conservatori di legge,
Capitani di parte, Consoli di mare di Pisa, Capitano e Commissario di Pisa, di Arezzo, di
Pistoia, imbasciadori et altri commissari, quando accadessi.
Non sia più necessario che le provisioni di Comune, di Otto di Pratica e di Guardia,
Conservatori et altri uffizi, da deliberarsi per detti Quarantotto, si deliberino prima tra li
dodici Procuratori; ma basti la deliberazione di detti Quarantotto.
La Balìa de’ Dugento non si raguni sanza il consenso del Duca, o suo substituto, nel
modo che di sopra li Quarantotto; e basta si rauni li dua terzi, come al presente: e quella
abbi a deliberare tutte le provisioni attenenti a particulari persone; e si debbino, tal
provisioni o petizioni, prima ottenere per li dua terzi de’ dodici Procuratori e, poi, per li
dua terzi della Balìa.
Abbi ancora auttorità di fare tutti li uffizi di fuori, et hanno di salario ducati 600 o
più, in sei mesi, et altresì tutti li uffizi di Firenze che hanno di salario più che ducati 3 il
mese, salvo quelli che di sopra è detto si aspettono a fare alli Accoppiatori. E faccino tali
uffizi in questo modo: che per qualunche uffizio si tragghi la metà nominatori, e nominino
chi parrà loro abile a tale ufizio; e la metà si tragghino della borsa generale de’ seduti e
veduti, li quali, tratti e nominati, vadino a partito; e tutti quelli otterranno il partito per la
metà delle fave, s’imborsino, e se ne tragga uno a sorte.
Tutti li altri uffizi si tragghino delle borse ordinarie delli squittini.
Li stanziamenti ordinari si ottenghino intra quattro Signori, intervenendo sempre la
Signoria del Duca, o suo substituto, Dodici Buoni Uomini, Procuratori, Otto di Pratica, di
Guardia: e li stanziamenti ch’al presente si ottengono tra li Signori Otto di Pratica,
s’ottenghino nel medesimo modo.
Delli Otto di Pratica, ne sieno sempre almanco tre del numero delli Quarantotto
Accoppiatori, et il resto tutto della Balìa.
Delli Otto di Guardia, ne sia almeno del numero delli Accoppiatori uno e cinque
della Balìa almanco.
De’ Conservatori, sia almeno uno de’ Quarantotto, sei della Balìa almanco. Delli
Capitani di parte, uno almanco de’ Quarantotto e tre della Balìa. De’ dodici Procuratori,
uno de’ Quarantotto almanco, il resto della Balìa.
E perché levando li Signori di Palazzo, si lieva molta spesa, atteso ch’oltre la spesa
del vivere de’ Signori, di tempo in tempo che morissino li servitori di Palazzo, si potria
fare sanza substituire delli altri, insino sieno ridutti a certo numero conveniente; et avendo
li altri magistrati, levando la Signoria, a durare più fatica, sì può provvedere che li
infrascritti uffizi abbino salario in lo infrascritto modo.
Li Otto di Pratica, ducati sette per uno il mese, limitato le mance.
Li Otto di Guardia, ducati sei, computati ducati otto che hanno adesso.
Li Dodici Procuratori, ducati cinque
Li Dodici Buoni Uomini, ducati cinque
Li Conservatori, ducati cinque il mese
Li Capitani di parte, ducati cinque
Molte altre ordineranno poi meglio li Dodici deputati per riordinare la città.
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[19v] ... provegghino detti Dodici così eletti che per l’avvenire non si faccino Signori e
Gonfaloniere e’ quali stieno in Palazzo, e che le faccende ordinarie, che si trattavono inanzi
a loro, parte ne trattino li Otto di Pratica, parte li Otto di Guardia, parte li Conservatori; e
si distinguino dette faccende secondo ne ordineranno particularmente detti Dodici.
Questo capitolo a noi non pare si debba alterare, perché non intendiamo che questi
magistrati s’intromettino delle faccende che fa la Signoria circa lo stato, ma solo quanto a
cose particulari; e per dare l’essemplo: viene alla Signoria uno suddito e si duole che non li
è osservato capitolo, privilegio o essenzione, tal caso si rimetterà alli Otto di Pratica; viene
uno altro povero uomo o donna e si querela che è stato circunvento e fattoli fare un
contratto fuori della mente sua, questo si rimetterà alli Otto di Guardia; viene uno e dice
che ha diferenzia con uno altro e non ha il modo litigare, e così un congiunto che vorrebbe
fare compromesso con l’altro, tal caso si rimetterà a’ Conservatori; in modo che, che come
si vede, l’auttorità che si a tali magistrati non ci può nuocere circa il governo. E però
non è necessario che il Duca, con li collegi, dia l’auttorità a tali magistrati di tempo in
tempo, come si fa al presente alli Otto di Guardia; perché, come diciamo, non hanno a
trattare cose appartenente allo stato, eccetto che li Otto di Guardia, e’ quali, quando
deviassino da quello paressi al Duca, non li mancherà il privarli dell’uficio, come altra
volta ha usato fare la Signoria verso li magistrati che non hanno tenuto conto della volon
sua. [19v]
Ordinino, ancora, che alla presente Balìa s’aggiunga quel numero d’uomini che parrà
a detti Dodici.
Noi dicemmo insino in dugento, stimando che tal numero comprendessi tutti quelli
che era conveniente v’entrassino per essere confidenti o avere qualche qualità che
meritassi non li lasciare indrieto, non vi volendo drento in modo alcuno disperati. E non
intendemmo per questo di ristringerci che non ne potessino fare manco che dugento, et
ancora più. Parevaci bene da ridurci a un numero determinato, come è a dire dugento o
dugentotrenta, accche, se nessuno si dolessi essere restato adrieto, si potessi dire esser
nato per non poter eccedere el numero declarato nella provisione.
Voi ancora dite, circa questo capitolo, che sarebbe bene mandare il numero largo,
acciò che Sua Santità gli potessi essaminare costì; il che ci pare bene considerato e si
manderà. Ma quanto a quello che dite, che sarebbe bene che chi ha a essere ne ricercassi il
Sig. Duca e lo ricognoscessi da lui, vi rispondiamo che crediamo che si farà più tosto
perdita che guadagno; perché molti chiederanno, e’ quali non potranno essere
compiaciuti, in modo che li mal satisfatti saranno molti e li satisfatti pochi.
185
Non piacendo il nome delli Accoppiatori, si mutee li chiameremo eQuarantotto;
ma a noi pareva, avendo preso un nome usatosi sempre al governo de’ Medici, e non mai
al governo populare, che non dovessi essere ricusato.
Non sappiamo già come si possino mutare e’ nomi d’Otto di Pratica, d’Otto di
Guardia, Procuratori e Dodici Buoni Uomini e Conservatori, cci parrebbe imitare nomi
usati sempre al governo de’ Medici e che ne potessi nascere, in un certo modo, confusione.
Pure questo non ci pare che importi molto. [20r]
6. Duri l’ufficio loro insino che vivono.
In su la nota mandammo, dicemmo che durassi uno anno, ma che si potessino
raffermare, d’anno in anno, per loro medesimi per la metà delle fave; perché a noi pareva
che fussi a vita e, nondimeno, che questa parola per uno anno, mitigassi la invidia di quelli
che ne restono fuori; et inoltre che l’auttorità del Duca restassi maggiore, sendo in sua
auttorittà farli raffermare o no. E se noi abbiamo a dubitare di non avere la metà delle fave
in Quarantotto, nelle cose che concernono il beneficio loro proprio, non possiamo pensare
tenere questo stato co’ cittadini, ma ci bisogna pensare a altro modo.
7. Circa il settimo capitolo, noi non diamo salario a questi Quarantotto, perché il dare
poco sarebbe una meschinità, l’assai, sendo la citin tanto disordine, la disordinerebbe in
tutto e farebbe lo stato odioso alli altri, che si trovassino nella Balìa ma fuori de’
Quarantotto. Ché oltre a l’onore parrebbe che quelli avessino troppo utile; e questi altri
non potremmo pensare che stessino in modo contenti da confidarne. E dando salario a
quelli magistrati, che noi nominiamo ne’ sussequenti capitoli, ne toccherà parte a detti
Quarantotto.
8. Vacandone alcuno per morte, si facci lo scambio per il Duca e li quattro Collegi,
traendolo sempre del numero della Balìa.
Noi avammo detto che lo scambio si facessi per li Quarantotto, e ci pareva dare in
questo più grazia al Duca, perché arebbe nominato chi fussi parato a lui, e per la metà
delle fave si sarebbe ottenuto. [20v]
9. Sieno dodici di loro divisi secondo parrà alli Dodici presenti Riformatori, e’ quali
abbino auttorità, per uno anno, di creare li quattro collegi del Sig. Duca e li Dodici Buoni
Uomini; e da un anno in si dividino secondo ordineranno li quattro collegi insieme col
Duca o suo substituto per loro partito.
Diciamo in questo capitolo che li Dodici Accoppiatori creino li Dodici Buoni Uomini,
acciò possino fare vedere per non privare li uomini del beneficio secondo è stato d’uso.
10. Perché, levandosi e’ Signori e Gonfaloniere di Palazzo, non è conveniente che
quella auttorità suprema vachi, per molti casi che potrebbono occorrere, però si provede
che la quarta parte delli Accoppiatori, ordinata come di sopra, faccino del numero delli
Quarantotto Accoppiatori quattro cittadini, e’ quali si chiamino Consiglieri e succedino in
luogo delli Signori; ma non stieno in Palazzo, abbino altra priminenzia se non che
precedino a tutti li altri magistrati ne’ luoghi pubblici e privati, et ancora a cavalieri e
dottori. E duri l’uficio loro mesi tre, e sia del continuo Alessandro de’ Medici, durante la
vita sua, capo d’essi e si chiami duca della Republica Fiorentina, come si chiama il duca di
Venezia e di Genova; e dopo la vita sua, la quale piaccia a Iddio sia lunga, succeda nel più
prossimo a lui di sangue, secondo che ne dispone il privilegio concesso a questa città dal
Serenissimo Imperatore. E questi s’adunino in Palazzo, o altrove dove parrà a detto Duca,
186
e non possino debbino fare deliberazione alcuna, se non alla presenzia di detto Duca; e
perché a lui potrebbe occorrere non essere nella città o, se fussi in quella, essere occupato,
possa substituire in luogo suo uno, come a lui liberamente parrà e piacerà, el quale
intervenga con detti quattro consiglieri, quando non pintervenire lui. E perché, insieme
con detto Duca o suo substituto, [21r] saranno cinque, debbinsi eloro partiti ottenere per
tre fave nere almeno; et in questo magistrato sia quella auttorità supprema che s’usa dire
avere al presente la Signoria.
Questo capitolo l’abbiamo fatto secondo la nota ne mandate <e> il ragionamento
abbiamo avuto col reverendo di Capua, salvo che, dove voi chiamate Alessandro de’
Medici principe, noi li diamo il titulo di duca che a noi pare più conveniente per lo
essemplo diciamo di sopra. approviamo la toga et il servitore drieto a’ Consiglieri,
perché pensiamo che l’auttorità che hanno sia in fatto e non in apparenzia, la quale
intendiamo dependa tutta dal Duca; e quanto manco riputazione resta in loro nome, più
sia a nostro proposito e più se ne cresca al Duca. diciamo che de’ quattro possa essere
uno fuori del numero de’ Quarantotto, perché pensiamo che in tre anni possino essere tutti
e’ Quarantotto; e che se nessuno restassi indrieto per mettervi uno altro della Balìa gli
paressi esser notato et, in oltre, per levare al Duca fastidio d’esserli dimandata tal dignità
e, conseguendola pochi, ne resta mala satisfazione in quelli che non la conseguiscono.
Sia proposto sempre tra detti cinque esso Duca, o suo substituto, e nessuno
consigliere possa proporre; e lui sia del continuo proposto et in questo magistrato e nelli
altri, come si dispose l’anno passato per altra provisione, e secondo il contenuto del
privilegio del Serenissimo Imperatore.
E perché potrebbe accadere che de’ detti quattro consiglieri qualcuno ne fussi malato,
o per qualc’altra causa non si potessi ragunare quando detto Duca, o suo substituto, [21v]
lo chiamassi, sia in tal caso auttorità di detto Duca, o suo substituto, surrogare uno o più in
luogo di quelli che fussino assenti per una volta o più, secondo che a lui o a suo substituto,
parrà; e quello che sadeliberato per detto Duca, o substituto, per tre fave nere vaglia
come se fussi deliberato dalli consiglieri principali.
12. Li Quarantotto insieme ragunati per ordine del Duca, o suo substituto, sanza il
comandamento del quale non si possino ragunare, dove sia presente lui, o suo substituto,
e dua almanco de’ consiglieri, deliberino tra loro come si fa al presente nella Balìa li Dodici
Procuratori, li Otto di Pratica, li Otto di Guardia, Conservatori di legge, Proveditori delle
mura e fortezze, Consoli di Pisa, Capitano di Pisa, d’Arezzo, di Pistoia e Cortona e Podestà
di Prato, et altri commissari et imbasciatori, quando accadessi mandarne.
17. Gli stanziamenti ordinari s’ottenghino fra li Consiglieri, intervenendo sempre il
Duca o suo substituto, Dodici Buoni Uomini, Procuratori, Otto di Pratica et Otto di
Guardia, e debbino ottenere per la metà delle fave.
In questo ci pare che provegga, col vincersi colla metà, che non v’abbi a essere
dubbio che non s’ottenghino e, coll’esservi pure buono numero d’uomini, non si possa
dire che li danari si spendino male.
19. Delli Otto di Pratica, ne sieno cinque almeno del numero de’ Quarantotto, el resto
della Balìa.
Noi avammo detto tre almeno, et a mutare ci pare sia un restringere l’auttorità al
Duca, perché, dicendo il [22r] meno, ne poteva fare tre e quattro et otto come li pareva, et a
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questo modo è constretto a farne cinque; et ancora, ci pareva pascere di più speranza quelli
della Balìa maggiore, a’ quali ci bisogna aver gran rispetto, che non paia loro rimanere
sanza onore alcuno, e così nasca divisione intra noi, e loro s’abbino agiuntare al popolo.
23. Delli Dodici Procuratori, ne sieno almanco quattro de’ Quarantotto et il resto tutti
della Balìa.
Avete a considerare che li Procuratori non saranno più di quella auttorità e
riputazione sono stati insino al presente, perché non hanno a deliberare delle provisioni
publiche, ma solo delle private et intervenire agli stanziamenti; et avendo constituito loro
salario, ci pareva conveniente pensar di pascere parte di quella Balìa maggiore et ancora,
quando occorressi, qualcun altro fuori.
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Considerando l’Eccellenzia del Duca e li suoi Magnifici Consiglieri quanti uomini nel
dominio fiorentino sieno mancati per la peste e guerra e carestia, e desiderando che quelli
pochi che sono restati possino quietamente vivere et attendere alli essercizi loro e non
avere dubbio d’essere molestati per delitti che avessino commessi più anni sono, per
condennazioni che per tal conto fussino seguite, providdono et ordinorono:
Che per vigore della presente sia data auttorità alli spettabili Capitani di parte e
Proveditori delle mura presenti (a’ quali, ancora per vigore di questa, s’intenda prorogato
l’uficio per sei mesi, sequenti dal dì che per il partito del reverendissimo Luogotenente del
Signor Duca e suoi Magnifici Consiglieri fu proveduto l’essercitassino) di potere graziare
tutti li uomini condannati in alcuna pena afflittiva di corpo o pecuniaria; et ancora quelli
che avessino bando del capo, pure che non avessino morto alcuno, liberamente e come a
loro piacerà; non potendo però graziare alcuno bandito né confinato condennato per
conto di stato: intendendosi che detta auttori di graziare duri il tempo che durerà il
magistrato Loro e che possino graziare solo li condennati e banditi per tutto l’anno
millecinquecentotrenta e non più oltre, e tutto quello trarranno di dette condannazioni lo
faccino mettere avanti a loro dapositario per spendere in assettare il fiume d’Arno e li
ripari della città [30v] come a loro, o li dua terzi d’essi, per stanziamento da farsi parrà e
piacerà.
Qualunque cittadino, contadino, distrettuale, subdito o abitante nella città, nel
contado o distretto, o qualunque altro che sarà da loro graziato et arà pagato la grazia,
s’intenda libero et absoluto e debba essere cancellato da’ libri di camera e da ogni altro
libro dove fussi descritto.
E perché accade, quando si fanno dette grazie, che li notai di camera vogliono essere
pagati extraordinariamente, in modo che chi è condennato spesso ha a pagare più per la
cancellatura che non paga della grazia ordinaria, si provede che tale graziato non abbi a
pagare, oltre alla grazia ordinaria, altro, per cancellatura, che quello ordineranno e’
sopradetti Capitani; e così, d’altri extraordinari che s’avessino a pagare a luoghi pii, non si
paghi altro che quello deibereranno e’ sopradetti Capitani; e li notai di camera et altri
procuratori delli luoghi pii abbino circa a questo a osservare a punto quanto per detti
Capitani sarà ordinato.
Non abbino e’ sopradetti Capitani, per conto di detta grazia, salario, emolumento,
premio o mancia alcuna; ma stieno contenti a quello che per legge è disposto abbino per
salario del loro uficio.
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<RISTRETTO DI ALCUNI CAPITOLI DEL CONTRATTO DI MATRIMONIO
TRA LORENZO DE’ MEDICI E MADDALENA DE LA TOUR D’AUVERGNE.>
Li articoli del mariaggio sono questi:
che il signor duca d’Urbino piglia per donna madama Magdalena di Bolonia et il
contratto se ne fa per li procuratori dell’una parte et l’altra;
che essa gli dà per dota tutti li suoi beni stabili in quel modo sono, li quali
quando essa morissi sanza figli debbino ritornare alli eredi suoi;
et perché detti beni s’hanno a dividere col duca d’Albania che ha per moglie
l’altra sorella, che il Cristianissimo sia arbitro di detta divisione. Il quale
Cristianissimo vuole dare di suo a detti coniugi scudi cinquemila d’entrata l’anno in
beni stabili e’ quali rimarranno ancora a quello de’ dua che sopravivessi, ma quando
l’uno et l’altro morissino sanza figli ritorneranno al Re (ma questo articolo si potrà
estendere ancor meglio);
che il signor Duca sia obrigato a dare cose stabile per la donazione delle nozze a
detta sua moglie: scudi quattromila d’entrata l’anno et un[a] palazzo o castello fornito
masserizie e che detti beni, morta detta madama Magdalena, debbino tornare alli
eredi del Duca.
Sonvi altri capitoli ma questi sono li più importanti. Li originali credo che il Nunzio
mandassi a Roma; et io mandai la copia costì li ho voluti domandare di nuovo per non
dare ombra.
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I DETTI DI FRANCESCO VETTORI
NELL’ELEZIONE DEL DUCA COSIMO.
- Palla, sono pochi giorni che sete stato ammalato, e perciò confessato di fresco non
curate la morte. Io che sento già nelle strade un grande strepito d’arme, et odo gridare
Palle, Palle e Cosimo, Cosimo, non voglio perdere la vita in tanti peccati in quanti mi trovo.
Però spacciatevi Guicciardino e fate oramai leggere la provvisione di questa riforma.
A MESSER FRANCESCO GUICCIARDINI QUANDO FECE
QUELLE RIFORME E STRETTEZZE AL DUCA COSIMO NELL’ELEZIONE.
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- Francesco, mi maraviglio ora bene di voi che siete stato tenuto prudente a
considerare tante minuzie nel fare questo Principe perché se li date la guardia, l’armi e le
fortezze in mano, a che fine metter poi che e’ non possa trapassare oltre a un determinato
segno? Io quanto a me desidero che Cosimo sia un buon principe e l’eleggo ancora con
l’animo di servirli quando e’ fussi cattivo e non osservare cosa alcuna che sia scritta costi.
A BACCIO VALORI IN FIRENZE NEL I536.
- Come intendete voi questo Gonfaloniere e questo governo che voi desiderate fare?
Risposta del Valori :
- Non c’importa pur che sia libero.
Replica del Vettori:
- Se voi intendete di dar la guardia allo stato, e’ non sarà libero; se lo costituirete
senza guardia, chi terrà il Popolo non vi cacci fuora con i sassi e disonoratamente non vi
faccia fuggire?
CARDINAL RIDOLFI AL VETTORI.
- Adunque dee farsi, Francesco, un’opera scelleratissima e constituire un tiranno
della Patria acciocché in modo alcuno non si possa pensare al bene universale di questa
città?
Risposta :
- che si dee fare questa opera scelerata e constituire un tiranno, poiché in questi
tempi non si può trovare strada che sia men rea.
DUCA ALESSANDRO AL VETTORI SOPRA IL DAZIO DELLE FARINE.
- Francesco, ora mi avveggo che voi non mi amate.
Risposta del Vettori :
Sire, e’ mi duole d’essere amico vostro perché li portamenti vostri sono tali da fare
rovinare voi e noi altri amici in uno istesso tempo.
IL DETTO AL DETTO:
- Che pazzie sono queste che un principe, che ha vinto Firenze con l’armi e il primo
che mai ci fussi con simile imperio, vada solo a cavallo e con uno in groppa, e alla notte
con due o tre; e, quello che è ppericoloso, si fidi d’un solo che li tenga le scale di fune
per salire a un muro.
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<CONTRATTO DI MATRIMONIO TRA LORENZO DE’ MEDICI,
DUCA D’URBINO, E MADDALENA DE LA TOUR D’AUVERGNE.>
[38r] Inter Reverendum in Christo patrem dominum Staphileum episcopum
Sibinicensem, Sanctissimi domini nostri pape Leonis decimi nuncium, et magnificum
Franciscum Victorium inclite cominunitatis Florentie oratorem, procuratores Illustrissimi
domini Laurencii de Medicis ducis Urbini nepotis secundum carnem prefati Sanctissimi
nostri Pape ex una, et Illustres ac potentes dominos Johannem d’Albret, dominum
d’Orval, cambellanum ordinarium christianissimi Francorum Regis ac gubernatorem
Campanie, et Arturum Gouffier, dominum de Boisy, magnum Francie magistrum et
gubernatorem Delphinatus, milites Ordinis ac consiliarios predicti Christianissimi
Francorum Regis, procuratores Illustrissime domine Magdalene de Bolonia ex altera
partibus, fuerunt initi, tractati et conclusi articuli sequentes.
Et inprimis quod iam dicti Illustrissimi Laurentius de Medicis et Magdalena de
Bolonia cumprimum contrahent matrimonium per verba de presenti vel per procuratores
specialiter fundatos.
Item quod dicta Illustrissima domina Magdalena de Bolonia, que est sui iuris et
suorum bonorum domina, constituet et donabit nomine dotis, pro dote et ob causam dotis,
dicto suo futuro sponso omnia sua immobilia, cuiuscunque qualitatis existant et in
quocunque loco sita sint.
Item et quia dicta bona sunt communia inter iam dictam Illustrissimam dominam
Magdalenam et Illustrissimos ducem Albanie et consortem suam, quiquidem Albanie dux
et sua consors asserunt, tam ratione consuetudinum patriarum in quibus dicta bona sita
sunt quam testamenti bone memorie Illustrissimi quondam Johannis comitis Alvernie
dictarum Illustrissimarum dominarum patris, aliqua praecipua in dictis bonis habere,
idcirco, ne super divisione dictorum bonorum lis aut controversia oriatur inter iamdictas
sorores et earum consortes, conventum fuit quod Christianissimus Rex erit (si placuerit
Regie Maiestati sue) arbiter dictarum controversiarum.
Item sua bona mobilia tradentur iam dicto Illustrissimo Duci suo futuro sponso
legaliter estimata et per inventarium, et matrimonio soluto illa restituentur [38v] predicte
future sponse in eo statu in quo erant tempore traditionis aut dicta illorum estimatio si
supervixerit, et, ea predecedente, liberis procreatis ex dicto matrimonio et, illis
defficientibus, heredibus dicte domine Magdalene.
Item durante iam dicto matrimonio dictus dominus dux Urbini tenebitur facere
expensas necessarias et utiles in bonis dotalibus jam dicte domine Magdalene.
Item cumprimum dictum matrimonium solvetur, dicta bona immobilia in dotem
constituta revertentur dicte domine Magdalene, si supervixerit dicto suo futuro sponso, et
si predecesserit, liberis suis ex dicto matrimonio procreatis si extant et, illis non
existentibus, heredibus dicte domine Magdalene.
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Item vestes, ornatus et jocalia que dicta domina Magdalena tempore soluti
matrimonii apud se habebit spectabunt ad eam si supervixerit, et, ea predecedente, liberis
dicti matrimonii si extant et, illis non existentibus, heredibus ipsius domine Magdalene.
Item Christianissimus Rex, ob devotionem filialem quam habet erga summum
Pontificem et ob intimum amorem quo prosequitur dictum ducem Urbini necnon
dilectissimam consanguineam suam Magdalenam Bononie et favore dicti matrimonii,
donabit dictis coniugibus et eorum superviventi et liberis descendentibus ex dicto
matrimonio decem mille libras turonenses redditus annui. Quibus omnibus defficientibus,
predicte res donate revertentur ad dictum Christianissimum Regem et successores suos.
Item iamdictus dominus dux Urbini donabit predicte sue future sponse, si
supervixerit, donatione propter nuptias, unum castrum aut palatium munitum utensilibus
et aliis mobilibus necessariis secundum statum domine Magdalene unacum quatuor mille
ducatis auri redditus annui cum omnimoda iurisdictione et imperio. Quod quidem
castrum seu palatium cum predictis redditibus tradetur et liberabitur dicte domine
Magdalene statim soluto matrimonio et illis gaudebit et utetur quamdiu supererit in
humanis, post vero eius decessum revertetur liberis dicti matrimonii, si extant, et illis
defficientibus, heredibus jam dicti domini ducis Urbini. [39r]
Item sollennisabuntur dicte future nuptie cumprimum com<m>ode fieri poterit et
ante illarum sollennisationem iam dictus futurus sponsus donabit sue future sponse vestes
nuptiales et jocalia arbitrio suo et secundum eius statum.
Datum die decima sexta mensis Januarii, anno Domini millesimo quinquagentesimo
decimo septimo.
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RACCOLTO DELLE AZIONI DI FRANCESCO E DI PAOLO VETTORI
Io posso malagevolmente soddisfarvi della dimanda fattami di darvi conto
dell’azioni dei fratelli Francesco e Pagolo Vettori, si perché io ho poca pratica nell’istorie, e
quelle poche ch’io ho lette, sono state scritte da persone poche amiche della virdi questi
uomini, anche perché le scritture, lettere e memorie loro, dalle quali si sogliono per lo
più cavare molte e vere notizie, non sono in casa nostra, per essere l’uno e l’altro di loro
mancato senza figliuoli masti. Et alla linea d’un loro fratello, che pur dopo loro si
mantenne, è poi avvenuto il medesimo, sì che tutte le cose loro sono, con donne, passate in
altre famiglie, e la maggior parte sono tenute da madonna Maddalena di Bernardo Vettori,
moglie di messer Lodovico Capponi.
Ho voluto con tutto ciò, per farvi servizio, mettermi a raccorre insieme e scrivere
quelle poche notizie che io ho potute, per lettura o per udita, avere del fatto loro.
E prima voglio che voi sappiate ch’eglino furono figliuoli d’un Piero Vettori, uomo
molto reputato così per le molte lettere e perizia delle lingue latina e greca, come anche per
la perizia nel trattare le cose della città, fuori in su la milizia e governi de’ luoghi sudditi, e
dentro ne’ magistrati. Nelle quali azioni egli si portava con tanta virtù e sincerità, ch’egli
fu adoperato parimente innanzi al
LXXXXIIII
, quando i Medici potevono assai in Firenze, e
poi anche quando, cacciati quegli, il governo venne più largo nelle mani del popolo. E,
secondo che io intendo, Niccolò Machiavelli diceva e scrisse ne’ suoi Diari, i quali egli
faceva per seguitar l’Istoria, o in altro libro, che, s’egli fussi vissuto l’età ordinaria,
sarebbono state operate da lui tutte, o gran parte di quelle cose, che con tanta virtù e
infinita gloria furono condotte da Antonio Giacomini, per ciò che Piero era equalmente
amato e dal popolo e dai nobili.
Di questo grand’uomo nacque Pagolo, del quale io non truovo menzione in cose
notabili (che i magistrati ordinari, ottenuti e prima e poi, et anche il supremo della città, gli
lascio indietro) prima che nel 1512, quando egli si scoperse in favore de’ Medici che allora
erano ancor fuori. E truovo ch’egli ordinò questa pratica, ch’egli ebbe con loro, di mutare il
governo della città in una sua villa chiamata la Paneretta, posseduta oggi dalla detta
madonna Maddalena. Questo luogo è molto solitario, in sul Fiorentino, vicino a’ confini
del Sanese, che Giuliano de’ Medici poteva venirvi e stare sicuramente sconosciuto con
quell’agio che ricercavano i negozi attenenti a simil faccende. Il trattato era ordinato in
modo che, nello sbigottimento che fu in Firenze dopo il sacco di Prato, egli potette, lasciato
da banda ogni ordine ch’egli avesse prima dato a’ suoi pensieri, pigliar subito espediente
di chiamare a Bartolommeo Valori, Gino Capponi et Antonfrancesco degli Albizi, con i
quali egli si era molto prima convenuto, et andare al Palazzo, dove la Signoria, quando i
Medici entrorono nel paese de’ Fiorentini, aveva fatti ritenere circa venticinque cittadini
come amici de’ Medici, dubitando non suscitassero qualche tumulto nella città. E trovato il
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gonfaloniere Piero Soderini, il quale era stato creato a vita insino l’anno 1502, quando si
riordinò la città, gli dissono che era necessario pigliasse partito e non tenesse la città in
pericolo di andare in preda come Prato. E rispondendo loro il Gonfaloniere parole grate et
umane, e volendosi partir da loro senza venire a conclusione e ritirarsi in altra stanza,
Antonfrancesco, e più giovane e più ardito degli altri, lo prese per la vesta con dire che
prima partissi di quivi, voleva rilasciassi i cittadini ritenuti. Egli, essendo troppo rispettoso
e dubitando non avere a fare male ad altri e che ne fussi fatto a lui e giudicando che, se si
veniva al sangue, dovessi seguire la rovina della città, fu contento rilasciarli. E pensando
quanto fussi stato l’ardire di questi quattro giovani, e massimamente quello di
Antonfrancesco, e sospettando che non mancherebbe loro ardire a tentar più oltre, man
subito Niccolò Machiavelli, segretario della Signoria, per Francesco Vettori fratello di
Pagolo. Il quale, essendogli fatta l’imbasciata instantemente, andò subito a trovarlo con
dimandare quel che voleva che operassi. Il Gonfaloniere gli disse che era disposto uscir di
Palazzo, pur che fussi sicuro di non esser offeso. E benc Francesco replicassi che il
governo suo era stato giusto e santo, che non si voleva far compagno di chi gliene
toglieva con cavarlo di Palazzo, fu finalmente costretto apreghi sua di pigliar la fede dai
confederati di non l’offendere, e lo condusse a casa sua e di Pagolo. E la notte medesima lo
cavò di Firenze per lo sportello e con molti cavalli l’accompagnò a Siena.
Teneva Antonfrancesco per cosa molto difficile che il nuovo governo si potessi
stabilire mantenendosi il capo del vecchio, uomo molto amato e reverito per la singulare
sua bontà e giustizia. E però, condotto ch’egli fu a casa i Vettori, voleva pure pigliar partito
di assicurarsene e l’arebbe fatto, se, e con ragione e con autorità, i duoi fratelli non
gliel’avesser vietato. E così fu trattata gran mutazione con tanta destrezza,
massimamente dei duoi Vettori, che in essa non si versò pure una gocciola di sangue de’
Fiorentini: cosa che non mai, o rare volte, sarà avvenuta.
Fu di gran momento in questo negozio et accrebbe assai lo sbigottimento del popolo
e, per conseguenza, dette grand’aiuto ai collegati di Pagolo la relazione di messer
Baldassarri Carducci, il quale, insieme con Niccolò del Nero, come imbasciadore della
Città aveva parlato al Viceré dopo la presa di Prato. Perché egli, tornato la sera medesima,
volendo riferire quello che aveva eseguito avanti i Signori e molt’altri cittadini, come
quello al quale pareva aver molto bene l’arte oratoria, tanto accrebbe la vittoria
degl’inimici, tanto fece grande l’occisione de’ soldati fiorentini, con tante lagrime deplorò
il sacco, il sangue, gl’incendi, gli stupri et i sacrilegi fatti a Prato, che a ciascuno pareva di
avere gi rabidi inimici non solo nella città, ma nelle proprie case, e che i medesimi casi o
più atroci succedessero quivi.
Uscito che fu il Gonfaloniere di Palazzo, essendo stato solennemente privato, per
soddisfare a’ confederati, dai magistrati che avevano l’autorità, fatti chiamare e ragunati
insieme ad instanzia dei medesimi, si prese partito di venire a composizione con il Viceré.
E però fu mandato subito Pagolo con messer Cosimo de’ Pazzi, arcivescovo di Firenze, et
Iacopo Salviati oratori a Prato. I quali convennono che i Medici ritornassino in Firenze
come privati e potessero, pagandogli, recuperare i loro beni, e che pagassino scudi
centoquarantamila al Viceré, de’ quali egli doveva far parte agli altri collegati della Lega.
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Et egli si obbligò a lasciare libero il castello di Prato et uscire con l’esercito del paese de’
Fiorentini, i quali entrarono anche nella Lega.
I motivi che poco dopo il loro ritorno feciono i Medici, i quali non si contentavano di
star come privati, furono consigliati e fomentati dai medesimi giovani che avevano
convenuto di rimetterli, secondo che da qualcuno è scritto, et ha del verisimile. Ma perché
altri dicono che furono i vecchi, che si erano trovati a tempo di Lorenzo de’ Medici, e
perché io non ci trovo particolarmente nominato Pagolo, non mi ci voglio estendere, ma
tutto lascierò risolvere a chi più di me ha pratica in questi negozi racconti. Con la quale
potrà anche dire risolutamente se egli fu fra quegli che ebbero la cura dalla Balìa di
riordinare il governo.
I Medici conobbono molto bene quant’eglino potevano confidare nella virtù di
Pagolo e però l’ebbero sempre mai per consultore in tutti i loro negozi. Et il Cardinale, il
quale in capo a poco tempo fu assunto al pontificato, non lasciò, anche in quel grado, di
participar seco de suoi pensieri e, conoscendolo per uomo non solo da discorrere, ma
anche da operare, gli dette la carica della sua armata, la quale egli tenne in mare con molta
riputazione.
In questo maneggio egli fece cose, in diversi tempi, degne di esser raccontate. Ma
perché non le ho trovate scritte e mi furono raccontate in tempo che non ne poteva essere
in tutto capace, non mi voglio assicurare a scriverle. Dirò bene ch’elle furono tali, così per
il Papa come per i Fiorentini, ch’egli meritò che Leone gli facessi dar l’isola della Gorgona
con quella fortezza che nella sommità d’essa si ritruova. Il che p a ciascuno essere
manifesto segno dell’amor grande ch’egli gli portava, dimostro dal medesimo Pontefice
anche nel tempo che Pagolo era prigione nelle mani de’ Turchi, perciò che egli con istanzia
grandissima procurò il suo riscatto e, sebbene importò molte migliara di scudi, volse che
tutti fossero sborsati dalla Camera Appostolica, senza che la casa sua ne sentissi disagio
alcuno. E fu osservato che il Papa non commesse mai sborso alcuno di danari con maggior
contentezza d’animo di questo, conoscendo e dicendo che, per questi danari,
riguadagnava uno atto, e per la fede e per la virtù, ad esequire i suoi pensieri, quanto
alcuno altro ch’avessi appresso di sé. La causa della presa sua fu tale che, avendo egli
inteso che nel mare di ... erano alcune galere turchesche, deliberò di voler dar loro
l’assalto. E consultato e risoluto con i suoi uomini di guerra del modo che si dovessi
tenere, fece muover la capitana a ciò che, mettendosi egli innanzi, gli altri avessero a
pigliar animo e riscaldarsi tanto più a combattere valorosamente. All’apparir de’ legni
pontificali, i Turcheschi si messero in fuga e, seguitati gagliardamente da Pagolo, furono
da lui sopraggiunti et uno di essi investito. Il che fatto, quegli che insino all’ora l’avevano
seguitato, o per mera poltroneria o per grandissimo assassinamento fermorono il corso,
mai, per l’ordine dato prima, né per i cenni ch’egli facessi di voler soccorso, per la cosa
stessa che dimostrava il bisogno, vollono a patto alcuno aiutarlo. Del che avvedutisi gli
altri legni turcheschi, che ancora fuggivano, vennono, rivoltatisi, ad investire la capitana
cristiana, la quale, benché sola si fussi quasi impadronita di quella ch’ella aveva prima
affrontata, fu finalmente, stracca e rimasta senza soldati, menata con Pagolo prigione.
Ancora i cardinali, i quali dopo la morte di Leone, creato il nuovo Pontefice, si erano
diviso il reggimento della Sedia Apostolica insino a tanto che il Papa venissi in Italia,
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seguitarono di servirsene e gli detton la cura di andare a trovare Adriano, che si trovava
ne’ regni di Spagna, lasciatovi, ancora cardinale, da Carlo per un’ombra di governatore,
quando egli andò in Germania.
Tornato Pagolo di questo viaggio, i Fiorentini, i quali per opera del cardinal de
Medici si collegarono, l’anno 1523, con il Papa, Cesare, re d’Inghilterra et altri stati d’Italia
con le condizioni scritte nell’istorie, vollono ch’egli fussi commessario delle genti ch’eglino
mandorono in Lombardia per difesa dello stato di Milano, quando il re di Francia venne a
Lione per passare personalmente in Italia: il che benché egli non facessi per il sospetto
giusto che gli dette la congiura del duca di Borbone, mandò con tutto ciò il suo ammiraglio
con grandissimo apparecchio.
Questo commessariato mi fa dubitare di quello che alcuno afferma che Adriano
mantenessi a Pagolo il governo delle galere, veggo come egli si potessi servire i suoi
cittadini in Lombardia et il Papa in mare: e cosa chiara è che il commessariato non fu di
pochi dì, perciò che egli vien nominato nella triegua quando, non potendo p
l’ammiraglio sopportare i disagi di tutto l’esercito et i protesti degli Svizzeri, si convenne,
in su’ ripari di Milano, fra Alarcone, Pagolo, il Morone, il Visconte et il general di
Normandia e si trattò di sospender l’arme per tutto maggio.
Creato che fu Clemente pontefice, avendo veduto quanto confidava Lione in questo
uomo e per stesso conosciutolo nelle medesime azioni, seguitò di adoperarlo ne’ suoi
negozi e gli mantenne, o concedette di nuovo che si debba dire, il governo della sua
armata, non lasciando però di valersi della sua prudenzia anche nelle cose di terra, come
egli fece quando il re Francesco, avendo fatto grand’esercito e grossa spesa per soccorrere
Marsiglia, essendone partiti gl’inimici, prese risoluzione, infelice per lui benché
gloriosissima, di venir l’anno 1527 alla volta di Lombardia. Perciò che sforzandosi il Papa
con ogni rimedio opportuno, mentre che Francesco era all’assedio di Pavia, di condurre ad
accordo il Viceré con il Re, mandò ad uno messer Matteo Giberti et all’altro Pagolo, a
persuadergli che convenissero, con scusarsi insieme con il Viceré del passo conceduto per
necessità al duca d’Albania, che andava ad assaltare il Regno di Napoli. Il qual accordo se
non riuscì, non avvenne perché i mandati non trattassino tutto con maravigliosa destrezza
e che a Pagolo non riuscissi di persuadere al Viceré quel che voleva, perciò ch’egli l’aveva
indotto ad accordarsi, ma o per le dissuasioni del duca di Borbone, che aspirava alla ducea
di Milano, o vero perché il marchese di Pescara, con la sua solita alterigia, detestò tal
partito e mostrò prudentemente ch’era ben seguitare quella impresa dalla quale risultava
la somma d’ogni cosa.
Volle anche il medesimo Pontefice, intesa la liberazione del re di Francia dopo che fu
stato prigione circa tredici mesi, che dal medesimo Pagolo fossero trattati i negozi
attenenti alla confederazione, ch’egli aveva in animo di fare contro all’Imperatore. E però
Io mandò subito, correndo, alla corte di Francia con ordinargli che, giuntovi il Re,
palesemente dimostrassi solo di esservi mandato per allegrarsi della liberazione e fargli
sapere gli sforzi che Clemente ne aveva fatti. Ma in segreto ordinò che Pagolo tentassi
l’animo del Re intorno alla capitolazione fatta con Cesare e, caso che lo trovassi volto a non
osservare, si scoprissi a offerirgli lega e lo inanimissi a far gagliarda guerra all’Imperatore.
Per l’occasione della qual cosa, essendosi messo Pagolo in cammino, giunto in Firenze, si
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ammalò di malattia grave, ch’egli non la potette superare, essendo già di anni
quarantanove e molto malsano per infiniti disagi patiti.
La sua morte fu di grandissimo dispiacere al Pontefice et a tutti quegli, così di grande
come di mediocre e basso stato, che avevano trattato seco. E dispiacque tanto più perché
egli non lasciò figli masti, perché uno che egli ne ebbe di molta grande espettazione e che
si credeva che avesse a pareggiare il valor del padre, molto desideroso di farsi grande,
stava del continuo esercitandosi in sul mare e, trattenutosi una volta qualche giorno in un
porto, dove era aria pestilente, aspettando di assaltare certi legni barbareschi, fu assaltato,
senza potersi difendere, dalla morte.
Francesco Vettori, nato del sopranominato Piero, fu anch’egli uomo di singular virtù
et, insino da’ suoi primi anni, cominciorono ad apparire in lui segni tali che lo messono in
molta espettazione. La quale egli, con trattenersi nelle lettere et governarsi accortamente
nelle cose che di tempo in tempo gli occorrevano, seppe in modo mantenere che, subito
che l’età sua cominciò a comportare ch’egli fussi adoperato ne’ servizi della Repubblica, vi
fu cominciato ad impiegare. Et il primo carico che gli fu dato di cose attenenti al benessere
del publico, mostra evidentemente esser vero quel che ho detto del credito grande in che
egli era. Perché, l’anno 1507, egli fu eletto e mandato imbasciatore all’imperatore
Massimiliano, nel tempo ch’egli congregava la Dieta a Constanzia, quando tutta l’Italia e
gli altri potentati stavano parte sospesi, parte impauriti, essendosi sparsa la fama che
l’Imperatore aveva deliberato di passare in Italia con esercito grandissimo per pigliare la
corona dal Pontefice e perseguitare il re di Francia, dichiarato ribelle dell’Imperio, con
pretesto ch’egli era venuto in Italia per far crear pontefice il cardinal di Roano, e sé
Imperatore. La qual legazione Francesco trattò in modo che gli riuscì acquistare per la sua
patria la grazia di Cesare e risparmiare molte migliaia di scudi, che a questo effetto gli fu
comandato ch’egli dessi all’Imperatore. Il qual fatto, benché, quando egli lo trattava non
conforme alla commessione, in Firenze non fussi approvato, come quelli che avevano fisso
nell’animo che la cosa non si potessi condurre se non con danari e, non essendo in sul
fatto, non potevano ben rimaner capaci come il negozio si poteva altrimenti trattare, con
tutto ciò, condotto ch’egli l’ebbe a fine, ne fu per lettere ringraziato e lodato et alla sua
tornata ognun diceva del gran risparmio fatto prudentemente alla città.
Crebbe per questa legazione assai la riputazione di Francesco, onde, risoluto che fu in
Firenze, con grazia del re di Francia, che i cardinali Franzesi non venissino al Concilio di
Pisa con la milizia che avevano ordinata o per sicurtà, o per autorità, o riputazion loro, et
inteso che il cardinal di San Malò, capo di questa impresa, dava buone parole, ma pur
veniva innanzi con l’arme, bisogpigliare partito di mandarvi persona di molta autorità:
e però fu eletto Francesco. Il quale, andatolo a trovare al Borgo a San Donnino,
risolutamente gli disse che i suoi Signori non lo volevano ricevere in Pisa e gli protestò
che, s’egli non rimandava le genti d’armi indietro, sarebbe perseguitato come inimico.
Onde il Cardinale, commosso e persuaso da lui, le rimandò di dall’Appennino,
ritenendosi, con il consenso de’ Fiorentini, centocinquanta soldati con i quali venne
innanzi.
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In Firenze si deliberò di mandare a Pisa duoi commessari che attendessero alle cose
di questi che congregavano il Concilio, l’uno dei quali fu Francesco, l’altro Neri di Gino
Capponi.
Io truovo che in questi tempi fu eletto Francesco la seconda volta imbasciadore a
Massimiliano, ma che poco dopo si risolvé che non fussi bisogno mandarvelo. Non so già,
ho trovato scritto, quali negozi movessero i Signori a ordinare questa legazione, però,
come io risolvo che l’elezione fussi fatta, così mi astengo di conietturare la causa
lasciandone dare la resoluzione a persone più pratiche.
Ottenuto che ebbero i Medici, nella Dieta fatta a Mantova, che l’arme del Viceré e de’
collegati si voltassero verso Firenze per mutare quel governo e ridurlo in mano de’ Medici,
si fecero in Firenze, con quella prestezza che si potette, i ripari che comportava la brevità
del tempo, causata dalla prestezza del Viceré. E, fra gli altri, fu quello che si deliberò di
condurre nella città molti soldati per fare quivi lo sforzo, acciò che non vi seguissi
alterazione o tumulto. E di questi soldati fu fatto commissario generale, con alcuni altri
cittadini, Francesco. Nel qual tempo, seguita l’alterazione che si è raccontata parlando di
Pagolo, Francesco prese subito partito di uscirsi della città, giudicando che non poteva
esser contro al fratello senza manifesto pericolo (il quale anche non arebbe potuto
profittare), et avendo fatta ferma resoluzione di non voler esser contro al Gonfaloniere. Ma
fu ritirato da questo partito, fatto chiamare dal Gonfaloniere come si è detto. Il che mostra
manifestamente il concetto grande in che egli era di sincero e dabbene, poiché il
Gonfaloniere volse piuttosto eleggere per sua sicurezza d’andare a casa Francesco, casa
ancora del suo avversario, che alla propria.
Da questo partito che Francesco pigliava, si può manifestamente cavare ch’egli non
era consapevole, come qualcuno crede, del trattato del fratello.
Avvenne a Francesco in queste mutazioni, benché diverse, quel medesimo che in altri
tempi era avvenuto a suo padre: perciò che, benché si mutasse il governo, nel quale egli
era molto stimato e tra’ principali, con tuttociò la virtù e realità sua fece che i Medici
seguitarono di adoperarlo senza sospetto (risoluto ch’egli fu di seguitar la loro fazione)
ch’egli avesse a pendere dalla fazione del cardinal di Volterra, fratello del gonfaloniere
Soderini, che ancora fomentava, conce egli fece sempre, l’antico governo.
Però fu risoluto di dargli la carica di risedere imbasciadore a Roma appresso al
pontefice Giulio la quale egli continuò anche per qualche tempo nel pontificato di Leone
successore.
Dalla qual legazione tornato che egli fu in Firenze, pensarono di servirsene in cose di
maggior importanza. E però l’anno che Leone gli costrinse a mandar le loro genti in
Lombardia et eglino volsero eleggere Lorenzo de’ Medici per loro capitano, il quale poi,
per la malattia di Giuliano che vi andava con le genti del Papa, fu eletto in suo luogo, fu
deliberato che vi andassi commessario, con le genti de’ Fiorentini, Francesco. Questo
commessariato fu retto da lui con molta autorità e fu alla Città di molto gran giovamento,
poiché, per accorgimento di Francesco, fu fatto che il re di Francia, contro il quale si
facevano le provvisioni, non ebbe occasione di venire in indignazione contro a’ Fiorentini,
perciò ch’egli, oltre alle diligenzie fatte con Lorenzo a questo fine, deliberò di scoprirsi più
apertamente.
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Onde, quando arrivato Lorenzo a Piacenza, si risolvé fra lui et il Viceré, se ben con
poca sincerità, che si passassi il Po, Lorenzo fece passare parte degli ecclesiastici e, volendo
far passare la sera medesima le genti de’ Fiorentini, Francesco, all’entrata del ponte, gli
protestò che i Signori Fiorentini non intendevano in modo alcuno che i loro soldati
andassero ad offendere il re di Francia, ma si bene erano contenti che stessero alla guardia
di Parma e Piacenza e per amor del Papa le difendessero, senza passar più avanti, imperò,
se egli voleva passare, lo facessi come luogotenente del Papa, ma per niente come capitano
de’ Fiorentini; pertanto gli protestava che, passando, non correva più soldo a lui alle
genti. Dalla qual protesta animosa et inaspettata, Lorenzo, soprastato quella notte per
consultare quel che dovessi fare, deliberò di passare il dì seguente come ministro del Papa,
ma non fu bisogno, perché il Viceré, mutatosi, ritornò di qua dal fiume. Accordaronsi poi
il Papa e il Re, onde i Fiorentini volson mandare al Re oratori come, insino quando egli fu
incoronato, avevano destinato di fare, ma, rispetto alla guerra che sopraggiunse, erano
stati impediti. E vi mandorono i medesimi che a principio avevano eletti, che erano stati
Francesco Vettori e Filippo Strozzi. E Francesco prese la legazione a Reggio con ordine che,
trovato Francesco Pandolfini che risedeva imbasciatore appresso al Re, si rallegrassino
tutti insieme in nome della Città, che egli fussi venuto al regno e della vittoria ottenuta fra
San Donato e Milano.
Rimase Francesco appresso al Re imbasciatore residente et in questa legazione dette
segni tanto manifesti della sua prudenzia, che si poteva dire ch’egli d’imbasciatore, fussi
diventato consultore di quel Signore, onde egli, alle sue persuasioni, non solo permesse
che Lorenzo de’ Medici potessi aver per moglie Maddalena, figliuola del conte d’Alvernia,
la quale, con la moglie del duca d’Albania, sua sorella, aveva eredità di molte migliaia di
scudi di entrata, ma vi aggiunse anche in dote la ducea di Lavaur con entrata di scudi
cinquemila.
Teneva il Re tanto conto del giudizio di Francesco, ch’egli voleva in molte cose di
momento il suo parere. E della stima in che egli era appresso di lui, senza che mi affatichi
in molti argomenti, ne p essere manifesto segno che il Re gli ordinò pensione assai
grande e da’ Fiorentini, i quali molto ben conoscevano che della fede sua non era punto da
dubitare, gli fu permesso ch’egli la accettassi. Et ella gli fu sempre pagata, ancora che
lasciassi quella legazione, anzi, quand’egli lasciò di pigliarla, il Re, con generosità inaudita,
gli fece ricordare che seguitassi di mandare per essa.
La causa che fece risolver Francesco a non la riscuotere fu che, nelle dissensioni che
nacquero poi fra il re di Francia e la città rispetto a’ Medici, Francesco, seguitando la loro
fazione, si dichiarò apertamente imperiale. E però, per non dare sospetto alla sua parte
anche, e questa fu la vera cagione, perché non gli pareva cosa conveniente a persona
nobile pigliar provvisione da quello del quale egli seguitava la fazione avversa, si risolvé
di non la far più riscuotere. Il che fatto sapere al Re, Sua Maestà dette ordine a un suo
gentiluomo, che nella mutazione del governo di Firenze, nel 1527, fu subito mandato qua,
che facessi chiamare a Francesco con dirgli che il Re aveva saputo ch’egli non godeva
più la sua liberalità; e però, qual si fussi stata la cagione di questa sua mutazione, egli gli
faceva sapere che la volontà del suo Signore era che quelli, i quali per la virtù loro erano
stati premiati da lui, godessero insino all’ultimo il suo premio; e però ch’egli seguitassi di
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mandare ogn’anno per la sua provvisione et allora riscotessi tutte l’annate insino a quel
tempo decorse senza pigliarla. Ma per questo Francesco non si mutò del suo
proponimento e da quegli che giudicavano le cose senza passione di miseria fu
sommamente lodato.
Per la morte che seguì di Lorenzo deMedici, Leone deliberò di restituire alla Sedia
Appostolica il ducato d’Urbino e dette a’ Fiorentini, per pagamento dei denari ch’eglino
avevano spesi per lui in quella guerra, de’ quali erano creditori in Camera, la fortezza di
San Leo con tutto il Montefeltro e il Pivier di Sestino. Ond’eglino, giudicando che in questo
principio bisognassi mandarvi persona reputata e di grande autorità, dettero questa cura a
Francesco Vettori.
Nella creazione di Clemente
VII
si fecero in Firenze grandissimi segni d’allegrezza e,
con ogni sorte di dimostrazione, si sforzarono i Fiorentini di far conoscere al Pontefice
d’aver avuta gran contentezza di questa sua promozione. E fra gli altri fu che, per la
cirimonia solita di madargli a rendere ubbidienza, eglino elessero maggior numero di
imbasciadori, che non erano soliti di fare agli altri che non erano Fiorentini; e questi
volsero che fussino, secondo che conveniva, dei più qualificati della città, avendo anche
l’occhio ad eleggere persone, le quali, per qualche loro azione, fussero grate al Pontefice. E
furono questi: messer Francesco Minerbetti, arcivescovo turretano, Lorenzo Morelli,
Alessandro Pucci, Antonio de’ Pazzi, Ruberto Acciaiuoli, Francesco Vettori, Galeotto de’
Medici, Palla Rucellai, Lorenzo Strozzi e Giovanni Tornabuoni, de’ quali il Rucellai fece
un’orazione degna di qualsivoglia eccellente oratore.
Nella dimora che questi oratori feciono in Roma, Clemente volle consultare con loro
del modo di regger la città di Firenze poiché egli, che qualche anno ne aveva avuta la cura,
non vi poteva attendere e delli suoi aveva solo Ippolito et Alessandro, i quali, rispetto
all’età, non erano per ancora atti a gran peso. E però aggiunti a questi oratori Iacopo
Salviati e Piero Ridolfi che si trovavano in Roma, gli pregò tutti insieme che liberamente
dicessi ognun di loro la sua opinione, senza aver rispetto a lui il quale, essendo in quel
grado, aveva molte occasioni di beneficare i sopranominati giovanetti senza mandargli in
Firenze. Di questi cittadini la maggior parte confortorono il Papa, o perché tale fussi
l’animo loro o perché gli uomini volentieri dicono quel che credono che sia grato ai grandi,
che mandassi Ippolito in Firenze, sotto la custodia del cardinal di Cortona, che reggessi
quel governo secondo che Giuliano, Lorenzo et egli erano soliti di fare. Francesco Vettori,
il quale fu seguitato da Ruberto Acciaiuoli e Lorenzo Strozzi, fu di diversa openione. E,
come conviene a persona nobile, la volse dire e gli altri duoi seguitarla. E mostrarono che
non era cosa utile onorevole che a questo governo fussi preposto un vassallo de’
Fiorentini; e che l’essere egli cardinale in questo caso non serviva, perché quando, ancora
cardinale, il Papa governava, non era alcuno che l’avessi riverito in quello stato come
cardinale, ma bene come Giulio de’ Medici; e che se il Papa giudicava a proposito che
Ippolito stessi in Firenze, vi si mandassi, e che quivi attendessi agli studi, insino a tanto
che si potessi conoscere s’egli fussi atto al governo o no, et in questo mezzo lasciasse
governare i cittadini, con fare egli uno gonfaloniere per un anno, suo confidente, e così egli
potrebbe disporre della città, et a cittadini parrebbe avere il grado loro e si
contenterebbono in questo modo di fare insin che si pigliassi altra forma. Ma, finalmente,
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udito che Clemente ebbe l’openion d’ognuno, il maggior numero vinse il minore e fu
eseguito, ma con poca grazia dell’universale di Firenze.
Onde, quando in Roma seguì che i Colonnesi saccheggiorno il palazzo di Vaticano et
il Borgo, che il Papa si rifuggì in Castello, quegli che tenevano in Firenze il governo
erano di molto mala voglia, dubitando che, per avere perso il Papa assai in questo fatto,
non nascessi tumulto. E però gli Otto di Pratica, che in quel tempo avevano il pondo di
tutto il governo, dubitavano molto perché, volendo seguitare i ricordi del Papa, pareva
loro andare a rovina manifesta; e partirsi da lui non volevano, per la riverenza che gli
avevano, e perché ciò non si poteva fare senza mutazione di stato, dalla quale risultava
certa rovina degli amici de’ Medici. E però mandarono subito Francesco Vettori, suo
confidentissimo, per fargli intedere il tutto e sapere da lui che partito voleva pigliare
intorno all’osservanza delle cose promesse nell’accordo per poter esser vigilanti, essendo
avvertiti innanzi, a ogni sollevamento che nascessi in Firenze alla sua risoluzione. Et anche
vollono che Francesco gli dicessi che andassi cautamente con le spese, perché i Fiorentini
non si potevano strignere da lui, come altre volte, poiché gli era mancata tanta riputazione.
Fu eletto a tal cosa Francesco perché era molto confidente del Papa, che teneva molto
conto del suo giudizio, et egli gli poteva parlar liberamente. E tutto venne ben fatto perché
egli si aperse con Francesco liberamente e, consigliandosi seco, provvedde, rimandandolo
in Firenze, in modo alle cose, che per allora il governo stette fermo.
Fu la ritornata di Francesco molto utile alla città perché, nel tempo che l’esercito della
Lega venne in Firenze, e che andava a soccorrere Roma per difenderla dal duca di
Borbone, seguì nella città grandissimo sollevamento, causato dalla malissima
soddisfazione de’ cittadini e fomentato dal pochissimo sapere e intelligenza delle cose de’
governi del cardinale di Cortona, che i Medici furono dichiarati ribelli. E quando il
Cardinale col duca d’Urbino e gli altri deliberorno di volere sforzare il Palazzo, sarebbe
seguita l’occisione d’una gran parte della nobiltà che vi si era ritirata, e forse il sacco della
città, se Francesco, che anch’egli era in Palazzo, non si fossi molto affaticato insieme con
Niccolò Capponi, suo cognato, per indurre quegli di drento all’accordo, dimandato
instantemente dal signor Federigo da Bozzoli e messer Francesco Guicciardini per quegli
di fuora. Nel che, se bene Francesco ebbe difficultà, con tutto ciò, mostrando il pericolo che
loro soprastava e che non vi erano instrumenti atti a potervi riparare, con molta fatica
gl’indusse a convenzione e distese una scritta, la quale da quegli di drento e quelli di fuora
fu sottoscritta e contenne che le cose ritornassino nel termine di prima e di quel giorno
nessuno si ricordassi.
Andò sempre in augumento l’autorità di Francesco sì che, quando egli stava nella
città, la sua openione era sempre ricerca in tutte le deliberazioni d’importanza che si
avevano a pigliare. E nella totale mutazione dello stato di Firenze, che seguì quando i
soldati di Borbone messono a sacco Roma, papa Clemente lo volse avere appresso di sé,
avendolo fatto chiamare, che per l’assedio di Firenze, egli visse appresso di lui esule
confidentissimo e con tanta soddisfazione del Pontefice, ch’egli gli provvedde di grossa
pensione sopra l’arcivescovado di Firenze. E quando Alessandro de’ Medici prese il
governo della città, volle che Francesco si trovassi seco eletto del nuovo senato de’
XXXXVIII
, a ciò che egli avesse uno con il quale potessi participare confidentemente le cose
202
più importanti del governo, com’egli fece; sì che in negozi di molta importanza egli potette
sperimentare il valore di Francesco molto utile al suo reggimento.
Preso che Francesco ebbe a favorire et esaltare la parte de’ Medici, egli ne fu sempre
grandissimo parziale e, per quanto si estendeva il suo potere che si estendeva pure assai,
ne fu gran defensore, che, dopo la morte del duca Alessandro, nel qual tempo tutti gli
altri senatori si stavano ritirati nelle loro case, pieni di sbigottimento e di paura, egli,
intrepidamente, non cessava di operare. E, visitando e dando animo a quegli più reputati,
operò di maniera che, sollevato in parte il loro timore, cominciorono a consultare seco de
partiti che per loro si dovessero pigliare, non solo per la sicurtà di loro stessi, ma anche per
mantenimento della parte che eglino seguitavono. Sì che, chiamati poi tutti a consiglio nel
palazzo de’ Medici, si prese per partito di creare il signor Cosimo de’ Medici governatore
della Repubblica Fiorentina, affaticandosi anche nel luogo dove era ragunato il senato
Francesco, correggendo amorevolmente chi con poca pratica discorreva a chi si potessi
dare il futuro reggimento et opponendosi liberamente a chi con molta risoluzione
detestava il passato reggimento, con protestare che dissentirebbe da chi un simile ne
proponessi. Sì che, ritiratosi con i principali che convenivano seco, furono da loro stabilite
le cose in modo che il signor Cosimo, in su questi fondamenti, potette con la prudenzia e
valor suo proprio, alzarsi a quell’altezza che tutto il mondo ha potuto conoscere.
Visse il restante della sua vita Francesco accettissimo a questo Signore e, col suo
accorgimento, gli dette sempre quegli aiuti che gli furono domandati insino all’anno ...
della sua età, nel quale, oppresso da grave malattia, egli passò a miglior vita, senza lasciare
di sé alcuno figlio mastio.
Fu Francesco uomo di molta gran dottrina e singulare intelletto, che con questi
mezzi e con l’altre virtù che si possono raccorre delle cose dette di sopra, egli fu
accettissimo a tutti quegli Signori o privati uomini con i quali gli occorse trattare e del
discorso suo era tenuto tanto conto, quanto di quello di qualsivoglia altro uomo di negozi
dei suoi tempi.
Il tempo che gli avanzava dalle faccende pubbliche, dette di sopra, e da’ magistrati,
de’ quali di tempo in tempo egli era creato, che furono assaissimi, con il supremo anche
della città, il quale egli ebbe più volte, egli non lo consumava oziosamente, ma sempre
leggeva libri d’altri, nel che si dilettò assaissimo, o scriveva cose che potessin essere altrui
di giovamento. Però, quand’egli fu tornato della legazione di Germania a Massimiliano,
egli si messe a scrivere un itinerario, nel quale narra le cose avvenutegli vedute, degne di
memoria in quel viaggio. Questo è veramente degno d’esser letto, per la piacevolezza
come per la varietà sua, perché vi sono cose da dilettare e da giovare assai al vivere. E nel
fine di esso vi è scritta una sua commedietta, molto gentile e assai morale. Leggesi ancora
di esso un Dialogo assai lungo, nel quale si discorre molto gravemente de’ governi. Scrisse
anche la Vita di Lorenzo de’ Medici, quello che fu duca d’Urbino, scritta molto
diligentemente. Et in essa sono molti particulari attenenti anche alle istorie, i quali egli
poteva sapere e scrivere meglio che alcuno, con ciò sia cosa ch’egli fussi amicissimo di
Lorenzo e de’ più confidenti ch’egli avessi, ancor che Francesco, nel tempo ch’egli fu
commessario delle genti de’ Fiorentini, gli facessi i protesti detti per impedire le sue
203
deliberazioni, perché Lorenzo conobbe molto bene che tutto fu fatto a buon fine e per
causa e amore della nazione fiorentina, che era grande in Francia et arebbe portati gran
pericoli, se il Re si fossi inasprito contro di lei. E chi considererà la cosa destramente, vedrà
che Lorenzo con ragione non se ne poteva sdegnare, come l’evento dimostrò.
E quello che più d’ogni altra cosa è da stimare, egli lasciò un breve et eletto Sommario
delli successi d’Italia, dal fine dell’anno 1511 insino al principio del 1527, che così chiama
egli in una sua lettera questa sua istoria. Questa opera è molto bella e ripiena di molta
gravità, e in essa sono concetti e discorsi molto rari, e le cagioni delle cose vi sono ritrovate
assai prudentemente, sì che chiunque si metterà a leggerla, sarà a pieno accertato
dell’intelletto e giudizio di quest’uomo e si dorrà gravemente della disgrazia che hanno
avuta il nostro et i futuri secoli, poiché Francesco, occupato sempre in operare, non ebbe
tempo di condurre a fine un’opera che arebbe molto illuminato chi, di tempo in tempo,
avessi, per imparare e potersi esercitare, voluto leggerla.
Scrisse anche Francesco le cose fatte da Piero, suo padre, assai gentilmente e
modestamente e più per dar lume de’ fatti di quel grand’uomo da bene a chi volessi
pigliar la cura di distendere con ogni perfezione la sua vita, che perché gli paressi
conveniente che un figlio scriva la vita del padre; perciò che egli se ne scusa e prega i
lettori a non l’attribuire ad arroganza.
Delle molte azioni degne di esser considerate dei duoi fratelli sopranominati, ho
potute raccorre, in queste tre feste, queste poche; e ve le mando scritte, più per mostrarvi
che ho avuto desiderio di compiacervi, che perché mi paia averne raccolte tante di gran
numero, che mi soddisfaccia e, conseguentemente, giudichi di aver con questo poco
potuto soddisfare a voi. Scusatemi, dunque, con dare la colpa alla servitù che si tira drieto
la nostra professione, et accettate il buon animo; e state certo che io farò opera di
ritrovarne quand’una e quand’un’altra, e ve ne darò notizia.
Quanto segue è sopra una carta separata.
D. O. M.
P
ETRO
V
ICTORIO
P
AULI
L
EONIS X PONT
.
MAX
.
CLASSIS PRAEFECTI FILIO INDOLIS OPTIMAE
ADOLESCENTI MORUM PROBATISSIMORUM VITAEQUE INTEGERRIMAE QUEM CUM MAXIMA
OMNIUM EXPECTATIONE INTER MORTALES DUCERET HEU ABSTULIT ATRA DIES ET FUNERE MERSIT
ACERBO
.
VIXIT ANN
.
XVII
.
D
.
XVII
.
OBIIT ANNO SALUTIS M
.
D
.
XVII
.
XVI CAL
.
NOVEMBRIS
.
Questa iscrizione mi è stata data da ser Giovanni Rofia, il quale dice averla trovata
tra le cose di suo padre e che il sepolcro fu disfatto in Roma nel racconciare una chiesa, e
non crede che il marmo vi si ritruovi.
I
I
V
V
EPITAFFI
(5)
(5)
Alla c. 94 del cod. Patetta 386.
204
EPITAPHIUM FRANCISCI VICTORII PETRI FIL.
qui Florentiae obiit anno 1539
Gradum viator siste, vel sacras preces
Parum remitte, donec hoc noscas virorum
Decus sepulchro claudier Victorium.
Simul pietatem candidam et fidem simul
Animique robur caeterasque conditas
Tumulo sub ipso fiere virtutes scias,
Simul lepores et ioci atque urbanitas
Haetrusca luget, Latia et silet chelys
Graiaeque fabulae tacet eloquentia.
Quid plura, lector? Hic Petri natus iacet.
Aliud
Franciscus tegitur parva hac Victorius urna
luce prius Phoebi, nunc lucis tempore functus.
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