fortuna guidarono questi due uomini ad immortalità, saranno rintracciate nel
Saggio seguente. — Di fronte a' contemporanei, il Petrarca si levò tant'alto
sopra la gelosia stessa, che sovente s'interpose ad estinguerla fra di essi. Ma
qualunque volta l'interporsi tornava indarno, se ne doleva come di calamità
immeritata; alla quale pur si esponeva, per ambizione forse di far mostra
dell'autorità sua. A tal parte del suo carattere par ch'egli alluda in versi
suggeritigli senz'altro dalla sua sperienza.
La lunga vita e la sua larga vena
D'ingegno pose in accordar le parti
Che 'l furor litterato a guerra mena.
Nè 'l poteo far: chè come crebber l'arti,
Crebbe l'invidia; e col sapere insieme
Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti.
abbastanza come essa abbia radice in una squisita sensibilità, e in un profondo sentimento
religioso. Sembra commiserare il Petrarca di essersi abbandonato soverchiamente a tali
sentimenti. In più luoghi l'Autore giudica duramente della tenerezza del Poeta, e trascorre
anche ad accusarlo d'invidia verso Dante. Il traduttore, non volendo rappiccar note ad ogni
luogo ove dissenta dal testo, non crede domandar troppo a' lettori, pregandoli a non
iscambiare la fedeltà con l'assentimento, e a rimanersi paghi di questa sola nota. Per toccare
alquanto più largamente dell'ultima e più grave accusa, diremo:
L'abate De Sade fece conoscere la lettera del Petrarca al Boccaccio, sepolta prima nell'edizione di Ginevra e
non avvertita. Il Tiraboschi nella prima edizione della sua Storia impugnò l'autenticità della lettera, e la verità di più
cose in essa contenute. Nelle note alla seconda edizione, dalle nuove ragioni addotte dal De Sade nella sua Risposta,
ch'egli ottenne manoscritta, e ch'è tuttavia inedita, costretto a disdire le più delle sue obbiezioni, non cessa però dalle
sofisticherie. Ora nella lettera il Petrarca si duole dell'accusa, che il volgo gli dava, d'invidiar Dante. Parve al De Sade
che ciò facesse in guisa da confermare piuttosto che distruggere quell'opinione: ma il De Sade non fa che esporre un
dubbio. L'autore di questi Saggi, uscendo dal campo ampio e lubrico de' sospetti, li converte in esplicita e formale
accusa, fondandola egli pure nelle ambagi della difesa; e aggiugne: «che il Petrarca affettò di non leggere mai le opere di
Dante»: ma perchè dissimularne la cagione, espressa nella stessa lettera del Petrarca? Il Petrarca dice dunque, che non le
leggeva, non perchè non le avesse in sommo pregio, ma perchè, datosi egli pure alla poesia volgare, temeva di essere
tratto a ricalcarne le orme, ed era ben risoluto di stamparne di proprie; quella cagione, che fece abbandonare all'Alfieri
la lettura di Shakespeare. Che se più innanzi, nel Parallelo fra Dante e Petrarca, il Foscolo reca altre parole di essa
lettera, con le quali il Petrarca dà nota di ruvido allo stile di Dante, in ciò si vuol ravvisare non l'invidia, ma il gusto e il
giudizio del Petrarca, gusto e giudizio comuni a tant'altri allora e poi. In quel Parallelo vedremo come, nel secolo di
Leon X, proclamato il Petrarca superiore a Dante, e rimasa la sentenza in vigore fino a' di nostri, ciò venga dall'Autore
attribuito al preferirsi allora l'eleganza del gusto agli ardimenti del genio. Ora quant'egli dice dell'universale — e con
verità, ci pare — perchè non potrà dirsi di un solo,... del Petrarca, ad esempio? Era egli l'eleganza in persona; e per ciò
stesso o per altro, la teneva forse, comparativamente ad altre doti o possedute o richieste da uno scrittore, in soverchio
pregio. Oggidì, che la venerazione a Dante salì a superstizione, a vera Dantelatria, i giudizi che ne vanno scevri riescono
incomportabili. Il solo che a buon dritto dovrebbe riuscir tale, perchè negazione del nome di poeta a Dante, è il verso
Fiorenza avria fors'oggi il suo poeta,
che allude non a Dante, ma al Petrarca che lo scriveva in quel sonetto, dal quale s'avrebbe a inferire, che, mentre Arunca
del suo Lucilio può inorgoglire, a Firenze manchi il suo poeta. Che un tal verso dal nostro punto di vista ci muova a
dispetto, chi vorrà negarlo? Eppure l'autore de' Saggi, se anche non avesse passato in silenzio questo, che è il vero torto
fatto dal Petrarca a Dante, e non in lettere latine e confidenziali poco lette, ma nelle Rime, che tutti leggono, l'unico torto
che valga a provocare doglianze legittime, ce ne porgerebbe pur sempre egli stesso la scusa, o piuttosto la spiegazione,
senza punto ricorrere a sentimenti bassi. In fatti, e qui e dove verrà a raffrontarli, non parla egli della discrepanza
assoluta di genio, di gusto e di studi tra i due grand'uomini? Rechiamci col pensiero a' dì del Petrarca, e troveremo la
Divina Commedia mancante ancora di quella fama universale, che è agli occupatissimi necessaria per determinarli a
serie e lunghe letture, e tali da equivalere a uno studio, e sole bastanti a ben giudicarne. Quindi il non leggersi il poema
di Dante non era allora tal cosa da farne ora stupore... Erane la fama nascente, gli esemplari non comuni, sicchè il
Boccaccio, tra' primi a predicarlo e primo a spiegarlo da una cattedra, volendo indurre l'amico a leggerlo, dovette
mandarglielo. Di qui quella fama cominciò a mettere le radici, ma passò lungo tempo prima che fosse ben radicata.
Conchiudiamo, che l'attenzione del Petrarca volgevasi tutta alla ricerca di codici antichi, e molti infatti ne scoprì; ch'egli
sovra tutti cercava poeti fatti sacri non solo dal lauro ma da' secoli: che sì fatta consecrazione a Dante, che l'ha oggidì,
allora mancava; che il non leggerne le opere, oltre la ragione sovra esposta, il timore cioè di divenirne servile imitatore,
non era lo scandalo che oggi pare o sarebbe; che quindi l'accusa d'invidia data al Petrarca manca di solido fondamento,
ov'anche se ne allegasse la prova più forte e più pubblica, trasandata ne' Saggi; però che del suo dire e del suo tacere
intorno a Dante si hanno motivi più veri e più onesti. [T.]