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Gettâr le braccia, strìnserlo, baciârgli
E gli omeri e la testa. Intenerito
Del par, ei lor baciò le mani e ’l capo.
E già lasciati, tramontando, il Sole
Gli avrebbe in pianto, se l’eroe medesmo 280
Con subito parlar non gli affrenava.
φ 228 «Ah! restate da’ gemiti e dal pianto,
Non forse alcuno del palagio uscito
Fàcciasi accorto e dentro il riferisca.
Un appo l’altro or noi, non tutti ad una, 285
Rientriam nella sala, ed io pel primo,
Voi dopo; e questo fia ’l segnal che basti:
Non alcun patirà de’ Proci alteri,
Che l’arco mi si porga e la faretra,
Ma tu traversa l’aula, o divo Eumèo, 290
E tra man pómmi l’arme; indi alle donne
Impon, che gli usci delle stanze loro
Chiudano; se qualcuna ode innalzarsi
O gemiti o rumor da’ miei recinti,
Non esca fuor, ma tacita, ivi stando, 295
Al suo lavoro attenda. A te accomando,
Prode Filèzio, di serrare a chiave
Le porte del cortile, e con tenaci
Vincoli tosto ad afforzarle adopra.»
φ 242 Detto, rientra nel palagio e donde 300
Levossi, risedette; in picciol tempo
Amendue i servi rientrâr d’Ulisse.
φ 245 Eurìmaco tra man l’arco volgendo,
Lo appressava al fulgor di fiamma viva,
Or da un canto, or dall’altro. Nondimeno 305
Tenderlo non poté. Trasse egli in questa,
Dal magnanimo cor gravi sospiri,
E gridò disdegnoso: «Ahi! qual dolore,
Non per me stesso pur, ma per voi tutti!
Né, benché mesto assai, gemo cotanto 310
La morta speme delle nozze ambite
(Ché già di molte Achee non pur s’infiora
Ìtaca, ma di Grecia ogni contrada),
Quanto m’attrista, che se il divo Ulisse
Ne vince in gagliardìa, sì che quest’arco 315
Tendere non ci è dato, il nome nostro
Sonerà infame nell’età future.»
φ 256 «No, ciò non fia – l’Eupìtide rispose –,
Eurìmaco, e tu ’l sai. Dal popol tutto
Or si festeggia ’l dì sacro ad Apollo; 320
Chi l’arco tenderà? Qui ’l deponiamo
Tranquilli e qui lasciam fitte le scuri,
Perocché niun cred’io che dal palagio