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TITOLO: SAGGI SOPRA IL PETRARCA
AUTORE: FOSCOLO, UGO
TRADUTTORE: UGONI, CAMILLO
CURATORE: PAPINI, GIOVANNI
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: NO
LICENZA: QUESTO TESTO È DISTRIBUITO CON LA LICENZA
SPECIFICATA AL SEGUENTE INDIRIZZO INTERNET:
HTTP://WWW.LIBERLIBER.IT/BIBLIOTECA/LICENZE/
TRATTO DA: "SAGGI SOPRA IL PETRARCA",
DI UGO FOSCOLO;
A CURA DI GIOVANNI PAPINI;
TRADUZIONE DI CAMILLO UGONI;
COLLEZIONE SCRITTORI NOSTRI;
R. CARABBA EDITORE;
LANCIANO, 1928
CODICE ISBN: INFORMAZIONE NON DISPONIBILE
1A EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 FEBBRAIO 2006
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: AFFIDABILITÀ BASSA
1: AFFIDABILITÀ MEDIA
2: AFFIDABILITÀ BUONA
3: AFFIDABILITÀ OTTIMA
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
PAOLO ALBERTI, PAOLOALBERTI@IOL.IT
REVISIONE:
CATIA RIGHI, CATIA_RIGHI@TIN.IT
PUBBLICATO DA:
CATIA RIGHI, CATIA_RIGHI@TIN.IT
ALBERTO BARBERI, COLLABORARE@LIBERLIBER.IT
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SAGGI SOPRA IL PETRARCA
PUBBLICATI IN INGLESE DA UGO FOSCOLO
E TRADOTTI IN ITALIANO
DA
CAMMILLO UGONI
Irrequietus homo perque omnes anxius annos
Ad mortem festinat iter: mors optima rerum.
PETRARCA, Africa, lib. VI.
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ALLA MOLTO ONORANDA
BARBARINA LADY DACRE
Signora,
Così la gratitudine mia, o Signora, come l'opinione di que' ragguardevoli letterati, il cui
gentile ajuto, vinto solo da' vostri, mi fece atto a presentare i miei Saggi all'inglese leggitore,
m'incuorano a intitolarli al nome di vostra Signoria. A una voce e animata da nazionale orgoglio
essi proclamano, che i vostri versi serbarono gli spiriti medesimi del Petrarca con tal fedeltà, da
sperarsi appena, e certo non conseguita da verun'altra versione. Ciascuno poi di quanti
contribuirono a questo volume, rassegnando la parte sua alla riconoscenza, spera che l'offerta ne
potrà venire accettata da voi sola.
Ho l'onor d'essere,
Signora,
Vostro grato e devoto servitore
UGO FOSCOLO.
South Bank, Regent's Park,
Gennajo 1823.
SAGGIO
SOPRA L'AMORE DEL PETRARCA
Fu forse un tempo dolce cosa amore,
Non perch'io sappia il quando.
PETRARCA, p. II, son. 72.
I. Benchè il Petrarca siasi studiato di ricoprire d'un bel velo la figura di Amore, che greci e
romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo velo è sì trasparente, che lascia tuttavia
scernere le stesse forme. La distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti
cerimonie con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva a' casti amori delle
zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre, riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle
donne più in voga a que' tempi. Malgrado le mistiche e politiche allegorie che l'antica metafisica e la
moderna erudizione fabbricarono sopra questi due nomi, la popolare distinzione è costantemente
avvalorata da' poeti, allorchè descrivono i costumi de' loro tempi e il culto delle due dive
(
1
)
. Mentre
virtuose donne vivevano in sì stretto ritiro da non comparir mai a' banchetti, e occupavano stanze
appartate da quelle degli uomini; artisti, poeti, filosofi, magistrati, sacerdoti e tutto il bel mondo
teneva le sue adunanze nelle case di donne che facevano aperto traffico delle bellezze loro, e
prestavano le loro persone a modello delle statue, delle quali i templi della Grecia venivano
adornandosi. Ognuno sa come Aspasia, che governò Pericle ed educò Alcibiade, fosse sacerdotessa
della Venere Terrestre. Queste donne seppero far tanto da porsi esse pure sotto il patrocinio della
Venere Celeste, col propagare la credenza che fossero di un solo amante, e che i sentimenti da esse
inspirati a tutti gli altri fossero virtuosi; e tornò in politico acconcio de' loro stessi ammiratori il
diffondere accortamente sì fatta opinione fra il popolo. Platone pose in bocca di Socrate ogni
sottigliezza di raziocinii, a provare la possibilità di essere devoti a donna galante senza bramarne i
favori
(
2
)
.
II. Possiamo nondimeno con probabilità tenere per apocrifo quanto Platone fa dire al suo
maestro, ovunque le cose stesse non sieno confermate da Senofonte. Ciascuno di questi due grandi
scrittori, la cui rivalità giugne presso alla nimicizia, compose un trattato col titolo di Banchetto, in
cui Socrate è fatto parlare d'Amore. Quindi gli è certo che la nuova applicazione alla distinzione
1
()
Teocriti Epigr., Callimachus et Catullus, De coma Berenices, sub fine. Proclus, in Ven. Hymn., I. V, 7, 19.
2
()
Plato, Συμποσιον, passim.
antica fra le due dive ebbe origine da Socrate. Ma, nel Banchetto di Senofonte, lo scopo non è
d'ingannare gli Ateniesi rispetto alla natura di quelle conversazioni che i loro grandi uomini
tenevano colle Aspasie de' loro tempi. Il discorso di Socrate mira a far ravvedere e vergognare
coloro fra' suoi concittadini, i quali furono ammiratori soverchio passionati della bellezza in
entrambi i sessi. «La bellezza (egli dice) è rischiarata da una luce che mi guida ed invita a
contemplare l'anima che abita una tal forma; e se l'anima è tanto bella quanto il corpo, è impossibile
non amarla. Ma non si può dare bellezza d'anima senza purità, e la purità di chi più caramente amo
fa me pure uomo buono. Però, siccome l'oggetto della tua tenerezza ti si fa più caro a misura che vai
discoprendo in esso nuove doti, e siccome ti è grato vedere che anche da altri s'ammiri, così
t'importa di conservarlo mondo d'ogni macchia. Col corrompere la morale tu deformi ed avvilisci
l'anima, di cui vorresti sublimare la perfezione; e questa deformità traspira pur anche nell'aspetto.
Non affermerò io già che vi sieno realmente due Veneri; ma, poichè veggo esservi templi sacri alla
Celeste, ed altri alla Terrestre Venere, e sacrificarsi entro i primi con cerimonie più scrupolose e
con vittime più pure, presumo che le due dive sussistano almeno negli effetti loro. La Venere
volgare infiamma le passioni verso il corpo; la celeste Venere ispira amore verso l'anima, e trae ad
onesti vincoli e ad opere virtuose
(
3
)
III. Pare che l'immaginativa di Platone si giovasse di tali esortazioni per esaltare e sostenere
un'ingegnosa teorica dell'Amore; e basterà qui riferirne quella parte che forma la macchina della
poesia del Petrarca: — «Le anime nostre emanano da Dio, e a lui ritornano di bel nuovo.
Preesistono a' nostri corpi in altri mondi. Le più tenere e belle abitano Venere, lucentissimo e
purissimo de' pianeti, chiamato il terzo cielo. Sono più o meno perfette, e le più perfette amano
quelle che sono parimente più perfette. Predestinata e immutabile simpatia le appaia: come che non
partecipino delle sensuali perturbazioni del corpo, sono tuttavia costrette a seguirlo ciecamente,
tratte da fatalità o da caso per la procreazione della specie. Arde ogni anima il desiderio della sua
compagna; e se avvenga che peregrinando sopra la terra s' incontrino, l'amore in esse si fa tanto più
ardente, quanto la materia in cui son chiuse ne impedisce la riunione. In casi tali, i piaceri, gli
affanni e le estasi reciproche sono inesprimibili: ciascuna si sforza di farsi conoscere all'altra;
celeste luce avvampa negli occhi, da tutta la persona balena immortale bellezza; il cuore si sente
meno inclinato alla terra; e mutuamente si vanno incitando alla esaltazione e purificazione della loro
virtù. E quanto si amano l'una l'altra, tanto si levano a Dio principio fontale di tutte; e quanto
sentono le pene dell'esilio sopra la terra e la prigionia nella materia, tanto bramano di svincolarsene,
affine di potersi congiugnere eternamente in cielo.» — Ora, dacchè l'intero sistema è fondato nella
ipotesi: «che ogni anima ha predestinata simpatia con un'altra unicamente;» - e dacchè ogni persona
immagina «che l'ente a cui ella è congiunta sia il perfettissimo,» ne segue «che ogni platonico
amadore dovrebbe sforzarsi perpetuamente di raggiungere il più alto grado di perfezione morale.»
IV. Tali opinioni vennero in Italia per mezzo degli antichi Padri della Chiesa; ed alcuni
teologi, fra cui Giovanni da Fabriano morto l'anno stesso che morì Laura, scrissero trattati onde
conciliare la dottrina di Platone colla Bibbia
(
4
)
. I frati le rivolsero in loro pro, e, citando l'esempio di
celebri poeti, predicarono: che le anime delle donne trapassate si sarebbero più prontamente accolte
in cielo, suffragate dalle limosine e preghiere de' loro amanti. «Ma pur messer Francesco Petrarca,
che è oggi vivo,» dice un predicatore domenicano, «hebe un'amante spirituale apelata Laura: poi che
ella morì, gl'è stato più fedele che mai, et àli data tanta fama, che l'à sempre nominata, et non morirà
mai. Et questo è quanto al corpo; po' li ha facto tante limosine, et fatte dire tante messe et orationi
con tanta divotione, che s'ella fosse stata la più cattiva femina del mondo, l'avrebbe tratta dalle mani
del Diavolo, benchè se raxona che morì pure santa»
(
5
)
. Così la filosofia e la religione cospirano cogli
usi cavallereschi di que' tempi a lusingare e ad abbellire la più irresistibile di tutte le umane
propensioni. La facilità nel cedere all'amore si aveva per l'indizio più aperto di mente benevola: la
costanza, il disinteresse e la sommessione al sesso gentile furono i più sicuri pegni di valor militare
e di eroismo: bella poesia provava, non già il genio del poeta, bensì la forza della passione che lo
4
()
Fabricius, Med. et Inf. Lat., tomo IV, pag. 74.
5
()
Due copie manuscritte di questi sermoni, con data ed ortografia del 1372, sono citate dal Tiraboschi, Storia
della Letteratura Italiana, vol. V, lib. III.
inspirava. Beltà, grado, virtù domestiche non avevano merito, se non celebrate dall'adorazione di un
amante, e dalla passione di un poeta. A' tempi del Petrarca, Agnese di Navarra, contessa di Foix,
scrisse alcuni versi d'amore a Guglielmo di Machaut, poeta francese: egli divenne geloso, ed ella gli
mandò il proprio confessore dolendosi degl'ingiusti sospetti, e giurando ch'eragli tuttora fedele.
Richiese pure all'amante di scrivere e pubblicare in versi la storia dell'amor loro; e conservò nel
tempo stesso agli occhi del marito e del mondo fama di virtuosa principessa
(
6
)
. La riputazione, e
forse la virtù, del bel sesso venivano protette dalle Corti d'Amore, che per due secoli furono tenute
in tutta Francia. Queste corti erano le scuole insieme e i tribunali ove si decretavano premii a'
migliori poeti e a' più fedeli amanti, ove problemi di galanteria venivano sciolti, ove si formavano
processi e si condannavano individui. Colà le donne facevano ufficio di giudici, nè davasi appello
da esse. Ma per ridevoli che ci riescano somiglianti instituti, la vanità e la moda fecero cercare e
temere questi tribunali preseduti talvolta da principesse; nè concedevasi a' mariti di dare innanzi ad
essi querela della indifferenza della propria moglie. La contessa di Champagne, figliuola di Luigi il
giovane, sentenziò nel suo tribunale che: En amour tout est grace; et dans le mariage tout est
nécessité; par conséquent l'amour ne peut pas exister entro gens mariés. La Regina, cui fu portato
appello da tale sentenza, rispose: A Dieu ne plaise que nous soyons assez osée pour contredire les
arrêts de la comtesse de Champagne
(
7
)
.
V. Nel cuore della Francia, nella città ove tali costumi e istituti erano popolari; in tempo che
i Jeux Floraux cominciavano a celebrarsi in onore de' poeti inspirati da amore; con mente tutta
intesa alle speculazioni dall'antica filosofia diffuse largamente, dalla poesia d'Italia già adornate e
dalla religione santificate; con disposizione virtuosa bensì, ma irrequieta e ansiosa di fama; con
immaginazione che errava in traccia d'una felicità sicura dalla incostanza della fortuna, il Petrarca in
età di 23 anni innamorò di Laura, che aveva allora appena compiuti i diciannove. Scontratosi negli
occhi di lei la prima volta in una chiesa, la seguì per via pur pieno dell'inusata raggiante beltà che lo
colpì, e contemplandone da lungi la grazia del portamento e i capegli cadenti in ampia profusione di
ricci:
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi,
Che 'n mille dolci nodi gli avvolgea;
E 'l vago lume oltra misura ardea
Di que' begli occhi.
Non era l'andar suo cosa mortale,
Ma d'angelica forma.
Poeti, antiquarii, viaggiatori d'ogni nazione, e fra essi l'arcivescovo Beccadelli coi cardinali
Sadoleto e Polo, questi legato allora della provincia, cercarono il paese per ogni lato, ma non
trovarono chi fosse Laura, o se mai fosse. Frattanto innumerevoli scrittori pubblicarono, ognuno a
sua posta, relazioni intorno al Petrarca ed a Laura; e benchè spacciassero fole da romanzi sotto
colore di storia, si trassero dietro la comune de' leggitori. L'abate De Sade, verso l'anno 1760,
nell'esaminare gli archivi di sua famiglia in Avignone, recò in luce alcuni vecchi testamenti e
contratti, che, avvalorati da molte allusioni nelle diverse opere del Petrarca, condussero alla
conclusione, ammessa innegabile pur da' suoi italiani oppositori,
(
8
)
«Che Laura figliuola fu di
Audiberto di Noves, e maritata nel diciottesimo anno ad Ugo de Sade; e che, circa due anni dopo, il
Petrarca la conobbe.» Coloro cui sta sempre a cuore di salvare il poeta dalla nota di aver sospirato
per la moglie altrui, ricusano l'autorità di documenti; anzi un critico scozzese
(
9
)
contende che
un'abbreviazione trovata in un manuscritto latino, in cui il Petrarca dice di Laura, corpus ejus
crebris PTBS exhaustum, dovrebbe essere interpretata perturbationibus; e, se fosse così, potremmo
presupporre, che la salute di Laura fosse scaduta per frequenti afflizioni. Ma la più diretta
6
()
Mémoires de l'Académie des Inscriptions, vol. XX, p. 413.
7
()
L'Accademia della Crusca cita un manuscritto colla data del 1408, che reca il titolo di Libro d'Amore, dove
gran copia di tali decisioni sono registrate.
8
()
Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, vol. V.
9
()
Critical and Historical Essay on the Life and Character uf Petrarch, Edimburg, 1812.
interpretazione di PTBS è partubus; e le parole crebris, corpus, exhaustum quadrano con essa più
grammaticalmente e più logicamente ad esprimere che il temperamento di lei fu estenuato da
frequenti portati. Le voci mulier e femina (di cui, scrivendo latino, il Petrarca fa uso continuo per
nominarla, invece di virgo e puella), e quelle di donna e madonna in italiano, significano più
propriamente donna maritata. Donna è pur vocabolo generale; e, derivato da domina, sta in poesia
per appellazione di rispetto; ma, opposto a giovine o a vergine o a donzella, significa rigorosamente
donna maritata, e il poeta dice di Laura:
La bella giovinetta, ch'ora è donna.
VI. Sembra che nel conversare coll'amante ella ricordasse in candido e dilicato modo le
bellezze di sua gioventù, e la curiosità ed invidia che destavano:
E quand'io fui nel mio più bello stato,
Nell'età mia più verde, a te più cara,
Ch'a dir ed a pensar a molti ha dato.
Chi la dipinse, nondimeno pare che non fosse troppo inspirato dalla beltà di lei; il che dobbiam
forse recare alla infanzia dell'arte. A giudicare da' primi ritratti di Laura, una pulita fronte con occhi
neri, che davan risalto a candida carnagione e ad aurea chioma, ecco gli unici ornamenti rari ch'ella
sortisse da natura. Oltre il difetto di armonia nelle proporzioni, le fattezze ne rivelano l'affettazione
e la malizia di un'aria francese, non animata dall'attrattivo calore delle italiane, dalla ridente
serenità delle inglesi bellezze. L'amante suo, non avendo mai così per minuto ritratto Laura, lasciò
agli ammiratori della sua poesia il piacere di raffigurarsela a loro grado, e di fare stima delle sue doti
personali più dagli effetti che da idea distinta della natura di esse. Da qualche tocco qua e ne'
diversi scritti del Petrarca pare che la figura di lei fosse meno abbellita dalla regolarità e dignità, che
da aggraziata eleganza: e le più potenti lusinghe le venivano da' sospiri e sorrisi, dalla voce
melodiosa, dalla dolce eloquenza degli occhi:
Chi gli occhi di costei giammai non vide,
Come soavemente ella gli gira!
e sopra tutto dalla naturale mobilità del volto, sul quale il mistero di un'abituale pensosità crescevasi
dal subitaneo animarsi ed impallidire:
E 'l viso di pietosi color farsi,
Non so se vero o falso, mi parea.
La persona del Petrarca, se diam fede a' biografi, colpiva di tali bellezze, che si attraevano la
universale ammirazione.» Essi lo rappresentano «con larghe e maschie fattezze, occhi pieni di
fuoco, florida carnagione e d'aspetto presago di tutto il genio e della immaginazione che appare
nelle opere.»
(
10
)
Forse il Petrarca non invanì soverchiamente de' pregi esteriori, quantunque non
sembri che la modestia avesse gran parte nel giudizio che faceva di sè. «Benchè non abbia singolare
avvenenza,» dic'egli nella Lettera alla Posterità, «la mia persona ebbe alcun che di piacevole in
gioventù.
(
11
)
La carnagione era d'un bruno chiaro e vivace, gli occhi animati; i capegli
m'incanutirono prima de' venticinque anni, e me ne consolava pensando che il difetto erami comune
con molti grandi uomini dell'antichità, perchè Cesare e Virgilio furono grigi in gioventù. Ove poi
me ne fosse venuto aspetto venerabile, di questo certo non avrei menato gran vanto.»
(
12
)
Inconsolabile allora se gli si sviava una ciocca di capegli, era studioso di ornarsi la persona con le
vesti più leggiadre, e di dare graziosa forma a' suoi piedi, costringendoli in iscarpe che ne ponevano
10
()
De Sade, Mémoires, vol. I. — M.rs Dobson's, Live of Petrarch.
11
()
Forma non glorior excellenti, sed quæ placere viridioribus annis posset. - Ad Post.
12
()
Senil., lib. V, ep. 3. Claris comitibus me solabar.
articoli e nervi a tortura.
(
13
)
VII. La sua giovenile inclinazione all'amore venne allettata da soverchiamente prematura
credenza, che fortuna, fama e mondo sieno indegni amici, e che solo avrebbe trovato felicità nella
corrispondenza di caldi e generosi sensi con pochissime persone:
Nè del vulgo mi cal nè di fortuna,
Nè di me molto nè di cosa vile,
Nè dentro sento nè di fuor gran caldo;
Sol due persone cheggio.
Nacque l'anno 1304 in Arezzo, mentre di Firenze erane sbandita la famiglia, e le sostanze confiscate
dalla violenza di vittoriosa fazione, spalleggiata dal tenebroso processo di un tribunale inquisitorio.
I suoi parenti cercarono rifugio ad Avignone, sperando di provvedere a' figliuoli nella corte del
papa. Il Petrarca in età di ventidue anni li perdette entrambi, e, non essendo più a lungo forzato allo
studio per sostentarli, abbandonò ogni arringo legale e il traffico
Di vender parolette, anzi menzogne.
L'animo suo rifuggì dall'idea di far acquisto d'una scienza, che lo avrebbe ridotto al dilemma «o di
divenire un ricco furfante, o di essere deriso dal mondo quale onesto pazzo che avesse concepito il
vano disegno di conciliare insieme legge, beni di fortuna e coscienza.»
(
14
)
Il giovanetto ebbe quindi
ricorso all'abito da prete, non perciò perdonando al libertinaggio de' ministri di Dio; disprezzando le
promozioni in una chiesa così contaminata, e lamentando e gemendo di non avere altra patria che la
terra dell'esilio:
Dal dì ch'io nacqui in su la riva d'Arno,
Cercando or questa ed or quell'altra parte,
Non è stata mia vita altro che affanno.
(
15
)
Essendo egli e poverissimo e di mente elevata, la desolante convinzione de' subiti rivolgimenti di
fortuna, delle umilianti e spesso inutili cure e della finale vanità dell'umana vita lo trasse a
fantasticare per mondi ideali, sclamando «che questo pure era vanità ed afflizione di spirito.»
Ruminare i suoi affetti e pascersi delle sue illusioni, fu prima ed ultima e perpetua sua cura. «I vicini
lo miravano attoniti e sospiravano, pur benedicendo il giovanetto, taluni stimandolo
maravigliosamente savio, e tali altri pazzo;» però che in gioventù il Petrarca sconfidò delle proprie
forze; e sentissi così fuggir l'animo per l'immensità, incertezza ed insufficienza di tutto l'umano
sapere, che fu in procinto di abbandonare le lettere per sempre, ed implorò consiglio da un amico
più provetto: «Debbo io lasciare lo studio? Debbo io entrare in altra via? Pietà di me, padre mio!»
Pochi mesi dopo la data di questa lettera, ebbe principio la sua conoscenza con Laura:
Io che l'esca amorosa al petto avea,
Qual maraviglia se di subit'arsi?
La raccolta de' suoi versi comparata alla sua corrispondenza e a tali altri
scritti che non intendeva dovessero pubblicarsi, porta seco il progressivo
13
()
Variarum, ep. 28.
14
()
Epist. ad Post.
15
()
Ed in una delle sue prime poesie latine:
Exul ab Italia furiis civilibus actus,
Huc subii, partimque volens, partimque coactus,
Hic nemus, hic amnes, hic otia ruris amæni:
Sed fidi comites absunt vultusque sereni.
Hoc uvat, hoc cruciat.
Carm., lib. I, epist. 6.
calore di una narrativa, nella quale identifichiamo sempre il poeta con
l'uomo, perchè fu accurato nel collocare le sue composizioni secondo
l'ordine del tempo; e spesso allude all'occasione che le fe' nascere. Per
verità, assai di tali circostanze sono sì frivole in sè, e i poetici ornamenti
destramente usati a coprire domestici casi, che difficilmente fermano
l'attenzione di lettori scaldati all'ardore degli affetti, abbagliati allo splendore
delle imagini, attoniti alla elevazione de' concetti e rapiti dalla varietà e
melodia della versificazione.
VIII. Da prima il Petrarca vide in Laura soltanto la bellissima delle donne; quella ch'era suo
fato l'amare, e che ispirava e nobilitava il suo ingegno: ambiva la gloria solo per potersene
assicurare la stima e l'affetto, e sperava di aver trovato la felicità in terra
(
16
)
. Poi scoprì che le forme
e le virtù di lei erano angeliche, — che l'amor suo ardeva unicamente per rischiarare e purificare il
suo cuore, — per acquetare la sua mente, — per mettere in armonia quelle facoltà che altrimenti
sarebbono state preda di perpetua agitazione, — per levare al cielo i desiderii e i pensieri suoi; e, per
poterla alzare sopra ogni terrestre idea, non accenna mai esplicitamente come fosse obbligata a
partecipare del letto con un altro. Alla fine però sentì e confessò, «lei essere donna; lui esser preso
delle sue forme; lei esser la sola che fosse mai parsa donna agli occhi suoi:»
Chiare, fresche e dolci acque,
Ove le belle membra
Pose colei che sola a me par donna;
e ardeva «d' invidia, di gelosia e d'amore:»
D'amor, di gelosia, d'invidia ardendo.
Invidiava Pigmalione, «che potè avvivare d'anima e d'amore la statua, fattura delle proprie mani.»
Ma pare insieme non essergli sfuggito, che la più bella parte di sua vita fu consunta nel culto
superstizioso di una deità, che forse merita di essere ricalata giù sulla terra, donde la fatale fantasia
del poeta l'aveva sollevata. Ei chiama l'alterezza di Laura «orgoglio,» e la sua avversione a ogni
specie di bassezza, «affettazione e ritrosia:»
Ed in donna amorosa ancor m'aggrada,
Che 'n vista vada altera e disdegnosa;
Non superba e ritrosa.
Amor regge suo imperio senza spada.
Alle illusioni di una passione pura seguitano i desiderii di un amore impaziente, che esce in parole
ed in versi troppo chiari ond'essere citati, e che non sono comunemente osservati, perchè la
tradizione ci reca a leggere il Petrarca con prevenzione che l'amore ne fosse platonico. Non venne
ammesso in casa di Laura se non raramente, e solo parecchi anni dopo il primo loro incontro. «Io
invecchio,» dic'egli, «ed ella invecchia. Comincio a perdere speranza, e pure il tempo sembrami
passar lento, fino a che non ci verrà conceduto di stare insieme senza il timore di perderci:»
Ma sia che può, già solo io non invecchio.
IX. Qua e colà ci fa intendere come avesse cagione di nodrire aspettative spesso lusingate e
sempre deluse:
E mi conforta, e dice che non fue
Mai, com'or, presso a quel ch'i' bramo e spero.
16
()
Ne' Dialoghi con Sant'Agostino, libro in cui versò tutti i suoi sentimenti, e che intitolo: De secreto
conflictu curarum suarum, confessa che il desiderio della corona di Lauro si fece in lui più ardente per la sua affinità col
nome di Laura. - Petrarchæ Operum, vol. I, pag. 403, edit. Basil. 1581.
Io, che talor menzogna, e talor vero
Ho ritrovato le parole sue,
Non so s'il creda, e vivomi intra due.
Pure nè da tali passi è lieve appurare quali fossero i veri sensi di Laura; e parrebbe che
l'ardore delle brame inducesse il Petrarca ad inferire da qualche scaltra o tenera occhiata una
promessa, che però non isfuggì mai dal labbro di lei.
Uno de' suoi sonetti sarebbe egregio tema a un artista, onde rappresentare il Petrarca in atto
di pigliar licenza da Laura per lungo tempo. Il costei volto cuopre l'usato velo: modestia, elevazione
di mente, tenerezza, melanconia, mistero e civetteria sono così frammiste da non lasciare scorgere
distintamente lo stato reale del suo cuore; — laddove nel viso dell'amante suo predomina l'estasi
della passione e la intensità dell'illusione, come se leggesse chiaramente negli occhi di Laura
sentimenti invisibili a tutti i circostanti:
Quel vago impallidir che 'l dolce riso
D'un'amorosa nebbia ricoperse,
Con tanta maestade al cor s'offerse,
Che gli si fece incontro a mezzo 'l viso.
Conobbi allor sì come in paradiso
Vede l'un l'altro; in tal guisa s'aperse
Quel pietoso pensier, ch'altri non scerse;
Ma vidil'io, ch' altrove non m'affiso.
Ogni angelica vista, ogni atto umile
Che giammai in donna, ov'amor fosse, apparve,
Fôra uno sdegno a lato a quel ch'i' dico.
Chinava a terra il bel guardo gentile,
E tacendo dicea (com'a me parve):
Chi m'allontana il mio fedele amico?
La impazienza di riveder Laura esagerò alla sua fantasia le angustie in cui egli l'aveva lasciata; ma
non appena ei fu di ritorno, che di nuovo incontrò la stessa fredda accoglienza, che lo costrinse a
gemere, a crucciarsi, a temere il disprezzo del mondo,
(
17
)
— per discostarsene poi un'altra volta, e
nascondere la umiliazione e le agonie del suo mal corrisposto amore nell'eremo di Valchiusa:
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti.
Altro schermo non trovo che mi scampi
Dal manifesto accorger delle genti.
X. Che sia possibile dar libero corso alla immaginazione, e non adescare la mente in un
laberinto di errori e d'affanni, è sentenza assai volte sostenuta coll'esempio del Petrarca e di Laura
da chi non per anco ne ha fatto prova in sè stesso, e da chi ha vaghezza di trarre altrui fuori dell'asilo
della tranquillità o dell'innocenza, — volendo forse insegnare che la virtù si acquista a prezzo delle
più care nostre inclinazioni, — ovvero, come più spesso accade, con tardo ed eterno pentimento.
La voce nondimeno che Laura non sempre fosse inesorabile, è ugualmente popolare, in
ispecial modo appo coloro che sono a un tempo meno favoriti dal bel sesso, e più in apprensione
delle sue lusinghe. Tal voce fondasi pur anco in quelle tradizioni romanzesche che poeti e
viaggiatori sono corrivi ad accogliere. Gli abitanti di Valchiusa additano l'altura ove sorgeva il
castello di Laura, ond'ella poteva conversare con l'amante per segnali. L'abate Delille scopre la
grotta stessa cui riparava in segreto la felice coppia, e l'albero ch'erale cortese d'ombra ospitale:
17
()
Jam duo lustra gravem, fessa cervice, catenam
Pertuleram indignans.
Petrar., Carm., lib. 1, ep. 12.
Une grotte écartée avait frappé mes yeux;
Grotte sombre, dis-moi si tu les vis heureux?
M'écriai-je. Un vieux tronc bordait-il le rivage:
Laure avait reposé sous son antique ombrage.
(
18
)
Una donna va anche più oltre che l'abate:
Dans cet antre profond, où, sans autres témoins
Que la naïade et le zéphyre,
Laure sut par de tendres soins
De l' amoureux Pétrarque adoucir le martyre;
Dans cet antre où l'amour tant de fois fut vainqueur,
Il exprima si bien sa peîne, son ardeur,
Que Laure, malgré sa rigueur,
L'écouta, plaignit sa langueur,
Et fit peut-être plus encore.
(
19
)
Non si potrà certo, per veruna confessione sfuggita al Petrarca, riuscire a tor di mezzo la
vecchia quistione. Ma, quanto è all'incontrare Laura a Valchiusa, egli ritirossi colà, «sperando,
com'ei dice, di spegnere nella solitudine e collo studio la fiamma che mi andava consumando.
Povero sfortunato! il rimedio ad altro non valse che ad innasprire la piaga. Le meditazioni mie si
raccolsero tutte in colei sola che io m'affannava di sfuggire.»
(
20
)
— In altra lettera da Valchiusa egli
scrive: «Qui gli occhi miei, che troppo si affissarono nella beltà ad Avignone, non possono veder
altro che cieli, rupi ed acque. Qui sono in lotta con tutti i miei sensi. Melodiose parole non più
dilettano le mie orecchie. — Altro non odo più che il muggito delle mandre. Dall'un canto
gorgheggiano gli uccelli, — dall'altro strosciano le acque, o mormoreggiano. Non si dà amenità
maggiore nè più rara di quella de' miei due giardini. Ho fin dispetto che tanto possa incontrarsi fuori
d'Italia. Ma la vicinanza d'Avignone avvelena tutto!
(
21
)
Quando penso a lei — e quand'è mai che io
non pensi a lei? — mi guardo intorno alla mia solitudine, e trovomi gli occhi bagnati di lagrime.
Sento che sono uno di que' miseri, la cui passione d'altro non si pasce che di memoria, nè trova
conforto se non nel pianto; ma che tuttavia desidera di pianger solo:»
Amor col rimembrar sol mi mantiene.
Ed io son un di quei che il pianger giova
Ed io desio,
Che le lagrime mie si spargan sole.
XI. La casa del Petrarca è scomparsa; nè le frequenti descrizioni ch'egli ne fa possono aiutare
gli antiquari a scoprire il sito de' suoi giardini: ma la Valle Chiusa è una di quelle opere di natura,
cui cinque secoli non valsero a recare oltraggio. Lasciato Avignone, l'occhio di chi fa quel cammino
riposa sopra l'ampiezza di una fresca prateria, che va a finire in un piano per copia di vigneti assai
vago. Poc'oltre cominciano ad ascendere i colli coperti d'alberi che si specchiano nelle acque del
Sorga, le quali sono sì limpide, sì rapidamente corrono e n'è il suono sì dolce, che il poeta le
descrive con verità ove dice, «che sono liquido cristallo, il cui mormorio mescendosi a' canti degli
augelli riempie l'aere d'armonia.» Le sponde ricuopronsi di piante aquatiche, e in que' luoghi ove la
caduta o la rapidità delle correnti toglie il distinguerle, il fiume sembra movere sopra un letto di
vivo smeraldo. Più presso alla sorgente, il suolo è sterile; e siccome il canale viene restringendosi, le
onde rompono contro le balze, rotolandosi giù in torrente di schiuma e di sprazzi che brillano per la
reflessione de' prismatici colori. Inoltrandosi più e più a ritroso del fiume, chi va per quella via
18
()
Les Jardins, ch. III.
19
()
Madame Deshoulières: Epître sur Vaucluse.
20
()
Epist. Famil., lib. VIII, ep. 3.
21
()
Epist. Famil., lib. XXII, ep. 8.
riesce in un semicircolare recesso, chiuso da rocce inaccessibili a diritta, scoscese e dirupate a
sinistra, sorgenti in obelischi, in piramidi e in ogni fantastica forma, e di mezzo ad esse migliaia di
rivoletti discendono. La vallea è terminata da una montagna tagliata a picco da cima a fondo, e, per
un porticale di archi concentrici, opera della natura, entra il viandante in vasta caverna. Il silenzio e
l'oscurità che quivi regna vengono interrotti soltanto dal mormorio e dal chiarore delle acque d'un
bacino, che forma la principale scaturigine del Sorga. Questo bacino, di cui non anco fu
scandagliato il fondo, rigonfia in primavera per modo da sforzare l'uscita delle acque per una fessura
in cima alla caverna, ad un'altezza di circa cento piedi, d'onde esse di balzo in balzo precipitandosi
in cascate, ora svelano or coprono di schiuma gli smisurati massi, lungo i quali trascorrono. Il
mugghio de' torrenti non cessa mai duranti le lunghe piogge, tanto che ne diresti le rupi stesse
disciolte, e il tuono rimbomba di caverna in caverna. La terribile sublimità di tale spettacolo è
svariata da' raggi del sole, che verso il tramonto segnatamente rifrangono e riflettono le varie lor
tinte sopra le cascate. Dopo la canicola, le rupi divengono aride e negre, il bacino ripiglia il suo
livello, e la valle ritorna a un profondo silenzio.
XII. La solitudine, che trae le menti passionate a' fantasticare intorno a tutti
gli estremi della tristezza e della gioia, non valse ad altro che a vie più
agitare i già turbati pensieri del Petrarca. La pittoresca bellezza delle scene e
la tranquillità di una vita eremitica ne affascinò gli occhi, elevandone la
mente verso il cielo:
Qui non palazzi, non teatro o loggia,
Ma 'n lor vece un abete, un faggio, un pino,
Tra l'erba verde e 'l bel monte vicino —
Levan di terra al ciel nostr'intelletto.
Ma poi soggiugne:
E 'l rosignol, che dolcemente all'ombra
Tutte le notti si lamenta e piagne,
D'amorosi pensieri il cor m'ingombra.
Uccelli, fiori, fonti, ogni cosa in somma che pareagli fatta da natura ad esser felice, «conversava con
lui d'amore:»
L'acque parlan d'amore, e l'ôra, e i rami,
E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l'erba;
Tutti insieme pregando ch'io sempr'ami.
Sempre ch'egli studiavasi di volgere la intensità de' suoi pensieri a contemplare la reale condizione
della propria vita, il dolore diveniva in lui più intenso:
I' vo pensando, e nel pensier m'assale
Una pietà sì forte di me stesso.
Di pensier in pensier, di monte in monte
Mi guida Amor.
Per alti monti e per selve aspre trovo
Qualche riposo; ogni abitato loco
È nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un pensier novo
Della mia donna, che sovente in gioco
Gira il tormento.
Or potrebb'esser vero? or come? or quando?
«A me forse non si darà fede, pure quanto riferisco m'è avvenuto più volte. Sovente in luoghi
riposti, ov'io mi pensava di essere solo, la ho veduta apparire dal tronco di un albero, dalla bocca di
una caverna, da una nube, da non so dove. Il timore faceami immobile. Io non sapeva più che fosse
di me, nè dove andare.»
(
22
)
In altri tempi la stessa illusione lo dilettava fino all'estasi; ed egli credevasi in mezzo alle
gioie eterne del paradiso, quando s'immaginava che i suoi occhi si scontrassero negli occhi di Laura,
e li vedeva sfavillare di un sorriso d'amore; gaudio da lui descritto in tre versi che nessuna versione
può rendere, e nessuna critica è bastevole ad apprezzare:
Pace tranquilla, senza alcuno affanno,
Simile a quella ch'è nel cielo eterna,
Move dal loro innamorato riso.
In uno di quegl'istanti d'estasi beatifica, il Petrarca vede Laura uscire dalle chiare acque del Sorga,
adagiarsi sopra le sue sponde o passeggiare sull'erba:
Or in forma di ninfa o d'altra diva,
Che del più chiaro fondo di Sorga esca
E pongasi a seder in su la riva;
Or l'ho veduta su per l'erba fresca
Calcar i fior com'una donna viva.
In tante parti, e sì bella la veggio,
Che, se l'error durasse, altro non chieggio
Ma la notte dissipò queste visioni:
Nella stagion che 'l ciel rapido inchina
Verso occidente, e che 'l dì nostro vola
A gente che di là forse l'aspetta;
Veggendosi in lontan paese sola,
La stanca vecchierella pellegrina
Raddoppia i passi, e più e più s'affretta;
E poi così soletta,
Al fin di sua giornata
Talora è consolata
D'alcun breve riposo, ov'ella obblia
La noja e 'l mal della passata via.
Ma, lasso! ogni dolor che 'l dì m'adduce,
Cresce qualor s'invia
Per partirsi da noi l'eterna luce.
Al venir del silenzio e delle tenebre, la fantasia del poeta vestiva di terrore quell'oggetto medesimo
ch'erasi dilettata d'abbellire e di ornare il giorno. Sovente il Petrarca vide Laura di notte, e per le
membra gli corse il gelo della paura. «Tremante balzai di letto al primo albeggiare, onde spiccarmi
da una casa ove tutto mi metteva terrore. Mi arrampicai su per alture, attraversai selve, guardandomi
intorno per vedere se l'imagine, che m'aveva turbato il riposo, seguiva i miei passi, nè mi teneva
sicuro in verun luogo.»
(
23
)
Quando ebbe a spiegare in italiano ciò che si racchiude in questo passo
d'una delle sue opere latine, un sol verso bastò a farlo sentire ad ogni lettore che abbia sperimentato
violente passioni nella solitudine:
22
()
Carminum, lib. VII, ep. 7.
23
()
Carminum, lib. II, epist. 7.
Tal paura ho di ritrovarmi solo.
XIII. Bisogno di consolazione lo forzò a cercar rifugio fra coloro stessi ch'egli sprezzava:
Il vulgo a me nemico ed odïoso
(Chi 'l pensò mai?) per mio rifugio chero;
e amore nol trasse ad Avignone, se non perchè il misero tornasse di nuovo e di subito a Valchiusa.
Lasciò la Francia, e vi tornò di lì a pochi mesi. Imprese lontani viaggi, e fece ogni sforzo per
dimenticar Laura con prolungate assenze; e in tali accessi di sdegno e di vergogna pensò che una
meno platonica affezione avrebbe posto fine alla servitù in che la sua mente stavasi allacciata. «Non
era più da sperarsi che ne venissi liberato per mero caso.»
(
24
)
Ebbe allora un figliuolo, e, dopo alcuni
anni, una figliuola; ma protestò che, non ostante queste licenze, non amò mai altra che Laura. «Io
sempre sentii,» dic'egli, «la indegnità delle mie inclinazioni, e, al mio quadragesimo anno, me ne
liberai come se non avessi mai veduto altra donna; sano e robusto; nel caldo e vigore dell'età
soggiogai necessità così vergognosa.»
(
25
)
Anche verso questo periodo, che fu intorno a quello della
morte di Laura, nè l'esempio della virtù di lei, nè i suoi forti dubbi ch'ella non fosse una ritrosa
senza cuore, bastarono a saldarne la piaga, ed egli aprì il suo petto, che scoppiava di dolore, a' suoi
più intimi amici. «Il dì non è forse lontano ch'io sarò tranquillo abbastanza da contemplare tutta la
miseria della mia anima, e da esaminare la mia passione, non però per continuare ad amarla, bensì
per amare te solo, o mio Dio! Ma per ora quanti pericoli mi rimangono da superare, quanti sforzi da
fare! Non amo più come amai, ma amo ancora. Amo mal mio grado, ma amo in lamentazioni ed in
lagrime: la odierò? no; bisogna amarla ancora.»
(
26
)
Sette anni dopo la data di questa lettera, il
conflitto non era per anche cessato. «Il mio amore,» dic'egli, «è veemente, estremo, ma esclusivo e
virtuoso. — No, questa irrequietudine, questi sospetti, questi trasporti, queste vigilie, questo delirio,
questa stanchezza d'ogni cosa, non sono già i sensi di un amore virtuoso.»
(
27
)
XIV. Il Petrarca era in Italia allorchè la peste, che nel 1348 desolò l'Europa, rapì alcuni de'
suoi più cari, e lo spaventò col presagio di calamità vie più grande. «Da prima,» egli dice, «quando
abbandonai Laura, la vidi spesso ne' miei sogni. Era una celeste visione che mi consolava; ora
invece mi mette paura. Parmi di udirla dire: ti ricordi tu la sera che, forzata a lasciarti, ti lasciai
bagnato di lagrime? Previdi allora — ma non potei — non volli dirti... — ti dico ora, e tu puoi
credermi:
«Non sperar di vedermi in terra mai.»
Due mesi dopo, Laura morì nel suo quadragesimo anno, e il Petrarca scrisse in una copia di Virgilio
questa memoria: «Ne' primi giorni di mia gioventù, il 6 d'aprile sul mattino, e nell'anno 1327, Laura
ragguardevole per proprie virtù e celebrata ne' miei versi, per la prima volta ferì i miei occhi nella
chiesa di Santa Chiara ad Avignone; e nella stessa città, il 6 dello stesso mese d'aprile, alla
stessissima ora del mattino, l'anno 1348, questo splendido lume fu tolto dalla nostra vista, mentre io
era in Verona, ahi! ignaro della mia sciagura. Il suo casto e bel corpo fu deposto nella chiesa de'
Francescani sulla sera dello stesso giorno. Per conservare l'acerba rimembranza, ho preso l'amaro
piacere di farne speciale ricordo in questo libro che sta più spesso innanzi a' miei occhi affinchè
nulla in questo mondo possa aver più alcuna attrattiva per me; affinchè, chi mi rendeva la vita sì
cara sendosene andata, io possa da assidue meditazioni e da adeguata stima della transitoria nostra
esistenza essere ammonito, che egli è ben tempo per me di pensare omai a lasciare questa terrestre
Babilonia, il che voglio sperare, mercè forte e maschio coraggio, non mi sarà difficile di compiere.»
XV. Laura al potere che amore le dava sopra il Petrarca, aggiunse il vantaggio che ogni
persona operante con invariabile tranquillità si acquista sopra indoli passionate. I religiosi sensi di
24
()
Durum opus eventu dominam pepulisse decenni.
Carm., lib. I, ep. 12.
25
()
Epist. ad Post.
26
()
Famil., lib. IV, ep. 1.
27
()
Liber de secreto conflictu curarum suarum. An. 1343.
lei furono contrassegnati da più serenità e sicurezza che non quelli del suo amatore. In tutti gli atti
suoi la padronanza di sè stessa mostrasi anzi naturale che forzata. Il suo conversare è pieno di quella
dolcezza, di quella discrezione e di quel buon senso che forma un trionfante contrasto
coll'entusiasmo del poeta. Pare ch'ella sempre credesse come la modestia e la stima di sè fossero i
più begli ornamenti di una donna. Il Petrarca parla sovente della nobile nascita di lei; e dalla
sontuosa eleganza delle vesti sembra ch'ella possedesse beni pari al grado. Non per questo bramava
di vivere troppo conta al mondo:
In nóbil sangue vita umile e queta.
Altera, come n'andava, dell'affetto da lei meritato e della celebrità che a lei ne venne,
Quel dolce nodo
Mi piacque assai ch'intorno al core avei,
E piacemi il bel nome;
ella intendeva però più alle cure di famiglia, che alla letteratura e alla poesia,
E non curò giammai rime nè versi.
Nondimeno la sua domestica condizione non ebbe ad esser felice, se il marito, da lei chiamato ad
erede, lasciandogli in cura tre figliuoli e sei figliuole, si riammogliò entro sette mesi, vestendone
tuttavia la gramaglia.
(
28
)
Che Laura riamasse in effetto il Petrarca, sebbene questi si desse talora a
crederlo sì fermamente da persuaderlo pur anche a' lettori delle sue poesie, egli è tuttavia assai più
esplicito allorchè ci dice, questo essere sempre stato l'unico impenetrabile segreto del petto di lei; e
davvero ch'ella il seppellì con sè stessa. Il soave e pensoso carattere del suo volto esprimeva una
mente capace di patire senza querele:
E 'n aspetto pensoso anima lieta.
La iperbole si fa sentire allorchè Petrarca descrive Laura «mandata sopra la terra
A far del Ciel fede fra noi;»
tuttavia, se, com' egli spesso presumeva, il cuor di lei si alimentava di verace passione, e se ella
andava facendo un cotidiano sacrificio di sè e dell'amante a' propri doveri, il perseverante silenzio di
Laura e le alternate dimostrazioni di severità e di tenerezza verso il Petrarca dovrebbero ascriversi
meno ad artifizio, che alla costanza de' suoi sforzi onde occultare affetti, che avrebbe potuto temere
pericolosi a svelarsi, e che d'altra parte non era in poter suo di reprimere.
Pur mi consola che languir per lei
Meglio è che gioir d'altra.
XVI. Ma questo è il presupposto di un amante; perchè passione e ragione,
quantunque da prima s'incontrino nella nostra mente siccome due amiche, di
rado però vi regnano insieme con pari potere; e in breve l'una dèe
inevitabilmente cedere alla dittatura dell'altra. Che l'amore non dovesse
essere stato, in venti anni di tempo, soggiogato da risoluta virtù, vinta la
virtù dall'amore, è fenomeno che può concepirsi soltanto fra le ideali
possibilità delle cose. Pare non di meno del tutto consentaneo alle frequenti
contraddizioni della natura umana il presupporre che Laura, non amando
l'uomo, amasse la passione da esso lei ispirata. Avvi una compiacenza acuta
nella coscienza di possedere bellezze fatali a chi le ammira; e questa è
28
()
De Sade. Pièces justificat., V, 2.
tentazione cui soggiacciono anco gli animi di più eletta natura, venendo essa
addolcita da gentile sentimento di compassione verso chi patisce.
Somiglianti ad Eva che guarda nel lago del Paradiso:
M'arretro; ella s'arretra:
Ma compiaciuta io vi ritorno in breve;
E compiaciuta, in breve ella pur torna
Di simpatia e d'amor co' mutui sguardi;
(
29
)
le sue figliuole sovente si godono di non cercare nel cuore degli amanti nulla più che lo specchio
della propria imagine. Entusiasmo per uomo illustre; bisogno di divagarsi dalla monotonia di
solitaria vita; imperiosa necessità di essere amate, unico piacere forse onde uomini e donne
assiduamente vanno in traccia, indispensabile poi al sesso che per natura ha duopo del sostegno del
più forte; e all'ultimo il sentimento di religione e di modestia, che da esse non si scompagna,
rafforzato da timore della pubblica opinione, ed esaltato da sollecitudine ardente di perfezionare gli
abiti morali de' loro amanti, e di convertirne la passione in durevole amicizia; tutte queste
sensazioni, e forse altre simultanee non poche, operando, incitandosi e lusingandosi l'una l'altra,
sono così commiste da contenere le donne in tale stato di mente, che scambiasi assai volte da esse,
per pura e seria affezione. Così l'amore di Laura altro non era, se non se
Fiamma che lambe e scherza intorno al petto;
però che, mostrando ognora generosa cortesia al Petrarca, non pose mai in pericolo la virtù propria,
mentre con isforzo diplomatico di civetteria seppe chiudersi inviolato il suo secreto, e tener sempre
viva e deludere la speranza del suo amante; — e si giustificava poi dandosi a credere che
coll'esempio della sua castità lo guidava sopra la via del cielo. E in effetto, contenendone la calda
propensione a' diletti del senso, e sublimandone i religiosi principii, un tal provvedere gli tornò
utile.
(
30
)
Ma egli era pure proclive a morbosa sensibilità; malattia peculiare agli uomini di genio, e
che, dove sia amareggiata da lunghe sciagure e pertinaci passioni, non fallisce mai di degenerare in
disperata consunzione di mente.
XVII. Tollerò per anni ventuno la sciagura di adorare a un tempo e d'avere in sospetto
l'umana creatura ch'egli stimava sola valevole a renderlo felice; perplessità che riduce ad angosce
mortali, ed umilia a' propri occhi ogni uomo il quale sia
D'alta, amorosa indole costante. — Otello.
Perchè tali appunto sono le umane tempre che natura condannò a passioni violenti; dove rarissimi,
anche fra cotestoro, ne ricevettero in compenso la fortitudine di farsi tanto severi alle proprie più
profonde affezioni, da sradicare a qualsiasi costo quell'ulcera che gli uomini in generale altro non
fanno che nodrire ed allevare co' temporeggianti rimedi che vi adoperano. Sembra che il Petrarca si
compiacesse negli sforzi di coraggio, e nel reggere a lunga guerra con le speranze e co' timori
propri, e che mai non gustasse il piacere di una mente che, sprezzati gli adescamenti della speranza
e sdegnata la commiserazione degli uomini, misura tutta l'ampiezza del suo dolore, e lo sostiene,
non si lasciando svolgere dalla fluttuazione de' dubbi e delle illusioni. Egli sentì anzi ognora una
sorta di necessità di conciliarsi per ogni maniera la simpatia dell'universo; e il meschino che trova
conforto in sì fatta vanità è intieramente inetto a consolare sè stesso. Una mente raffinata,
commossa da naturale vivacità di sensazioni non use a freno, lo recò a temere ed a bramare a
vicenda il possesso di Laura. La sua passione fu prolungata da quella non virile irresolutezza, vera
fonte della infelicità e delle querele di lui, e che porse a Laura opportuno spediente di serbarsi a un
tempo e l'amante e la virtù sua. Come che fosse conscio «della follia ed umiliazione di amare non
essendo riamato,»
(
31
)
tuttavia persistè nel credere, che
29
()
Paradiso perduto, lib. IV, trad. di Paolo Rolli.
30
()
Senil., lib. VIII, epist. 1; lib. IX, epist. 2; lib. XI, epist. 3. Famil., epist. 98.
31
()
Ah demens! ita ne flammas animi in sextum et decimum annum aluisti? — De secreto conflictu.
Non è sì duro cor, che lagrimando,
Pregando, amando, talor non si smova.
Con tali versi finiscono quelli fatti in vita di Laura. La sua bellezza avea da gran tempo ceduto più
alle infermità, che agli anni. Ella ne contava appena trentacinque, allorchè il Petrarca in una delle
più gravi sue opere scrisse: «Se avessi amato in lei soltanto la persona, avrei mutato pensiero già da
gran tempo.»
(
32
)
Gli amici suoi stupivano, come beltà sì appassita durasse a tener saldo in lui così
ardente affetto. «Che monta ciò?» rispose il Petrarca,
Piaga per allentar d'arco non sana.
Quando ella sparve per sempre dagli occhi suoi, i melanconici sentimenti erano in lui da lunga
mano divenuti abito, e il vigile presentimento della sciagura che gli sovrastava avevagli destato le
più mordaci sollecitudini. Nel corso de' dieci anni che venner dopo, dettò la seconda parte de' suoi
versi amorosi: a volte descrive Laura che gli appare di mezzo alla notte; a volte «rapito in estasi, il
terzo cielo apresi agli occhi suoi,» ond' ei ne contempli le celestiali bellezze. Assai volte si duole del
fato, che lo condannò a nodrire tuttavia i suoi desiderii della polvere di un sepolcro, e di un'ombra.
Tale è terra, e posto ha in doglia
Lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne.
Che 'l desir vive e la speranza è morta.
E di nuovo:
Che fai? che pensi? che pur dietro guardi,
Nel tempo che tornar non puote omai,
Anima sconsolata? che pur vai
Giugnendo legne al foco ove tu ardi?
Cerchiamo 'l ciel, se qui nulla ne piace;
Che mal per noi quella beltà si vide,
Se viva e morta ne dovea tor pace.
E il dubbio di non essere stato riamato mai, o di essere stato sempre da Laura deluso, pur seguitava
a rodergli il cuore. Venti lunghi anni almeno dopo averla perduta, standosi egli stesso sull'orlo del
sepolcro, mentre poteva più placido volgerle il pensiero, cavò da la memoria pittura più distinta,
benchè forse non al tutto verace, del cuore e delle massime e de' costumi della donna, fonte d'ogni
felicità e d'ogni travaglio di sua vita.
XVIII. Egli ne dipinge Laura, che dal cielo discende sopra la rugiada, la notte dopo ch'ella
ebbe lasciato per sempre le miserie del mondo. Apparve dinnanzi all'amante, porsegli la mano, e
sospirando disse:
Riconosci colei che prima torse
I passi tuoi dal pubblico viaggio,
Come 'l cor giovenil di lei s'accorse?
Mentre al vulgo dietro vai,
Ed all'opinïon sua cieca e dura,
Esser felice non puo' tu giammai.
La morte è fin d'una prigione oscura
Agli animi gentili; agli altri è noia,
C'hanno posto nel fango ogni lor cura.
Ed ora il morir mio, che sì t'annoia,
32
()
Si post corpus abiissem jampridem mutandi propositi tempus erat. Ibid.
Ti farebbe allegrar, se tu sentissi
La millesima parte di mia gioia.
Così parlava; e gli occhi ave' al ciel fissi
Devotamente: poi mise in silenzio
Quelle labbra rosate, insin ch'io dissi:
Silla, Mario, Neron, Caio e Mezenzio,
Fianchi, stomachi, febbri ardenti fanno
Parer la morte amara più ch'assenzio.
Negar, disse, non posso che l'affanno
Che va innanzi al morir, non doglia forte,
Ma più la tema dell'eterno danno:
Ma pur che l'alma in Dio si riconforte,
. . . . . . . . . . . .
Che altro ch'un sospir breve è la morte?
E quand'io fui nel mio più bello stato,
Nell'età mia più verde, a te più cara,
Ch'a dir ed a pensar a molti ha dato;
Mi fu la vita poco men che amara
A rispetto di quella mansueta
E dolce morte, ch'a' mortali è rara:
Che 'n tutto quel mio passo er'io più lieta,
Che qual d'esilio al dolce albergo riede;
Se non che mi stringea sol di te pieta.
Deh, Madonna, diss'io, per quella fede
Che vi fu, credo, al tempo manifesta,
Or più nel volto di chi tutto vede,
Creovvi Amor pensier mai nella testa
D'aver pietà del mio lungo martire,
Non lasciando vostr'alta impresa onesta?
. . . . . . . . . . . .
Appena ebb'io queste parole ditte,
Ch'i' vidi lampeggiar quel dolce riso
Ch'un Sol fu già di mie virtuti afflitte.
Poi disse sospirando: mai diviso
Da te non fu 'l mio cor, nè giammai fia;
Ma temprai la tua fiamma col mio viso.
Perchè a salvar te e me null'altra via
Era alla nostra giovenetta fama:
Nè per ferza è però madre men pia.
Quante volte diss'io meco: Questi ama,
Anzi arde: or si convien ch'a ciò provveggia;
E mal può provveder chi teme, o brama.
. . . . . . . . . . . .
Più di mille fiate ira dipinse
Il volto mio, ch'Amor ardeva il core,
Ma voglia, in me, ragion giammai non vinse.
Poi se vinto te vidi dal dolore,
Drizzai 'n te gli occhi allor soavemente,
Salvando la tua vita e 'l nostro onore.
E se fu passïon troppo possente,
E la fronte e la voce a salutarti
Mossi, or timorosa ed or dolente.
Questi fur teco mie' ingegni e mie arti:
Or benigne accoglienze ed ora sdegni:
Tu 'l sai, che n'hai cantato in molte parti.
Ch'i' vidi gli occhi tuoi talor sì pregni
Di lagrime, ch'io dissi: questi è corso
A morte, non l'aitando; i' veggio i segni.
Allor provvidi d'onesto soccorso.
Talor ti vidi tali sproni al fianco,
Ch'i' dissi: qui convien più duro morso.
Così caldo, vermiglio, freddo e bianco,
Or tristo or lieto infin qui t'ho condutto
Salvo (ond'io mi rallegro), benchè stanco.
Ed io: Madonna, assai fora gran frutto
Questo d'ogni mia fè, pur ch'io 'l credessi;
Dissi tremando e non col viso asciutto.
Di poca fede! or io, se nol sapessi,
Se non fosse ben ver, perchè 'l direi?
Rispose, e 'n vista parve s'accendessi.
S'al mondo tu piacesti agli occhi miei,
Questo mi taccio; pur quel dolce nodo
Mi piacque assai ch'intorno al cor avei;
E piacemi 'l bel nome (se 'l ver odo)
Che lunge e presso col tuo dir m'acquisti:
Nè mai 'n tuo amor richiesi altro che modo:
Quel mancò solo; e mentre in atti tristi
Volei mostrarmi quel ch'io vedea sempre,
Il tuo cor chiuso a tutto 'l mondo apristi.
Quinci 'l mio gelo, ond'ancor ti distempre:
Chè concordia era tal dell'altre cose,
Qual giunge amor, pur ch'onestate il tempre.
Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
Almen poi ch'io m'avvidi del tuo foco;
Ma l'un l'appalesò, l'altro l'ascose.
. . . . . . . . . . . .
Non è minor il duol perch'altri 'l prema,
Nè maggior per andarsi lamentando;
Per finzïon non cresce il ver nè scema.
Continuano essi questa conversazione, e il Petrarca si diffonde con alquanta compiacenza intorno al
merito de' suoi versi, mentre Laura mal nasconde quella gelosia, la quale, sebbene muova
direttamente dall'amor proprio e dall'invidia, viene sempre scambiata per l'effetto inseparabile del
più profondo amore:
Duolmi ancor veramente ch'io non nacqui
Almen più presso al tuo fiorito nido:
Ma assai fu bel paese ond'io ti piacqui;
Che potea 'l cor, del qual sol io mi fido,
Volgersi altrove, a te essendo ignota;
Ond'io fôra men chiara e di men grido.
Questo no, rispos'io, perchè la rota
Terza del ciel m'alzava a tanto amore,
Ovunque fosse, stabile ed immota.
Or che si sia, diss'ella, i' n'ebbi onore,
Ch'ancor mi segue: ma per tuo diletto
Tu non t'accorgi del fuggir dell'ore.
Allora il suo amante le chiese, se andrebbe molto, prima ch'ei potesse raggiugnerla.
Ella, già mossa, disse: al creder mio,
Tu stara' in terra senza me gran tempo.
Il Petrarca sopravvisse a Laura ventisei anni.
SAGGIO
SOPRA LA POESIA DEL PETRARCA
Non ho se non quest'una
Via da celare il mio angoscioso pianto.
PETRARCA, p. I, Son.
81.
I. La visione dello spirito di Laura fu scritta, come raccogliesi dalla chiusa, allorchè il
Petrarca era molto innanzi cogli anni. Rivedutala quattro mesi prima di morire, la inserì quale
episodio in un poema morale, che intitolò Trionfi, — serie di allegoriche visioni sopra la forza
dell'Amore, della Castità, della Morte, dell'Ingegno, della Fama, del Tempo e della Eternità.
Parecchi poemi provenzali anteriori al Petrarca, e il Sogno, il Fiore e la Foglia, e la Casa della
Fama del suo contemporaneo Chaucer, sono dello stesso genere.
(
33
)
Forse i modelli di queste poesie
si possono rintracciare nelle visioni che i monaci predicavano, ad imitazione di quelle di Ezechiello
e dell'Apocalisse di San Giovanni. L'ultimo canto de' Trionfi è intitolato: Della Divinità, e comincia
Da poi che sotto 'l ciel cosa non vidi
Stabile e ferma, tutto sbigottito
Mi volsi, e dissi: Guarda; in che ti fidi?
Risposi: Nel Signor.
E conchiude, dicendo di Laura:
Se fu beato chi la vide in terra,
Or che fia dunque a rivederla in cielo?
Egli stimava quest'opera una grande impresa, e la tralasciò temendo non gli bastasse la vita a finirla.
(
34
)
Nondimeno vi si applicò di nuovo: si accorse di aver fallito; ma pure perseverò, e lasciolla sì
sfigurata dalle varie lezioni, che, per farne compiuta una copia dopo la sua morte, fu mestieri di
supplir molto per congettura. In questo poema il genio del Petrarca, illanguidito più per la
incresciosa vita che per la gravezza degli anni, non apparisce avvivato dal fuoco del suo cuore, se
non dov'egli parla di Laura. Il poeta nota i suoi melanconici sentimenti su pe' margini del
manoscritto: «Più considero ciò che sono, e più sento vergogna di quest'opera: non sono più io, è un
altro che scrive.»
(
35
)
— Il Petrarca era nato per creare con ansietà, e per disperdere ne' momenti di
sconforto le illusioni necessarie al suo riposo: così fu spesso in procinto di annientare per fino le
poesie liriche da lui indirizzate a Laura.
(
36
)
Neppure ne fa menzione nella sua Lettera alla Posterità,
quantunque, se non era per queste medesime poesie, gli altri meriti letterari del grand'uomo non
sarebbersi ricordati con tanta gratitudine. Cogl'intimi amici si mostra vergognoso di avere adoperato
l'ingegno a sollazzo di canterini di frottole e di amanti, lagnandosi che i suoi versi fossero stati
troppo largamente sparsi ond'essere ritirati; e dolendosi che talvolta gli fossero stati travisati in
parte, e tal altra attribuitigliene di quelli che non erano suoi, e che i cantanti di mestiero faceansi
33
()
Osservazione del Pope sulla Casa delle Fama.
34
()
Magnum opus inceperam in eo genere, sed ætatem respiciens, substiti. — Ad Johan. Boccac. Sen., lib. V,
ep. 2.
35
()
Dum quid sum cogito, pudet hæc scribere; — scribo enim non tanquam ego, sed quasi alius. —
L'arcivescovo Beccadelli copiò questa nota dall'autografo, posseduto allora dal cardinale Bembo.
36
()
Famil., lib. VIII, ep. 1. — Senil., lib. V, ep. 3.
pure gran merito di aver raccolti.
(
37
)
Presenta egli a' leggitori la scusa medesima nel primo sonetto
della raccolta,
(
38
)
che si risolvette di preparare in vecchiaia, rifiutando le composizioni apocrife, e
quelle da lui giudicate indegne di sè.
(
39
)
II. Il piacere di rivivere nella sua gioventù, d'incontrar Laura ad ogni verso, di riandare la
storia del proprio cuore, e forse la coscienza, che alla fin fine di rado svia gli autori rispetto alle
migliori opere loro, indusse il poeta omai vecchio a dare tal perfezione a' suoi versi d'amore, che
non fu mai raggiunta da verun altro scrittore italiano, e ch'ei credeva «non potersi recare più oltre
neppure da lui stesso.»
(
40
)
Se non si conservassero tuttora i manoscritti, sarebbe impossibile
immaginare o credere le indefesse fatiche da lui sostenute nella emendazione de' suoi versi. Tali
manoscritti sono monumenti curiosi, sebbene rechino poco aiuto ad esplorare per quale occulto
lavoro la lunga e laboriosa meditazione del Petrarca avesse sparso ne' suoi versi tutto il nativo
incanto di subita ed irresistibile inspirazione.
Ciò che seguita è traduzione letterale di una sequela di memorie in latino, poste in principio
di uno de' suoi sonetti.
«Cominciai questo per impulso del Signore (Domino jubente), il 10 settembre, all'alba del
giorno, dopo le mie preci mattutine.»
«Converrà ch'io rifaccia da capo questi due versi, cantandoli (cantando), e ch'io ne inverta
l'ordine: 3 ore a. m. 19 ottobre.»
«Questo mi piace (hoc placet): 30 ottobre, 10 ore del mattino.»
«No; questo non mi piace: 20 dicembre a sera.»
E di mezzo alle correzioni scrive, deponendo la penna: «tornerò sopra questo; sono chiamato
a cena.»
«18 febbraio, verso nona: ora questo va bene; nondimeno tornavi su un'altra volta (vide
tamen adhuc).»
Talvolta nota la città dove s'imbatte. — «1364, Veneris mane, 19 Jan. dum invitus Patavii
ferior — Potrebbe sembrare osservazione più curiosa che rilevante, l'essere stato generalmente in
venerdì ch'ei davasi alla tediosa briga della correzione, se non sapessimo ancora ch'era per lui
giorno di digiuno e di penitenza.
Quando alcun pensiero gli occorreva alla mente, ei lo notava in mezzo a' suoi versi così:
«Bada a ciò. — Io aveva qualche intenzione di trasporre questi versi, e di fare che il primo divenisse
l'ultimo; ma nol feci in grazia dell'armonia: — il primo allora sarebbe stato più sonoro, e l'ultimo
meno, che è contro regola; perchè la fine dovrebbe essere più armoniosa che il principio.» Talora ei
dice: «Il cominciamento è buono, ma non è patetico abbastanza.» In alcuni luoghi si suggerisce di
ripetere le stesse parole, piuttosto che gli stessi concetti. In altri giudica meglio di non moltiplicare i
concetti, ma di amplificarli con altre parole. Ciascun verso è rivoltato in più modi; sopra ogni frase
e ogni parola colloca spesso modi equivalenti, per poi esaminarli di nuovo; e vuolsi conoscenza
profonda dell'italiano, per accorgersi che, dopo tale perplessità scrupolosa, elegge sempre quelle
parole che hanno insieme più armonia, eleganza e forza.
III. Questi laboriosi concieri fecero pensare, fin da quando il Petrarca viveva, che i suoi versi
fossero opera più da poeta che da amante.
(
41
)
È fuor di dubbio, non essere violentissima quella
passione che possiamo descrivere a nostro bell'agio. — Ma un grande ingegno sente più
intensamente, e soffre più fortemente che altri; e per ciò appunto, quando la forza della passione
allenta, egli ne serba più a lungo la rimembranza, e più agevolmente può ridestarsela
nell'immaginazione e risentirne gli effetti, e, come parmi, ciò che diciamo potenza d'immaginare sta
37
()
Senil., lib. XIII, ep. 4.
38
()
Quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono.
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo.
E del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
E 'l pentirsi.
39
()
Queste poesie trovansi in quasi tutte le edizioni alla fine dell'opera, col titolo di Giunta, o Rime rifiutate.
40
()
Pietro Paolo Vergerio intese da Coluccio Salutati amico del Petrarca che questi aveva
detto, «come le sue composizioni tutte poteva migliorare assai, fuorchè le Rime; nelle quali
s'era tanto alzato, che più non « gli dava l'animo d'arrivarle». Beccadelli, Vita del Petrarca.
41
()
Epist. famil., lib. II, ep. 7.
più ch'altro nel concorso del forte sentire e delle rimembranze. Così al genio è peculiarmente largita
la facoltà di osservare il lavorio segreto della natura umana in quanto può nel cuor di lui e d'ogni
altro; e per essa è fatto capace di descrivere que' sentimenti, e recarli addentro nell'animo d'ogni
lettore. L'alto segreto dell'arte del poeta sta nel farci sentire l'esistenza per forza di simpatia, ma,
mentre esso geme sotto le angosce proprie, cercherebbe indarno di esaminare ciò che svolgesi nel
suo o nel cuore altrui; — e i lirici versi che il Petrarca durò trentadue anni a scrivere, possono
leggersi in pochi dì. Molte composizioni, non è dubbio, furono concepite ne' momenti che la
passione più poteva sopra di lui, ma furono scritte assai giorni, forse assai mesi, e certamente
perfezionate assai anni dopo. Il sonetto 48° della prima parte della sua raccolta fu dettato undici
anni dopo fatta conoscenza con Laura:
Or volge, Signor mio, l'undecim'anno,
Ch'i' fui sommesso al dispietato giogo.
Quattr'anni dopo quest'ultima epoca, dettò il sonetto 85°.
Fuggir vorrei; ma gli amorosi rai,
Che dì e notte nella mente stanno,
Risplendon sì, ch'al quintodecim'anno
M'abbaglian più che 'l primo giorno assai.
Pel corso di questo e di tutto il prossimo anno compose soltanto undici sonetti; perchè il 96°
comincia:
Rimansi addietro il sestodecim'anno;
e il 97°:
Dicesett'anni ha già rivolto il cielo.
Così in questi dodici mesi scrisse soli quattordici versi a Laura. E di vero, se la mente di lui non
avesse avuto intervalli di riposo, egli sarebbe stato inetto a vestire que' concepimenti, e vie più ad
emendarli. Che anzi non sarebbe vissuto sì a lungo, o, se vissuto, avrebbe tratto i suoi dì nella
irrequietezza e nella oziosità, inseparabili dai turbati sentimenti. L'armonia, eleganza e perfezione
della sua poesia sono frutto di lunga fatica, ma i concetti primitivi e l'affetto scaturì sempre dalla
subita inspirazione di profonda e potente passione. Mercè l'attenta lettura di tutti gli scritti del
Petrarca, può quasi ridursi a certezza: — che col dimorare di continuo nelle stesse idee, e col
lasciare la mente pascersi senza posa di sè stessa, l'intero corso de' suoi sentimenti e delle sue
riflessioni ne contraesse un forte carattere e tono; e che, se riusciva mai a rintuzzarli per alcun
tempo, essi tornassero con accresciuta violenza; — che, per sedare lo stato irrequieto della mente,
egli nel primo caso, corrispondendo co' più intimi amici, comunicasse loro in libero e abbandonato
modo tutto ciò che pensava e sentiva; — che quindi riducesse queste narrative con ordine e
descrizione migliore in versi latini; — e che all'ultimo le perfezionasse con maggior copia d'imagini
e con più arte nella sua poesia italiana, la cui composizione da prima serviva unicamente, come dice
più volte, «a divertire e a mitigare tutte le sue afflizioni.»
IV. Per tal modo ne si fa chiaro il perfetto accordo che regna nella poesia del Petrarca tra
natura ed arte; tra l'accuratezza di fatto e la magia d'invenzione, tra profondità e perspicuità, tra
passione divorante e pacata meditazione. In tre o quattro versi italiani egli spesso condensa la
descrizione, e concentra il fuoco che riempie una pagina delle sue elegie e lettere latine. Nonostante
i profusi ornamenti dello stile o la spirituale elevatezza de' pensieri, la poesia del Petrarca non par
mai fattizia o fredda, appunto perchè sgorgò dal cuore. Nel muovere degli occhi di Laura scorge egli
un lume che accenna alla via del cielo:
Gentil mia Donna, i' veggio
Nel mover de' vostr'occhi un dolce lume,
Che mi mostra la via ch'al Ciel conduce.
Egli esclama; «che l'atmosfera si fa sorridente, luminosa e serena all'appressarsi di lei:»
E 'l ciel di vaghe e lucide faville
S'accende intorno, e 'n vista si rallegra
D'esser fatto seren da sì begli occhi.
«Che l' aere respirato intorno ad essa è sì purificato dal celeste raggiare del suo aspetto, che, mentre
gli occhi suoi si affisano in lei, ogni brama sensuale è spenta:»
L'aere percosso da' lor dolci rai
S'infiamma d'onestate;
Basso desir non è ch'ivi si senta,
Ma d'onor, di virtute. Or quando mai
Fu per somma beltà vil voglia spenta?
Eppure è sempre naturale. Pochi amanti per verità avrebbero potuto concepire tali idee; e non
pertanto il fuoco e la facilità onde vengono espresse, le rendono immediatamente familiari alla
immaginazione di quasi ogni lettore. Nell'arte di formare, mediante metafore, nuove ed evidenti
imagini, vuoi delle più semplici, vuoi delle più astratte idee, il Petrarca è non men felice che
originale. Ad esprimere il pensiero comune, che le sue poesie e la beltà di Laura sarebbero state
ricordate dopo la morte loro, ei dice:
Ch'i' veggio nel pensier, dolce mio foco,
Fredda una lingua, e due begli occhi chiusi
Rimaner dopo noi pien di faville.
E fu imitato in questo luogo da un poeta inglese, il quale accoppia in sommo grado severità di gusto
con ardire di espressione:
Ev' n in our ashes live their wonted fires.
Gray.
V. Se il Petrarca non avesse abusato senza modo delle antitesi, troppo di frequente ripetute le
iperboli, troppo spesso paragonata Laura al Sole; i numerosi plagiarii di lui, che però non seppero
mai imitarne le bellezze, non sarebbero stati cotanto insigni pe' loro vizi; e a Salvator Rosa sarebbe
mancata cagione di dolersi nelle Satire, che
Le metafore il Sole han consumato.
Il gioco sopra le parole Lauro e Laura, e i concetti somministrati dalla trasformazione di Dafne
amata da Apollo nel lauro immortale, ammiransi tuttora da alcuni forestieri,
(
42
)
per l'autorità di uno
de' più celebri critici d'Italia,
(
43
)
il quale peraltro compiacevasi dell'Italia Liberata del Trissino, nè
volle mai concedere la Gerusalemme del Tasso essere opera da poeta. Io per me non senza qualche
pietà guardo a un grande ingegno, che di mente al sommo dilicata e ardente, di giudizio tanto
difficile e di gusto sì raffinato, di calda imaginativa e di cuore passionato, potè condiscendere, a
trastullo di Laura e de' suoi lettori, a sì fredde affettazioni. Se non che anche il Petrarca fu tenuto a
scontare il misero debito di quasi tutti gli scrittori col piegare il proprio sentire a quello de'
contemporanei. Innestò ne' suoi versi le agudezas, ternuras y conceptos de' poeti spagnuoli, e fu a
42
()
Il romanzo di Madama di Genlis, Pétrarque et Laure.
43
()
Gravina, Ragione Poetica, lib. II, cap. 27 e 28.
ragione tassato di plagio. — «Avemmo anticamente,» dice uno storico di Valenza, «un famoso
poeta chiamato Mossen Jordi e il Petrarca, nato cent'anni dopo, gli rubò i versi, e li vendè in italiano
al mondo come propri, di che potrei convincerlo in molti luoghi; nondimeno starò contento al
citarne pochi:»
(
44
)
MOSSEN JORDI.
E non he pau, e no tin quim guerreig;
Vol sobre 'l ciel, et nom' movi de terra;
E no estrench res, e tot lo mon abras;
Oy he de mi, e vull a altri gran be:
Si no es amor, donchs azò que sera?
PETRARCA
Pace non trovo, e non ho da far guerra;
E volo sopra 'l cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo; e tutto 'l mondo abbraccio;
Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui;
S'amor non è, che dunque è quel ch'i' sento?
Se il Petrarca si giovasse o no d'altre opere spagnuole, non mi è dato decidere.
(
45
)
Qua e là insertò
vari concetti tolti manifestamente dai Provenzali; e, quantunque spesso li migliorasse, spiacciono
appunto perchè non armonizzano col tenore solenne, profondo e passionato del suo stile. Il seguente
sonetto, in cui il Petrarca, se non tolse i pensieri, imitò gli amorosi lamenti de' francesi Trovatori,
può dare non imperfetta idea della loro poesia amatoria. È un mosaico d'antitesi: i canti e gli affetti
loro, agghiacciati da epigrammatico raffinamento, mostrano com'essi non fossero nè poeti inspirati,
nè caldi amatori:
S'una fede amorosa, un cor non finto,
Un languir dolce, un desiar cortese;
S'oneste voglie in gentil foco accese;
S'un lungo error in cieco laberinto;
Se nella fronte ogni penser dipinto,
Od in voci interrotte appena intese,
Or da paura, or da vergogna offese;
S'un pallor di viola e d'amor tinto;
S'aver altrui più caro che sè stesso;
Se lagrimar e sospirar mai sempre,
Pascendosi di duol, d'ira e d'affanno;
S'arder da lunge ed agghiacciar da presso,
Son le cagion ch'amando i' mi distempre;
Vostro, donna, il peccato, e mio fia 'l danno.
VI. In questa imitazione de' Trovatori il Petrarca inserì un verso tolto da' classici:
Et tinctus viola pallor amantium. Horat.
44
()
Gasparo Scuolano, Istor. Valenz.
45
()
La quistione fu decisa non solo dalle autorità recate nelle due precedenti edizioni della traduzione di questi
Saggi, ma anche da opere posteriori. Un Ms. della Biblioteca nazionale di Parigi, Cançonier des obras enamorades,
contiene una cobla di Mossen Jordi, in cui, tranne quello Si no es amor, donchs azò que sera? incontransi e i versi citati
ed altri comuni al poeta fiorentino e all'aragonese. Che il vero plagiario fosse, non il Petrarca, ma Jordi, lo prova anche
Bruce-White nella sua Hist. des langues romanes et de leur littérature. Paris, 1841, tomo II, pag. 418-423. [T.]
Pure con quanta dilicatezza e verità lo ha egli migliorato col modo felice — Pallore tinto di viola e
d'amore! — Maria Stuarda, destinata dalla prima gioventù all'amore e alle afflizioni, tradusse lo
stesso verso d'Orazio nella sua Monodia (conservata da Brantôme) in morte del suo giovane marito,
Francesco Secondo:
Mon pâle visage de violet teint,
Qui est l'amoureux teint.
Sebbene il Petrarca ravvisasse ne' poeti latini i maestri suoi, per gran ventura giudi
nondimeno che non sarebbero potuti degnamente imitarsi nella lingua italiana: quindi tolse da essi
parcamente; nè so ravvisare più di due o tre versi di Virgilio, di Ovidio e di Orazio, di cui, tentato
piuttosto da inevitabile reminiscenza che da propostasi imitazione, accidentalmente e' si giovasse:
Agnovit longe gemitum prœsaga mali mens. Virg.
Mente mia, che presaga de' tuoi danni.
Elige cui dicas: tu mihi sola places. Ovid.
A cu' io dissi: tu sola mi piaci.
Orazio, col trasporre di poche parole, tramutò la reale passione di Saffo in mera gaiezza e
galanteria:
Dulce ridentem Lalagen amabo,
Dulce loquentem.
Il Petrarca, tuttochè appena leggesse greco, e i frammenti di Saffo non fossero conosciuti per
ancora, raccese il fuoco e il calore che Orazio aveva spento, e coll'aggiungere il sospiro al sorriso e
alla voce dell'amata, mostrò come anche la greca poetessa avesse lasciato la pittura imperfetta:
Per divina bellezza indarno mira
Chi gli occhi di costei giammai non vide...
Chi non sa come dolce ella sospira,
E come dolce parla e dolce ride.
Nè l'amore sensuale de' Romani e de' Greci poteva conciliarsi colla dilicatezza della poesia del
Petrarca. Le sue più belle imitazioni sono tratte dalle sacre carte; nè tali imitazioni credo essere state
per anche avvertite da verun critico, sebbene deggia essere ovvio ad ognuno quanto profondamente
tutti i suoi pensieri fossero inspirati dalla religione:
E feglisi all'incontra
A mezza via, come nemico armato. P. II, Son. 47.
Et veniet tibi, quasi cursor, egestas; et mendicitas, quasi vir armatus. Prov., c. XXIV, v. 34.
E la cetera mia rivolta in pianto. P. II, Son. 24.
Versa est in luctum cithara mea. Job, c. XXX, v. 31.
Qual grazia, qual amore, o qual destino
Mi darà penne in guisa di colomba,
Ch'i' mi riposi, e levimi da terra? P. I, Son. 52.
Et dixi: Quis dabit mihi pennas sicut columbæ, et volabo, et requiescam? Psalm. LIV, v. 7.
Vergine bella, che di Sol vestita,
Coronata di stelle. P. II, Canz. ult.
Mulier amicta Sole, et Luna sub pedibus ejus, et in capite ejus corona
stellarum duodecim. Apoc., cap. XII, v. 1.
L'alta aura di pietà e d'amore, che spira nelle opere di lui, a volte sa di
profano:
Baciale 'l piede, o la man bella e bianca:
Dille: il baciar sia 'n vece di parole:
Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.
Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma. Math., cap. XXVI, v. 41.
A dissipare la gelosia di Laura, rassomiglia l'ardore con che rintracciava le
sembianze di lei nel volto di belle donne, alla divozione di un pellegrino che
si affisa nell'imagine del Salvatore:
Movesi 'l vecchierel canuto e bianco
Del dolce loco ov' ha sua età fornita,
E dalla famigliuola sbigottita,
Che vede il caro padre venir manco:
Indi traendo poi l'antico fianco
Per l'estreme giornate di sua vita,
Quanto più può col buon voler s'aita,
Rotto dagli anni e dal cammino stanco;
E viene a Roma, seguendo 'l desio,
Per mirar la sembianza di colui
Ch'ancor lassù nel ciel vedere spera.
Così, lasso, talor vo cercand'io,
Donna, quant'è possibile, in altrui
La desiata vostra forma vera.
Amore, alludendo alla creazione del primo uomo nella Genesi, dirige il Poeta a scrivere che:
Forma par non fu mai dal dì ch'Adamo
Aperse gli occhi in prima: e basti or questo.
Piangendo il dico; e tu piangendo scrivi.
VII. Le grandiose e solenni forme sotto cui Amore viene rappresentato da' poeti italiani,
sono piuttosto di ragione della mistica filosofia, che della mitologia popolare degli antichi. Il Tasso,
che nelle liriche cede al solo Petrarca, e che più di lui era dotato della facoltà di ridurre le idee
all'universale, ritrasse con poche ardite pennellate la imagine del Platonico, o più veramente del
Pitagorico Amore:
Amore alma è del mondo, amore è mente
Che volge in ciel per corso obbliquo il Sole,
E degli erranti Dei l'alte carole
Rende al celeste suon veloci o lente.
L'aria, l'acqua, la terra, e 'l foco ardente
Misto a' gran membri dell'immensa mole
Nutre il suo spirto; e s'uom s'allegra, o duole,
Ei n'è cagione, o speri anco, o pavente.
Pur, benchè tutto crei, tutto governi,
E per tutto risplenda, e in tutto spiri,
Più spiega in noi di sua possanza Amore.
(
46
)
In questa descrizione Amore è l'anima dell'universo: da lui tutto il creato vien mosso: agita gli
elementi, onde, mescendoli insieme, accozzarli in nuove forme: mette i corpi tutti in movimento, e
li sospende equilibrati per forza di attrazione e repulsione: la sua ala distendesi dall'uno all'altro
pianeta: co' suoni della sua lira regge i lor moti, e fa le stelle obbedienti alle leggi dell'universale
armonia. Il suo freno governa gli abitanti della terra; nè altro è la vita che un rapido alternare di
speranze e di timori, di piaceri e d'affanni, perchè gli è desso che ci trae a forza verso quegli oggetti,
per mezzo de' quali sentiamo il piacere e la coscienza dell'esistenza nostra, e ci fa cansare quelli che
o amareggiano la vita, o portano in noi l'indifferenza di morte. Il cieco fanciullo, degli scherzi del
quale Anacreonte e Orazio si dilettano di muover lamento, diviene nel Petrarca:
Quell'antiquo mio dolce empio signore;
Cieco non già, ma faretrato il veggo;
Garzon con l'ali non pinto, ma vivo.
Severo, inesorabile comanda la rassegnazione:
Dura legge d'Amor! ma benchè obliqua,
Servar conviensi; però ch'ella aggiunge
Di cielo in terra, universale, antiqua.
Mentre Amore sveglia la spirituale, non può non eccitare la material parte di nostra natura; e, se
tanto bramiamo il corpo quanto l'anima dell'oggetto che amiamo, dobbiamo apporlo alla grossezza
dei sensi, non al vizio della passione. Così Amore non è tiranno del Petrarca, ma «signore e
maestro,» — «direttore della condotta, e depositario de' secreti di lui;» — nè disdegna di dar ragione
dell'uso di siffatto potere:
Amor mi manda quel dolce pensiero
Che secretario antico è fra noi due,
E mi conforta.
Io mi pasco di lagrime, e tu 'l sai.
Da mill'atti inonesti l'ho ritratto.
(
47
)
Lei, ch' alto vestigio
L' impresse al core, e fecel suo simile.
Da volar sopra 'l ciel gli avea dat'ali.
Queste conversazioni seguono spesso tra Amore e il Poeta in riva al Sorga, ove errano di conserto
per la Valle Chiusa, dopo la morte di Laura, confortandosi a vicenda di averla perduta.
Amor, che meco al buon tempo ti stavi
Fra queste rive a' pensier nostri amiche,
E per saldar le ragion nostre antiche,
Meco e col fiume ragionando andavi.
Sì aspre vie nè sì selvagge
Cercar non so, ch'Amor non venga sempre
Ragionando con meco, ed io con lui.
VIII. Le poesie amorose del Petrarca si possono avere in conto d'anello intermedio tra quelle
46
()
Torquato Tasso. Poesie liriche.
47
()
Parla Amore contro il Poeta davanti al tribunale della Ragione. Canzone VII, Parte 2
a
. [Edd.]
de' classici e le moderne. La dipintura lasciataci da Saffo della sua passione è ciò che ognuno di pari
ardore di mente non potrebbe non provare in pari condizioni, e ciò che ogni osservatore può
scernere e creder forse di poter descrivere. Il genio nondimeno di afferrare d'un tratto e di ordinare
armoniosamente, e di ritrarre a tocchi rapidi e vibrati tutti quanti gli esteriori accidenti di una
passione, in guisa da recarla ben dentro nell'anima d'ogni lettore, è dato a pochi eletti; richiedendo
perspicace conoscimento di tutti i moti dell'uman cuore. Solo il profondo studio anatomico potè
insegnare a Michelangelo a dar correzione ed energia alle forme ed agli atteggiamenti delle sue
figure: ma se un artista, a sfoggio di sapere anatomico, avesse a rappresentare l'interna, anzichè
l'esterna struttura del corpo umano, la natura nelle sue mani potrebb'ella assumere quell'aspetto,
onde piace ad ogni occhio e muove ogni cuore? Una moderna Saffo, più scaltrita a svolgere la
notomia interna de' suoi sentimenti, li fa piuttosto comprendere, che vedere e sentire a' suoi lettori:
(
48
)
ma chi può freddamente notomizzare le proprie passioni, non può destare in altri simpatia. Il
Petrarca e sente come gli antichi e filosofeggia come i moderni poeti. Ov'ei dipinge ritraendo da'
classici, li pareggia, se pur non li vince. Lo spirito di Laura poggia al cielo; angeli ed anime beate
scendono ad incontrarla: ella si volge addietro per vedere se il Petrarca la segue, e sembra
soffermarsi nell'aereo suo cammino:
Ad or ad or si volge a tergo
Mirando s'io la seguo, e par ch'aspetti.
In queste poche parole è una sublime e passionata pittura, cui manca solo il colorito di un Tiziano. Il
poeta non potea darci prova maggiore della forza e purità della passione di Laura, che quella
d'indugiarne il volo al cielo per aspettare l'amante. Ben è vero queste essere illazioni che per noi
stessi si hanno a trarre: ma i cuori inetti a coglierle di lancio non meritano che sieno loro suggerite.
Allorchè il Petrarca compiace al gusto del secolo, amore e religione danno talvolta calore e un non
so che di solenne anche alle antitesi per sè più fredde. Lo spirito di Laura così conforta il suo
amante:
Di me non pianger tu; ch'e' miei dì fersi,
Morendo, eterni; e nell'eterno lume,
Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi.
Ma dovunque gli avvenga di spiegare astratte idee, o di ravvolgersi per entro a' recessi del cuore, il
Petrarca non si trattiene a definire ed amplificare: ma adopera ogni industria dell'arte, acciocchè le
sue imagini trapassino, qual fulgido e rapido lampo, per la mente di chi legge. — «So,» egli dice,
«con quale ansietà inseguiamo colei che ci sfugge; e pure quanta temenza abbiamo di raggiugnerla!»
Siccome chiunque abbia amato provò somigliante contrasto in sè stesso, così è di tanto più presto a
consentire nell'osservazione che segue, ugualmente giusta, benchè non ovvia ugualmente: «So che
un amante può essere tutto assorto ne' pensieri della sua donna, a segno da credersi quasi
immedesimato con essa:»
So della mia nemica cercar l'orme,
E temer di trovarla; e so in qual guisa
L'amante nell'amato si trasforme.
IX. A uno scrittore moderno, costretto a tessere poesia più secondo il gusto
analitico de' propri tempi, che secondo le poetiche dottrine del Petrarca, non
venne fatto di tradurre questo passo, se non con doppio numero di versi.
I know what hope and fear assail the mind
When I pursue my love, yet dread to find;
I know the strange and sympathetic tie,
When, soul in soul transfused, a fond ally
48
()
Corinne, ou l'Italie.
For ever seems another and the same,
Or change with mutual love their mortal frame.
BOYD'S Transl.
Ma, lasciata anche stare sì fatta amplificazione, i versi del Petrarca nulla hanno che fare col mutuo
amore, poich'egli pensatamente chiama in essi Laura sua nemica: e diresti che il traduttore mirasse
più ch'altro a un passo della Epistola di Eloisa:
Oh! happy state! when souls each other draw,
When love is liberty, and nature law:
All then is full, possessing and possest,
No craving void left aching in the breast;
Ev'n thought meets thought, ere from the lips it part;
And each warm wish springs mutual from the heart;
This sure is bliss (if bliss on earth there be),
And once the lot of Abelard and me.
Questa scuola di poetica analisi, che il gusto mirabile di Pope recò a tanta perfezione, è, se oso
arrischiare una opinione, tutta propria degl'Inglesi, e già antica. La nozione espressa dal Petrarca nel
solo verso:
L'amante nell'amato si trasforme,
fu stemperata da Ben Jonson in metafisiche particolarità:
It is a flame and ardour of the mind,
Dead in the proper corpse, quick in another's:
Transfers the lover into the loved:
That he or she, that loves, engraves or stamps
The idea of what they love, first in themselves,
Or, like the glasses, so their minds take in
The forms of their beloved, and them reflect.
Alcuni passi stanno, non v'ha dubbio, troppo a disagio nel Petrarca, e fannosi oscuri per brevità;
nondimeno tanto il lettore sentesi rapito dal calore della passione dell'amante, che gli par di capire a
tutta prima ciò che in effetto a snodarsi richiede qualche ponderazione. Sembrerebbe ch'ove non
comprendiamo distintissimamente i pensieri di un poeta, i suoi versi dovessero perdere non poca
della forza loro; pure quanto è con profondità sentito, presumiamo che sia distintamente compreso;
e giusto allorchè stiamo in forse di poterci levare con lui a spaziare sopra i limiti della terra, il
Petrarca trova modo d'insinuarsi nelle più riposte pieghe de' nostri cuori; e nel punto che entriamo
negli stessi suoi sentimenti, siamo anche pronti ad ammetterne per vere le visioni. Egli esclama:
Chi vuol veder quantunque può Natura
E 'l Ciel tra noi, venga a mirar costei.
E di nuovo
Le stelle e 'l cielo e gli elementi a prova
Tutte lor arti ed ogni estrema cura
Poser nel vivo lume in cui Natura
Si specchia.
«Che Laura venne vestita di tutte le sue virtù dal pianeta ch'ella abitava prima di scendere sopra la
terra:»
In tale stella duo begli occhi vidi,
Tutti pien d'onestate e di dolcezza.
«Che la bellezza di Laura preesisteva nel concetto della Divinità alla creazione dell'universo:»
In qual parte del cielo, in quale idea
Era l'esempio?
Pure in questo medesimo sonetto, ove si dispiega la teorica di Platone — «che tutti gli oggetti i
quali cadono sotto i sensi sono soltanto copie di modelli più o meno perfetti che esistevano ab
eterno nella mente di Dio,» — il poeta esclama improvvisamente:
Benchè la somma è di mia morte rea.
Così il fulgore della descrizione viene maestrevolmente temperato con un solo verso, il quale ne
ricorda che, se Laura è un angelo, l'amante suo almeno è un mortale che patisce al pari di noi.
X. Uno di que' poeti in cui va unita la inspirazione a sobria e profonda conoscenza de'
misteri dell'arte loro, ha notato «che troviamo diletto nelle rappresentazioni della vita che il poeta ci
fa, per l'amore appunto che portiamo alla vita stessa, e tutte le imitazioni di oggetti hanno un certo
valore per la mente, come sembianze e ricordi di una vita peritura.»
(
49
)
Il vero di tale osservazione e
l'applicarla ad opere d'immaginazione si può intendere appieno da chiunque consideri, che l'amore
alla vita muove dalla coscienza che abbiamo di esistere: — che sì fatta coscienza risulta
dall'esercizio delle nostre facoltà: — che tal esercizio ci affatica e consuma: — che ad esso quindi
opponiamo costante desiderio di riposo. Per tal modo possiamo spiegare il conflitto tra le nostre
propensioni, vôlte ora alla irrequietezza e ora all'inerzia, dal quale avviene che tutti gli uomini più o
manco sieno talora travagliati. Opino io che il moto e l'equilibrio delle facoltà mentali mantengansi
in noi, come i battiti del cuore, da continua oscillazione dall'una all'opposta parte, e che, come prima
questa cessa, cessi la vita. Sempre in traccia di riposo, per ciò stesso ci fugge sempre. Ove ci
avvenga di trovarlo in un ozio assoluto, l'esistenza ci si rende noiosa, e gli è allora che tremiamo e al
pensiero che la vita ci sfugge e all'appressarsi dell'unica tranquillità reale, la morte. Pur come il
riposo perfetto delle facoltà ci fa stupidi, così la turbolenza violenta delle passioni ci affoga: —
quindi la rappresentazione delle passioni altrui ne aggrada, facendoci consapevoli dell'esistenza con
eccitamenti e non con tribolazioni, e ne apporta insieme i piaceri dell'agitazione e del riposo. La
rappresentazione dell'amore più vivamente ci riscuote di quella dell'altre passioni, i cui semi, come
che nel petto d'ogni uomo stieno racchiusi, pur non si svolgono ove ad esso manchi l'aiuto di
circostanze, che a molti non occorrono mai, dove l'amore e la morte sono, come Dante dice del
Sole,
Li ministri maggior della Natura;
la quale coll'amore soltanto può riprodurre le sue creazioni, che la morte va perpetuamente
struggendo. Ma tutti quasi gli scrittori veggono l'amore vestito di quelle esteriori apparenze, che può
accidentalmente pigliare da costumi speciali ad ogni nazione ed età. Così i romanzi raro piacciono
alla generazione che succede, perchè rappresentano più le eventuali e passeggere forme, che l'intima
natura d'amore. Ma quando un grande poeta traduce il proprio cuore nella pittura ch'ei fa dell'amore,
caverà lagrime dagli occhi d'ognuno in ogni tempo. Sebbene il Petrarca sollevi questa passione
all'altezza della propria mente, e l'adorni secondo le metafisiche speculazioni e i costumi del suo
tempo, tuttavia ci pone dinanzi agli occhi molte sembianze e memorie de' nostri propri sentimenti.
Gli è forse il più felice tra que' poeti «che destano a stupore con guizzi di natura sfuggiti alla
osservazione o svaniti omai dalla memoria nostra, e come se ci restituissero davanti un amico
perduto o lontano, ci commuovono con tenerissima illusione, sgombra però da quell'indistinto che è
ne' sogni.» Nella poesia del Petrarca ci occorre ogni menoma circostanza della nostra passione;
49
()
Campbell's, Lectures on poetry.
pene, piaceri, speranze, timori sperimentati; e a volte con solo un verso egli ci fa retrocedere a
rivivere di nuovo colla persona che un tempo ne fu più cara, e che forse da gran pezza ci è
scomparsa dagli occhi, per non dir anche dalla memoria. L'altezza dello stile e l'ornamento delle
immagini, lungi dal farne ritrosi, a lui anzi ne trae, perchè pare ch'egli adoperi ogni accorgimento
dell'arte a farci spettatori e compagni della felicità, o della miseria sua:
Qui cantò dolcemente, e qui s'assise;
Qui si rivolse, e qui rattenne il passo;
Qui co' begli occhi mi trafisse il core;
Qui disse una parola, e qui sorrise;
Qui cangiò 'l viso. In questi pensier, lasso,
Notte e dì tiemmi il signor nostro Amore.
XI. Principalmente nella espressione del dolore il Petrarca entra in ogni cuore, ed ogni cuore
entra nel suo. Nettezza di dizione, dilicatezza di sentimento, estasi platonica, tutto cede alla violenza
del suo dolore; e noi rimiriamo lo spaventoso conflitto tra la ragione e la disperazione, tra la
passione e la religione. La ricordanza dell'amor suo, e i rimorsi delle voglie ree gli penetrano il
cuore; e mentre pare ch'egli stia in procinto di por fine alla vita da sè, viene frenato soltanto dal
timore di varcare d'una in altra peggiore miseria:
S'io credessi per morte essere scarco
Del pensier amoroso che m'atterra,
Con le mie mani avrei già posto in terra
Queste membra noiose, e quello incarco.
Ma perch'io temo che sarebbe un varco
Di pianto in pianto e d'una in altra guerra ec.
Allorchè si volge per conforto al cielo, agli uomini e a quanto gli sta d'intorno, la nostra simpatia per
l'uomo ci fa quasi dimenticare l'ammirazione verso il poeta; perchè veggiamo che, come ogni
creatura che sentasi estremamente misera, egli s'immagina di avere inspirato a tutta la natura la
propria afflizione:
Vago augelletto che cantando vai,
Ovver piangendo il tuo tempo passato,
Vedendoti la notte e 'l verno a lato,
E 'l dì dopo le spalle e i mesi gai;
Se come i tuoi gravosi affanni sai,
Così sapessi il mio simile stato,
Verresti in grembo a questo sconsolato
A patir seco i dolorosi guai.
I' non so se le parti sarïan pari;
Chè quella cui tu piangi è forse in vita,
Di ch'a me Morte e 'l Ciel son tanto avari;
Ma la stagione e l'ora men gradita,
Col membrar de' dolci anni e degli amari,
A parlar teco con pietà m'invita.
Le poesie che il Petrarca dettò intorno a Laura finiscono con una delle più belle canzoni.
Rivolto alla beata Vergine, in lei, che aveva sentito gli umani affetti e congiunto in sè i tre più
gentili e cari nomi sopra la terra — di madre, figliuola e sposa, — s'affida il poeta, che gli userà
misericordia:
Tre dolci e cari nomi ha' in te raccolti,
Madre, figliuola e sposa.
Poi, con sublimità e affetto che nessun poeta mai superò, implora l'aiuto di lei a poter cessare nella
sua vecchia età di struggersi in lamenti sopra le ceneri di tale, che aveva riempiuto la sua vita di
pericoli e di lagrime.
XII. Quantunque sì fatta maniera di poesia fosse in uso presso i Siciliani e i Provenzali per
più di due secoli, rado fu inspirata dal genio o dalla passione. Amanti di professione intitolarono
rime alle donne loro, che cantanti ed erranti trovatori ripetevano a' banchetti de' mecenati. A parere
di Dante e dell'amico suo Guido Cavalcanti, essi furono piuttosto dicitori per rima, che degni del
none di poeti.
(
50
)
Non sì tosto fu la poesia italiana nobilitata dalle platoniche speculazioni intorno
all'amore, che i predecessori del Petrarca pronunciarono, le anime volgari non essere capaci nè
degne di venir iniziate a una tale passione. Guido Cavalcanti, instantemente richiesto da una
gentildonna di scrivere intorno agli affetti ch'ella inspirava, protestò: «ch'egli non avrebbe potuto
confidarsi d'essere compreso, fuori che da menti elevate:»
Donna mi priega, perch'io voglia dire
D'un accidente che sovente è fero
Ed è sì altero, che è chiamato Amore;
Sì chi lo niega possa il ver sentire!
Ed io non spero ch'uom di basso core
A tal ragione porti conoscenza.
Di questa canzone fu data contezza da alcuni celebri commentatori, e fra gli altri da Pico della
Mirandola; ma non perciò si è fatta più intelligibile. Dante fece egli stesso il commento a' suoi versi
d'amore; esempio seguito, due secoli dopo, da Lorenzo de' Medici, la cui Teorica d'Amore è uno de'
pochissimi trattati che o sfuggirono alle indagini indefesse, o non furono riputati degni di essere fatti
conti dallo storico, le illustrazioni del quale intorno al secolo de' Medici fecero caro il nome suo
agl'Italiani riconoscenti.
(
51
)
Dalla comparazione di alcuni versi, dove Guido, Dante, Petrarca e Giusto
de' Conti pigliano a descrivere la sovrumana bellezza delle donne loro, è agevole a seguire i
progressi di siffatta poesia, e accorgersi che Dante fu più che mai vicino a toccarne la perfezione. Il
Petrarca in appresso lo trattò per modo, che nessun altro poeta fu mai capace di accostarglisi: ma
non a lui si spetta il vanto dell'invenzione; poichè le leggi metriche e musicali di questa specie di
lirica poesia erano già fermate.
(
52
)
Per quanto a' nostri moderni compositori di Opere possano apparir
brevi i Sonetti e le Canzoni, ond'essere suscettivi di musica, non è per tal rispetto men vero, che
quelle voci sono derivate da Suono e da Canto, e che da' poeti furono spesso poste note musicali alle
stanze loro. Tra' manuscritti di Franco Sacchetti e d'altri contemporanei del Petrarca, che ancora si
conservano in Firenze, la seguente nota trovasi in capo di alcuno de' loro sonetti: Intonatum per
Francum, — Scriptor dedit sonum. Il sistema della musica italiana per contrappunto era stato creato
tre secoli innanzi da Guido d'Arezzo; e solo a' nostri dì fu raffinato e complicato da' seguaci della
scuola tedesca. La poesia non era a que' tempi in Italia il mero caput mortuum della musica; e
l'umana voce, in luogo di venir sottomessa quale accessorio all'orchestra, teneva la parte principale,
50
()
«Acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico: Che nè i poeti parlano così senza ragione, nè
quelli che rimano deono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che gran
vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura, o di colore rettorico, e domandato, non sapesse dinudare
le sue parole da cotal vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico ed io ne sapemo ben
di quelli che così rimano stoltamente ». Dante, Vita Nuova, § XXV.
51
()
Io devo attestare qui la speciale mia gratitudine al signor Roscoe, per averne ricevuto in dono, nel momento
appunto ch'io stavami inteso alla correzione di questo foglio, le sue Illustrations historical and critical of the Life of
Lorenzo de' Medici, recentemente pubblicate; nel qual libro, fra gli altri originali e curiosi documenti, egli inserì pure il
suddetto trattato. [F.]
Affinché niuno, cui le opere del Roscoe fossero ignote, sospetti contraddizione tra il testo e la nota, giovi ricordare come
nel testo si alluda alla Vita di Lorenzo de' Medici, pubblicata prima delle Illustrazioni accennate nella nota, opere
ambedue di Guglielmo Roscoe. Il tema de' Saggi, e l'occasione del dono comportavano solo un ringraziamento. Ma chi
pure bramasse più di un complimento, potrà della prima di tali opere leggere maturo giudizio in un articolo
dell'avvocato Paolini, inserito nell'Antologia di Firenze, tomo XIV, n.° 41, 1824, maggio, [T.]
52
()
La Summa Artis rithmicæ di Antonio da Tempo è del 1332.
ed era accompagnata da inanimati strumenti tanto solo, quanto fosse necessario a sostenerla, e a
regolarne le modulazioni. Le parole potevano allora colpire l'orecchio di minor maraviglia che i
toni; ma più vibrate penetravano il cuore, e con più utilità parlavano alla mente. Il Petrarca compose
i suoi versi al suono del suo liuto, che legò nel testamento ad un amico;
(
53
)
ed ebbe voce dolce,
flessibile e di grande estensione.
(
54
)
Tutta la poesia d'amore de' predecessori, da quella di Cino in
fuori, manca di dolcezza di numeri; ma la dolcezza del Petrarca è animata da varietà e ardore tale,
che nessun lirico italiano ha mai conseguito l'uguale. La facoltà di serbare e variare a un tempo il
ritmo è tutta sua: — la melodia ne' suoi versi è perpetua, e pur non istanca l'orecchio mai. Le sue
canzoni (sorta di composizione che partecipa dell'ode e dell'elegia, l'indole e la forma della quale è
d'esclusiva ragione dell'Italia) comprendono stanze, talvolta di venti versi. Egli nondimeno collocò
le cadenze in guisa da lasciare che la voce si fermi alla fine d'ogni tre o quattro versi, e fissò la
ricorrenza della stessa rima, e le stesse pause musicali ad intervalli bastantemente lunghi per evitare
la monotonia, e bastantemente brevi per conservare l'armonia. Però non par duro a credersi quanto
Filippo Villani ne assicura: «che la musicale modulazione de' versi del Petrarca indirizzati a Laura
scorreva con tanta melodia, che nemmeno i più gravi potevano frenarsi dal ripeterli.»
(
55
)
XIII. Metastasio, per gradire alla corte di Vienna, a' musici ed al pubblico de' suoi dì, e per
compiacere alla dilicatezza del suo gusto femminile, ridusse la sua lingua e versificazione a tanta
penuria di parole, frasi e cadenze, che paiono sempre le stesse, e nella fine non fa più effetto di un
flauto, il quale apporta anzi dilettosa melodia, che vive e distinte sensazioni. Il Petrarca all'opposto,
non pure vigorosamente afferrò, e bellamente usò tutta la ricchezza delle parole, tutta la varietà del
numero, tutte le grazie e l'energia e gl'idiomi della propria lingua, ma vi saturò quelli de' provenzali
e spagnuoli poeti. Nessun vocabolo adoperato da lui è divenuto obsoleto; ed ogni sua frase può
essere, ed è tuttavia, scritta senza affettazione. Nel tempo stesso ch'egli accresce i materiali onde
l'italiana lingua di già abbondava, pare che la impronti di fresca e novella creazione, perchè in fatto
questa lingua eragli insieme e naturale e forestiera. Non aveva più di nove anni quand'ei fu condotto
in Francia, dove passò la giovinezza e la maggior parte di sua vita. I genitori, da cui avrebbe potuto
apprendere l'idioma toscano, morirono mentr'era egli ancor giovinetto. Ne' frequenti viaggi ch'ei
fece in Italia dimorò a lungo da per tutto, tranne in Firenze, dove solo passò tre o quattro settimane.
A formarsi uno stile che fosse affatto suo proprio, egli ne afferma che non tenne mai copia del gran
poema di Dante, la cui dizione affetta di sprezzare.
(
56
)
Sol quando fu per chiudere i giorni suoi
cominciò il Petrarca a pentirsi di non essersi valuto «della lingua volgare; campo novellamente
scoperto, ma squallido, perchè molti gli diedero il guasto, niuno saggiamente lo coltivò.»
(
57
)
Devo
alla libreria e alla liberalità di Lord Holland l'unico saggio ch'io m'abbia mai veduto della prosa
italiana del Petrarca. Gli è un manuscritto, di propria mano del Petrarca, di due lettere che, lontane
dalla eleganza e grammaticale correzione di Dante e del Boccaccio, o da quella pure de' loro minori
contemporanei, sono solo notevoli per calore di sentimento e per la perspicuità di pensiero,
peculiare al suo stile. Se, invece di dedicare la vita ad una lingua antica, nella quale erano già tanti
inimitabili autori, egli avesse scritto le numerose opere sue in italiano, ne avrebbe potuto lasciare
modelli d'ogni fatta di composizioni. La grande maestria nella poesia di tale lingua che aveva
coltivata sì poco, è di quelle arcane maraviglie che il genio opera, non se ne avvedendo egli stesso, a
modo che veggiamo talora sementi sparse dal caso in qualche benigno terreno spontaneamente far
prova migliore e più lussureggiare, che non avrebbe ottenuto l'arte più industre in suolo meno
propizio.
XIV. Lo scopo rilevante dello studio e dell'ambizione del Petrarca fu di dissipare le tenebre,
per entro alle quali i secoli di mezzo avevano avvolto la letteratura degli antichi. Ma qual genio e
quale ardore potevano esser pari all'ampiezza di tanto assunto? Pur nondimeno riuscì egli per modo
53
()
Magistro Thomæ Bombasio de Ferraria lego leutum meum bonum, ut eum sonet, non pro vanitate sæculi
fugacis, sed ad laudem Dei æterni. Petrar. Testam.
54
()
Doctus insuper tyra mire cecinit. Fuit vocis sonoræ atque redundantis, suavitatis tantœ atque dulcedinis.
Ph. Villani. Vit. Petrar.
55
()
Tanta siquidem dulcedine rithmi fluunt, ut ab eorum pronunciatione et sonis, gravissimi nesciebant
abstinere. Phil. Villani, Vit. Petrar.
56
()
Vedi l'epistola del Boccaccio al Petrarca: Italiæ jam certus honor.
57
()
Hic vulgaris stylus modo inventus, vastatoribus crebris, et nullo squallidus colono. Senil., V, ep. 2, 3.
nello sgomberare le vie allo studio dell'antichità, che s'acquistò titolo, cui tuttora a buona ragione
conserva, di ristoratore delle classiche lettere. «Non avete vergogna,» scriveva egli a' Romani, «che
le reliquie dell'antica vostra grandezza, risparmiate dalla inondazione dei Barbari, sieno
cotidianamente vendute dalla vostra sconsigliata avarizia a' forestieri? e che Roma in nessun altro
luogo sia meno conosciuta e meno amata che in Roma?»
(
58
)
Nè l'entusiasmo del Petrarca per gli
antichi monumenti gl'impedì di descriverli col sentir fino di un critico.
(
59
)
Da lui venne il primo
esempio di raccogliere medaglie, come scorte più fidate pel laberinto cronologico e genealogico di
dinastie scomparse dal mondo. Noi raccogliamo tuttavia il benefizio di que' manuscritti ch'egli andò
cercando senza posa per ogni angolo d'Europa;
(
60
)
e de' quali moltiplicò le copie, non perdonando a
denaro, povero, nè a fatica, vecchio ed infermo; e tanta fu la sua ansietà affinchè riuscissero corrette,
che sovente si sottopose egli stesso allo stento servile del copista. Trovò la lingua latina,
le verdi allegre frondi
Deposte, tetra, tutta nocchi, e stuoie,
E sprocchi informi, di spine irta, e brulla
Di frutta.
Pure, per le fatiche da lui durate, questa lingua rivisse di tal freschezza, che lo fece riguardare come
colui che rivocò a novello corso il secolo d'Augusto; merito non pertanto che gli uniti e assidui
sforzi di sei generazioni di dotti, da' suoi tempi fino a quelli di Leone X, hanno appena ottenuto.
Tuttavia chi non reca al nome di perfetto letterato altro titolo che eleganze penosamente spigolate
ne' classici, non ha diritto di sogghignare alla latinità del Petrarca. Sembra che, modellando lo stile
sovra i Romani, non intendesse nemmeno di porre al tutto in non cale i Padri della Chiesa, il
fraseggiare de' quali era più accomodato a' suoi temi; e i pubblici negozi venendo a que' trattati in
latino, non gli fu sempre concesso di rifiutare parecchi di que' modi, i quali, tuttochè derivati da
barbari secoli, erano stati sanciti dall'uso di tutte le università, e venivan trovati più acconci alla
intelligenza de' lettori. Perdendo di purezza, si avvantaggiava di libertà, di scorrevolezza e di calore;
e la sua prosa, quantunque non sia modello da imitarsi, si rimane oltre il tiro degl'imitatori, perchè
originale e ben sua.
XV. Dalla poesia latina non poteva il Petrarca uscire ad onore, da che le natie bellezze di
quella erano sì poco sentite, che in gioventù trascorse egli medesimo a scrivere esametri in rima.
(
61
)
La pronunzia, dalla quale tutti i metrici sistemi degli antichi derivano, si era già tanto alterata, ch'ei
fu sovente astretto a congetturare, nè sempre apponendosi, la quantità delle sillabe. Ov'anche fosse
stato fornito delle più alte poetiche facoltà che natura impartisse mai a verun mortale, non sarebbe
potuto riuscire in lingua morta più che ordinario poeta. Il magico accozzamento di armonia,
splendore, freschezza, forza, spirito, affetto e grazia nel descrivere ogni oggetto del creato, per
minuto che sia, ogni oscura e sfuggevole idea, e tutti i più comuni sentimenti del cuore, non si
ottiene se non con parole, nè si potrà ottener mai, ove il poeta non maneggi la sua dizione con tanta
padronanza da rifonderla in lingua di propria creazione; ed ecco forse il grande vantaggio che diede
a' poeti primitivi il potersi di tanto lasciare addietro tutti i lor successori. Ma più son fatte
irremovibili le leggi di una lingua, e più stretto sentesi il genio tra duri ceppi; e dov'altri vi si metta
volontario, merita poca indulgenza: il Petrarca non pertanto si pose sotto a un tal giogo, qual unico
mezzo di far forza all'ammirazione d'Europa; e la conseguì. Il primo libro dell'Affrica sua gli
procacciò la corona in Campidoglio. Intantochè i cantatori di ballate campavano la vita
canterellando i suoi sonetti per le pubbliche strade, i dotti li tenevano poco meno che indegni
dell'ingegno suo; e intanto recavansi a vanto di arricchire le loro librerie d'alcun frammento di
quell'epico poema delle gesta di Scipione. «Io neg — scriveva egli al Boccaccio — «ma nego
indarno: chi da me riceve un rifiuto manda prima un intercessore, poi un altro. L'importunità è
cotanto ingenua e modesta! Non mi bastò l'animo di persistere a lungo nella mia disdetta, chè mi
pareva di venir meno a' debiti uffizi dell'amicizia; sicchè alla fine ebbi a cedere. Se ben mi ricorda,
58
()
Hortatio ad Nicol. Laurent. Petr., Op., vol. I, pag. 596.
59
()
Famil., lib. VI, ep. 2.
60
()
De remed. utriusque fortunæ, lib. I.
61
()
Vedi il Saggio sopra l'Amore del Petrarca, capo VII, nota 15.
gli diedi un trentaquattro versi dell'Affrica; e siccome aveano mestieri di tempo e correzioni
maggiori, posi fermo patto che altri non avesse mai a vederli; il che egli con grande sicurtà mi
promise, ma poi dimenticò di osservare, se non erro, lo stesso giorno.»
(
62
)
Tali versi trovansi fra
quelle Miscellanee, le quali, prima che si diffondesse il sapere, venivano apposte ora al vero, or ad
apocrifo autore; e riferendosi essi alla morte di Magone, fratello di Annibale, un copista del
decimoquinto secolo gli attribuì a Silio Italico, il cui poema della Guerra Punica era stato di recente
scoperto dal Poggio. Circa trecentocinquant'anni dopo, un critico francese nel ristampare questo
poema accusò il Petrarca di averlo trovato e soppresso, e di averne adulterato la purità de' versi
originali affine di più effettualmente occultarne il plagio.
(
63
)
Emendato l'episodio della morte di
Magone, il critico lo innestò nel decimosesto libro di Silio, senza pensare che nel sesto libro
dell'Affrica Magone parla e muore più da canuto filosofo che da giovine eroe, e non conoscendo
che, qualsiasi tocco di natura individuale palesi, spetta al Petrarca, cui era appena possibile di
scrivere una sentenza che nol tradisse.
XVI. Più andava il Petrarca scoprendo opere di antichi, e più diveniva competente a
giudicarne la eccellenza; e sì addentro sentì quanto quelli gli andassero innanzi, che que' latini
poemi, ne' quali per tanti anni avea riposto ogni speranza di gloria, nella fine gli cagionarono
mortificazione interna, che i plausi del pubblico valsero solo a far palese.
(
64
)
All'udire in Verona
ripetersi alcuni versi dell'Affrica, il Petrarca scoppiò in lagrime di vergogna.
(
65
)
Le copie, che
circolarono dopo la sua morte, non poterono essere tratte dal manuscritto che aveva preparato, ma
che non ebbe animo di dare al pubblico, e che subito dopo gettò alle fiamme. — «Di rado un padre
nel porre il corpo morto dell'unico figliuolo sul rogo sentì agonia maggiore di quella ch'io provai nel
distruggere il frutto di tante fatiche: pensate a ciò, e appena potrete frenare le lagrime.»
(
66
)
Parecchie
sue egloghe ed elegie, e i suoi trattati — Della propria ignoranza e di quella di molti altriDe'
fatti memorabili, specialmente del proprio tempo — De' rimedi della buona e cattiva fortuna
Del reggimento di una repubblicaDei doveri di un comandante d'esercitoItinerario per la
Siria — una serie non compiuta di Vite d'illustri Romani da Romolo a TitoApologie ed Invettive
contro i suoi avversari, — tutti questi con alcuni altri, che si rimangono tuttavia inediti, sono
probabilmente la minor parte de' suoi latini volumi. Mentre stava componendo, stimavasi l'Achille,
e mentre rivedeva, il Tersite degli autori; e sovente, allorchè la morte degli amici suoi gli recava più
addentro la persuasione della vanità della vita, ardeva i suoi scritti.
(
67
)
L'unico che continuò a tenersi
caro sopra ogni altro, fu il libro della Solitudine, ch'ei chiamava: Liber maximus rerum mearum. Ne
aggiunse un altro: Della vita pacifica de' monaci, che indirizzò a Gerardo suo fratello minore, il
quale, sperimentate tutte le gioie e le traversie della gioventù, alla morte di una diletta amica riparò,
per chiudervi i giorni suoi, ad un monastero di certosini. «Mio fratello ed io,» sclamava il Petrarca
dopo la morte di Laura, «stavamo in ceppi ugualmente. La tua mano, o mio Dio! ha rotto le nostre
catene: ma siamo noi sciolti entrambi? Egli sì che si liberò davvero.»
(
68
)
Allora si fu ch'ei distrusse
molte lettere, nelle quali interteneva gl'intimi suoi amici intorno a Laura: ma, avvertendo poi ch'altre
si erano conservate e copiate, ei ne raccolse un gran numero, prevedendo forse ch'esse avrebbero
all'ultimo salvato i suoi scritti latini dal venir trascurati.
XVII. Prima che al tutto ei si recasse a noia il mondo, aveva viaggiato, «esaminando ogni
62
()
Senil., lib. II, ep. 1.
63
()
Habe Silium cultiorem, egregio auctum fragmento, quod sibi minus verecunde, nonnullis mutatis,
vindicaverat, suoque poemati Africæ VI adsuere non est veritus Fr. Petrarcha. Lefebvre de Villebrune, Epist. ad
Villoison præfix. ad Silii edit.; Lutetiæ 1781.
64
()
Quotiescumque AFRICÆ mentio incidisset, toties conturbabatur, molestiamque mente conceptam foris
facies indicabat. Vergerius Senior, Vita Petr.
65
()
Trovandosi il Petrarca in Verona, e sentendo cantare i versi dell'Affrica, pianse, dolendosi non poterla
nascondere affatto. Beccadelli, Vita del Petrarca.
66
()
Raro unquam pater aliquis tam mœstus filium unicum in rogum misit: quanto id fecerim dolore, et omnes
labores meos eo in opere perditos, acriter tecum volvas, vix ipse lachrymas contineas. Queste parole sono ripetute dal
Vergerio, il quale viveva in Padova nello stesso tempo che il Petrarca vi si trovava.
67
()
Incredibilem rem audies, veram tamen, mille vel amplius seu omnis generis sparsa poemata seu familiares
epistolas Vulcano corrigenda tradidi non sine suspiriis. Petr. apud Tomasinum, f. 28.
68
()
Cum ego et frater meus gemino laqueo teneremur, utrumque contrivit manus tua; sed non ambo pariter
liberati sumus: ille quidem evolavit. Epist. var., 28.
cosa con instancabile attenzione, osservando costumi ed indoli delle nazioni, e tutti gli altri paesi
europei raffrontando con l'Italia.»
(
69
)
I tempestivi passi verso la civiltà, e la presente decrepitezza
della patria del Petrarca fanno ragione del pari e dell'esagerato patriottismo di lui,
(
70
)
e delle severe
censure di moderni statisti, i quali, benchè giusti a volte, rado sono equi. Quelle menti che possono
sopravvedere la umana razza in tutte le vicissitudini ed epoche, ben sanno che stagioni di gloria e di
calamità son prefisse ad ogni nazione, e ne giudicano con candore.
(
71
)
Pure, se il Petrarca esalta i
suoi concittadini a detrimento degli estranei, prova piuttosto la sicurezza di osservatore pratico, che
non il capriccioso sentenziare di un autore di viaggi per professione; e risguardando all'istruzione
che possiamo tuttavia attingere al suo epistolario, ove ragiona de' fatti, costumi e caratteri di
quell'età, egli merita d'aver posto fra' primi e più dotti viaggiatori d'Europa. Queste lettere sono
tuttora inedite; e alcune altre stanno in tutte le edizioni confusamente disposte; molte se ne
incontrano citate a lunghi brani da vecchi storici. Ei non fu solo testimonio oculare, ma le sue
osservazioni, che paiono spesso effetto di súbite ed efficaci impressioni, portano un'impronta di
sincerità. Séguita la traduzione di una delle sue lettere al cardinale Colonna, che Angelo di Costanzo
inserì nelle sue Storie del Regno di Napoli.
«Orazio, volendo descrivere una gran tempestade, disse che era tempesta
poetica; e mi pare che non potea più brevemente esprimere la grandezza di
essa; perchè il cielo irato il mare tempestoso può fare cosa che non
l'agguagli e vinca lo stile dei poeti descrivendola... che s'io avrò mai tempo,
questa di Napoli sarà materia de' versi miei; benchè non si può dire di
Napoli, ma universale per tutto il mare Tirreno e per l'Adriatico: a me pare
chiamarla napolitana, perchè contra mia voglia mi ha ritrovato in Napoli;
però se io per l'angustia del tempo (volendo partirsi il messo) non posso
scriverla a pieno, persuadetevi questo, che la più orribil cosa non fu vista
mai. Questo flagello di Dio era stato predetto molti giorni avanti dal vescovo
di un'isoletta qui vicina per ragione di astrologia: ma come suol essere che
mai gli astrologi non penetrano in tutto il vero, avea predetto solo un
terremoto grandissimo ai venticinque di novembre, per il quale avea da
cader tutta Napoli, ed avea acquistato tanta fede, che la maggior parte del
popolo, lasciato ogni altro pensiero, attendea solo a cercare a Dio
misericordia de' peccati commessi, come certo d'avere da morire di
prossimo; dall'altra parte molti si ridevano di questo vaticinio, dicendo la
poca fede che si dèe avere agli astrologi, e massime essendo stati alcuni
avanti certi terremoti. Io, mezzo tra paura e speranza, ma un poco più vicino
alla paura, la sera del ventiquattro del mese mi ridussi, avanti che si colcasse
il sole, nell'agloggiamento; avendo veduto quasi la più parte delle donne
della città, ricordevoli più del pericolo che della vergogna, a piedi nudi, coi
capelli sparsi, coi bambini in braccio andare visitando le chiese, e piangendo
chiedere a Dio misericordia.
«Venne la sera, e il cielo era più sereno del solito, e i servidori miei dopo cena andaro presto
a dormire; a me parve bene d'aspettare per vedere come si ponea la luna, la quale credo che fosse
settima, ed aperta la finestra che guarda verso occidente, la vidi avanti mezzanotte ascondersi dietro
il monte di San Martino con la faccia piena di tenebre e di nubi; e serrata la finestra, mi posi sopra il
letto, e dopo d'avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore ed un
terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume che io soglio tenere la notte, ma
commosse dai fondamenti la camera dove io stava. Essendo adunque in cambio del sonno assalito
dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monasterio, ove io abito; e mentre tra le tenebre
l'uno cercava l'altro, e non si potea vedere se non per beneficio di qualche lampo, cominciammo a
69
()
Cuncta circumspiciens, videndi cupidus explorandique, contemplatus sollecite mores hominum, singula
cum nostris conferens. Famil., lib. I, ep. 3, 4: lib. V, ep. 4.
70
()
Senil., lib. IX, ep. I.
71
()
Hœc ter a te, Didyme, recitata sint super terram patrum nostrorum, ut misereantur sui omnes; nam sicut
autumnus et hyems in singulos annos, sic gloria et calamitas visitant, certis tempestatibus sæculorum, singulos populus
terræ. Didymi Clerici, Hypercalypseos, cap. 18, v. 46.
confortare l'un l'altro. I frati e il priore, persona santissima, che erano andati alla chiesa per cantare
mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta, con le croci e reliquie di santi, e con devote orazioni,
piangendo, vennero ove io era con molte torce allumate: io, pigliato un poco di spirito, andai con
loro alla chiesa, e gittati tutti in terra non facevamo altro che con altissime voci invocare la
misericordia di Dio, ed aspettare ad ora ad ora che ne cadesse la chiesa sopra. Sarebbe troppo lunga
istoria, s'io volessi contare l'orrore di quella notte infernale; e benchè la verità sia molto maggiore di
quello che si potesse dire, io dubito che le parole mie pareranno vane.
«Che gruppi d'acqua! che venti! che tuoni! che orribile bombire del cielo! che orrendo
terremoto! che strepito spaventevole di mare! e che voci di tutto un sì gran popolo! Parea che per
arte maga fosse raddoppiato lo spazio della notte; ma alfine pur venne l'aurora; la quale per
l'oscurità del cielo si conoscea, più che per indizio alcuno, per conghiettura. Allora i sacerdoti si
vestiro per celebrare la messa; e noi che non avevamo ardire ancor di alzare la faccia al cielo, buttati
in terra, perseveravamo nel pianto e nelle orazioni; ma poichè venne il dì, benchè fosse tanto oscuro
che pareva simile alla notte, cominciò a cessare il fremito delle genti dalle parti più alte della città, e
crescere un rumore maggiore verso la marina, e già si sentivano cavalli per la strada, nè si potea
sapere che cosa si fosse. Alfine, voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io per
vedere quel che era, o morire. Dio grande, quando fu mai udita tal cosa? I marinari decrepiti dicono
che mai fu nè udita nè vista. In mezzo del porto si vedeano per lo mare infiniti poveri, che mentre si
sforzavano di arrivare in terra, la violenza del mare gli avea con tanta furia battuti nel porto, che
pareano tante uova che tutte si rompessero; era pieno tutto quello spazio di persone affogate, o che
stavano per affogarsi; chi con la testa, chi con le braccia rotte, ed altri che loro uscivano le viscere.
Nè il grido degli uomini e delle donne che abitano nelle case vicino al mare, era meno spaventoso
del fremito del mare; si vedea dove il dì avante s'era andato passeggiando sulla polvere, diventato
mare più pericoloso del Faro di Messina.
«Mille cavalieri napolitani, anzi più di mille erano venuti a cavallo là, come per trovarsi alle
esequie della patria; ed io messo in frotta con essi, cominciai a stare di meglio animo, avendo da
morire in compagnia loro; ma subito si levò un rumore grandissimo, che il terreno che ne stava sotto
i piedi cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare. Noi fuggendo, ne ritirammo
più all'alto; e certo era cosa oltremodo orrenda ad occhio mortale, vedere il cielo in quel modo irato,
e il mare così fieramente implacabile: mille monti di onde non nere nè azzurre, come soglion essere
nell'altre tempestadi, ma bianchissime, si vedeano venire dall'isola di Capri a Napoli. La regina
giovane, scalza, con infinito numero di donne appresso, andava visitando le chiese dedicate alla
Vergine madre di Dio.
«Nel porto non fu nave che potesse resistere, e tre galee che erano venute da Cipri, ed
aveano passati tanti mari, e voleano partire la mattina, si videro con grandissima pietà annegare,
senza che si salvasse pur un uomo. Similmente l'altre navi grandi che aveano buttate l'ancore al
porto, percotendosi fra loro, si fracassarono con morte di tutti i marinari: sol una di tutte, dove erano
quattrocento malfattori per sentenzia condannati alle galee che si lavoravano per la guerra di Sicilia,
si salvò, avendo sopportato sino al tardi l'impeto del mare per lo grande sforzo de' ladroni che
v'erano dentro, i quali prolungaro tanto la morte, che avvicinandosi la notte, contro la speranza loro
e l'opinione di tutti venne a serenarsi il cielo ed a placarsi l'ira del mare, a tempo che già erano
stanchi: e così d'un tanto numero si salvaro i più cattivi; o che sia vero quel che dice Lucano, che la
fortuna aita i ribaldi; o che così piacque a Dio; o che quelli siano più sicuri nei pericoli che tengono
più la vita a vile. Quest'è l'istoria della giornata d'ieri. — Il 27 novembre, 1343.»
XVIII. Colle numerose lettere scritte dal Petrarca sullo scorcio della vita, e da lui raccolte col
titolo di Epistolæ Seniles, il vecchio solitario conversando co' più intimi amici intendeva di essere
udito dal mondo. Son esse piene di sentimento e di saviezza, di pedanteria e d'eloquenza, di
cristiana annegazione e di puerile compiacimento di sè: e in esse è continuo l'azzuffarsi insieme
della sua naturale franchezza e della cautela senile. Comunque sia, i suoi corrispondenti gli
andarono tenuti di profuse citazioni, le quali, nella scarsezza di libri in quel secolo, fecero loro
conoscere molti passi di classici scrittori. Fors'anco si compiaceva quella età poco men della nostra
ne' cicalecci intorno a tutti i negozi grandi e piccoli, pubblici e privati, storici e favolosi de' suoi
celebri contemporanei; ma a que' giorni editori di mensili e trimestrali pubblicazioni, di cotidiane
gazzette, di biografici dizionari de' morti e de' vivi, non aveano per anche o motivi di professione, o
mezzi da penetrare nel segreto di domestico ritiro. Il Petrarca, adescato dal concetto che la sua
celebrità avrebbe magnificato l'importare di tutte le consuete faccende della sua vita, appagò la
curiosità d'amici e nimici col raccontare seriamente ad essi com'ei pure facesse
Dell'uom le naturali funzïoni,
Mangiar, bere, dormir, vestir calzoni.
Di che ad ogni modo venne almeno questo vantaggio, che l'informazione che ne abbiamo non è
apocrifa, e che non ci son lasciati desiderare i materiali per la più attraente fra le storie — la storia
della mente di un uomo di genio: — ma egli sta aspettando tuttavia quello che la buona fortuna non
gli ha ancora mandato, un uomo di genio a suo storico. Nelle lettere, come ne' poemi e trattati del
Petrarca, siamo sempre portati a far sola una cosa dell'autore e dell'uomo, che si sente
irresistibilmente sospinto a svolgere il proprio intenso sentire. Dotato di tutte quasi le nobili, e
soggetto ad alcuna delle povere passioni di nostra natura, nè mai provatosi di celarle, ci sveglia a far
riflessione sopra noi stessi, mentre contempliamo in lui uno della nostra specie, diverso però da ogni
altro, e la cui singolarità eccita anche più simpatia che ammirazione.
SAGGIO
SOPRA IL CARATTERE DEL PETRARCA
E le cose presenti e le passate
Mi danno guerra e le future.
PETRARCA, P. II, son. 81.
I. Un anno a un bel circa prima di far conoscenza con Laura, il Petrarca entrò in casa di
Jacopo Colonna vescovo di Lombes, che lo introdusse presso il fratello Giovanni cardinale, e vi fu
eletto aio d'uno de' nipoti loro. Ma non andò guari a venire con essi a sì dimestica amicizia, che
Stefano Colonna capo della famiglia, il quale avea gran potere in Roma, e non mancavane in
Avignone, lo teneva in conto di figliuolo, e affatto indipendente.
(
72
)
A quel tempo uomini d'alto
affare e ingegno da tutte le nazioni traevano ad Avignone; fra i quali Riccardo di Bury, poi vescovo
di Durham, vi si trovava ambasciatore di Edoardo III. Laonde il Petrarca ebbe di buon'ora
opportunità di procacciarsi, coll'amicizia de' più eminenti personaggi vissuti a que' dì in Europa,
notizia non comune della letteraria e politica condizione del mondo. Nel suo trentesimo quarto anno
ottenne da Benedetto XII un beneficio ecclesiastico per mediazione del cardinale,
(
73
)
e si ritirò a
Valchiusa, come in porto di tutta pace, ove potesse menar vita non molestata da amore o da
ambizione, e non tentata dalle depravazioni di quella corte.
«Rev. et amplissime Præsul Jacobe Domine perhonorande: Me invitate en Avignone a
trattenerme a la Corte Romana con gonfiarme di speciosissime speranze. E se lo affecto
amorevolissimo di Voi el non me fosse a mille altre dimostranze cognosciuto, potrei affermare
esserme voi el più rio nemico che el misero Francesco potesse havere al mondo. El sa per lo tanto
che haviamo più fiate favellato onsieme, le grandi promissioni fattemi dal pontefice Giovanne, a
modo io me lusingava essere ben tosto en qualche stato sublime; et poi me cognosco essere el
tapino Petrarca che sempre fui, et sarò. Ben el sapete voi con la longa experientia quanto le sono
fallaci et fraudolente le lusinghe de la Corte, anzi che en quella li huomini ben veduti sono li ribaldi,
o li idioti, o somigliante schiuma de gente, che o per simonia, favori, o adulatione, el montano a li
gradi et le dignitade. O tempora, O mores! El mi torrei a vituperio per queste non licite vie
conseguire cosa di buono. Hor puote esser dunque che voi Misser Jacomo, che el siete ingenuo et
virtuoso signore, el me proponiate che io faccia ritorno en la Corte, dove non che uno che el se
professa homo dabbene, ma lo sia punto iudicioso, si torrebbe a gran vergogna dimorare, ove no el
costrengesse el bisogno? Præterea quando ben ancora el fosse certo haver a conseguire cosa di
72
()
Hujus familiæ magnanimum genitorem ita colui, atque ita sibi acceptus fui, ut inter me et quemlibet
filiorum mil diceres inter esse. Ep. ad Post.
73
()
Literarum scientia, morum honestas, et alia multiplicia merita probitatis, — nec non consideratione
dilecti filii nostri Johannis cardinalis pro te, Capellano continuo commensali suo, humiliter supplicanti. Benedicti XII,
Bull. ad Petr. an. 1335.
buono da la munificentia del Papa, li vitii scelerati de la Corte el me sono così a noja, che al sol
pensarli el me fa stomaco. Sappia che en partirme da la Corte del Papa cantai il Psalmo: In exitu
Israel de Ægipto. Godo en queste amene solitudini de Valclusa una dolce et imperturbata
tranquillità, el virtuoso et placidissimo otio de' miei studj: el tempo che mi vaca de le volte passo a
Cabrieres per diportarme. Ah! se vi fosse licito, Misser Jacomo, el dimorare en la dicta Valle, di
certo vi rincrescereste di tutto el mondo, non che de la Corte del Papa. Son fermo en la
deliberatione di non più rivederla. Me commendi en buona gratia de lo excellente signor Misser
Stephano Colonna, vostro padre, et di Misser el Cardinale vostro virtuoso fratello, et conservatemi
el vostro cordiale affecto. Vale. En Val-clusa. X kal. junij MCCCXXXVIII.
Tui studiosissimus, Franc. Petrarca.»
«Rever. et amplissime Præsul Jacobe Domine perhonorande. Io godo assai ben, perchè Voi,
per lo affecto en lo qual mi havete, patiate sì gran noja, quando el sentite carpire le mie
compositioni alcuno ignorantello disgratiato: imperciocchè penso esserve molto en grado el mio
honore, el che non poteria essere se non me amaste. El sappiate nondimeno per vostro consuolo, che
io de el garrire de le stridule cicade non ricevo più rincrescimento che el senta la Luna quando un
rabbioso mastino con isquarciata gola latra contro de ella. Se ho voluto imitare el primo verso de la
canzone de Arnaldo Danielo Provenzale,
Drez et raison es que je cante de Amour,
mutilandolo en parte, el feci così poi che entiero non faceva al mio proposito; et per la dicta cagione
me sono servito di quello parlare solo en quello che me bisognava. Se li miserelli el sapessero la
differentia tra lo imitare el prender di netto, così sconciamente non cicaleriano. Ma io me consolo
con el detto de M. Tullio, Vera laus fit a laudato viro. Hor pensate voi, præstantissimo Misser
Jacopo, se el me ponno le costoro ineptie et cicalecci portar duolo. El me rincresce pur assai che el
nostro virtuosissimo M. Bernardo el sia molestato da el suo consueto male, come voi me ne date
aviso con la vostra lictera: homo così excellente el fora dovere che non patisse male alcuno, se così
el fosse en piacere de Iddio. El salute a nome mio, et sappia che molto me duole de ello. El ve prego
ad excusarme appresso el Reverendiss. Card. M. Joanne, vostro fratello, de el non haver data opera
en trovar el libro che el me disse; imperciocchè, en questi pochi momenti che ho dimorato appresso
el serenissimo Re Roberto non sono stato niente mio, e volendo partire per Roma, non me ha vacato
el salutare alcuno amico. Me commendi en gratia de excell. M. Stephano, vostro honoratissimo
padre, et Franciscum tuum tuis jucundissimis epistolis exilarare non desinas. Vale. Neapol. VIII kal.
aprilis, M. CCCXLI.
Tibi de voluntate et debito deditissimus F. Petrarcha.»
II. Tre anni dopo la data di questa lettera, al Petrarca coronato in Roma crebbero colla fama i
redditi. Re Roberto di Napoli lo condusse allora a suo cappellano, dispensandolo dalla residenza in
corte. Tornò a Valchiusa; e la Santa Sede questa volta impose a forza il suo patrocinio ad uno
scrittore, cui la celebrità e la indipendenza di carattere facevano davvero formidabile. Non volle mai
prendere gli ordini sacri per non porsi in condizione da accettare un vescovado, e rifiutò l'ufficio di
segretario apostolico sotto tre papi.
(
74
)
In una Bolla, colla quale Clemente VI gli conferì un beneficio
addizionale, espressamente si attesta «che nè il Petrarca, nè alcuno degli amici suoi lo aveva
sollecitato.»
(
75
)
Quindi il poeta giudicò che queste liberalità non gl'imponessero obbligo alcuno di
frenare la veemenza della sua penna. Nelle sue ecloghe latine introduce le ombre de' pastori della
Chiesa, che mutuamente si rinfacciano le nequizie loro, e si confortano predicendo quelle de'
regnanti lor successori. La Santa Sede era dal Petrarca stimata
Scuola d'errori, e tempio d'eresia.
O fucina d'inganni, o prigion dira...
Di vivi inferno.
74
()
Senil., lib. I, ep. 2: lib. XII, ep. 8.
75
()
Non ad ipsius Francisci, vel alterius pro eo, nobis oblatæ petitionis instantiam, sed de mera nostra
apostolica liberalitate.
Putta sfacciata; e dov'hai posto spene?
Negli adulteri tuoi, nelle mal nate
Ricchezze tante?
Nido di tradimenti, in cui si cova
Quanto mal per lo mondo oggi si spande;
Di vin serva, di letti e di vivande,
In cui lussuria fa l'ultima prova.
Or vivi sì, ch'a Dio ne venga il lezzo.
Cecilia di Commingio, viscontessa di Turenna, trafficava segretamente di sue bellezze con
Clemente VI, per la facoltà di vendere al pubblico non pure i favori temporali, ma le spirituali
indulgenze. Altri pontefici menarono vita probabilmente anco più profana della sua, ma nessuno
mai tenne amanza sì avara e sì svergognata; nè mai la licenza e la lussuria si levarono sì altamente
sfrontate nel palazzo pontificio. Il Petrarca inorridiva a tali scene, e le descrive in guisa da farne
fremere i lettori: «Tutto quanto raccontasi delle due Babilonie — di Siria e d'Egitto, — tutto quanto
si sparge de' quattro laberinti — dell'Averno e del Tartaro — è un nulla a petto di questo inferno
d'Avignone.
(
76
)
Preti, già curvi sotto il peso degli anni, danzando colle loro adultere ignude intorno
all'altare; e Belzebub nel mezzo stuzzicantene le concupiscenze con ispecchi, che ripetevano
l'imagine de' dissoluti loro dimenari, e delle lascive loro figure.»
(
77
)
— Nè pago di sì fatta dipintura
mandata in lettera latina ad un amico, la pubblicò in versi italiani:
Per le camere tue fanciulle e vecchi
Vanno trescando, e Belzebub in mezzo,
Co' mantici e col foco e con gli specchi.
Il Petrarca fu nondimeno trattenuto ad Avignone fino alla virilità dalle sventure della sua famiglia; e
Laura di poi lo trasse sovente a una città, della quale non parla mai se non con orrore.
III. Avvenuta indi la riforma, i cattolici francesi diedero mala voce al Petrarca per le sue
invettive contro la corte d'Avignone:
(
78
)
se non che in un secolo semi-civile un sommo poeta è
raggiante divinità;
(
79
)
e nel decimoquarto secolo il carnefice non avrebbe portato la mano sopra un
capo fatto sacro dall'alloro.
(
80
)
Innocenzio VI teneva il Petrarca per negromante, ma non ardì
mandarlo al palo; e non pertanto il Poeta lo chiamò: «un orso sospettoso e indolente, per la cui
salvatichezza, il fasto e la rilassatezza del predecessore ottennero remissione».
(
81
)
Pure Innocenzio
fece ogni sforzo per ammansarlo con onori e cortesie, e frattanto a' cardinali che maggioreggiavano,
non venne fatto d'indurlo a baciargli il piede.
(
82
)
Per cedere al suo impulso di dire quanto pensava e
sentiva, il Petrarca si giovò di quella fama, all'altezza della quale non fu autore che mai si levasse in
sua vita. Se non che fu infelice anche da questo lato. «Questo lauro» dic'egli, «nulla aggiugnendo
pure al mio sapere, accrebbe le mie angosce e l'invidia altrui.»
(
83
)
Gli uomini più ragguardevoli lo
fecero scorto: «nulla essere di maggior momento e insieme più arduo, che conservare un'alta fama;»
ed egli rispose: «Questo tormento mi si è, a così dire, appiccato intorno, come un fato, fino da' miei
76
()
Epist. sine tit. 5, 8, 10, 11.
77
()
Spectat hæc Satan ridens, atque impari tripudio delectatus, interque decrepitos, et puellas nudas, arbiter
sedens, stupet plus illos agere quam se hortari; ac ne quis rebur torpor obrepat, ipse interim et seniles lumbos stimulis
incitat, et cœcum peregrinis follibus ignem ciet. Epist. sine titulo.
78
()
Fleury, Hist. Eccles., vol. X, 1. 97. Racine, Abrégé de l'Hist. eccles., vol. VI, pag. 441. Cœffetau, Myst.
d'iniquité, pag. 1965.
79
()
Sanctum poetæ nomen, quod nunquam barbaries violavit. Cicero pro Archia, § 5.
80
()
Eclog. 8; Famil., lib. XIII, ep. 6.
81
()
. . . . . . . . Tristis inersque
Mitia præduris excuset facta repulsis. Eclog. 6.
82
()
Famil., lib. XVI, ep. 2. Senil., lib. II, ep. 6.
83
()
Epist. ad Post.
primi giorni. Di me molti giudicano, che io nè conobbi, nè desidero di conoscere, nè stimo degni di
essere conosciuti.»
(
84
)
Se non che, per conservare la sua celebrità, si abbassò alle più veementi
declamazioni contra molti nemici suscitati del pari e dal suo trascendente ingegno e dalla sua
irritabilità, che non poteva patire la menoma riprensione intorno agli scritti o a' costumi suoi.
Perfino nel testamento, a coloro che giudicavanlo più ricco che in fatto non era, diè nome di «matta
plebaglia.»
(
85
)
Alla intolleranza delle opinioni aggiunse talvolta pedantesca gravità e simulata
modestia, che appanna il natio candore dell'indole sua. Mentr'egli chiamasi «un omiciattolo di
questo mondo,» indirettamente poi si paragona co' più illustri uomini della storia, nè può informare i
posteri dell'origine di sua famiglia, che non tolga a prestanza le parole di Augusto.
(
86
)
Il Petrarca singolarmente fu quegli che i personaggi dell'antica Italia fece famigliari a' suoi
concittadini, disposti già naturalmente a tenerlo del bel numer uno. Il popolo ne proferiva il nome
con adorazione; quando in suo cammino passava pel paese, gli artigiani preparavano le case loro
onde riceverlo, ed ei le anteponeva a' palagi de' grandi. Principi e magistrati, seguíti da cortigiani e
da cittadini, uscivano in folla ad incontrarlo alle porte delle città. Curiosi viaggiatori d'ogni nazione,
con la poco delicata importunità propria della razza, ansiosi di appianarsi la via alla sua conoscenza,
gli mandavano doni magnifici, de' quali egli muove orgoglioso lamento.
(
87
)
Un cieco vecchio
sostenne un lungo viaggio a piedi per la speranza di poter toccare il suo capo.
(
88
)
Il lungo studio, che
il Petrarca pose ne' Padri, gli acquistò appresso i monaci nome di profondo teologo.
(
89
)
Re ed
imperadori si affrettavano a conferirgli diplomi e titoli, e lo invitavano alle corti loro: il Papa altresì
lo richiese dell'opinion sua in politici negozi.
(
90
)
Frattanto i governi facevano a gara a chi potesse
adoperarlo in ambascerie; — e, benchè sovente professi di tenere a vile quella eloquenza che tende a
persuadere altrui quanto noi stessi non crediamo, sentiva bene che tal arte non gli mancava, e
all'uopo seppe usarla sostenendo le parti di ambasciadore.
IV. «Che il Petrarca nell'arringo politico proseguisse pur sempre a farla da trovatore — che
quanti tiranni avea l'Italia, con lusingarne la vanità, ne ottenessero in ricambio una bassa adulazione
— ch' ei commettesse a volte cose contrarie a' principii e a' doveri suoi qual cittadino di Firenze e
qual guelfo;»
(
91
)
— ecco i giudizii di un moderno storico, il cui zelo per la libertà invade talora la sua
riverenza pel vero. Il Petrarca era nato esule; il padre di lui fu seppellito in terra straniera, proscritto
da' Guelfi; i figliuoli de' quali nol ristorarono nelle sue ragioni di cittadino, se non quando fu presso
a' cinquant'anni; nè ricuperò il confiscato patrimonio,
(
92
)
se non dopo che la peste ebbe devastato
Firenze. Allora, per attirare maggior copia di forestieri, i cittadini proposero di fondarvi una
università sotto la sua direzione.
(
93
)
Ma il Petrarca li colmò di ringraziamenti e di lodi in una lunga
lettera ch'ei scrisse da Padova, e tornò prestamente a Valchiusa. L'attaccamento ereditario alla parte
ghibellina gl'inspirò più rispetto pe' militari dittatori della città di Lombardia. La venerazione, che,
ad udirli, essi nodrivano inverso il Petrarca, e fors'anche il terrore di loro cruente vendette, lo
tentarono a dare adulazione per adulazione. Eglino spontaneamente gli procacciarono ecclesiastici
beneficii ne' loro dominii, e lo ricercavano di parere in politici negozi: ed egli si riputava capace di
poterlo porgere. Ma l'animo suo non era valido a reggersi saldo nel suo centro, e sospinto per
subitanei impulsi dall'uno all'altro estremo, strappavasi, come da abissi di vitupero e di pericoli, da
quegli stessi palagi, ove pur dianzi era entrato con la speranza di ricondurvi giustizia. Sempre che
spuntasse il più leggero barlume o il menomo destro di rimettere in Roma la sede dell'impero
84
()
Famil., lib. VII, ep. 10. Senil., lib. II, ep. 3.
85
()
Ego Franciscus Petrarcha scripsi, qui testamentum aliud fecissem, si essem dives, ut vulgus insanum
putat. Testam. Petrar.
86
()
Vestro de grege unus: fui autem mortalis homuncio, nec magnæ admodum, sed nec vilis originis: familia,
ut de se ait Augustus, antiqua. Epist. ad Poster.
87
()
Atque ad admirationis augmentum fuere aliqui, qui, præmissis magnis muneribus, sequerentur, quasi
liberalitate iter sternerent et januas aperirent. Petr., Op. Bas. f. 1112.
88
()
Senil., lib. XV, ep. 7.
89
()
Epist. ad Post.
90
()
Famil., lib. II, ep. 16, 17.
91
()
Sismondi, Hist. des Rép. Ital., vol. V, pag. 300.
92
()
Plura advenæ præstitit Aretium, quam Florentia civi suo. Senil., lib. XIII, ep. 2.
93
()
Mehus, Vita Ambr. Camald., pag. 223. Matteo Villani, Stor. Fiorent., lib. X
d'occidente, gl'interessi di tutti i principi cedevano tosto a questo illusorio disegno, ch'egli accarezzò
fino all'ultimo fiato. Scrivendo agli amici, a' papi e cardinali, agl'imperatori e alle genti d'Italia sopra
tale argomento, l'anima generosa del Petrarca dilatasi in magnanimi sensi e dà i più be' saggi di un
genio, che, sebbene piegato da amore alla poesia, diresti più specialmente creato da natura alla
grandiloquenza di sommo oratore.
V. Le sue tre politiche canzoni, squisite come sono in fatto di versificazione e di stile, non
spirano quell'entusiasmo che attuò Pindaro a versare tutta quella piena d'immagini, tutti que' tesori
di storico ammaestramento e di verità morali, che illustrano ed esaltano i suoi concenti. Pure il
vigore, la collocazione, e la perspicuità delle idee in queste canzoni del Petrarca; — il tono di
convinzione e di melanconia onde il cittadino sgrida la patria e piange sovr'essa, colpiscono il cuore
con tal forza, che supplisce al difetto di grandi ed esuberanti immagini, e a quell'impeto irresistibile
che è più proprio dell'ode. Da lunghe e tuttavia incessanti discordie civili esausta, declinava già
l'Italia a rovinare in quello stato d'inerzia e di servaggio, dal quale non si rialzò mai più.
Che s'aspetti non so nè che s'agogni
Italia, che suoi guai non par che senta;
Vecchia, ozïosa, e lenta
Dormirà sempre e non fia chi la svegli?
Le man l'avess' io avvolte entro i capegli!
«Non veggo scampo che nella unione di que' pochi alti spiriti, che amano la patria.»
Fra magnanimi pochi a chi 'l ben piace
I' vo gridando: pace, pace, pace. —
Ma indarno. I rancori di una divisa nazione non possono spegnersi che da un conquistatore, e
nondimeno la conquista può solo serbarsi col tenerli vivi. Se i consigli del Petrarca non riuscirono a
buon fine, non però cadde l'animo al generoso, e gli andò ripetendo in ogni guisa, giovandosi
perfino dell'adulazione a temperare l'asprezza de' suoi veri. Tuttavia, se non fosse stato protetto da
grande popolarità, il Petrarca di certo sarebbe incorso nel pericolo che sovrasta a' profeti inermi.
Lapidato non fu mai, ma talvolta fu deriso. Il doge Andrea Dandolo, antichissimo storico e
ambiziosissimo guerriero di Venezia, e uno ad un tempo de' più devoti ammiratori del Petrarca, gli
scrisse — «Amico mio, spiegaci come va, che un uomo, cui Dio ha fatto dono dell'eloquenza e della
saviezza ad additare altrui le vie del bene, vada ad ognora tramutandosi di luogo a luogo? Questi
tramutamenti di dimora hanno a tornare in danno degli studi tuoi. Noi ti ringraziamo delle tue
esortazioni a fermar pace co' Genovesi; ma ci è forza combattere. Se la nostra risposta alla tua
elaborata lettera ti paresse corta, ascrivilo a' termini in che ci troviamo, i quali vogliono da noi fatti,
non parole».
(
94
)
VI. L'odio del Petrarca contra i Francesi, da lui chiamati «pazzi snervati,» e contra i
Tedeschi, da lui riputati «schiavi brutali,»
(
95
)
ebbe ad esasperarsi allorchè le truppe che sotto
Eduardo III d'Inghilterra avevano menato tanto guasto per Francia, trassero al soldo degli Stati
italiani. Da indi non cessò di predicare la crociata contra tutti gli strani.
Virtù contra furore
Prenderà l'arme; e fia 'l combatter corto:
Chè l'antico valore
Nell'italici cor non è ancor morto.
La speranza di svolgere i principi d'Italia dal persistere nelle lor mutue stragi e rovine,
inspirò al Petrarca la canzone:
Italia mia, benchè 'l parlar sia indarno
94
()
Variarum, ep. 5.
95
()
Epist. sine titulo, 15.
Alle piaghe mortali
Che nel bel corpo tuo sì spesse veggio.
Ben provvide Natura al nostro stato
Quando dell'Alpi schermo
Pose fra noi e la tedesca rabbia.
Tutti i susseguenti poeti italiani si recarono a debito uffizio di opporre lamenti ed imprecazioni al
marciare di eserciti stranieri. Ma quando il Petrarca scaltriva l'Italia della sua rovina, non era troppo
tardi per allontanarla. I suoi principi avevano appena cominciato a tirarsi in seno quali alleate quelle
genti strane che vi rimasero da padroni.
Voi cui fortuna ha posto in mano il freno
Delle belle contrade,
Di che nulla pietà par che vi stringa,
Che fan qui tante pellegrine spade?
Perchè 'l verde terreno
Del barbarico sangue si dipinga?
Vano error vi lusinga;
Poco vedete, e parvi veder molto;
Che 'n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
Colui è più da' suoi nemici avvolto.
O diluvio raccolto
Di che deserti strani
Per inondar i nostri dolci campi!
Se dalle proprie mani
Questo n'avvien, or chi fia che ne scampi?
VII. Il rammarico di non essere nato fra gli antichi fu cagione dell'incessante suo studio negli
scrittori di que' tempi, «fermo com'egli era di vivere con essi, se non altrimenti, col pensiero, per
istaccarsi più effettualmente dalla generazione contemporanea.»
(
96
)
Parecchie delle sue lettere sono
indiritte ad Omero, a Cicerone, a Varrone e ad altri uomini solennissimi dell'antichità, come se
fossero ancor vivi;
(
97
)
ed ogni volta ch'egli scrive a Lodovico, a Francesco, o a Lello di Stefano,
intrinseci suoi, o ne fa motto, non dimentica pur mai di chiamarli Socrate, Simonide, e Lelio. È
probabile che per sè stesso avrebbe adottato il nome di qualche illustre antico, se alla cupidità
dell'ammirazione del mondo non avesse congiunto il timore di venirne deriso. Però stette contento
ad alterare il patronimico Pietro, pronunziato idiomaticamente Petracco e Petraccolo nel sonoro di
Petrarcha. Quando Cola di Rienzo sollevò il popolo di Roma, e prese il titolo di Niccola il Severo e
il Clemente, il Tribuno di Libertà Pace e Giustizia, l'illustre Liberatore della Santa Romana
Repubblica, e citò re a dar conto della condotta loro innanzi a suo tribunale, il Petrarca gli porse le
sue lodi e i suoi consigli.
(
98
)
Pochi mesi dopo gli toccò la mortificazione di udire che il suo eroe,
spenti alcuni nobili ed affamata la plebe, erasi fuggito di Roma come un codardo e un traditore.
Capitò la novella al Petrarca mentr'era in cammino verso l'Italia; e nella lettera che scrisse in tale
incontro, spicca l'affetto suo verso la patria maggiormente che la saviezza: «La lettera del Tribuno
mi giunse come un fulmine. Da qualunque banda mi volti, veggo ragioni da disperare. — Roma
fatta in brani — Italia devastata — che sarà di me in questa pubblica calamità? Dieno altri le
ricchezze, il potere, i consigli loro; io per me non posso dare che lagrime.»
(
99
)
Chi avvisa che i
96
()
Incubui unice ad notitiam vetustatis, quoniam mihi semper ætas ista displicuit, ut qualibet ætate natum
esse semper optaverim; et hanc oblivisci nisus. animo me aliis semper inserere. Ad Post.
97
()
Epistolæ ad Viros Illustres.
98
()
Vedi, tra l'altre, una lunga lettera al Di Rienzo: fac. 535 dell'edizione di Basilea: — e fra' suoi versi latini:
Eglog. 5.
99
()
Famil., lib. VII, ep. 5, ad Lelium.
politici sentimenti dovrebbero rimanere soffocati dalla personale gratitudine, troverà più occasioni
di condannare il Petrarca, nel quale, non appena poteva egli sperare di far Roma metropoli
dell'universo, tutti gli affetti dell'anima erano assorti nell'entusiasmo di patria. Egli sostenne
l'impresa di Cola di Rienzo e la difese a viso aperto, quantunque la parte di lui avesse morto un
figliuolo ed un nipote di Stefano Colonna. «I Colonna » egli scrive, «mi sono più cari della vita; ma
Roma mi è vie più cara.»
(
100
)
VIII. Ciò che è più fuori dell'usato e più difficile a spiegarsi nel carattere del Petrarca è
quell'ascendente ch'egli ebbe sopra i grandi. Cagion forse ne fu, che sebbene de' beneficii ricevuti
sentisse profonda la gratitudine e con effusione di cuore la manifestasse, non s'avvilì però mai ad
adulare, qual uomo che miri a conseguirne de' nuovi. Spesse fiate, e quando mancava ancora di agi
o di fama, rivolse avvisi e rimproveri severi a' suoi benefattori, persone per età e per grado
venerande.
(
101
)
Durante il favore che i Visconti, potentissimi e crudelissimi despoti in Italia,
impartirono al Petrarca, il contegno di lui fu di consigliere integro piuttosto che di cortigiano; e
l'università di Pavia venne da Galeazzo fondata nel tempo appunto di questa sua pratica col
Petrarca. Ma sebbene si possa scorgere ad ogni tratto com'egli molto si compiacesse d'avere ad
amici personaggi illustri, pure tutta la vita di lui fa fede di quanto afferma egli stesso, «che se i
grandi bramavano la sua compagnia, aveano ad acconciarsi all'umor suo.»
(
102
)
Nondimeno, se di rado
consentì ne' loro politici divisamenti, retribuì sempre le liberalità loro con durevole affetto. Infinite
furono le cortesie ch'ei ricevette da' Correggeschi; ma questi principi reggevano lo Stato con
improvvidi consigli e perniciosi ai soggetti; laonde il Petrarca rimase colà alcun tempo perplesso fra
l'incanto degli onori, e l'apprensione che non gli venissero impartiti al tutto gratuiti. Ritirossi
pertanto, col proponimento di finire il suo poema dell'Affrica, ad una casetta in Parma di sito
tranquillo, che in processo di tempo comperò.
(
103
)
Non andò guari che Azzo da Correggio, perduto lo
Stato, e ridotto a vivere tra durissime calamità, videsi ora tapino in esilio, ora chiuso in carcere, e
sempre minacciato da sovrastante pericolo; nè Francesco si rimosse punto dall'amistà sua per esso,
che mantenne fino all'ultimo, anzi gli andò scrivendo con più rispetto, che non soleva con principi
in miglior fortuna; e appunto a conforto di lui compose il trattato: De remedio utriusque fortunæ.
Roberto re di Napoli lo avea richiesto che gli dedicasse l'Affrica, ma poco stante uscì di vita; e,
benchè più altri principi ambissero un tal contrassegno d'onore, pure, seguíta la morte del Petrarca,
fu trovato il manuscritto col titolo ai mani di Roberto.
IX. Trascorsa buona pezza di tempo, la sola chiarezza di sua fama conciliò
al Petrarca l'amicizia di Jacopo II da Carrara. «Davvero» dic'egli, «io non so
chi fra' principi del suo tempo gli fosse uguale: e piglierei a sostenere che
non vi fu. Durò pel corso di tant'anni a sollecitare l'amistà mia,
spacciandomi corrieri e oltr'Alpi e in Italia, e, in breve, dovunque potessi
essere trovato; che, sebbene poco mi aspetti da' grandi della terra, pure
deliberai di fargli una visita. Io era curioso di scoprire l'intento di tali
cortesie da un uomo del poter suo verso un privato, col quale non aveva
personale conoscenza. Tale fu la cagione della mia andata a Padova. Quel
grand'uomo, che lasciò tante splendide memorie di sè, m'accolse in guisa
che meglio si addirebbe al modo onde ci raffiguriamo accogliersi i beati in
Paradiso, che al ricevimento di un commortale. Com'ei riseppe ch'io m'era
dalla giovinezza dedicato alla Chiesa, mi fece eleggere canonico di Padova,
con la mira di conciliare il mio attaccamento alla sua persona e al paese. E
in fatti, se morte non m'invidia tal patrocinio, io poteva nella tranquillità di
quell'asilo aver trovato il termine d'ogni mia terrestre tribolazione. Ma oimè!
nulla v'ha di certo quaggiù! E il momento in che ci crediamo più sicuri da'
colpi della fortuna, può essere appunto il più fecondo delle sue più aspre
percosse. Due anni non erano trascorsi ch'io me ne viveva in Padova,
allorchè l'Onnipotente, citando il mio protettore al suo cospetto, tolse a me,
100
()
Nulla toto orbe familia carior: carior tamen Roma. Famil., lib. XI, ep. 16.
101
()
Famil., lib. II, ep. 5, 6, 7, et 8.
102
()
Senil., lib. II, ep. 2.
103
()
Epist. ad Poster.
alla patria, e, posso aggiugnere, al mondo intero un benefattore, del quale
io, la patria, né, per vero dire, il mondo intero eravamo degni. In questo
solo giudizio io sento almeno che non posso errare. A lui succedette il
figliuolo, principe di non comune prudenza, e assai caro a' sudditi. Redate le
egregie doti del padre, continuò ad onorarmi d'ugual favore e riguardo. Ma
fra noi una condizione essenziale dell'amicizia mancava dico la
somiglianza d'età. Dopo l'acerba perdita da me sofferta, feci di nuovo ritorno
alle Gallie, dubbioso dove avrei poscia fermato i passi.»
(
104
)
X. Natura aveva imposta al Petrarca tanta necessità di scambievoli affetti, che non apparì
felice se non quando amava ed era riamato. L'affetto, agli occhi suoi adeguava ogni disuguaglianza
d'educazione e di fortuna: e, con tutto il suo struggersi per la solitudine, era solus sibi; totus
omnibus; omnium locorum, omnium horarum, omnium fortunarum, omnium mortalium homo.
Discorrendo del contadino e della moglie di lui, che gli stavano a' servigi in Valchiusa, adopera le
parole stesse usate a ricordar le buone doti de' suoi potenti amici. «Egli era mio consigliere, e
depositario di tutti i miei più segreti disegni; e più penosamente ne avrei deplorato la perdita, se la
grave età di lui non m'avesse ammonito, ch'io non potea ripromettermi di godere a lungo d'un tale
compagno. In lui mi è tolto non pure un servidore di tutta dimestichezza, ma un tenero padre, in
seno al quale versai per questi quindici anni tutti gli affanni miei; e l'umile sua capanna erami come
tempio. Mi lavorava poche zolle di terra non molto fertile. Non sapeva leggere; pure erami anche in
luogo di bibliotecario. Con vigile e attento occhio custodivami le copie più rare ed antiche, le quali
per lungo uso s'addestrò a distinguere dalle più moderne, e da quelle ch'io stesso aveva composte.
Ogni volta ch'io gli consegnava un volume da riporre, appariva in lui un trasporto di gioja: se lo
pigliava e lo premeva al petto, mettendo sospiri di contentezza; e con grande riverenza ripeteva il
nome dell'autore, quasi ricevuto avesse una giunta di dottrina e di felicità dalla vista e dal tocco di
un libro.
(
105
)
La faccia di sua moglie era abbronzata dal sole, e il corpo estenuato dalla fatica; ma
l'animo era pieno di candore e di liberale natura. Sotto l'infocato raggio della canicola, e fra la neve
e le piogge, da mane a sera stava ne' campi, e il più della notte anco spendeva in lavori, poca assai
concedendone al sonno. Ad essa letto, poca paglia; cibo, negro pane, sovente pieno di sabbia; e
bevanda, acqua mista d'aceto; pure non parve mai stanca o afflitta, non mostrò mai desiderio di vita
men dura nè mai fu udita querelarsi dell'acerbità del destino e degli uomini.»
(
106
)
XI. Per tale ingenita benevolenza il Petrarca parve più che altri scevro da
quel sentimento, che internamente umilia (se non sempre, almeno in qualche
momento della loro vita) quasi tutti i letterati. La mistica tradizione di
Apollo che scortica l'emulo suo è riferita da un greco antiquario con fatte
lodi della musicale maestria di Marsia, e con tali imputazioni della
mariuoleria e della crudeltà del dio della poesia,
(
107
)
da farla credere allegoria
non tanto del gastigo meritato dall'ignoranza presuntuosa, quanto della
vendicativa gelosia de' dotti. Le proteste che il Petrarca mescola alle
confessioni degli altri difetti suoi, e che ripete in vecchiezza; «come l'invidia
non trovasse mai luogo nel suo cuore;»
(
108
)
muovono da una di quelle
innumerevoli illusioni, che ci fanno gabbo precisamente quando ci diamo a
credere che il cuore nulla possa celare in noi alla nostra penetrazione.
L'invidia si rimase in lui dormigliosa, perchè nessuno di quanti stavangli
intorno sovrastava di tanto da risvegliarla. Rado peraltro proferì il nome di
Dante e affettò di non mai leggerne le opere; e s'ei non può sempre cansarsi
dal parlare del suo predecessore, ne parla per ricordarne meno i pregi che i
difetti.
(
109
)
Le opposte vie per cui natura, educazione, tempi e accidenti di
104
()
Epist. ad Post.
105
()
Famil., lib. VI, ep. 1.
106
()
Famil., lib. III, ep. 28; lib. IX, ep. 2.
107
()
Diodorus Siculus, lib. III. § 59.
108
()
De secreto confl., coll. 2, an. 1343. Senil., lib. XIII, ep. 7, an. 1372.
109
()
Rerum Memor., lib. III, cap. IV. L'Autore di questi Saggi ammira e fa ammirare a'
lettori la elevazione di alcuni pensieri del Petrarca, ma sembra tuttavia non avvertire
fortuna guidarono questi due uomini ad immortalità, saranno rintracciate nel
Saggio seguente. Di fronte a' contemporanei, il Petrarca si le tant'alto
sopra la gelosia stessa, che sovente s'interpose ad estinguerla fra di essi. Ma
qualunque volta l'interporsi tornava indarno, se ne doleva come di calamità
immeritata; alla quale pur si esponeva, per ambizione forse di far mostra
dell'autorità sua. A tal parte del suo carattere par ch'egli alluda in versi
suggeritigli senz'altro dalla sua sperienza.
La lunga vita e la sua larga vena
D'ingegno pose in accordar le parti
Che 'l furor litterato a guerra mena.
Nè 'l poteo far: chè come crebber l'arti,
Crebbe l'invidia; e col sapere insieme
Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti.
abbastanza come essa abbia radice in una squisita sensibilità, e in un profondo sentimento
religioso. Sembra commiserare il Petrarca di essersi abbandonato soverchiamente a tali
sentimenti. In più luoghi l'Autore giudica duramente della tenerezza del Poeta, e trascorre
anche ad accusarlo d'invidia verso Dante. Il traduttore, non volendo rappiccar note ad ogni
luogo ove dissenta dal testo, non crede domandar troppo a' lettori, pregandoli a non
iscambiare la fedeltà con l'assentimento, e a rimanersi paghi di questa sola nota. Per toccare
alquanto più largamente dell'ultima e più grave accusa, diremo:
L'abate De Sade fece conoscere la lettera del Petrarca al Boccaccio, sepolta prima nell'edizione di Ginevra e
non avvertita. Il Tiraboschi nella prima edizione della sua Storia impugnò l'autenticità della lettera, e la verità di più
cose in essa contenute. Nelle note alla seconda edizione, dalle nuove ragioni addotte dal De Sade nella sua Risposta,
ch'egli ottenne manoscritta, e ch'è tuttavia inedita, costretto a disdire le più delle sue obbiezioni, non cessa però dalle
sofisticherie. Ora nella lettera il Petrarca si duole dell'accusa, che il volgo gli dava, d'invidiar Dante. Parve al De Sade
che ciò facesse in guisa da confermare piuttosto che distruggere quell'opinione: ma il De Sade non fa che esporre un
dubbio. L'autore di questi Saggi, uscendo dal campo ampio e lubrico de' sospetti, li converte in esplicita e formale
accusa, fondandola egli pure nelle ambagi della difesa; e aggiugne: «che il Petrarca affettò di non leggere mai le opere di
Dante»: ma perchè dissimularne la cagione, espressa nella stessa lettera del Petrarca? Il Petrarca dice dunque, che non le
leggeva, non perchè non le avesse in sommo pregio, ma perchè, datosi egli pure alla poesia volgare, temeva di essere
tratto a ricalcarne le orme, ed era ben risoluto di stamparne di proprie; quella cagione, che fece abbandonare all'Alfieri
la lettura di Shakespeare. Che se più innanzi, nel Parallelo fra Dante e Petrarca, il Foscolo reca altre parole di essa
lettera, con le quali il Petrarca dà nota di ruvido allo stile di Dante, in ciò si vuol ravvisare non l'invidia, ma il gusto e il
giudizio del Petrarca, gusto e giudizio comuni a tant'altri allora e poi. In quel Parallelo vedremo come, nel secolo di
Leon X, proclamato il Petrarca superiore a Dante, e rimasa la sentenza in vigore fino a' di nostri, ciò venga dall'Autore
attribuito al preferirsi allora l'eleganza del gusto agli ardimenti del genio. Ora quant'egli dice dell'universale — e con
verità, ci pare — perchè non potrà dirsi di un solo,... del Petrarca, ad esempio? Era egli l'eleganza in persona; e per ciò
stesso o per altro, la teneva forse, comparativamente ad altre doti o possedute o richieste da uno scrittore, in soverchio
pregio. Oggidì, che la venerazione a Dante salì a superstizione, a vera Dantelatria, i giudizi che ne vanno scevri riescono
incomportabili. Il solo che a buon dritto dovrebbe riuscir tale, perchè negazione del nome di poeta a Dante, è il verso
Fiorenza avria fors'oggi il suo poeta,
che allude non a Dante, ma al Petrarca che lo scriveva in quel sonetto, dal quale s'avrebbe a inferire, che, mentre Arunca
del suo Lucilio può inorgoglire, a Firenze manchi il suo poeta. Che un tal verso dal nostro punto di vista ci muova a
dispetto, chi vorrà negarlo? Eppure l'autore de' Saggi, se anche non avesse passato in silenzio questo, che è il vero torto
fatto dal Petrarca a Dante, e non in lettere latine e confidenziali poco lette, ma nelle Rime, che tutti leggono, l'unico torto
che valga a provocare doglianze legittime, ce ne porgerebbe pur sempre egli stesso la scusa, o piuttosto la spiegazione,
senza punto ricorrere a sentimenti bassi. In fatti, e qui e dove verrà a raffrontarli, non parla egli della discrepanza
assoluta di genio, di gusto e di studi tra i due grand'uomini? Rechiamci col pensiero a' dì del Petrarca, e troveremo la
Divina Commedia mancante ancora di quella fama universale, che è agli occupatissimi necessaria per determinarli a
serie e lunghe letture, e tali da equivalere a uno studio, e sole bastanti a ben giudicarne. Quindi il non leggersi il poema
di Dante non era allora tal cosa da farne ora stupore... Erane la fama nascente, gli esemplari non comuni, sicchè il
Boccaccio, tra' primi a predicarlo e primo a spiegarlo da una cattedra, volendo indurre l'amico a leggerlo, dovette
mandarglielo. Di qui quella fama cominciò a mettere le radici, ma passò lungo tempo prima che fosse ben radicata.
Conchiudiamo, che l'attenzione del Petrarca volgevasi tutta alla ricerca di codici antichi, e molti infatti ne scoprì; ch'egli
sovra tutti cercava poeti fatti sacri non solo dal lauro ma da' secoli: che sì fatta consecrazione a Dante, che l'ha oggidì,
allora mancava; che il non leggerne le opere, oltre la ragione sovra esposta, il timore cioè di divenirne servile imitatore,
non era lo scandalo che oggi pare o sarebbe; che quindi l'accusa d'invidia data al Petrarca manca di solido fondamento,
ov'anche se ne allegasse la prova più forte e più pubblica, trasandata ne' Saggi; però che del suo dire e del suo tacere
intorno a Dante si hanno motivi più veri e più onesti. [T.]
Trionfo della Fama, cap. III.
Benchè la vanità si facesse paga a scapito della pace, entrava egli di mezzo alle quistioni
letterarie, trattovi dal generoso principio: «che coloro i quali ardono di carità patria, sendo
essenzialmente virtuosi, sono da natura conformati a stringersi d'indissolubile amicizia.»
(
110
)
Ma
sublimi massime, bandite fra gente per cui sono impraticabili, provocano inevitabilmente le risa; e il
Petrarca, col riprendere chi rideva de' suoi avvisi, venne in qualche maniera a render giusta la baja
che si voleva di lui. Una adunanza di giovani in Venezia gl'intentò un processo formale per essersi
arrogato giurisdizione illegale sopra tutte le quistioni di dottrina. Elessero dal proprio seno avvocati,
e, ascoltate le accuse e le difese, sentenziarono come il solo delitto del Petrarca consitesse
nell'essere lui una buona pasta d'uomo. Di sì fatta commedia non fu chi, salvo il Petrarca, pigliasse
seria contezza. A rispignere la insinuazione, compose egli un grosso libro, che effettivamente forzò
i posteri a farsi compagni nel bell'umore de' suoi accusatori.
(
111
)
XII. Immaginando che gli uomini men contra lui, che contra saviezza e virtù cospirassero,
l'indole sua ne contrasse un'ombra di misantropia a lui per nessun modo naturale. Quanti gli si
avvicinavano più dappresso scorgevano in lui più timore e pietà dell'uomo, che odio e spregio.
Infatti la propensione a farsi utile altrui, benchè tropp'alto professata, nacque seco, e, invece di
allentare per vecchiaja, che suol essere tutta di sè, crebbe in fervore che solo cessò colla vita. Ad un
amico perseguitato così scriveva: «A te sta lo scegliere; o riparerai all'asilo che il mio tetto ti apre, o
mi forzerai ad accorrere in Francia per proteggerti.»
(
112
)
Le avversità che ne flagellano negli anni più
verdi, sogliono incallire le anime tutte di sè; ma, quanto al Petrarca, ne educarono il generoso petto
a patire de' patimenti altrui; e trascurando — come quanti si pascono meramente de' propri
sentimenti e delle intellettuali facoltà — le cure richieste all'acquisto e alla conservazione delle
ricchezze,
(
113
)
nella baldanza della gioventù fu tratto a dar fondo in altrui vantaggio a quasi tutta la
scarsa eredità venutagli da' parenti morti in esilio. Ne diè porzione in dote alla sorella, che si maritò
a Firenze,
(
114
)
il restante partì tra due vecchi e benemeriti amici, che n'erano in gran bisogno.
(
115
)
Prestò pure alcuni classici manuscritti, ch'ei chiamava i suoi unici tesori, al suo vecchio maestro,
affinch'egli potesse impegnarli: per tal modo ebbero a perdersi irreparabilmente i libri De Gloria di
Cicerone.
(
116
)
Se i regali suoi venivano scansati, con appiccarvi alcuni versi costringeva gli amici ad
accettarli; e le sue poesie italiane distribuiva tra rimatori e canterini di ballate, in guisa di limosina.
(
117
)
Come inoltrò negli anni, «il sovrano disprezzo delle ricchezze,» che continuò a professare,
(
118
)
divenne più apparente che reale, in ispecie verso il finire di sua carriera:
(
119
)
pure non dimenticò mai
chi a lui si rivolgeva per ajuto, che prestò sempre con cortesia. Fra molti legati del suo testamento
lasciò ad uno degli amici il suo liuto, affinchè potesse cantare le lodi dell'Onnipossente, — a un
altro una somma di danaro, scongiurandolo di non la sprecare, al solito, nel giuoco, — al suo
amanuense una tazza d'argento, raccomandandogli di colmarla piuttosto d'acqua che di vino, — e al
Boccaccio una pelliccia d'inverno pe' suoi studi notturni. Nè aspettò già che la morte lo forzasse a
largheggiare. — «Davvero,» scrive al Boccaccio, «non so che cosa v'intendiate, rispondendo che mi
siete debitore di danaro. Oh! se mi fosse possibile d'arricchirvi! ma a due amici, qual siamo, in
un'anima sola, una casa è bastante.»
(
120
)
110
()
Inter bonos amor communis patriæ potens valde est, sicut inter malos odium. Senil., lib. XV, ep. 6.
111
()
De sua ips. et al. ignorantia.
112
()
Famil., lib. XII, ep. 9.
113
()
Non quod divitias non optarem, sed labores curasque oderam, opum comites inseparabiles. Ep. ad Post.
114
()
Leonardo Aretino. Vit. Petr. Da un documento ultimamente scoperto in Firenze appare, che la dote della
sorella del Petrarca consistesse in 35 fiorini d'oro.
115
()
Hujus haereditatis duas partes — inter duos veteres et benemeritos amicos partitus sum. Famil., lib. XV,
ep. 5.
116
()
Senil., lib. XVI, ep. 1.
117
()
Senil., lib. V, ep. 3.
118
()
Divitiarum contemptor eximius. Epist. ad Post. Senil, lib. III, ep. 2.
119
()
Variarum, ep. 43, an. 1371.
120
()
Senil., lib. VII, ep. 5.
XIII. Tali offerte provennero altresì dalla vita solitaria, in che il Petrarca
traeva i più de' suoi giorni. Padre qual era di prole illegittima, fu astretto a
por modo agli affetti domestici, che soli potevano consolare l'ardente suo
cuore. Il figliuolo, o pel suo mal talento, o per l'eccessiva paterna ansietà
della sua futura elevazione, gli fu sorgente di tribolazioni e di vergogna;
(
121
)
e
ad accennarlo non usa mai altro nome che il giovane; così che, se non
era la scoperta fatta non è gran tempo dal De Sade di una bolla di Clemente
VI, che lo legittimò, nessuno, compreso il Tiraboschi, avrebbe indovinato,
lui essere figliuolo del Petrarca.
(
122
)
Fatto canonico in Verona, allorchè morì,
suo padre ricordò il caso nella stessa copia di Virgilio, dove aveva inserito la
memoria della morte di Laura: «Colui che nacque al mio travaglio ed
affanno, che vivendo mi fu cagione di gravi e infinite cure, e morendo mi
aprì una ferita nel cuore, goduti pochi giorni lieti, si partì dal mondo nel
vigesimo quinto anno d'età.»
(
123
)
Più il Petrarca invecchiava, e più si sentiva
desolato, e più sospirava «quel giovane,» che vivo odiò a parole, ma dal
quale morto non sapeva staccare i suoi pensieri che a lui sempre con
tenerezza tornavano; lo accarezzava in suo cuore; la memoria di lui gli stava
continuamente fitta nell'animo; e gli occhi suoi lo cercavano per ogni dove.
(
124
)
Andò men rattenuto nel parlare della figlia, cui avea posto più affetto,
perchè gli rassomigliava nelle fattezze e nell'indole: pure v'ha ragione di
credere, ch'ella non gli ponesse piede in casa finchè non fu maritata, — e nel
testamento fa ad essa la seguente indiretta allusione, e non altro: «Prego
Francesco di Brossano (era questi marito della figliuola) non solo quale
erede, ma qual carissimo figliuol mio, a dividere il danaro ch'ei potrà trovare
alla mia morte in due parti; una serberà per sè, e darà l'altra a chi ben
sa.»
(
125
)
XIV. Mentr'ei sospirava di aver sempre alcuno presso di sè che lo potesse amare, gli toccò
intanto di vivere assai spesso tutto solo, temendo non forse l'usar troppo colle persone a lui più care
potesse dargli cagione di diffidarne. E appunto coll'aprire il suo cuore e la borsa più di frequente che
la porta, si vanta, e a ragione, «che nessuno fu più devoto agli amici, e ch'ei non ebbe mai a perderne
alcuno.»
(
126
)
Anche nella prima gioventù, quando il cuore è più confidente, e mentr'ei bramava in
effetto di vivere con quelli, ebbe sempre paura di scoprirne i difetti. «Nulla,» dic'egli, «è sì tedioso,
come il conversare con chi non abbia la « tua stessa istruzione.»
(
127
)
Ma se un tratto si sentiva
disposto a mettersi in compagnia, conversava affatto alla libera. «Se agli amici,» dic'egli, «sembro
un ciarliero dirotto, ciò avviene perchè, vedendoli raramente, ciancio allora tanto in un giorno da
rifarmi del silenzio di un anno. Pare a molti di essi ch'io mi spieghi in modo chiaro e robusto; ma a
me il parlar mio riesce debole e oscuro, perchè non seppi mai impormi il carico di spiegare
eloquenza in conversazione. Mai non fui vago di pranzi, e sempre tenni per molesto al pari che
inutile l'invitare o l'essere invitato; non havvi cosa però che più mi ricrei del vedermi alcuno cascare
addosso nell'ora della mensa, nè mangio mai solo, se posso meco aver altri.»
(
128
)
Per tutta la vita si
piacque di rigida temperanza, costume contratto fin dall'infanzia: raramente faceva più di un pasto
al dì; il vino spiacevagli; cibava più ch'altro vegetabili, e spesso, in tempi di divozione e di digiuno,
pane e acqua erano tutto il suo desinare. Come crebbe in agi, aumentò il numero de' servi e dei
121
()
Unicus vitae labor, unicus dolor, unicus pudor est. Famil., lib. XXIII, ep. 12.
122
()
Regest. Clem. VI, vol. XLV, fac. 200.
123
()
Homo natus ad laborem, ac dolorem meum, qui et vivens gravibus me curis exercuit, et acri dolore
moriens vulneravit, cum paucos laetos dies vidisset in vita sua, obiit anno Domini 1361, aet. suae XXV.
124
()
Quem viventem verbo oderam, defunctum mente diligo, corde teneo complectorque memoria, quaero
oculis. Senil, lib. I, ep. 2.
125
()
Et ipsum rogo non solum ut haeredem, sed ut filium carissimum, ut pecuniam dividat in duas partes; et
unam sibi habeat, et alteram numeret cui scit me velle. Testam. Petr.
126
()
Epist. ad Post.
127
()
Famil., lib. X, ep. 15 et 16.
128
()
Epist. ad Post.
copisti, co' quali n'andava sempre di conserva ne' viaggi, e nutricò più cavalli per trasportare i suoi
libri. Dodici anni prima della sua morte donò la sua ricca raccolta di antichi manuscritti al senato
veneto, e così divenne il fondatore della libreria di S. Marco. Chiese e ottenne, in via di
rimunerazione, casa in Venezia.
(
129
)
L'unica debolezza, contratta dall'acquisto di beni di fortuna, fu il
vantarsi un po' troppo del buon uso che di essi faceva.
XV. Possedendo casa in ogni paese quasi ove teneva benefizio ecclesiastico, il Petrarca visse
come non avesse casa affatto, e sempre sospirando l'eremo di Valchiusa. Avea colà soggiornato, con
poche interruzioni, dieci anni mentre Laura viveva, e spesso vi tornò dopo morta. «Io mi era
proposto di non più ritornarvi, ma i desiderii soverchiarono in me la risoluzione, e nulla più in
difesa dell'incostanza mia posso addurre, che il sentito bisogno della solitudine. In patria sono
conosciuto e corteggiato troppo, e troppo altamente vantato. Son rifinito da queste adulazioni; e
quel luogo mi si fa più caro, dove posso vivere a me solo, lungi dal volgo, nè intronato dalla tromba
della fama. L'abito, nostra seconda natura, ha fatto di Valchiusa la vera mia patria.»
(
130
)
L'ultima
volta egli vi stette due anni: — «Eccomi di nuovo in Francia, non per veder cose mille volte già
viste, ma per riavermi dalla stanchezza e sgombrare dall'animo la inquietudine, come cercano
gl'infermi mutando fianco.
(
131
)
— Così non ho luogo nè dove rimanermi, nè dove andare. Sono
stracco di vivere, e, qualunque strada io prenda, la trovo sparsa di selci e di spine. Il porto ch'io
cerco, sulla terra da vero non si dà. Oh! fosse arrivato il punto di andarmene in traccia di mondo ben
diverso da questo, dove mi sento tanto infelice! — infelice forse per colpa mia; forse per colpa degli
uomini; o fors'anche colpa solo del secolo nel quale fui sortito a vivere. E può darsi ancora non sia
colpa d'alcuno; tuttavia sono infelice.»
(
132
)
Ad ogni sospetto di turbolenze, di guerra, o di morbo
epidemico, si sforza di giustificare il mutar che faceva di stanza. — «Non già per fuggir morte vado
io così errando sopra la terra, ma per cercarvi, se v'ha, angolo ove possa trovar requie.»
(
133
)
Dall'avversione alla medicina, ch'ei deride con meno apatia che non fa Montaigne, e con più scarsa
vena di sali che non fa Molière, ma con animo più concitato e più pienamente convinto d'entrambi,
(
134
)
si fa chiaro non aver lui avuto pusillanime attaccamento alla vita. Ma quand'ei querelavasi di
non poter morire in pace, perchè gli uomini correvangli dietro, avrebbe dovuto sapere, che il
lasciare d'ora in ora un paese, e d'ora in ora tornarvi, non è miglior modo di frenare la curiosità, e
che un autore può solo sperare di viver tranquillo allorchè nulla degli altri dice, e pochissimo di sè.
Cercato ho sempre solitaria vita
129
()
Consultando il Tomasini, ch'ebbe nota di questi codici e li enumerò a carte 85 del suo Petrarcha
redivivus, e leggendo la dissertazione storica dell'Abate Morelli, intitolata Della libreria di San Marco, si scorge come il
dono si riducesse a pochissimi e poco importanti libri. Pare che i procuratori della basilica li riponessero, appena
arrivati, in piccola stanza contigua al pronao di quella, ove serbavansi altre antiche carte. A ciò s'indussero anche perchè
il Petrarca nella cedola di oblazione erasi espresso, ch'egli ne voleva erede San Marco. Rimasero colà, non senza
qualche guasto, dal 1362 fino al 1739: cioè poco meno di quattro secoli dopo il dono, e oltre a due secoli dopo che la
biblioteca fu fabbricata ed aperta. Ciò che fece determinare la Repubblica all'inalzamento di quell'edifizio fu un dono
magnifico, pe' codici greci prezioso, del cardinal Bessarione; laonde, senza togliere al Petrarca il merito nè della
priorità, nè della probabilità di più larghe intenzioni, delle quali or ora si farà cenno, il fondatore effettivo della
Marciana fu il cardinal Bessarione. Il Petrarca si fece lecito — sono parole del Morelli — di chiedere una casa per sua
abitazione, dove pure i libri fossero riposti. Era forse degno sì della liberalità e sì della politica della Repubblica
l'aderire pienamente a quella domanda. Non saprei dubitare, che il Petrarca ciò solo aspettasse per far dono della
collezione intera. In tale ipotesi, la prima biblioteca d'Europa avrebbe avuto primordii anche più antichi ed illustri, e a
primo bibliotecario il Petrarca. Ad ogni modo la Repubblica assegnò al Petrarca il palazzo delle due torri, spettante
allora ad Arrigo Molino, e convertito poi nel monastero di San Sepolcro, che ora avrà subìto nuove vicende. Anche i
codici del Bessarione si rimasero troppo lungamente infruttuosi: prima stettero chiusi nelle casse, nelle quali erano
sbarcati; poi ne furono messi in mostra i titoli, levando l'asse che ne copriva i dossi; finalmente, scassati appena,
secondo l'uso d'allora, vennero incatenati. Della libreria del Petrarca poi, che fu interamente dispersa, trovasi qualche
codice in ciascuna quasi delle primarie biblioteche d'Europa. [T.]
130
()
Famil., lib. II, ep. 12.
131
()
Stare nescius, non tam desiderio visa millies revisendi, quam studio, more aegrorum, loci mutatione,
taedii consulendi. Epist. ad Post.
132
()
Famil., lib. XV, ep. 8; lib. XVII, ep. 3.
133
()
Non ut mortem fugiam, sed ut quaeram, si qua in terris est, requiem. Senil., lib. I, ep.
6.
134
()
Invectivae in medicum, Senil., lib. XII, ep. 1 et 2.
(Le rive il sanno e le campagne e i boschi)
Per fuggir quest'ingegni sordi e loschi,
Che la strada del Ciel hanno smarrita.
Comparando lo stato effettivo dell'uman genere con la perfezione cui anelava, meglio ravviluppossi
nella contemplazione di sè, ed ebbe gli uomini per indegni del suo studio, non però della sua
censura: e, mentre aspirava al cielo, non era indifferente a questo mondo. È da credersi ch'ei facesse
qualche conto della razza umana, perchè, se fosse stato capace di realmente tenerla a vile, non si
sarebbe sentito incalzato da quella perpetua necessità di fuggirla, di serrarsi fra quattro mura, di
lagnarsi della follia e ignoranza delle brigate, e de' legami onde natura ha stretti noi tutti a vivere fra
pazzi, savi, virtuosi, tristi, tiranni e schiavi, e tutti miseri ugualmente. Egli dice, che Laura sopra il
suo letto di morte udì una voce, che le ricordava la vita sconsolata e raminga dell'amante suo:
O misero colui ch'e' giorni conta,
E pargli l'un mill'anni, e 'ndarno vive,
E seco in terra mai non si raffronta,
E cerca 'l mar e tutte le sue rive!
Il Petrarca avea già mandato lo stesso lamento nel libro Del disprezzo del mondo, scritto vent'anni
prima di questi versi. — «Andai cercando libertà per ogni dove; ad oriente, a mezzodì, a
settentrione, a' confini dell'oceano; ma non la trovai in verun luogo, — perchè viaggiai sempre con
me stesso.»
(
135
)
XVI. Ovunque n'andasse, ricoveravasi in una specie di eremo, e continuava a comporre
volumi a iosa, pure sclamando ch'ei non faceva se non consumare il tempo, ma ch'eragli
giuocoforza far qualche cosa per obliare sè stesso. — «O mi faccia radere, o tosare, o cavalchi, o
sieda a mensa, leggo io stesso, o mi fo leggere. Sul mio desco e a canto al letto ho quant'occorre per
iscrivere; e quando mi sveglio al buio, scrivo, benchè non sappia poi leggere il mattino appresso ciò
che ho scritto.»
(
136
)
Negli ultimi anni di sua vita dormiva sempre con a lato una lucerna accesa, e si
alzava a mezza notte per l'appunto.
(
137
)
«Quale stanco viaggiatore, io affretto il passo a misura che
mi avvicino alla fine del mio viaggio. Leggo e scrivo dì e notte; è questo l'unico mio rifugio. Gli
occhi miei sono aggravati dalle veglie; la mia mano è stanca di scrivere, e il cuore è consunto dalle
cure. Bramo di essere conosciuto da' posteri; dove ciò non mi riesca, sarò conosciuto dal mio
secolo, o almeno dagli amici. Sarei stato pago di poter conoscere me stesso, ma di ciò non verrò mai
a capo.»
(
138
)
— A che pro una vita così spesa? A qual fine tante notti vigilate e tanti giorni sì
laboriosi, — tanti saggi di un nobile genio e di un cuore benevolo? Nella lettera che il Petrarca
indirizzò pochi mesi prima di morire alla posterità, qual ultimo legato e frutto finale de' lunghi suoi
studi, ci fa sapere; non aver lui trovato mai sistema filosofico che lo appagasse, e appena, un fatto
storico nella cui verità potesse fidare; e così conchiude: «Che filosofare è amare saviezza; ed essere
vera saviezza Gesù Cristo.»
XVII. Questo robusto senso di religione tenne tutte le passioni di lui in lotta costante, e
acquistando forza dall'esercizio, non ad altro servì che ad irritarle e a turbare le facoltà della mente
sua, le quali furono anzi veementi che vigorose. Le azioni più consuete, i casi più ovvii erano
bastanti a trattenerlo in una serie di meditazioni sopra l'eternità. Essendosi, da giovane tuttavia,
sentito esausto e senza lena prima di poter giugnere alla cima di una montagna su cui tentava
d'inerpicarsi, scrisse a un amico: «Comparai lo stato della mia anima, che brama di guadagnarsi il
paradiso, ma non cammina per la strada che vi conduce, a quello del mio corpo, ch'ebbe tante
difficoltà per arrivare al vertice della montagna, con tutto che la curiosità mi aizzasse a tentarlo. Tal
riflessione m'inspirò maggior forza e coraggio. Se, diss'io, non ricusai tanta e sì penosa fatica al fine
135
()
De contemptu mundi; ovvero De secr. confl., coll. 3.
136
()
Questo passo è tolto dalla quartadecima lettera del Petrarca, di una serie tuttavia inedita. Il manuscritto sta
nella libreria di San Marco, a Venezia.
137
()
Famil., ep. 72.
138
()
Famil., lib. X, ep. 15.
di vie più avvicinarmi al cielo con la persona, che non dovrei fare e patire affinchè l'anima mia
potesse giungervi essa pure?»
(
139
)
— La morte di Laura e di molti amici della sua gioventù, di tutti i
Colonna, e specialmente del cardinale che uscì di vita per crepacuore, — la vergognosa fine di Cola
di Rienzo, — le civili guerre d'Italia, — l'apice della consumata corruzione della Chiesa, — la
pestilenza che desolò il mezzodì d'Europa, — e Napoli invasa dagli Ungheri, — tutto congiurò nel
corso dello stesso anno ad opprimerlo di afflizioni nel vigore della virilità.
(
140
)
In una lettera scritta a
quel tempo esclama: «Che! Potrebb'egli esser vero, come tanti filosofi congetturarono, che Iddio
non s'ingerisca nelle faccende de' mortali? Sì, eccelso Creatore! tu ti pigli pensiero dell'uomo; ma
quanto sono imperscrutabili le tue vie! A qual fine ordinaronsi le umane calamità? Un intelletto
limitato ne investigherebbe indarno le cagioni. Pure tali calamità sono estreme: le veggo, le soffro; e
so che già vissi due anni più che non doveva.»
(
141
)
XVIII. Quindi, la meditazione de' tristi eventi che precederono e seguirono sì dappresso la
perdita della donna da cui sola aveva lungamente aspettato ogni felicità, convertì a una vita futura
tutte le sue speranze. Seguitando un disegno di saviezza, che mal si confaceva con l'agitata sua
mente, credette, «Che a sanare tutte le miserie sue, gli fosse mestieri studiarle dì e notte, — che a
porre ad effetto un tal disegno gli fosse forza di rinunziare ad ogni altro desiderio, — e che l'unico
modo di pervenire a dimenticare onninamente la vita fosse di meditare perpetuamente la morte.»
(
142
)
La forza di eseguire tali risoluzioni non agguagliavasi in lui all'ardore nel divisarle, e le facoltà sue
erano consunte da impulsi repugnanti. Dopo ch'egli si fu avvezzo a guardare alla morte senza
terrore, essa gli si riaffacciò sotto forme spaventose. Veniva colto da súbiti letarghi, che al tutto gli
toglievano i sensi; e per lo spazio di trent'ore il corpo di lui somigliava un cadavere.
(
143
)
Al riaversi,
affermava di non aver provato nè terrore nè pena. Ma, protraendo senza modo la meditazione sopra
l'eternità sì da cristiano e sì da filosofo, provocava la natura a ritirargli la grazia ch'ella aveva
decretata per lui, di morire in pace. « Mi sdrajo sul letto come nel mio lenzuolo mortuario, —
improvvisamente balzo su esterrefatto, — parlo meco stesso, — mi sciolgo in lagrime, in guisa da
forzare al pianto quanti contemplano il mio stato.»
(
144
)
Checchè si vedesse o udisse in tali parosismi d'angosce, egli ne provava
«tormenti d'inferno.» A poco a poco trovò diletto nel pascersi de' suoi
affanni, e si rassegnò pel resto de' suoi a que' vaneggiamenti che
assediano le menti fervide e le traggono a perpetui rammarichi sul tempo
andato, e a pentimenti perpetui; a stancarsi pur sempre del presente, e a
sperare alternamente o a paventar troppo il futuro. Quattro anni prima di
morire, il Petrarca fabbricò nuova casa in Arquà, vicino a Padova; e il
diciottesimo giorno di luglio 1374, l'antivigilia del settantesimo anniversario
di sua nascita, fu trovato morto nella sua libreria col capo reclinato sopra un
libro.
PARALLELO
FRA DANTE E IL PETRARCA
L'un disposto a patire e l'altro a fare.
DANTE, Purg., XXV.
I. Nel secolo di Leone X una erudizione strabocchevole recò i raffinamenti
della critica tant'oltre da preferire per sino la eleganza del gusto agli
ardimenti del genio. Così le leggi della lingua italiana vennero desunte, e i
modelli della poesia trascelti esclusivamente dall'opere del Petrarca; il quale
proclamato allora da più di Dante, la sentenza durò fino a' nostri
indisputata. Lo stesso Petrarca non facendo divario da Dante ad altri dalla
139
()
Famil., lib. IV, ep. 1.
140
()
Famil., lib. VIII, ep. 1, 2, 3, 4, 5.
141
()
Famil., lib. VIII, ep. 7; an. 1349.
142
()
De secr. confl., coll. 1.
143
()
Senil., lib. III, ep. 7; lib. IX, ep. 2; lib. XIII, ep. 9; lib. XV, ep. 14; lib. XI, ep. ult.
144
()
De secr. confl., coll. 2.
propria fama ecclissati, così li mesce:
Ma ben ti prego che 'n la terza spera
Guitton saluti e messer Cino e Dante,
Franceschin nostro, e tutta quella schiera.
Sonetto 247.
Così or quinci or quindi rimirando,
Vidi in una fiorita e verde piaggia
Gente che d'amor givan ragionando.
Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia;
Ecco Cin da Pistoia; Guitton d'Arezzo;
. . . . . . . . . .
Ecco i duo Guidi, che già furo in prezzo;
Onesto Bolognese, e i Siciliani.
Trionfo d'Amore, cap. IV.
Il Boccaccio, scoraggito dalla fama di questi due maestri solenni, erasi proposto di ardere le sue
poesie. Il Petrarca ne lo distolse, scrivendogli in cotal aria di umiltà alquanto discorde dall'indole di
un uomo che di sua natura non era ipocrita. «Voi siete filosofo e cristiano,» dic'egli, «e pure siete
scontento di voi, perchè non siete illustre poeta! Dacchè altri occupò il primo seggio, siate pago del
secondo, e io mi piglierò il terzo
(
145
)
— Il Boccaccio, accortosi dell'ironia e dell'allusione, mandò il
poema di Dante al Petrarca, supplicandolo «a non volere sdegnare di leggere l'opera di un
grand'uomo, dal cui capo l'esilio e la morte, che lo rapì nel vigore degli anni, avevano strappato
l'alloro.»
(
146
)
— Leggetelo, ve ne scongiuro; il vostro genio arriva al cielo, e la gloria vostra si stende
oltre i limiti della terra: ma considerate, essere Dante nostro concittadino; aver lui mostrato quanto
può la lingua nostra; la vita sua essere stata sventurata; lui avere impreso e sostenuto ogni cosa per
la gloria; ed essere tuttavia perseguíto dalla calunnia e dall'invidia fin entro il sepolcro. Se voi lo
loderete, farete onore a lui — farete onore a voi stesso — farete onore all'Italia, di cui siete la gloria
maggiore e l'unica speranza.»
II. Il Petrarca nella sua risposta par che s'adiri «di poter esser creduto geloso della celebrità di
un poeta, la cui lingua è ruvida, sebbene i concetti ne sieno sublimi.» — «Voi dovete portargli
venerazione e gratitudine, qual a primo lume di vostra educazione;
(
147
)
laddove io lo vidi soltanto
una volta da lontano, o a meglio dire mi fu additato mentr'io era pur anche fanciullo. Fu esiliato lo
stesso dì in compagnia del padre mio, il quale, rassegnatosi alle sue sciagure, si dedicò interamente
alla cura de' suoi figliuoli. L'altro per lo contrario resistette, e famelico solo di gloria, tutto il resto
posto in non cale, proseguì nello scelto sentiero. Se ancor vivesse e se il suo carattere fosse al mio
così conforme, com'è il suo genio, non avrebbe migliore amico di me.»
(
148
)
— Questa lettera, fascio
di contraddizioni, d'ambiguità e d'indirette difese di sè, accenna all'individuo per circonlocuzioni,
come se il nome ne fosse soppresso per cautela o paura. Pretendono alcuni che a Dante non si
riferisca;
(
149
)
ma la lista, che ancor si conserva autentica,
(
150
)
de' Fiorentini mandati a confino il 27
gennaio 1302, contiene i nomi di Dante e del padre del Petrarca, e nessun altro individuo cui si
possa applicare veruna delle circostanze menzionate nella lettera, mentre tutte e singolarmente
quadrano a capello all'Alighieri.
III. Questi due fondatori dell'italiana letteratura furono dotati di genio disparatissimo,
proseguirono differenti disegni, stabilirono due diverse lingue e scuole di poesia, ed esercitarono
145
()
Senil., lib. V, ep. 2 et 3.
146
()
Nec tibi sit durum versus vidisse poetae
Exsulis.
147
()
Inseris nominatim hanc hujus officii tui excusationem, quod ille, te adolescentulo, primus studiorum dux,
prima fax fuerit. — Petr., Epist. eden. Crisp., lib. XII, ep. 7.
148
()
Petr., Epist. edit., Ginev. an. 1601, pag. 445.
149
()
Tiraboschi, Storia della letter. ital., vol. IX, lib. III, cap. 2, § 10.
150
()
Muratori, Script., Rer. Ital., vol. X, pag. 501.
fino al tempo presente differentissima influenza. In vece di scegliere, come fa il Petrarca, le più
eleganti e melodiose parole e frasi, Dante crea sovente una lingua nuova, e impone a quanti dialetti
ha l'Italia il tributo di accozzamenti atti a rappresentare non pure le sublimi e belle, ma ben anche le
più comuni scene di natura; tutti i grotteschi concepimenti della sua fantasia; le più astratte teoriche
di filosofia, e i misteri più astrusi di religione. Una semplice idea, un idioma volgare piglia diverso
colore e spirito diverso dalla loro penna. Il conflitto di propositi contrarii suona nel cuore del
Petrarca, e tenzona nel cervello di Dante.
Nè sì nè no nel cor mi sona intero — Petrarca.
Che 'l no e 'l sì nel capo mi tenzona — Dante.
At war 'twixt will and will not — Shakespeare.
Il Tasso espresse il concetto medesimo con quella dignità, da cui mai non si diparte:
In gran tempesta di pensieri ondeggia.
Pure non solo palesa questo una imitazione del virgiliano magno curarum fluctuat æstu; ma, col
paventare la forza dell'idioma e no, il Tasso perde, come spesso gli accade, il grazioso effetto
prodotto dal nobilitar una frase volgare; — artifizio però che nella pastorale dell'Aminta usò
felicissimamente. L'idea dell'epico stile fu in lui sì raffinata, che, mentr'egli teneva Dante «qual
maggior poeta d'Italia,» sovente affermò, «che se non avesse trascurato dignità ed eleganza, sarebbe
stato il primo del mondo.» — Dante, non v'ha dubbio, diè anche talora commiato al decoro e alla
perspicuità; ma sempre per crescere fedeltà alle pitture, o profondità alle riflessioni. Dice a sè:
Parla, e sii breve e arguto.
Dice al lettore:
Or ti riman, lettor, sopra 'l tuo banco,
Dietro pensando a ciò che si preliba,
S'esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba.
IV. Quanto è al loro verseggiare, il Petrarca conseguì il fine essenziale
dell'erotica poesia; che sta nel muovere un'onda costante d'armoniosi
concenti inspirati dalla più dolce delle umane passioni. L'armonia di Dante,
non sì melodiosa, è spesso frutto di arte più possente:
S'i' avessi le rime e aspre e chiocce,
Come si converrebbe al tristo buco
Sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
I' premerei di mio concetto il suco
Più pienamente; ma perch'i' non l'abbo,
Non senza tema a dicer mi conduco:
Chè non è 'mpresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l'universo,
Nè da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne ajutino 'l mio verso
Ch'ajutaro Anfione a chiuder Tebe,
Sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Qui il poeta accenna ad evidenza, che il dar colore e forza a idee col suono di parole è uno de'
requisiti necessarii dell'arte. I sei primi versi sono fatti aspri dall'affoltarsi di consonanti. Ma
allorchè descrive soggetto al tutto diverso, le vocali fanno più scorrevoli le parole:
O anime affannate,
Venite a noi parlar, s'altri nol niega.
Quali colombe dal disio chiamate,
Con l'ale aperte e ferme, al dolce nido
Volan, per l'aer dal voler portate:
Il Cary, traduttore inglese di Dante, contravviene frequentemente — e ne rechiamo esempio in nota
(
151
)
— a una tesi del suo autore, il quale, affidato più ch'altro dall'effetto della propria versificazione,
dice: «che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra tramutare,
che non si distrugga tutta la sua dolcezza ed armonia.»
(
152
)
— Il disegno del poema di Dante
richiedeva ch'ei trapassasse di pittura in pittura, di passione in passione. Nelle differenti scene del
suo viaggio ei varia l'intonazione così ratto, come la folla degli spettri involasi dinanzi agli occhi
suoi; e adatta sillabe e cadenze d'ogni verso in sì artificiosa guisa da conferir forza alle immagini
che intende rappresentare col solo cambiare il numero: però che ne' versi più armoniosi non è
poesia, sempre che falliscano ad eccitare quell'infocato rapimento, quello squisito titillamento di
diletto che sorge dall'agevole e simultanea agitazione di tutte le nostre facoltà, — ciò che il poeta
ottiene con l'uso potente delle immagini.
V. Il potere delle immagini sopra la mente procede in poesia secondo la progressione stessa
della natura: — guadagnano prima i sensi — poi il cuore — quindi colpiscono l'imaginazione — e
all' ultimo stampansi nella memoria, evocando l'opera della ragione, che consiste, più ch'altro,
nell'esame e nel confronto delle nostre sensazioni. Questa progressione è per verità così rapida, che
a pena viene avvertita; pure a chi abbia facoltà di ponderare il lavoro della propria mente tutti i gradi
ne sono discernibili. Pensieri altro non sono per sè che materia grezza: pigliano l'una o l'altra forma;
ricevono più o manco splendore e calore, più o manco novità e ricchezza, secondo il genio dello
scrittore. Col condensarli in un composto di suoni melodiosi, di caldi sensi, di luminose metafore, e
di profondo raziocinio, i poeti trasformano in vivide immagini eloquenti molte idee, che si
rimangono oscure e mutole nella mente nostra; e con la magica presenza d'immagini poetiche
c'insegnano a subitamente sentire, a immaginare, a ragionare e a meditare a un tratto con tutto il
piacere e senza veruna di quelle pene, che comunemente si tira dietro ogni sforzo mentale. Il
pensiero, «Che la memoria e l'arte di scrivere conservano tutto il sapere umano;» — il pensiero,
«Che la speranza non abbandona l'uomo neppure sull'orlo del sepolcro, e che l'aspettativa di chi sta
per morire è tuttavia tenuta viva dal prospetto di una vita avvenire;» — sono verità assai facili a
comprendersi, perchè inculcate da cotidiana esperienza. Pure i termini astratti, in cui è forza
racchiudere ogni massima generale, sono inetti a creare quel simultaneo eccitamento, mediante il
quale le facoltà nostre mutuamente si aiutano tutte; siccome allorchè il poeta apostrofa la Memoria:
Quanto al guardo rapito il Genio scopre,
E quanto l'Arte a sublimarne affina,
Ogni etade, ogni clima a te comparte:
De la sacra sua cella a te custode
Pensierosa il Saver fidò le chiavi;
E tu ognor vigilante il freddo astergi
Vapor, ch' invido Oblio spira furtivo
Ad appannar la sua virginea lampa.
ROGERS, I Piaceri della Memoria.
151
()
«O wearied spirits! come, and hold discourse
With us, if by none else restrain'd.» As doves
By fond desire invited, on wide wings
And firm, to their sweet nest returning home,
Cleave the air, wafted by their will along.
CARY' s Transl.
152
()
Dante, Convito.
Alle voci astratte Genio, Arte, Sapere, si frammischiano oggetti proprii a colpire i sensi, così che la
massima posta innanzi al lettore ei la vede quasi in una pittura. — Non è dato a' poeti di aspirare al
merito di originalità, se non col mezzo d'imagini; però che col moltiplicato accozzamento di
pochissimi concetti esse vengono a produrre novità, e formano gruppi che, sebbene differenti in
disegno e carattere, tutti esibiscono lo stesso vero. Il seguente passo italiano sopra la Memoria non
ha la più leggiera somiglianza a' versi inglesi tradotti di sopra, e nondimeno il divario sta solo nel
mutato accozzamento d'immagini:
Siedon le Muse su le tombe, e quando
Il tempo con sue fredde ali vi spazza
I marmi e l'ossa, quelle Dee fan lieti
Di lor canto i deserti, e l'armonia
Vince di mille e mille anni il silenzio.
E che potrebbe dirsi del nostro aspettare l'immortalità, che tutto non sia compreso e spiegato in
questa invocazione alla Speranza?
Assisa, o Dea, sorriderai secura
Su le rovine, e allumerai tua face
A la funerea pira di Natura!
CAMPBELL, Piaceri della Speranza.
VI. Le immagini del Petrarca paiono squisitamente finite da pennello
delicatissimo: allettano l'occhio più col colorito che con le forme. Quelle di
Dante sono ardite e prominenti figure di un alto rilievo, che ti sembra di
poter quasi toccare, a cui l'imaginazione supplisce prontamente quelle parti
che si nascondono alla vista. Il pensiero comune della vanità dell'umana
fama è così espresso dal Petrarca:
O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E 'l nome vostro appena si ritrova;
e da Dante
La vostra nominanza è color d'erba
Che viene e va, e quei la discolora,
Per cui ell'esce della terra acerba.
I tre versi del Petrarca hanno il gran merito di essere più animati, e di trasmettere più rapida
l'immagine della terra che inghiotte i corpi e i nomi di tutti gli uomini; ma quelli di Dante, con tutta
l'affliggente profondità loro, hanno il merito ancor più raro di guidarci a idee, cui non saremmo per
noi stessi arrivati. Mentr'ei ci rammenta essere il tempo, che pure è necessario per recare al colmo
ogni gloria umana, quello che finalmente la strugge, il cangiante colore dell'erba rappresenta i
rivolgimenti de' secoli come caso naturale di pochi momenti. — Ma, per aver fatto menzione «dei
grandi periodi del tempo,» un vecchio poeta inglese menomò quello stesso concetto che intendeva
di magnificare:
I know that all beneath the moon decays;
And what by mortals in this world is brought,
In time's great periods shall return to nought.
I know that all the muse's heavenly lays,
With toil of sprite which are so dearly bought,
As idle sounds, of few or none are sought,
That there is nothing lighter than mere praise.
Drummond of Hawthornden.
Inoltre, invece del ministero del tempo, Dante si serve del ministero del sole, perchè, generandoci
nella mente idea meno astratta, ed essendo oggetto più palpabile da' sensi, abbonda d'immagini più
splendide ed evidenti, e ne colma di maggior maraviglia e ammirazione. La sua applicazione è
anche più logica, dacchè ogni concetto che abbiamo del tempo si riduce alla misura di esso, la quale
ci è somministrata dalle periodiche rivoluzioni del sole.
VII. Rispetto al piacere diverso che questi due poeti arrecano, fu già osservato, che il
Petrarca eccita le più care simpatie, e sveglia le più profonde emozioni del cuore; e, sieno esse di
mesta o di lieta tempra, ne siamo ansiosamente bramosi, perchè più ci scuotono e più forte avvivano
la coscienza nostra di esistere. Ancora, dibattendoci noi senza posa a cacciare il dolore e a
procacciarci il piacere, i nostri cuori oppressi sotto il fascio delle proprie agitazioni si sentirebbero
mancare, abbandonati che fossero da' sogni dell'immaginazione, onde fummo provvidamente dotati
ad aumentare il nostro capitale di felicità, e a dorare di fulgide illusioni le triste realtà della vita. Soli
i grandi scrittori possono tanto frenare la immaginazione, da rendere poi impossibile il distinguere
nelle opere loro queste illusioni dalle realtà. Se in un poema l'ideale e il fantastico sieno
predominanti, ben può la meraviglia coglierci per brev'ora, ma non potrà mai commoverci per
oggetti, che o non abbiano persona, o troppo si dilunghino dalla nostra comune natura. E d'altra
parte, se la poesia si fermi troppo sopra cose reali, subito ne assale stanchezza; perchè le veggiamo
da per tutto; rattristano ogni minuto della nostra esistenza; ci vengono sempre in uggia come note a
sazietà: — aggiugni che se la realtà e la finzione non sieno fuse intrinsecamente in un sol tutto,
vengono a mutuo conflitto e si distruggono a vicenda. Non molti esempii occorrono nel Petrarca di
felice combinazione del vero col finto, pari a quello ov'ei descrive le fattezze di Laura
immediatamente dopo ch'ella spirò:
Pallida no, ma più che neve bianca
Parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne' suoi begli occhi,
Sendo lo spirito già da lei diviso...
Morte bella parea nel suo bel viso.
No earthy hue her pallid check display'd,
But the pure snow
Like one recumbent from her toils she lay,
Losing in sleep the labours of the day.
And from her parting soul an heavenly trace
Seem'd yet to play upon her lifeless face,
Where death enamour'd sate, and smiled with angel grace
BOYD's Transl.
Se il traduttore si fosse nell'ultimo verso tenuto più stretto alle parole del suo testo:
Morte bella parea nel suo bel viso,
avrebbe data più alta e nondimeno più credibile idea della beltà di Laura, e destramente converso in
sensazione più gradevole l'orrore con che si guarda un cadavere. Ma «Morte che siede innamorata
sopra la faccia di Laura» non presenta immagine distinta, se pur quella non fosse dell'allegorica
forma di Morte trasmutata in angelo assiso sopra la faccia di una donna; — il che valga a esempio
che colpisca delle sconce assurdità, a cui trae un mal accorto accozzamento del vero colla finzione.
VIII. Il Petrarca affoga spesso la realtà in tanto lusso di decorazioni ideali, che mentre ci
affisiamo nelle sue imagini, le ci scompaiono
D'aurea luce in un pelago nascose.
(
153
)
E il poeta che ci sovviene di questo verso, osserva giustamente — «che il vero sentir fino è
eccellente economo, e si piace in produrre effetti grandi con piccoli mezzi.» Dante trasceglie
bellezze qua e là disperse per ogni lato della natura creata, e le incorpora in singolo soggetto. Gli
artisti che nell'Apollo di Belvedere e nella Venere de' Medici compendiarono le beltà varie notate in
diversi individui, produssero forme umane a rigore, spiranti però cotal perfezione da non si
scontrare in terra: tuttavia contemplandole, senza che ce ne avvediamo siam tratti a credere
all'illusione, che la schiatta nostra possa andar lieta di sì celeste bellezza.
Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra,
Cose sopra natura, altere e nove:
Vedi ben quanta in lei dolcezza piove;
Vedi lume che 'l Cielo in terra mostra.
Vedi quant'arte dora e 'mperla e 'nnostra
L'abito eletto e mai non visto altrove;
Che dolcemente i piedi e gli occhi move
Per questa di bei colli ombrosa chiostra.
L'erbetta verde e i fior di color mille,
Sparsi sotto quell'elce antiqua e negra,
Pregan pur che 'l bel piè li prema o tocchi.
E 'l ciel di vaghe e lucide faville
S'accende intorno, e 'n vista si rallegra
D'esser fatto seren da sì begli occhi.
Questa descrizione ne invoglia d'incontrare al mondo donna somigliante; ma ammirando il beato
poeta e invidiandogli i suoi trasporti amorosi, non si può non accorgerci, che i fiori «vaghi d'essere
calcati dal bel piede,» il cielo «che si rabbella della sua presenza,» l'atmosfera «che nuovo splendore
impronta dagli occhi suoi,» sono mere visioni che ne tentano d'avventurarci con lui dietro a non
conseguibile chimera. Di qui siamo indotti a pensare, che fosse in Laura più che umana leggiadria,
se valse ad accendere l'immaginazione dell'amante a un tal grado d'entusiasmo da farla capace
d'illusioni sì fantastiche, che ben ci chiariscono l'eccesso della passione; ma ci è tolto il partir seco
lui tali estasi amatorie per beltà che nè mai potemmo, nè mai potremo rimirare.
IX. Per lo contrario la bella vergine che Dante vide in lontananza in un
paesaggio del paradiso terrestre, in vece di apparirti un ente immaginario,
sembra accoppiare in tutti gli allettamenti che trovansi in quelle amabili
creature nelle quali talvolta ci scontriamo, che ci accora di perdere di vista, a
cui la fantasia rivola del continuo; la pittura del poeta richiama più
distinta alla memoria l'idea dell'originale, e la scolpisce nell'immaginazione:
Una donna soletta, che si gía
Cantando ed iscegliendo fior da fiore,
Ond'era pinta tutta la sua via.
Deh, bella donna, ch'a' raggi d'amore
Ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti,
Che soglion esser testimon del core,
Vegnati voglia di trarreti avanti,
Diss'io a lei, verso questa riviera,
Tanto ch'io possa intender che tu canti.
153
()
«Obscured and lost in flood of golden light». ROGERS.
Come si volge con le piante strette
A terra, ed intra sè donna che balli,
E piede innanzi piede a pena mette;
Volsesi 'n su' vermigli, ed in su' gialli
Fioretti verso me, non altrimenti
Che vergine che gli occhi onesti avvalli:
E fece i prieghi miei esser contenti,
Sì appressando sè, che 'l dolce suono
Veniva a me co' suoi intendimenti.
Tal è lo stupendo magistero con cui Dante mischia le realtà di natura con accessorii ideali, che ti
crea nell'animo una illusione da non si poter dissipare per tardi riflessi. Tutta quella grazia e beltà,
quel caldo raggio d'amore, quella vivezza e lieta baldanza di gioventù, quella sacra modestia di una
vergine, che osserviamo, benchè disgiunte e miste a difetti, in persone diverse, son qui concentrate
in una sola; mentre il canto, la danza, il côrre fiori dan vita e incanto e grazia di movenza alla
pittura. — A giudicare schiettamente tra questi due poeti, diresti, che il Petrarca sovrasti nel mettere
in cuore un sentimento profondo della sua esistenza; e Dante nel guidare l'immaginazione ad
accrescere di sconosciute attrattive la natura. Genio non fu mai forse che in sè accoppiasse a sì alto
segno queste due facoltà.
X. Entrambi incarnarono disegni accomodati alle facoltà respettive, e ne
uscirono due maniere di poesia producitrice di opposti effetti morali. Il
Petrarca ne mostra ogni cosa pel mezzo di una predominante passione, ne
abitua a cedere a quelle propensioni che, tenendo il cuore in perpetua
inquietudine, fiaccano il vigore dell'intelletto, ne seduce a morbida
condiscendenza, alla sensibilità, e ne ritrae dalla vita attiva. Dante, come
tutti i poeti primitivi, è lo storico de' costumi del suo secolo, il profeta della
sua patria e il pittore dell'uman genere; ed, eccitando tutte le facoltà
dell'anima, le chiama a riflettere sopra tutte le vicissitudini dell'universo.
Descrive ogni fatta di passioni e di azioni, l'incanto e l'orrore delle scene
più disperate. Colloca uomini nella disperazione dell'inferno, nella speranza
del purgatorio e nella beatitudine del paradiso. Gli osserva nella gioventù,
nella virilità e nella vecchiezza. Trae in iscena insieme ambo i sessi, tutte le
religioni, tutte le occupazioni di nazioni ed età diverse; pure non piglia mai
gli uomini in massa, ma sempre li rappresenta come individui; parla a
ciascuno di essi, ne studia le parole, e osserva attentamente i loro contegni.
«Trovai », dic'egli nella lettera a Can della Scala, «l'esempio del mio
Inferno nella terra che abitiamo.» Nel descrivere i regni della morte, cerca
ogni opportunità per riportarci indietro alle faccende e affezioni del mondo
vivente. Vedendo il sole che sta per abbandonare il nostro emisfero, esce in
que' versi:
Era già l'ora che volge 'l disio
A' naviganti, e 'ntenerisce 'l core
Lo dì, c'han detto a' dolci amici, addio;
E che lo nuovo peregrin d'amore
Punge, se ode squilla di lontano
Che paja 'l giorno pianger, che si more.
Avvi un passo a questo somigliantissimo in Apollonio Rodio, le cui molte bellezze, sì ammirate
nelle imitazioni di Virgilio, rado si cercano nell'originale:
Spiegando allora
Il suo velo di tenebre sul muto
Orbe la Notte, alzò il nocchier da poppa
Fiso nell'Orse e in Orïone il guardo.
Il peregrino, e chi veglia le porte
Punse lusinga alta di sonno; e intanto
Di madre, che pur or molle di pianto
I figli estinti sospirava, scorre
Grave un sopor le membra.
(
154
)
Con digressioni simili a questa, introdotte senz'arte o sforzo apparente, Dante ci fa pigliar parte per
tutto l'uman genere; là dove il Petrarca, occupandosi solo di sè stesso, allude ad uomini in mare
sulla sera, onde soltanto eccitare maggior compassione per le proprie pene:
E i naviganti in qualche chiusa valle
Gettan le membra, poi che 'l Sol s'asconde,
Sul duro legno e sotto l'aspre gonne.
Ma io, perchè s'attuffi in mezzo l' onde,
E lassi Spagna dietro alle sue spalle,
E Granata e Marocco e le Colonne:
E gli uomini e le donne
E 'l mondo e gli animali
Acquetino i lor mali,
Fine non pongo al mio ostinato affanno;
E duolmi ch'ogni giorno arroge al danno;
Ch'i' son già, pur crescendo in questa voglia,
Ben presso al decim'anno;
Nè posso indovinar chi me ne scioglia.
Quindi la poesia del Petrarca ci avviluppa in oziosa melanconia, nelle più molli e dolci visioni,
nell'errore di abbandonarci in balìa delle affezioni altrui, e ci trae a correre vanamente dietro a
perfetta felicità, finchè c'immergiamo a chius'occhi in quella disperazione che succede,
Quando, percossa da terror, s'invola
Dal tuo volto la speme, e la gigante
Doglia ne ingombra il vôto orrendo sola.
Inoltre pochissimi sono coloro cui tal sorte incolga, verso i molti più che da lettura sentimentale
unicamente imparano come operare con più sicuro effetto nelle menti passionatc, o come stendere
più fitto manto d'ipocrisia sopra il vizio. La turba de' petrarchisti in Italia può imputarsi all'esempio
di que' prelati e dotti uomini, i quali, a giustificare il commercio loro con l'altro sesso, presero in
prestito il linguaggio dell'amore platonico dal loro modello; che pure è mirabilmente accomodato a
un collegio di gesuiti, poichè inspira divozione, misticismo e ritiro, e snerva le menti giovenili. Ma
dacchè alle ultime rivoluzioni, suscitatrici d'altre passioni, altro sistema d'educazione rispondeva, la
schiera de' petrarchisti fu presto veduta assottigliarsi, mentre i seguaci di Dante pubblicavano poemi
più atti a far sorgere lo spirito pubblico in Italia. Dante applicò la poesia alle vicende de' tempi suoi,
quando la libertà faceva l'estremo di sua possa contro la tirannide; e scese nel sepolcro con gli ultimi
eroi del medio evo. Il Petrarca visse fra coloro che prepararono la ingloriosa eredità del servaggio
alle prossime quindici generazioni.
XI. In sul declinare della vita di Dante gli statuti de' dominii italiani subirono intera e quasi
universale mutazione; e uomini, costumi, letteratura e religione subitamente ne assunsero nuovo
carattere. Allora si fu che papi e imperadori, col risiedere fuori d'Italia, l'abbandonarono alle fazioni,
le quali, avendo combattuto per l'indipendenza o pel potere, continuarono a lacerarsi a brani per
animosità, finchè ridussero la patria in tali stremi da farla agevole preda a' demagoghi, a' despoti ed
agli strani. I Guelfi ne' loro conflitti per le franchigie popolari contro i feudatarii dell'Impero
cessarono dal ricevere la sanzione della Chiesa. I Ghibellini non più si allearono con gl'imperadori
154
()
Apollonii Rhodii Argonauticorum, lib. III.
per conservare i lor privilegi quali grandi proprietarii. Firenze e altre piccole repubbliche, sterminati
i nobili, venivano governate da mercadanti, i quali, non avendo nè maggiori da imitare, nè sensi
generosi, nè militare educazione, perpetuavano le risse intestine per via di calunnia e di confisca.
Paurosi di domestica dittatura, a' nemici esterni opposero estranei condottieri di truppe mercenarie,
composte spesso di venturieri e vagabondi d'ogni paese, i quali saccheggiavano amici e nimici
similmente, esasperavano le discordie e contaminavano la morale della nazione. Principi francesi
regnarono in Napoli, e, per allargarsi la preponderanza sopra l'Italia meridionale, vi distrussero fin
l'ombra dell'imperiale autorità coll'aizzare i Guelfi a tutti i delirii della democrazia. Frattanto i
nobili, nervo della fazione ghibellina nel settentrione d'Italia, possedendo la ricchezza e la forza del
paese, continuarono a movere incessanti guerre civili, fin tanto ch'essi con le città e i vassalli loro
rimasero tutti soggiogati dal militare dominio de' vittoriosi condottieri, i quali venivano assassinati
spesso da' lor proprii soldati, e più spesso dai presuntivi eredi del poter loro. Unica Venezia,
circondata dal mare e perciò libera dal pericolo d'invasione e dalla necessità d'affidare le sue armate
a un singolo patrizio, andò lieta di stabile forma di governo. Nondimeno, per conservare ed ampliare
le colonie e il commercio, sostenne nel Mediterraneo una lotta micidiale con altre città marittime. I
Genovesi, perduta la loro flotta principale, mercarono l'aiuto de' tiranni lombardi a prezzo della loro
libertà. Ebbero così modo di sbramar gli odii e disfare i Veneti, i quali col ripetere gli assalti
esaurirono le forze; ed ambedue gli Stati combattevano omai men per acquisti che per vendetta.
Allora intravvenne che alle pacifiche esortazioni del Petrarca il doge Andrea Dandolo diede
quell'altiera risposta.
(
155
)
Così gl'Italiani, sebbene a que' dì arbitri de' mari, vidersi ridotti in cotali
termini di debolezza da ciechi rancori, che nel vegnente secolo Colombo fu costretto di mendicare
l'aiuto di principi estranei, onde aprire quel passaggio di navigazione, che da quell'epoca diede
l'ultimo crollo alla commerciale grandezza d'Italia.
XII. Frattanto papi e cardinali, vigilantemente osservati ad Avignone, divennero talora
forzati e spesso volontarii complici della francese politica. I principi germanici, datisi a disprezzare
le papali scomuniche, ricusarono di eleggere imperadori patrocinati dalla Santa Sede, e di condur
fuori i sudditi al conquisto della Terra santa, impresa che dall'entrante duodecimo secolo per insino
all'uscente decimoterzo, commise di fatto tutti gli eserciti d'Europa all'arbitrio de' papi. Il selvaggio
e intraprendente fanatismo religioso, venuto così a ristare colle crociate, declinò in tenebrosa e
sospettosa superstizione: nuovi articoli di credenza recati dall'Oriente fecero pullulare nuove sètte
cristiane: la circolazione de' classici, il gusto diffuso per la metafisica greca e pel materialismo
aristotelico, sparso per Europa dagli scritti d'Averroe trassero alcuni contemporanei di Dante e del
Petrarca a dubitare persino della esistenza di Dio.
(
156
)
Fu allora giudicato espediente di soffolcere a
un punto e l'autorità del vangelo e il potere temporale della chiesa con le arbitrarie e misteriose leggi
della santa Inquisizione. Parecchi de' papi, che sedettero nella cattedra di San Pietro vivendo Dante,
erano stati prima frati dell'Ordine di San Domenico, fondatore di quel tribunale; e i lor successori a'
tempi del Petrarca furono prelati di Francia o corrotti dal lusso, o devoti agl'interessi della patria
loro. Al terrore propagato dai domenicani seguitò il traffico delle indulgenze e la celebrazione de'
giubilei, instituiti in quel torno da Bonifazio VIII. Poichè non fu più a lungo in mano de' sovrani
pontefici lo sperdere in politiche imprese le ricchezze dalla religiosa potenza in lor derivate,
l'ambizione diè luogo alla cupidigia; e in iscambio de' declinanti diritti di conferire corone,
ottennero sussidii per mantenere una corte lussuriosa, e per lasciare dopo sè una genealogia di ricchi
eredi. I popoli, benchè inaspriti dall'oppressione e parati a ribellare, erano disuniti e non iscaltriti
abbastanza per recare a capo una durevole rivoluzione. Si rivoltarono solo per rovesciare le antiche
leggi, per mutare padroni e per soccombere a più tirannesca signoria. La resistenza di una
contumace aristocrazia vietò a' monarchi di levare eserciti bastevoli a raffermarsi il potere in casa e
le conquiste al di fuori. Gli Stati venivano aggranditi più per frode che per valore; e coloro che li
reggevano divenivano men violenti e più traditori. I forti delitti delle barbare età a poco a poco
cedettero agl'insidiosi vizii dell'incivilimento. La coltura delle classiche lettere perfezionò il gusto
155
()
Saggio sopra il carattere del Petrarca; alla fine del § 5, fac. 83-84.
156
()
«Guido Cavalcanti, alcuna volta speculando, molto astratto dagli uomini diveniva: e perciò che egli
alquanto teneva della opinione degli Epicurj, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in
cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse», Boccaccio, giorn. VI, nov. 9. — Vedi altresì Dante, Inferno, canto X, e
Petrarca, Senil., lib. V, ep. 3.
generale, e aggiunse al fondo della erudizione; ma rintuzzò l'ardire e cancellò a un tempo le native
forme dell'ingegno; e chi pur potea farsi inimitabile scrittore in lingua materna, fu pago di logorar le
forze nell'unica imitazione de' Latini. Gli autori si rimasero dal pigliar parte agli avvenimenti che
correvano, e se ne stettero dalla lunga spettatori. Taluni, partitamente narrando a' concittadini le
andate glorie, li fecero scorti della ruina che sovrastava alla patria; altri ripagarono i mecenati di
adulazioni; però che nel decimoquarto secolo per l'appunto tirannesche signorie tolsero a scaltrire i
successori nell'arte di nutricare letterati stipendiati per gabbare il mondo. Tal è la concisa istoria
d'Italia duranti i cinquantatrè anni dalla morte di Dante alla morte del Petrarca.
XIII. I conati loro per recare l'Italia sotto il reggimento di un solo sovrano, e per tôr via il
poter temporale de' papi, ecco l'unico punto in cui conversero questi due personaggi. Pare che
fortuna e natura cospirassero a separarli nel resto per una irreconciliabile discrepanza. Dante
percorse più regolare carriera di studii, e in tempi che Aristotele e Tommaso d'Aquino tenevano soli
il campo nelle università. L'austero metodo e le massime loro lo ammaestrarono a scrivere solo
dopo lunga meditazione, — a tenersi davanti «un gran pratico fine, cioè quello dell'umana vita»
(
157
)
— e a proseguirlo saldamente con un preconcetto disegno. Poetici ornamenti paiono usati da Dante
solo a lumeggiare i suoi soggetti; nè egli consente mai alla fantasia di trasgredire leggi, che previe
siasi imposte:
lo 'ngegno affreno
Perchè non corra, che virtù nol guidi. — Inferno.
Non mi lascia più ir lo fren dell'arte. — Purgatorio.
Lo studio de' classici e il crescente entusiasmo per platoniche speculazioni, che il Petrarca propug
contra gli aristotelici,
(
158
)
accordossi con la naturale inclinazione di lui, e ne informò la mente dalle
opere di Cicerone, Seneca e Sant'Agostino. Ei ne colse la maniera saltuaria, la dizione ornata, allora
pure che i temi meno poetici vennergli a mano; e sopra tutto imitò quel mischiar ch'essi fecero
sentimenti individuali con universali principii di filosofia e di religione. La sua penna andò dietro
alla perpetua irrequietudine dell'animo: ogni argomento attraeva i suoi pensieri, e di rado tutti i suoi
pensieri furon devoti ad un solo argomento. Così, più ardente ad imprendere che perseverante a
finire, il numero grande de' suoi non terminati manuscritti gli fece alla fine pensare, che tra il frutto
d'industria e quello d'ozio assoluto fosse per correr poco divario.
(
159
)
— Dante confessa che in sua
gioventù soggiaceva a lungo e quasi insuperabile scoraggimento; e duolsi di quella mutezza di
mente che ne inceppa le facoltà, nè però le distrugge.
(
160
)
Ma la mente sua, riavuta la elasticità, non
più ristette finchè non ebbe conseguito lo scopo; e nessuna forza nè cura umana potè stornarlo dalle
sue meditazioni.
(
161
)
XIV. L'intelletto in entrambi tenne virtù dalle naturali e inalterabili emozioni del cuore. Il
fuoco di Dante fu più profondamente concentrato; più di una passione non ardeva in quello a un
tempo; e, se il Boccaccio non caricò la pittura, Dante per più e più mesi dopo morta Beatrice ebbe
sentimento e aspetto di selvaggio.
(
162
)
Il Petrarca fu agitato insiememente da differenti passioni:
sorgevano, ma si rintuzzavano anche l'una coll'altra; e il suo fuoco, più che bruciare, risplendeva —
riboccando da anima inetta a tutto sopportarne il calore, e pure ansiosa di attirarsi per mezzo di
quello l'attenzione di ogni sguardo. La vanità fece il Petrarca sollecito sempre e sempre apprensivo
pur dell'opinione di coloro, cui ben sentiva di naturalmente sovrastare. — Nel carattere
157
()
Dante, Convito.
158
()
È questa la mira principale del suo trattato: De sui ipsius et multorum ignorantia.
159
()
Quicquid fere opusculorum mihi excidit, quae tam multa fuerunt, ut usque ad hanc aetatem me
exerceant, ac fatigent: fuit enim mihi ut corpus, sic ingenium magis pollens dexteritate, quam viribus Itaque multa mihi
facilia cogitatu, quae executione difficilia praetermisi. — Epist. ad Poster.
160
()
Dante, Vita nuova.
161
()
Poggio, — Dante, Purg., canto XVII.
162
()
«Egli era già, sì per lo lagrimare e sì per l'afflizione che al cuore sentiva dentro, e sì per non avere di sè
alcuna cura di fuori, divenuto e quasi una cosa salvatica a riguardare, magro, barbuto, e quasi tutto trasformato da quello
che avanti esser soleva: in tanto che 'l suo aspetto, non che negli amici, ma eziandio in ciascun altro a forza di sè metteva
compassione». — Boccaccio, Vita di Dante.
dell'Alighieri primeggiava l'orgoglio. Piacevasi de' patimenti quai mezzi d'esercitare la sua
fortitudine — de' suoi difetti quai necessarii seguaci di qualità straordinarie — e della coscienza di
quel che dentro valeva, perchè lo francheggiava a disprezzare uomini ed opinioni
Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Lascia dir le genti,
Sta come torre fermo, che non crolla
Giammai la cima per soffiar de' venti.
La forza di disprezzare, che molti vantano, che pochissimi posseggono realmente, e di cui Dante fu
oltre misura dotato da natura, gli apportò il più alto diletto di cui una mente elevata sia suscettiva:
Lo collo poi con le braccia mi cinse:
Baciommi 'l volto, e disse: Alma sdegnosa,
Benedetta colei che 'n te s'incinse.
L'altero contegno di Dante verso i principi, de' quali sollecitava il patrocinio, fu da repubblicano per
nascita, da aristocrata per parte, da statista e guerriero, il quale, vissuto nella copia e negli onori, fu
proscritto nel suo trigesimosettimo anno, costretto a ramingare di città in città, «qual uomo che, ogni
vergogna deposta, si pianta sulla pubblica via, e stendendo la mano,
Si conduce a tremar per ogni vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
Ma poco tempo andrà, che i tuoi vicini
Faranno sì che tu potrai chiosarlo.
(
163
)
Il Petrarca nato in esilio, e nodrito per propria confessione in povertà,
(
164
)
e qual uomo destinato a
servire in corte, venne un anno dopo l'altro arricchito dai grandi; intanto che, posto in termini da
poter evitare nuovi favori, a ciò alludeva con la compiacenza inevitabile a quanti o per caso, o per
industria o per merito sfuggirono a penuria ed umiliazione.
XV. Conformato ad amare, il Petrarca si studiò di conciliarsi la benevolenza altrui; sospirava
maggiore l'amicizia, che non soglia consentirla l'amor proprio dell'uomo; e così scadde negli occhi,
e fors'anche nel cuore delle persone a lui più devote. I suoi disinganni rispetto a ciò, spesso
amareggiandone l'animo, gli strapparono quella confessione, «ch'ei temeva coloro che amava.»
(
165
)
I
nimici di lui, sapendolo pronto a sfogar l'ira, ma più anche a dimenticare le ingiurie, trovarono in tal
temperamento passionato buon giuoco alle beffe,
(
166
)
e lo stuzzicarono a compromettersi pure in
vecchiezza con discolpe.
(
167
)
— Dante al contrario uno fu di que' rari spiriti, cui non arrivano gli
strali del ridicolo, e in cui gli stessi colpi de' maligni altro non fanno che vie più elevare la natia
dignità. Agli amici, meglio che commiserazione, inspirava rispetto; e a' nimici timore e odio —
disprezzo non mai. L'ira sua era inesorabile; e la vendetta fu non solo impeto di natura in lui, ma
dovere:
(
168
)
e pregustò nella conscia mente quella tarda, ma certa e in eterno duratura vendetta che
Fe dolce l'ira sua nel suo segreto.
Taci, e lascia volger gli anni
163
()
Purg., alla fine del canto XI.
164
()
Honestis parentibus, fortuna (ut verum fatear) ad inopiam vergente, natus sum. Epist. ad Post.
165
()
Senil., lib. XIII, ep. 7.
166
()
Indignantissinti animi, sed offensarum obliviosissimi — ira mihi persaepe nocuit, aliis nunquam.
Epist. ad Post.
167
()
Agostini, Scritt. Venez., vol. I, fac. 5.
168
()
«Chè bell'onor s'acquista in far vendetta». Dante, Convito. — Vedi altresì, Inferno, canto XXIX, v. 31-36.
Sì ch'io non posso dir se non che pianto
Giusto verrà di retro a' vostri danni.
Altri potrebbe agevolmente vederlo ritratto in que' versi relativi all'anima di Sordello:
Ella non ci diceva alcuna cosa:
Ma lasciavane gir, solo guardando
A guisa di leon quando si posa.
Come probabilmente il Petrarca senza l'amore non sarebbe mai divenuto un gran poeta, così, se non
era la persecuzione ingiusta che ne accese l'indignazione, Dante forse non avrebbe mai perseverato a
compiere
'l poema sacro,
Al quale ha posto mano e Cielo e Terra,
Sì che m'ha fatto per più anni macro.
XVI. Il piacere di conoscere e propugnare il vero, e di sentirsi atto a farlo suonare per fin dal
sepolcro, è sì acuto da preponderare a tutte le amaritudini, onde per consueto la vita de' sommi
ingegni è saturata, non tanto per la freddezza e l'invidia dell'umana schiatta, quanto per le cocenti
passioni de' loro proprii cuori. Da sì fatto sentire scaturì una fonte più copiosa di conforto per Dante
che pel Petrarca.
Mentre ch'io era a Virgilio congiunto
Su per lo monte che l'anime cura,
E discendendo nel mondo defunto,
Dette mi fur di mia vita futura
Parole gravi; avvegna ch'io mi senta
Ben tetragono ai colpi di ventura.
Ben veggio, padre mio, sì come sprona
Lo tempo verso me per colpo darmi
Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona:
Perchè di provedenza è buon ch'io m'armi.
O sacrosante vergini, se fami,
Freddi o vigilie mai per voi soffersi,
Cagion mi sprona ch'io mercè ne chiami.
Or convien ch'Elicona per me versi,
E Urania m'aiuti col suo coro
Forti cose a pensar, mettere in versi.
E, s'io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico.
E da lettera di Dante novellamente scoperta appare, che circa l'anno 1316 gli amici di lui
riuscissero a ottenere ch'ei fosse rimesso in patria e ne' beni, sol che scendesse a patti co' suoi
calunniatori, si confessasse colpevole e chiedesse perdono alla Repubblica. Ecco la risposta che in
tale occasione il poeta indirizzò a uno de' suoi parenti ch'ei chiama «Padr forse perc
ecclesiastico, o, più probabilmente, perchè più vecchio di lui.
XVII. «Per lettere vostre, con debita riverenza e affezione accolte, ho compreso con grato
animo e diligente considerazione quanto il mio ripatriare stiavi a cuore; però che tanto più
strettamente mi obbligaste, quant'è più raro ch'esuli trovino amici. Al contenuto di esse poi
rispondo, e (se non a quel modo che forse vorrebbe la pusillanimità d'alcuni) affettuosamente vi
prego che, prima di giudicarne, vogliate pigliare con maturo consiglio a ventilare la risposta. Ecco
dunque quanto per lettere del vostro e mio nipote e d'altri amici mi viene significato della parte pur
dianzi presa in Firenze circa l'assoluzione de' mandati a' confini: che se volessi pagare certa multa e
patire la nota dell'offerta, potrei venire assolto e ritornar di presente. Nel che, o padre, due cose sono
pur degne di riso e male preconsigliate; dico male preconsigliate da chi tali condizioni ha espresse,
giacchè le vostre lettere, con più discrezione e maturità conchiuse, nulla di ciò contenevano. È dessa
gloriosa cotesta rivocazione alla patria fatta a Dante, dopo che patì esilio quasi trilustre? Tale forse
la meritò un'innocenza manifesta a chiunque? Tale il sudore e la fatica continuata nello studio?
Lungi dall'uomo famigliare della filosofia la temeraria umiltà di un cuore terreno, che, a modo di
certo Ciolo e d'altri infami, comporti qual vinto l'oblazione di sè stesso. Lungi dall'uomo che predica
giustizia e che ingiuria ha patito, il pagare del proprio danaro coloro che l'arrecarono, come fossero
benefattori. Questa non è, padre mio, la strada di ritornare alla patria; ma se altra per voi, o in
appresso per altri si troverà che alla fama di Dante e all'onore non deroghi, quella con passi non
lenti accetterò. Che se per nessuna tale in Firenze si entra, non mai in Firenze entrerò. E perchè no?
Non vedrò forse le spere del sole e degli astri da per tutto? Non potrò forse sotto qualunque plaga
speculare dolcissime verità, se prima io non mi renda inglorioso, anzi ignominioso al popolo e al
comune di Firenze? — Nè certamente mancherà pane.»
(
169
)
— Nondimeno seguitò a provare
come sa di sale
Lo pane altrui, e come è duro calle
Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.
I suoi concittadini ne perseguitarono fin la memoria; morto, fu scomunicato dal papa, e si minacciò
di diseppellirne il cadavere, per abbruciarlo e disperderne le ceneri al vento.
(
170
)
Il Petrarca chiuse i
suoi dì in concetto di santo, pel quale il Cielo operava miracoli;
(
171
)
e il senato di Venezia fece una
legge contro chi ne trafugasse le ossa, vendendole come reliquie.
(
172
)
XVIII. Altri potrebbe credere che il Petrarca, compiendo fedelmente e generosamente a tutti
i doveri sociali con ciascuno che gli stava intorno, e facendo continuamente ogni sforzo per tenere a
freno le sue passioni, ne dovesse venir riputato virtuoso e sentirsi felice. Virtuoso fu; ma fu più
infelice di Dante, da cui mai non trasparve quella irrequietudine e perplessità d'animo che fece il
Petrarca minore di sè agli occhi proprii, e lo trasse ad esclamare negli ultimi giorni suoi: «Giovane,
spregiai tutto il mondo, da me in fuori; nella virilità, me stesso; or vecchio omai, disprezzo e il
mondo e me.»
(
173
)
Se vissuti fossero in consueta comunicazione, Dante avrebbe avuto dall'emulo suo
quel vantaggio, che quanti si fanno ad operare giusta prestabiliti e immutabili propositi hanno da chi
cede a variabili e istantanei impulsi. — Il Petrarca avrebbe potuto dire con Dante
Coscienzia m'assicura,
La buona compagnia che l'uom francheggia
Sotto l'usbergo del sentirsi pura.
Ma l'ardente anelare a morale perfezione e il disperarne, lo indusse a guardare «con trepida
speranza» al giorno che doveva essere citato al cospetto di Giudice inesorabile. Dante credeva
espiare gli errori dell'umanità co' patimenti in terra:
Ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
Che prende ciò che si rivolve a lei;
e par ch'ei volgasi al cielo da uomo che adora, più presto che da supplice. Fermo nella mente il
169
()
Lettera di Dante, che conservasi nella Laurenziana a Firenze: pluteo XXIX, cod. VIII, fol. 123.
170
()
Bartolus, Lex de rejudicandis reis, ad cod. I.
171
()
Ea res... miraculo ostendit divinum illum spiritum Deo familiarissimum. — Villani, Vita Petr., sul fine.
172
()
Tomasini, Petrarcha redivivus, pag. 30.
173
()
Senil., lib. XIII, ep. 7.
concetto «l'uomo allora essere felice davvero che libero esercita tutte le sue forze,»
(
174
)
Dante
percorse con passo sicuro il cammin della vita,
E vigilando nell'eterno die,
Sì che notte nè sonno a lui non fura
Passo che faccia 'l secol per sue vie,
raccolse opinioni, follíe, vicissitudini, miserie e passioni, onde gli uomini vengono agitati, e lasciò
dopo sè monumento il quale, se ne umilia con la rappresentazione di nostre fralezze, dovrebbe farci
insuperbire di far parte d'una stessa natura con un tant'uomo, e ci conforta al miglior uso di nostra
vita transitoria. Il Petrarca da saviezza piuttosto contemplativa che attiva fu guidato a conoscere,
come le travagliose nostre fatiche in pro degli uomini eccedano a gran pezza qual benefizio ne possa
ad essi tornare, come ogni nostro passo non ad altro riesca all'ultimo che ad approssimarci al
sepolcro; e come la morte sia tra i doni della Provvidenza il migliore, e il mondo avvenire l'unica
dimora nostra sicura. Vacilla quindi nel mortal viaggio, convinto «che stanchezza e fastidio d'ogni
cosa fossero naturali all'animo suo;»
(
175
)
— e così scontò il prezzo di que' doni che natura, fortuna e
il mondo gli avevano largamente profusi, senza neppur la vicenda de' consueti rovesci.
INDICE
Prefazione
Alla molto onoranda Barbarina Lady Dacre
Saggio sopra l'amore del Petrarca
Saggio sopra la poesia del Petrarca
Saggio sopra il carattere del Petrarca
PARALLELO FRA DANTE E IL PETRARCA
174
()
Questa sentenza ricorre più volte ne' libri De Monarchia: citiamone due soli luoghi che leggonsi nel libro
primo. «Patet quod genus humanum in quiete sine tranquillitate pacis ad proprium suum opus, quod fere divinum est
(juxta illud: minuisti eum paulo minus ab angelis) liberrime atque facillime se habet». Cap. 5. — «Et humanum genus,
potissumum liberum, optime se habet». Cap. 14.
175
()
Cum omnium rerum fastidium atque odium naturaliter in animo meo insitum ferre
non possim — Epist. ad Post.
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