picco sul mare, a cinquecento passi dalle ultime capanne del villaggio di Gjehawem, quella notte,
contro il solito, era illuminata. Dai vetri colorati di una stanza a pianterreno, uscivano getti di luce
rossigna, che rischiaravano fantasticamente le asperità delle roccie e le trincee e le gabbionate sparse
all'esterno.
Diamo un'occhiata a questa stanza, luogo favorito del terribile capo dei pirati di Mompracem. Era
questo un salotto alquanto vasto, colle pareti sepolte sotto pesanti tessuti di broccatello, di velluto
cremisi e di sete di Francia, qua e là sgualciti, macchiati e rattoppati, e col terreno coperto da morbidi
tappeti di Persia, sfolgoranti d'oro e di colori.
Nel mezzo faceva bella mostra un tavolo intarsiato d'ebano e fregiato d'argento, destinato forse un
tempo, a qualche sfondolato riccone delle Filippine, e tutto ingombro di bottiglie e di calici del più
puro cristallo di Venezia. Addossati agli angoli, grandi scaffali, coi vetri infranti, chi sa per qual
capriccio del pirata, riboccanti di anelli d'oro, di arredi sacri contorti o schiacciati, di vasi di metallo
prezioso, di perle e di cumuli di diamanti e di brillanti mescolati assieme, scintillanti come tanti soli,
sotto i riflessi della gran lampada dorata sospesa al soffitto.
In un canto un divano turco, non meno ricco per dorature e sculture, colle frange strappate e le stoffe
infangate e spesso insanguinate; in un altro un armonium incrostato d'oro, colla tastiera di avorio, che
portava qua e là certi segni, da credere che fossero stati fatti a colpi di scimitarra, avventati forse dal
pirata nei suoi momenti di delirio, e per ogni dove, ammonticchiati alla rinfusa, ricchi costumi, quadri
dalle tele screpolate, dovuti forse a celebri pennelli, tappeti arrotolati, lampade rovesciate, bottiglie
ritte o capovolte, porcellane infrante, moschetti indiani rabescati, brunite carabine, tromboni di
Spagna, e spade, scimitarre, scuri, piccozze e pugnali, bruttati di sangue e di resti di cervella!
In quella sala, così stranamente arredata, su di una poltrona, colla testa fra le mani, come di chi
medita, se ne stava Sandokan, il sanguinario capo dei pirati di Mompracem.
Quest'uomo, meglio conosciuto sotto il nome di Tigre della Malesia, che da dieci anni insanguinava le
coste del mar malese, poteva avere trentadue o trentaquattro anni.
Era alto di statura, ben fatto, con muscoli forti come se fili d'acciaio vi fossero stati intrecciati, dai
lineamenti energici, l'anima inaccessibile a ogni paura, agile come una scimmia, feroce come la tigre
delle jungla malesi, generoso e coraggioso come il leone dei deserti africani.
Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una barba
nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cadevano con
pittoresco disordine sulle robuste spalle. Due occhi di una fulgidezza senza pari, che magnetizzavano,
attiravano, che ora diventavano melanconici come quelli di una fanciulla, e che ora lampeggiavano e
schizzavano fiamme. Due labbra sottili, particolari agli uomini energici, dalle quali, nei momenti di
battaglia, usciva una voce squillante, metallica, che dominava il rombo dei cannoni, e che talvolta si
piegavano a un melanconico sorriso, che a poco a poco diventava un sorriso beffardo fino al punto di
trovare il sorriso della Tigre della Malesia, quasi assaporasse allora il sangue umano!
Da dove mai era uscito questo terribile uomo, che alla testa di duecento tigrotti, non meno intrepidi di
lui, aveva saputo in poco volger d'anni farsi una fama sì funesta? Nessuno lo avrebbe potuto dire. I
suoi fidi stessi lo ignoravano, come ignoravano pure chi egli si fosse.
Qualcuno, che voleva saperla più lunga di tutti, o che forse realmente sapeva qualche cosa, opinava
che fosse un Sambas delle coste settentrionali del Borneo, qualche altro invece, opinava che fosse un
Malese, o un Giavanese, o un Dajacho.
A ogni modo si sapeva che egli era il più terribile e il più capriccioso dei pirati della Malesia, un
uomo che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei
moribondi. Un uomo che amava le battaglie le più tremende, che si precipitava come un pazzo nelle
mischie più ostinate dove più grande era la strage e più fischiava la mitraglia; un uomo che, nuovo
Attila, sul suo passaggio non lasciava che fumanti rovine e distese di cadaveri.
Però se questa belva, se questo uomo-tigre era così sanguinario, non mancava di una certa generosità,
che lo rendeva più attraente.
Quante e quante volte egli aveva rimandato, rifiutando persino il riscatto, dei prigionieri, nemici suoi
personali. Quante e quante volte, dopo aver lottato ore e ore contro una nave ostinatamente difesa, con
gran strage dei suoi pirati e con gran pericolo di sé stesso, vintala, la lasciava ripartire senza nulla
esigere in compenso, e senza che i suoi tigrotti osassero alzare la voce.
Così, come era generoso, questo strano selvaggio, era pur cavalleresco. Il singolar uomo, quando gli