- Finiamo di veder la cappella - ripeto io, singolarmente infastidita e colpita da quella insistenza.
Fra una tomba e l'altra, statue e gruppi allegorici, sempre in quell'interno e freddo marmo. Ecco il
Pudore col volto coperto da un velo, ecco la Fortezza, ecco la Temperanza, ecco la Gloria, ecco
l'Educazione, ecco l'Amor filiale, vuote allegorie che non chiudono più alcuna idea. Ultimo,
poeticamente ultimo, è il Disinganno, un uomo che cerca con uno sforzo supremo districarsi da una
fitta rete che l'avviluppa tutto. Singolare chiusura della vita, termine singolare di tutte le sublimità, di
tutte le passioni, di tutti gli amori. Il Disinganno - e più altro.
- Perché questa tomba non ha medaglione? - domando al custode.
Egli non m' ha udita, perché ricomincia a dire:
- Il Cristo morto...
- Vediamo l'altar maggiore - ripeto io, ostinandomi.
Sì, l'ultima tomba a dritta non ha medaglione. Manca il ritratto della nobile principessa che vi è
sepolta, che è morta anch'essa così giovane. Il medaglione è liscio, vuoto, bianco, come se ne avesse
raspata, cancellata l'immagine. Ed è triste come nella sala ducale, a Venezia, il ritratto di Faliero,
coperto da un velo nero. L'altar maggiore è nudo, severo. Sulla parete, in fondo, n alto v'è un quadro,
una Vergine della Pietà, scolorita, che sostiene sulle ginocchia il livido corpo di Gesù.
La pittura è guasta, bruna, tetra; un sorcio ha fatto un buco nero nel costato di Gesù. Più giù, proprio
dall'altar maggiore, un grande gruppo in marmo che rappresenta la Deposizione della Croce. Sempre
lo stesso soggetto, sempre la morte.
- Ed ecco - ripete trionfalmente il custode, staccandosi dall'altar maggiore - il Cristo morto.
Sta ai piedi dell'altar maggiore, a sinistra. Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso
marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. È grande quanto un uomo, un
uomo vigoroso e forte. Nella pienezza dell'età. Giace lungo disteso, abbandonato, i piedi diritti, rigidi,
uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio il collo stecchito, la testa
sollevata sui cuscini, ma piegata, sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi
madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più
dolorose lagrime. In fondo, sul materasso, sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della
Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i
cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753. E più nulla. Cioè no: sul Cristo
morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle
pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la molce, che non
copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra un corpo di marmo, che sembra di carne, un lenzuolo di
marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca, dunque, in questa profonda creazione
artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v'è l'audacia del
creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita. Quel corpo morto
era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane e robusto si ribellava
al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano
morire, il corpo non voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo:
la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra
schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. È vero. è vero, il dolore è passato
dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione.
L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione vi è stata. Tutto quel
Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è
così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del
bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua
mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi,
piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci.
Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto.
Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello
per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo.
Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la
poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia,
nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo
dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il