Download PDF
ads:
Fermo e Lucia
Alessandro Manzoni
TITOLO: Fermo e Lucia
AUTORE: Alessandro Manzoni
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Alessandro Manzoni: Tutte le Opere,
tomo I. A cura di Mario Martelli
Sansoni Editore, Firenze, 1988.
CODICE ISBN: 88-383-0993-0
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 3 novembre 1997
2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 21 febbraio 2006
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Claudio Paganelli, [email protected]
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
ads:
Livros Grátis
http://www.livrosgratis.com.br
Milhares de livros grátis para download.
<B>FERMO E LUCIA</B>
<I>di Alessandro Manzoni</I>
<B>INTRODUZIONE</B>
<B>( PRIMA INTRODUZIONE CONTEMPORANEA</B>
<B>ALLA STESURA DEI PRIMI CAPITOLI)</B>
«La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte: poiché richiamando dal
sepolcro gli anni già incadaveriti, gli passa di nuovo in rassegna, e li ordina di nuovo in battaglia:
onde i perspicaci ingegni che in questo arringo raccolgono palme conservano al loro nome quella
immortalità che agli altri conferiscono. Ma questi nobili campioni della memoria non fanno
all'obblio se non furti splendidi e rapiscono soltanto le spoglie le più ricche e brillanti,
imbalsamando coi loro inchiostri i fatti dei prencipi e potentati, e personaggi, tessendo come in feral
tela le battaglie, e trapuntando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un
perpetuo ricamo di azioni gloriose. Però non essendo alla debolezza del mio ingegno concesse
queste vittorie, ed avendo io osservato nel lungo giro dei miei anni molte e straordinarie vicende le
quali mi sono sembrate degne di memoria, ma di memoria defraudate saranno e per essere avvenute
in gran parte a persone meccaniche e di bassa condizione e non avere portata mutatione nelle ruote
degli stati: ho stimato di lasciarne una ricordanza ai posteri o almeno ai miei discendenti, collo
scolpirle in queste carte, parendomi che le cose private di questi tempi sieno meritevoli di quella
osservazione che i dotti danno alle cose mostruose, perché in picciolo teatro vi si veggono luttuose
tragedie di calamità, e scene di malvagità grandiosa. Onde si vede esser vero quel detto che il
mondo invecchiando peggiora, ma non credo che sarà vero d'ora in poi, perché avendo il male
ormai passato i termini della comparazione, ha toccato l'apice del superlativo, e il pessimo non è di
peggioramento capace. Si vedrà anche come l'umana malizia ha saputo superare tutti i ritegni, e
spezzare tutti i freni più ben temprati, avendo potuto moltiplicare ogni sorta di sevizie, perfidie ed
atti tirannici a dispetto delle leggi divine ed humane. E considerando che questi stati sieno soggetti
alla Maestà del re Cattolico che è quel sole che mai non tramonta, e che sovra di essi con riflesso
lume qual luna risplenda chi ne fa le veci, e gli amplissimi senatori quali stelle fisse vi scintillino, e
gli altri magistrati come erranti pianeti portino la luce in ogni parte, venendo così a formare un
nobilissimo cielo, si vedrà che gli atti tenebrosi che a malgrado di tante provvidenze si sono
moltiplicati essere altro non possono che arte e fattura diabolica, poiché l'humana potenza del male
bastare a tanto non dovrebbe. Narrando adunque come fedele spettatore li accidenti singolari da me
osservati, tacerò per degni rispetti molti nomi di personaggi e di luoghi che potrebbero servire come
di indizio e di guida a trovare i personaggi nel covile oscuro della dimenticanza: né per ciò si dirà
che questa sia imperfezione alla suddetta mia storia; a meno che non fosse letta da persone ignare
della filosofia, e gli uomini dotti ben vedranno che nulla manca alla sostanza; perché essendo fuori
di ogni dubitazione che il nome altro non è che purissimo accidente...».
Aveva trascritta fino a questo punto una curiosa storia del secolo decimosettimo, colla intenzione di
pubblicarla, quando per degni rispetti anch'io stimai che fosse meglio conservare i fatti e rifarla di
pianta. Senza fare una lunga enumerazione dei giusti motivi che mi vi determinarono, accennerò
soltanto il vero e principale. L'autore di questa storia è andato frammischiando alla narrazione ogni
sorta di riflessioni sue proprie; a me rileggendo il manoscritto ne venivano altre e diverse;
paragonando imparzialmente le sue e le mie, io veniva sempre a trovare queste ultime molto più
ads:
sensate, e per amore del vero ho preferito lo scrivere le mie a copiare le altrui; stimando anche che
chi ha una occasione per dire il suo parere sopra che che sia non debba lasciarsela sfuggire.
Le mezze confidenze del narratore e le ommissioni frequenti dei cognomi dei personaggi, e dei
nomi dei luoghi, non fanno a dir vero oscurità: veggio nullameno per esperienza che sono fastidiose
a chi legge, e avrei desiderato trovare altrove ciò che è solamente indicato nel manoscritto, ma non
mi venne fatto: in qualche luogo però le indicazioni di luogo sono così chiare e moltiplici che il
nome si è potuto trovare certamente e facilmente, ed allora l'ho scritto.
È qui il luogo d'antivenire un'accusa la quale per grave e pericolosa ch'ella sia, potrà leggermente
esser data a questo scritto: cioè che non sia altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo,
ma una pura invenzione moderna. Prego coloro i quali fossero disposti ad ammettere questo
sospetto, a riflettere che essi verrebbero ad accusare l'editore niente meno che di aver fatto
romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha gloria di non averne o
pochissimi. E benché questa non sia la sola gloria negativa di questa nostra letteratura pure bisogna
conservarla gelosamente intatta, al che ben provvedono quelle migliaja di lettori e di non lettori i
quali per opporsi a ogni sorta d'invasioni letterarie si occupano a dar se non altro molti disgusti a
coloro che tentano d'introdurre qualche novità. Oltre di che questo genere, quand'anche non sia altro
che una esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati è altrettanto falso e frivolo,
quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo cavalleresco in versi. Per queste
ragioni ognun vede quanta debba importare all'editore di allontanare da sé questo sospetto. Certo, il
migliore espediente sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per altri e
pur degni rispetti. Il più degno dei quali si è, che se il manoscritto fosse mostrato a pochissimi ed
amici, l'incredulità durerebbe, e se a molti si diffonderebbe l'opinione che la vecchia e originale
storia è molto meglio scritta che la nuova e rifatta, che v'era in quella un certo garbo, una certa
naturalezza, un sapore di verità, un'aria di contemporaneità che è svanita affatto nella copia. Si
direbbe che veramente il reo gusto del secolo si fa sentire nello stile del vecchio scrittore ma che
però vi è una certa fragranza (dico bene?) di lingua che ben fa vedere che di poco era spirato
quell'aureo cinquecento, quel secolo nel quale tutto era puro, classico, lindo, semplice, nel quale la
buona lingua si respirava per così dire coll'aria, si attaccava da sé agli scritti, dimodoché, cosa
incredibile e vera! fino i conti delle cucine e gli editti pubblici erano dettati in buono stile. Che se
nel secolo susseguente tutto si alterò, almeno almeno la corruttela non era straniera, era un lusso un
abuso delle ricchezze patrie, una sazietà del bello o almeno non si leggevano ancora libri francesi,
perché la Francia non aveva ancora quegli insigni scrittori che per disgrazia delle lettere ebbe
dappoi.
Non volendo adunque mostrare il manoscritto originale, ha l'editore pensato un altro mezzo per
convincere i lettori della realtà di questa storia. I dubbj su di essa non possono nascere da altro che
dal non trovare verità nel costume, nei fatti, e nei caratteri del tempo rappresentato: poiché se si
venisse a concedere che questa verità si trova, allora il dire che la storia è inventata potrebbe quasi
quasi parere più che un biasimo una lode, dal che bisogna guardarsi ben bene. Ora per certificare i
più increduli che i costumi sono veramente quelli del tempo, l'editore propone loro di fare ciò
ch'egli stesso ha fatto per giungere a questo convincimento. A dir vero molte gli parevano tanto
strane, ch'egli non sapeva risolversi a crederle realmente avvenute, perloché si pose a frugare molto
nei libri e nelle memorie d'ogni genere che possono dare una idea del costume e della storia
pubblica e privata del Milanese nella prima metà del secolo decimosettimo. Tutte le sue ricerche lo
condussero a risultati talmente somiglianti a ciò che egli aveva veduto nel manoscritto che non gli
rimase più dubbio della veracità della storia che vi si contiene. Per comodo di chi volesse rifare
queste ricerche egli pone qui una scelta delle letture opportune a mettere chicchessia in caso di
giudicare da sé questo fatto.
Nota di libri, memorie etc.
......
Ma di questi libri, dirà taluno; alcuni sono difficili a ritrovarsi, e la più parte nojosi a leggersi, e
scritti in uno stile tra il goffo e il lezioso, tra il barbaro e il pedantesco. Alcuni poi sono in latino e
come pretendere che si leggano libri latini per convincersi se una storia è vera o supposta? Chi non
sa che le signore non imparano pur troppo il latino, e che le signore appunto sono quelle che più si
dilettano di leggere storie private? dimodoché i mezzi di fare questa verificazione sarebbero
appunto interdetti a chi più probabilmente avrà letta la storia. Rispondo anche a questa obbiezione,
pregando il lettore a non farmene più altre per non farmi perdere il tempo in ciarle, e ritardare così
quello che importa cioè il racconto.
Rispondo dunque: che fra i pochi lettori di questa storia, vi saranno certamente molti, i quali benché
virtualmente sappiano che nel passato vi sono stati gli anni 1628-29 e -30, non hanno però mai
pensato a questi anni, e che molto meno sanno che cosa in quegli anni si facesse, come si vivesse, se
vi sia stato un po' di fame, di guerra, e dl peste, e di quelle altre coserelle che si vedranno in questa
storia. Questi ch'io dico penseranno dunque a quest'epoca per la prima volta leggendo questa storia,
e da essa ne ricaveranno tutte le notizie. E appena avranno letta qualche pagina cominceranno a
trovare che la tal cosa non è verisimile, che la tal altra non ha il colore del tempo e simili scoperte.
Ora fra questi lettori scommetterei che forse non vi sarà una sola signora. In generale elle non
conoscono la maniera dotta e ingegnosa di leggere per cavillare lo scrittore, ma si prestano più
facilmente a ricevere le impressioni di verità, di bellezza, di benevolenza che uno scritto può fare;
quando non vi trovino nulla di simile, chiudono il libro, lo ripongono senza gettarlo con rabbia, e
non vi pensano più. Sicché io confido che la veracità di questa storia esse la sentiranno senza
discuterla, che non si divertiranno a sottilizzare per trovare il falso dove non è; e per conseguenza la
nota riportata di sopra è affatto inutile per loro.
V'è poi un'altra obbiezione che non si può lasciare senza risposta, una obbiezione che l'editore
farebbe a se stesso quando fosse certo che non verrà in capo a nessuno. La pubblicazione di questa
storia non è cosa affatto inutile, non è una occasione di far perdere qualche ora a pochi lettori?
Lettori miei, se dopo aver letto questo libro voi non trovate di avere acquistata alcuna idea sulla
storia dell'epoca che vi è descritta, e sui mali dell'umanità, e sui mezzi ai quali ognuno può
facilmente arrivare per diminuirli e in sé e negli altri, se leggendo voi non avete in molte occasioni
provato un sentimento di avversione al male di ogni genere, di simpatia e di rispetto per tutto ciò
che è pio, nobile, umano, giusto, allora la pubblicazione di questo scritto sarà veramente inutile,
l'obbiezione sarà ragionevole, e l'editore avrà un dispiacere reale del tempo, e che ha fatto gittare
agli altri, e del molto più che egli stesso vi ha speso.
<B>INTRODUZIONE RIFATTA DA ULTIMO</B>
«L'Historia si può veramente chiamare una guerra meravigliosa contro la Morte; perché togliendoli
di mano gl'anni già suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri, li chiama in vita, li passa in rassegna, e li
schiera di nuovo in battaglia. Ma li illustri Campioni che in tal arringo fanno messe di palme,
rapiscono soltanto le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando coi loro inchiostri i fatti de
Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi, tessendo come in feral tela i conflitti di Marte, e
trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta che formano un perpetuo ricamo di
azzioni gloriose. Però alla mia debbolezza non è lecito solleuarsi a tal argomenti, e sublimità
pericolose; essendo che la Politica rinchiusa nelli latiboli delli Gabinetti come la Dea cacciatrice
negl'horrori del fonte, secondo che attesta Ouidio, se qualche Atteone spinge lo sguardo troppo
curioso a spiare i suoi segreti, sprizzandoli l'acqua misteriosa nel fronte, lo tremuta in ceruo, con
diuenir bersaglio de veltri. Solo che hauendo io hauuto notitia di fatti degni di memoria,
auuegnaché successi a gente meccaniche et di piccol affare, ho stimato bene di lasciarne una
ricordanza a posteri con scolpirli in queste carte. Nelle quali si vedranno in piccol teatro luttuose
Traggedie di calamità, et scene di malvaggità grandiosa, con intermezi di imprese virtuose, et bontà
angeliche che s'oppongono all'operationi diaboliche. Et veramente considerando che questi Stati
sijno soggetti alla Maestà del Re Cattolico, che è quel Sole che mai non tramonta, et che sopra di
essi, con riflesso lume, qual Luna non mai calante risplenda chi ne fa le veci, et gl'amplissimi
Senatori quali Stelle fisse vi scintillino, et gl'altri Magistrati come erranti Pianeti portino la luce per
ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo cielo, altra caggione non si può dare delli fatti
tenebrosi, prepotenze, sevitie ed atti tirannici che si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura
diabolica: poiché l'humana malitia per se sola, forza bastante hauer non dovrebbe per deludere la
vigilanza di tanti Heroi, che vanno continuamente trafficandosi per il pubblico emolumento.
Perloché descrivendo questo racconto auuenuto nelli tempi di mia gioventù, abbenché la più parte
delle Persone in esso nominate sijno passate ad altra vita, pure tacerò per degni rispetti li loro nomi,
et il medemo farò delli luoghi, solo indicando li territorij senza specificar il paese. Nè alcuno dirà
che questa sij imperfezzione del racconto, a meno non sij persona del tutto ignara della Filosofia:
che quanto agl'huomini dotti, ben vedranno nulla manca alla sostanza di detto racconto; perché
essendo fuori d'ogni dubitatione che i nomi altro non sono se non purissimi accidenti...»
Tale è il proemio d'una curiosa storia, che avevamo animosamente impresa a trascrivere da un
dilavato autografo del secolo decimo settimo, ad intento di pubblicarla. Ma copiate le poche righe
che abbiam qui poste per saggio, il fastidio che provammo d'una prosa così fatta ci fece avvertire a
quello che ne proverebbero i lettori, e intralasciare una fatica che sarebbe probabilmente gittata. È
ben vero che il nostro anonimo dopo essersi sul principio sbizzarrito in concettini e in figure, piglia
poi nel racconto un andamento più posato e più piano, e solo di tratto in tratto spicca qualche
salterello d'ingegno, dove il soggetto lo richiede a parer suo. Ma quando egli cessa d'esser gonfio
diviene così pedestre! così sguaiato! Anzi, come il lettore ha potuto accorgersene, ha l'arte di riunire
queste qualità opposte in apparenza, e d'esser rozzo insieme e affettato nella stessa pagina, nello
stesso periodo, nello stesso vocabolo: arte del resto comune a quasi tutti gli scrittori del suo tempo,
nel paese dove egli scrisse.
Ogni epoca letteraria ha un carattere generale suo proprio, una maniera, per dir così, che si fa
scorgere a prima vista negli scritti dozzinali, e dalla quale i più distinti e originali non vanno mai
esenti del tutto. In Italia poi, spesso e forse ad ogni epoca, oltre la maniera generale v'ebbe in
ciascuno Stato e principalmente in ciascuna città capitale una maniera particolare per dir così una
sotto-maniera che era una modificazione di quella: ne riteneva alcuni caratteri e ne aveva altri suoi
proprii. Erano come tante varietà d'una specie. Di tutte queste differenze si ponno trovare ad ogni
caso molte cagioni nelle varie circostanze dei diversi stati: una cagione comune è l'essere in
ciascuno di essi adoperato nei discorsi un dialetto particolare anche tra le persone colte. Ogni
lingua, ogni dialetto oltre i segni d'idee per così dire semplici e che hanno segni sinonimi in ogni
altra lingua, ha segni particolari, e ancor più frasi che esprimono o accennano un giudizio o
pongono la questione in un modo particolare. La moltitudine di questi vocaboli e di queste frasi
particolari dà ad ogni dialetto un carattere, un colore suo proprio, e v'introduce una specie di
criterio individuale.
Quando l'uomo che parla abitualmente un dialetto si pone a scrivere in una lingua, il dialetto di cui
egli s'è servito nelle occasioni più attive della vita, per l'espressione più immediata e spontanea dei
suoi sentimenti, gli si affaccia da tutte le parti, s'attacca alle sue idee, se ne impadronisce, anzi
talvolta gli somministra le idee in una formola; gli cola dalla penna e se egli non ha fatto uno studio
particolare della lingua, farà il fondo del suo scritto.
Di questo colore municipale si è fatto in varii tempi rimprovero a molti scrittori: che deturpasse gli
scritti non v'ha dubbio: quanto agli scrittori, prima di rimproverarli così acremente si sarebbe
dovuto pensare che non è cosa tanto facile prescindere da quelle formole alle quali sono unite per
abito tutte le memorie, tutti i sentimenti, tutta la vita intellettuale. Non è cosa facile certamente; e
non è pur certo se questo sia un mezzo di far buoni libri.
Questa irruzione inevitabile di ciascun dialetto negli scritti generalmente parlando, ha quindi
contribuito grandemente a dare agli scritti d'ogni parte d'Italia un carattere speciale: carattere così
distinto che un uomo il quale abbia un po' frugato nelle opere buone e triste dei varii tempi della
letteratura italiana, potrà dal solo stile d'un'opera argomentar quasi sempre non solo il secolo ma la
patria dello scrittore, e apporsi. Lo stile lombardo per esempio ha un carattere suo proprio
riconoscibile in tutti i tempi, e quasi in tutti gli scrittori. Due classi ne ritengono meno degli altri:
quegli che hanno fatto uno studio particolare della lingua toscana; e quegli altri che trattando
materie generali, discusse dai primi scrittori di Europa, si sono serviti di uno stile per dir così
europeo etc. etc.
Nella seconda metà del secolo decimo settimo, quando scriveva il nostro autore, quella maniera che
dominava in tutta la letteratura italiana e ha conservata una turpe celebrità sotto il nome di
secentismo; e che consisteva principalmente in uno sforzo per trovare il maraviglioso ebbe nei
diversi paesi d'Italia diverse modificazioni, e tendenze principali: dove fu principalmente una
affettazione di sagacità raffinata, dove una esagerazione impetuosa d'idee di sentimenti e
d'immagini. In Lombardia, dove pochissime idee erano diffuse e ventilate, donde nessun libro
veramente importante era uscito fin allora, dove la lingua toscana si studiava pochissimo e da
pochissimi, e da nessuno per così dire le lingue straniere, le quali del resto non avendo ancora opere
ben pensate non potevan comunicare idee in Lombardia dove alcuni pochi studii erano coltivati in
un modo pedantesco, e molti studii trascurati anzi sconosciuti, il linguaggio comune doveva esser
rozzo, incolto, inesatto, arbitrario, casuale; e lo era infatti al massimo grado. Sur un tal fondo si
ricamava poi di quelle arguzie, si appiccava quella ricercatezza che era la tendenza generale di tutta
la letteratura italiana; e ne usciva quel complesso di goffaggine prosuntuosa, d'ignoranza
affermativa, quella continuità d'idee storte espresse in solecismi, lo scrivere insomma di cui si è
dato un saggio. E il nostro autore non era uno dei peggiori del suo tempo: era anzi alquanto al di
sopra della proporzione media: ma in verità s'io avessi avuta la pazienza di trascrivere la sua storia
voi non avreste quella di leggerla.
La storia però ci parve interessante, e ci sapeva male ch'ella dovesse rimanersi sempre sconosciuta.
Ci siamo quindi risoluti di rifarla interamente, non pigliando dall'autore che i nudi fatti.
Ma, rigettando, come intollerabile, lo stile del nostro autore, che stile vi abbiamo noi sostituito? Qui
giace la lepre.
Che giova dissimulare? Confessiamo sinceramente che anche noi abbiamo adoperata qua e là, non
solo nei dialoghi, ma anche nella narrazione qualche parola, qualche frase assolutamente lombarda.
E questa libertà l'abbiamo presa, perché quelle frasi, quantunque usitate soltanto in questa parte
d'Italia, si fanno intendere a prima giunta ad ogni lettore italiano. Se noi avessimo conosciute frasi
dello stesso valore, le quali fossero non solo intelligibili, ma adoperate negli scritti e nei discorsi per
tutta Italia, certamente le avremmo preferite a quelle nostre, sagrificando di buona voglia
l'imitazione d'una verità locale alla purezza della lingua; persuasi come siamo che quel primo
vantaggio sia da trascurarsi, anzi non sia vantaggio quando non si possa conciliare col secondo.
Oh! dirà qui taluno, è questa una giustificazione o una burla? Come pensate voi a scusarvi di quella
picciola libertà, quando una così grande e così strana ne avrete presa in ogni luogo? quando tutta
questa vostra dicitura è un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po'
francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono
cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse? quando perfino conciliando,
come il nostro autore, due vizii opposti avete più d'una volta peccato di arcaismo e di gallicismo in
un solo vocabolo? dimodoché non si potrà forse nemmeno dire dove specialmente pecchi questa
lingua che adoperate, e non si può dire se non che è cattiva lingua. Voi fate come chi dopo aver
pesto un galantuomo a furia di sassate gli chiedesse poi scusa di avergli fatta qualche picciola
macchia su l'abito.
Ringrazio prima di tutto, molto cordialmente il cortese che mi fa questa censura; perché dessa prova
ch'egli ha letto o tutto o almeno in gran parte il mio scritto. E appresso, lo prego di scusarmi se non
gli posso rispondere. Non è già ch'io non abbia ragioni da addurre per mia discolpa, non è nemmeno
perché io mi vergogni di diffondermi in un sì frivolo argomento come sarebbe la mia propria
giustificazione: giacché lasciando da parte questa miserabile applicazione, la questione generale è
per sè vasta e importante. E questo appunto è il motivo per cui non posso rispondere al cortese
censore; perché le ragioni son troppe. Ci bisognerebbe un libro: e il cortese censore sarà d'accordo
con me che di libri uno per volta è sufficiente, quando non è troppo.
Basta all'autore che altri non creda avere egli scritto male per noncuranza di chi legge, per dispregio
del bello e purgato scrivere, che sia di quelli che hanno per gloria lo scriver male. Per gloria!
quand'anche ella fosse impresa difficile, tanti vi hanno sì ben riuscito, che poca gloria ne debbe
toccare a ciascuno. Scrivo male: e si perdoni all'autore che egli parli di sè: è un privilegio delle
prefazioni, un picciolo e troppo giusto sfogo concesso alla vanità di chi ha fatto un libro: scrivo
male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera. I
doni dell'ingegno non si acquistano, come lo indica il nome stesso; ma tutto ciò che lo studio, che la
diligenza possono dare, non istarebbe certamente per me ch'io non lo acquistassi.
Che cosa poi significhi <I>scriver bene</I> non credo che alcuno possa definirlo in poche parole, e
per me, anche con moltissime non ne verrei a capo. Ecco però alcune delle idee che mi sembra
doversi intendere in quella formola. A bene scrivere bisogna sapere scegliere quelle parole e quelle
frasi, che per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori (moralmente parlando)
hanno quel tale significato: parole e frasi che o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o
derivate da un'altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e
frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi basse, dagli scritti nel discorso senza
parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all'uno e all'altro uso. Parole e
frasi divenute per quest'uso generale ed esclusivo tanto famigliari ad ognuno, che ognuno
(moralmente parlando) le riconosca appena udite; dimodoché se un parlatore o uno scrittore per
caso adoperi qualcheduna che non sia di quelle, o travolga alcuna di quelle ad un senso diverso dal
comune, ognuno se ne avvegga e ne resti offeso; e per provare che quella parola sia barbara, o
inopportuna non debba frugare un vocabolario, né ricordarsi (memoria negativa che debb'esser
molto difficile) che quella parola non è stata adoperata dai tali e dai tali scrittori, ma gli basti
appellarsene alla memoria, all'uso, al sentimento degli altri ascoltatori, i quali fossero mille,
converranno tosto del sì o del no.
Parole e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l'egregio cavino dallo stesso
fondo, e dopo d'averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d'idee, di
raziocinio, di forza etc. ma non di lingua. Parole e frasi, per finirla, tanto note per uso, e
immedesimate col loro significato, che quando uno scrittore ingegnoso, per mezzo di analogia le fa
servire ad un significato pellegrino, quel nuovo uso sia inteso senza oscurità e senza equivoco, ed
ogni lettore vi senta in un punto e l'idea comune, e quel passaggio, quella estensione etc. che ha in
quell'uso particolare.
Per bene usare parole e frasi tali, cioè per bene scrivere sono necessarie due condizioni. Che lo
scrittore (lasciando sempre da parte l'ingegno) le conosca, che abbia letto libri bene scritti, e parlato
con persone colte, che abbia posto studio nell'udire e nel leggere e ne ponga nel parlare. Ma questa
condizione è la seconda. La prima è che parole e frasi adottate esclusivamente per convenzione
generale esistano, che moltissimi scrittori e parlatori, come d'accordo, abbiano formata questa
lingua ch'egli debbe scrivere, gli abbiano preparati i materiali. Se in Italia vi sia una lingua che
abbia questa condizione, è una quistione su la quale non ardisco dire il mio parere. È ben certo che
v'ha molte lingue particolari a diverse parti d'Italia, che in una sfera molto ristretta di idee
certamente, ma hanno quell'universalità e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale
ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente
uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che
scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Ve n'ha un'altra in Italia,
incomparabilmente più bella, più ricca di questa, e di tutte le altre, e che ha materiali per esprimere
idee più generali etc. ed è, come ognun sa, la toscana. Se poi anche questa lingua, la quale, fino ad
una certa epoca bastava ad esprimere le idee più elevate etc. era al livello delle cognizioni europee,
lo sia ancora, se possa somministrare frasi proprie alle idee che si concepiscono ora, se abbia avuto
libri sempre pari alle cognizioni, se abbia seguito il corso delle idee, è un'altra quistione su la quale
non ardisco dire il mio parere.
Frattanto, desidero ardentemente che tutti gli scrittori, e i parlatori convengano una volta dove sia
questa lingua, e come abbia a nominarsi. Dico tutti, o il grandissimo numero, perché uno, due, tre,
cento non possono aver ragione soli in una tal materia. La ragione non è in quel che si possa, in quel
che convenga fare, in quel che sia da desiderarsi, ma in quello che è: è quistione di fatto; e il fatto su
cui si disputa è appunto se esista o no questo universale o quasi universale uso d'una lingua comune.
E a dir vero il solo cercarla è un gran pregiudizio ch'ella non vi sia. Certo dove ella v'è, non si fa la
quistione, e se uno la proponesse, non sarebbe pure inteso.
<B>TOMO PRIMO</B>
<B>CAPITOLO I </B>
IL CURATO DI...
Quel ramo del lago di Como d'onde esce l'Adda e che giace fra due catene non interrotte di monti
da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni e per così dire piccioli golfi d'ineguale
grandezza, si viene tutto ad un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un
corso diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il punto dove il lago
divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all'occhio
ed all'orecchio questa trasformazione: poiché gli argini perpendicolari che lo fiancheggiano non
lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli argini
uno può quasi sentire il doppio e diverso romore dell'acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli
cavalloni sull'arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno
strepito per così dire fluviale. Dalla parte che guarda a settentrione e che a quel punto si può
chiamare la riva destra dell'Adda, il ponte posa sopra un argine addossato alla estrema falda del
Monte di San Michele, il quale si bagnerebbe nel fiume se l'argine non vi fosse frapposto. Ma
dall'opposto lato il ponte è appoggiato al lembo di una riviera che scende verso il lago con un molle
pendio, sul quale per lungo tratto il passaggero può quasi credere di scorrere una perfetta pianura.
Questa riviera è manifestamente formata da tre grossi torrenti i quali spingendo la ghiaja, i ciottoli,
e i massi rotolanti dal monte, hanno a poco a poco spinte le rive avanti nel lago, ed erano
abbastanza vicini perché le ghiaje gettate da essi a destra e a sinistra abbiano potuto col tempo
toccarsi e formare un terreno sodo. Allora hanno cominciato a correre in un letto alquanto più
regolare, poiché questi stessi depositi hanno loro servito d'argine, e il successivo loro
impicciolimento cagionato dall'abbassamento dei monti, dal diboscamento, e dalla dispersione delle
acque gli ha rinchiusi in un letto più angusto. Così il terreno che li divide ha potuto essere abitato e
coltivato dagli uomini. Il lembo della riviera che viene a morire nel lago è di nuda e grossa arena
presso ai torrenti, e uliginoso negli intervalli, ma appena appena dove il terreno s'alza al disopra
delle escrescenze del lago e del traripamento della foce dei torrenti, ivi tutto è prati campagne e
vigneti, e questo tratto d'ineguale lunghezza è in alcuni luoghi forse d'un miglio. Dove il pendio
diventa più ripido son più frequenti, e assai più lo erano per lo passato, gli ulivi; al disopra di questi
e sulle falde antiche dei monti cominciano le selve di castagni, e al di sopra di queste sorgono le
ultime creste dei monti in parte nudo e bruno macigno in parte rivestite di pascoli verdissimi, in
parte coperte di carpini, di faggi, e di qualche abete. Fra questi alberi crescono pure varie specie di
sorbi, e di dafani, il cameceraso, il rododendro ferrugigno, ed altre piante montane le quali
rallegrano e sorprendono il cittadino dilettante di giardini che per la prima volta le vede in quei
boschi, e che non avendole incontrate che negli orti e nei giardini è avvezzo a considerarle colla
fantasia come quasi un prodotto della coltura artificiale piuttosto che una spontanea creazione della
natura. Dove però la mano dell'uomo ha potuto portare una più fruttifera coltivazione fino presso
alle vette, non ha lasciato di farlo, e si vedono di tratto in tratto dei piccioli vigneti posti su un
rapido pendio, e che terminano col nudo sasso del comignolo. La riviera è tutta sparsa di case e di
villaggi: altri alla riva del lago, anzi nel lago stesso quando le sue acque s'innalzano per le piogge,
altri sui varj punti del pendio, fino al punto dove la montagna è nuda, perpendicolare, ed inabitabile.
Lecco è la principale di queste terre e dà il nome alla riviera: un grosso borgo a questi tempi, e che
altre volte aveva l'onore di essere un discretamente forte castello, onore al quale andava unito il
piacere di avervi una stabile guarnigione, ed un comandante, che all'epoca in cui accade la storia
che siamo per narrare era spagnuolo. Dall'una all'altra di queste terre, dalle montagne al lago, da
una montagna all'altra corrono molte stradicciuole ora erte, ora dolcemente pendenti, ora piane,
chiuse per lo più da muri fatti di grossi ciottoloni, e coperti qua e là di antiche edere le quali, dopo
aver colle barbe divorato il cemento, ficcano le barbe stesse fra un sasso e l'altro, e servono esse di
cemento al muro che tutto nascondono. Di tempo in tempo invece di muri passano le anguste strade
fra siepi nelle quali al pruno e al biancospino s'intreccia di tratto in tratto il melagrano, il gelsomino,
il lilac e il filadelfo. Una di queste strade percorre tutta la riviera ora abbassandosi, ora tirando più
verso il monte, ora in mezzo alle vigne, ed ora sulla linea che divide i colti dalle selve. Questa
strada è talvolta seppellita fra due muri che superano la testa del passaggero, dimodoché egli non
vede altro che il cielo e le vette dei monti: ma spesso lascia un libero campo alla vista la quale quasi
ad ogni passo scopre nuovi ampi e bellissimi prospetti. Poiché guardando verso settentrione tu vedi
il lago chiuso nei monti, che sporgono innanzi e rientrano, e formano ad ogni tratto seni, o ameni o
tetri, finché la vista si perde in uno sfondo azzurro di acque e di montagne; verso mezzogiorno vedi
l'Adda che appena uscita dagli archi del ponte torna a pigliar figura di lago, e poi si ristringe ancora
e scorre come fiume dove il letto è occupato da banchi di sabbia portati da torrenti, che formano
come tanti istmi: dimodoché l'acqua si vede prolungarsi fino all'orizzonte come una larga e lucida
spira. Sul capo hai i massi nudi e giganteschi, e le foreste, e guardando sotto di te, e in faccia, vedi il
lungo pendio distinto dalle varie colture, che sembrano strisce di varj verdi, il ponte ed un breve
tratto di fiume fra due larghi e limpidi stagni, e poscia risalendo collo sguardo lo arresti sul Monte
Barro che ti sorge in faccia, e chiude il lago dall'altra parte. Ma non termina quel monte la vista da
ogni parte, poiché di promontorio in promontorio declina fino ad una valle che lo separa dal monte
vicino; e come in alcune parti la stradetta si eleva al disopra del livello di questa valle, da quei punti
il tuo occhio segue fra i due monti che hai in prospetto un'apertura che dalla valle ti lascia travedere
qualche parte dell'amenissimo piano che è posto al mezzogiorno del Monte Barro. La giacitura della
riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più
belli del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze
autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei
paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni.
Su questa stradetta veniva lentamente dicendo l'ufizio, ed avviandosi verso casa, una bella sera
d'autunno dell'anno 1628, il Curato di una di quelle terre che abbiamo accennate di sopra. (Questa è
la prima reticenza del nostro storico). Talvolta tra un salmo e l'altro metteva l'indice nel breviario al
luogo dov'era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra mano, e la destra nella sinistra
dietro le spalle, continuava il suo passeggio guardando in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi
che erano stati sospesi così così nel tempo che aveva recitata l'ultima parte di ufizio. Uscendo poi da
questa meditazione egli girava gli occhi intorno, e arrestava lo sguardo sulle cime del monte,
osservando come aveva fatto tante altre volte sul monte i riflessi del sole già nascosto, ma che
mandava ancora la sua luce sulle alture, distendendo sulle rupi e sui massi sporgenti come larghi
strati di porpora.
Ripigliato poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse ad una rivolta della strada
dov'era solito di alzar gli occhi dal libro e di guardare quasi macchinalmente dinnanzi a sè, e così
fece anche quel giorno. Dopo la rivolta la strada andava diritta forse un centinajo di passi, e poi si
divideva; a destra saliva verso il monte, e dall'altro lato scendeva nella valle fino ad un torrente. Da
questa parte il muro non giungeva che all'anche del passaggero, e lasciava libera la vista del pendio
sottoposto, fino al torrente, e ad un pezzo di monte che lo rinchiudeva dall'altra parte. In faccia a
colui che aveva voltata la strada, e alla separazione delle due strade v'era una cappelletta sulla quale
erano dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, e terminate in punta che nella intenzione del pittore,
e agli occhi degli abitanti del vicinato volevano dir fiamme, e fra l'una e l'altra certe altre figure da
non potersi descrivere, che volevano dire anime del purgatorio; anime e fiamme color di mattone su
un fondo bianco con qualche scrostatura in varie parti. Al rivolgimento dunque della strada alzando
gli occhi verso la cappelletta il nostro Curato vide una cosa che non si aspettava e che non avrebbe
voluta vedere. Due uomini stavano uno rimpetto all'altro ai due capi della strada: uno seduto a
cavalcioni sul muricciuolo con l'un piede appoggiato sul terreno della strada e l'altro penzoloni giù
lungo il muro, l'altro in piedi appoggiato al muro con una gamba sopra l'altra, e le braccia
incrocicchiate sotto le ascelle. L'abito e il portamento non lasciavano dubbio della loro professione.
Avevano entrambi una reticella verde in capo la quale cadeva su una spalla terminata in un gran
fiocco di seta: due grandi mustacchi inanellati all'estremità, il lembo del farsetto coperto e
avviluppato da una cintura lucida di cuojo, ripiena di cartoccini di polvere, ed alla quale erano
appese due pistole con uncini: un picciol corno ripieno di polvere appeso al collo come i vezzi delle
signore: alla parte destra delle larghe e gonfie brache una tasca donde usciva un manico di
coltellaccio, due legacce rosse al disotto del ginocchio a un dipresso come i cavalieri della
giarrettiera: uno spadone dall'altro lato con una elsa di lamette d'ottone attorcigliate come una cifra;
al primo aspetto si mostravano di quella specie d'uomini tanto comune a quei tempi, che avevano
nome di bravi, specie che ora si è del tutto perduta come tante altre buone istituzioni.
Che quei due stessero lì aspettando qualcheduno era cosa troppo evidente; ma quello che più
spiacque al Curato fu di accorgersi per certi atti che quegli che aspettavano era egli poiché al suo
apparire si erano guardati alzando la testa, con un moto che dava a divedere che avevan detto tutti e
due a un tratto: egli è desso: e quegli che stava a cavalcioni tirò la sua gamba sulla strada e si alzò,
l'altro si staccò dal muro; e si avvicinarono rivolti verso il curato. Questi tenendo sempre il
breviario aperto dinanzi come se leggesse, alzava gli occhi per ispiare i loro movimenti e vedendoli
inviarsi così verso di lui, mille pensieri alla rinfusa gli corsero pel capo. Domandò subito in fretta a
se stesso, se tra i bravi e lui vi fosse qualche uscita di strada a dritta o a sinistra, e gli sovvenne tosto
di no. Pensava se avesse qualche inimicizia, se potesse temere qualche vendetta, e in quel
turbamento il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto; ma i bravi si
avvicinavano. Pose la mano nel collare, come per ricomporlo e intanto piegò indietro la testa e
guardò colla coda dell'occhio fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse, e non vide nessuno. Diede
un'occhiata al disopra del muricciolo, nei campi; nessuno: guardò sulla via che gli era dinanzi;
nessuno fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: fuggire; era lo stesso che farsi
inseguire, o peggio. Non potendo fuggire il pericolo gli corse incontro; perché i momenti di quella
incertezza erano allora così penosi per lui che non desiderava altro che di abbreviarli: allungò il
passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete ed ilarità che potè,
fece ogni sforzo per preparare un sorriso, e quando fu accostato dai due galantuomini, disse
mentalmente: ci siamo; e si fermò sui due piedi.
«Signor curato»: disse uno di quei due, piantandogli gli occhi in faccia.
«Chi mi comanda?» rispose subito il curato alzando gli occhi dal libro e tenendolo spalancato e
sospeso con ambe le mani.
«Ella ha intenzione», proseguì l'altro, «di sposare domani Fermo Spolino, e Lucia Zarella».
«Non lo posso negare»: rispose il curato col tuono d'un uomo convinto d'una trista azione; e
soggiunse tosto: «io non c'entro: fanno gli aggiustamenti fra di loro, vengono da noi, noi siamo i
servitori del pubblico...»
«Bene bene», interruppe il bravo, «questo matrimonio non si deve fare, ma né domani né mai».
«Ma, Signori miei», replicò il curato colla voce d'un uomo che vuol persuadere un impaziente, «ma
signori miei, si degnino di mettersi nei miei panni: se la cosa dipendesse da me...»
«Orsù» interruppe ancora il bravo che pareva avesse giurato di non lasciargli compire un periodo,
«se la cosa andasse a ciarle, ella ne avrebbe più di noi: ma noi non sappiamo né vogliamo sapere
altro: era nostro dovere d'avvisarla e l'abbiamo fatto». «Ma loro signori son troppo giusti, e
ragionevoli...»
«Ma», interruppe questa volta quell'altro che non aveva parlato fino allora, «ma il matrimonio non
si farà e» (qui una buona bestemmia) «chi lo farà non se ne pentirà perché non ne avrà tempo e...»
«Zitto, zitto», ripigliò quell'altro, «il signor Curato sa che noi siamo galantuomini, e non vogliamo
fargli del male, se egli opererà da galantuomo. Signor Curato, ci ha intesi, l'illustrissimo Signor
Don Rodrigo nostro padrone le fa i suoi complimenti». «Se mi sapessero suggerire;...» disse il
curato: «Oh! suggerire a lei che sa il latino!», rispose il bravo con un riso tra lo sguajato e il feroce.
«Ella troverà un mezzo, Signor curato, e sopratutto non si lasci uscire una parola di questo avviso
che le abbiamo dato per suo bene, perché altrimenti sarebbe per lei come se avesse fatto quel tal
matrimonio. Buona notte Signor Curato». Così dicendo, si svilupparono dal curato, il quale pochi
momenti prima avrebbe dato qualche gran cosa per isfuggirli, e allora avrebbe voluto prolungare la
conversazione, e avviandosi dalla parte donde egli era venuto, presero la strada, cantando una
canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero Curato pigliò delle due strade quella che andava a
casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che gli parevano ingranchite, e con
animo che il lettore comprenderà meglio dopo d'avere appreso qualche cosa di più dell'indole di
questo personaggio, e della condizione dei tempi in cui gli era toccato di vivere.
.......
L'impunità era organizzata, e aveva molte altre cause di simil genere, e la trepidazione nell'eseguire
le gride nata da queste cause, e la sicurezza già antica nei trasgressori educati a soperchiare. Ora
questa impunità minacciata ed insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva ad ogni minaccia e ad
ogni insulto fare nuovi sforzi per conservarsi, aumentare la sua forza, resistere, atterrire, tenersi
unita, e così faceva difatti. Quindi la grida al suo nascere trovava molta gente che aveva già prese le
disposizioni necessarie per continuare a fare ciò ch'ella veniva a proibire. Nessuna libertà nelle cose
oneste perché col fine di aver sotto la mano ogni uomo per prevenire e punire ogni delitto, le gride
assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d'ogni
sorta. Ma chi si era messo in istato di guerra colle gride, e cogli ordini d'ogni specie, chi aveva già
disposti i suoi mezzi di difesa nella forza aperta, o nelle astuzie legali, o nella protezione, o nella
connivenza allora comune e scandalosa dei giudici, chi poteva e voleva ammazzare o dar la mancia
ad un birro, quegli era libero nelle sue operazioni, al sicuro delle gride, e in caso di rivolgerle anche
contro gli altri quando i suoi mezzi privati non fossero stati bastanti. Accadeva a taluno di costoro
di morire di morte violenta, di esser sbanditi, vivevano in continuo sospetto, che vuol dire, erano
nella condizione di tutti i loro contemporanei. Quegli stessi che non avevano un animo provocatore
ed ingiusto si trovavano come costretti di guardarsi e di stare sulle difese, il che teneva per dir così
una quantità di forze sempre in presenza e dava a tutta la società un'aria di sospetto, di offesa. Ad
ogni momento tutto era pronto, per venire alle mani.
L'uomo che teme l'offesa e che vuole offendere, cerca compagni, quindi la tendenza universale a
quei tempi di arruolarsi per dir così, in classi, in corpi, in maestranze, in confraternite. Alcune classi
già anticamente costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e
spaventosa, quindi gli altri per non trovarsi sempre individui contra una società, dovevano esser
contenti di trovare un motivo per riunirsi, di avere deliberazioni, massime comuni, privilegi, e una
bandiera, e di potere, quando fossero toccati, rivolgere le forze solidali di molti a loro difesa. Il
clero era geloso sostenitore delle sue immunità, e come ad esso stava in gran parte il decidere fin
dove giungessero, non si deve domandare se le estendesse fin dove potevano, e fin dove non
potevano giungere. Che gli ecclesiastici vuoti di spirito sacerdotale, ambiziosi, violenti, avari
riponessero tutta la religione in questa immunità non è da stupirsene, poiché è chiaro che è cosa
molto comoda l'avere una scomunica da opporre ad una ragione, e cessare ogni pericolo con un
privilegio d'inviolabilità indefinita. Ma quello che merita più considerazione si è come i buoni non
cedessero ai tristi in questa specie di zelo, come uomini pii e d'una virtù molto superiore alla onestà,
uomini certamente di alto ingegno, potessero combattere acremente, lungamente, mettere tutto a
repentaglio per pretese, le quali non sembra che non possano conciliarsi col minimo grado di
riflessione, e con un grano di buona fede. Per ispiegare questo fenomeno si dice che erano idee del
tempo alle quali i migliori e più sinceri intelletti pagavano tributo come gli altri. Ma questa
spiegazione non ha senso se non si trovano le cagioni per cui essi pure dovessero affezionarsi a
queste idee, quando il loro amore per la verità, e la loro attitudine a trovarla dovevano condurli a
scoprire il debole di queste idee. Le quali cagioni appariscono chiare a chi dà una occhiata allo stato
della società in quei tempi. Tante erano le volontà d'impedire ogni esercizio delle facoltà le più
legittime, d'inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così potenti, che il clero non poteva
concepire come avrebbe potuto agire a malgrado di esse, senza avere una forza propria. Quindi
tribunali civili e criminali per assicurare ai suoi membri una giustizia imparziale o per opporre una
parzialità ad un'altra, quindi minacce spirituali e temporali ad ogni attentato contro le persone o i
beni del clero, quindi forza per eseguire le sue leggi etc. Malgrado queste immunità, le quali con
nome non affatto improprio allora si chiamavano libertà, il Clero si trovava ad ogni istante
inceppato da altre forze organizzate, non è quindi da maravigliarsi se i meno ambiziosi le
credessero non solo necessarie, ma insufficenti, se cercassero di estenderle, se vedessero nella
diminuzione di quelle, la diminuzione della religione stessa, e se gridassero altamente che chi le
intaccava, voleva rendere impossibile l'esercizio della religione stessa. Tutto questo non è detto per
provare che avessero ragione di pensare e di operare a quel modo, ma per ridurre il torto alla sua
giusta misura, e per ricondurlo alle sue vere cagioni, e per riflettere che vi hanno degli
inconvenienti che oltre il male diretto che fanno, ne producono dei grandissimi forzando quasi gli
uomini a cercare dei rimedi che non sono né ragionevoli, né perfettamente onesti, e che oltre
l'effetto per cui sono posti in opera ne producono molti altri impreveduti e pessimi.
Abbondio non nobile, non ricco, non animoso, si era presto avveduto di essere nella società come il
vaso di terra cotta in compagnia di molti vasi di bronzo sempre in movimento. Aveva quindi
secondata assai lietamente la volontà dei suoi parenti che lo avevano avviato allo stato ecclesiastico.
A dir vero il suo fine principale non era stato quello di servire agli altri col ministero. Egli aveva
pensato a trovare un modo di vivere, e a porsi in una classe rispettata e forte, nella quale il debole
fosse difeso dalle forze riunite degli altri. Ma non basta appartenere ad una classe per goderne tutti i
vantaggi, come ognun sa: bisogna anche che l'individuo sappia dirizzare a suo uso il più che può
delle forze che la sua società può mettere in opera, e non v'è organizzazione comune che dispensi
l'individuo dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio non poteva adottare un sistema nel
quale fosse necessaria una qualunque parte di risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla
fin fine il pover'uomo non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si dice. Il suo
sistema era dunque di evitare tutti i contrasti, e di cedere in quelli che non avesse potuto evitare. Se
egli era assolutamente forzato a prender parte fra due contendenti, stava dalla parte più forte,
procurando però di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente avverso, che potendo fare
a suo modo sarebbe stato neutrale: pareva che gli dicesse: - Ma perché non avete saputo essere il
più forte? io sarei allora con voi. - Con queste arti il pover'uomo era riuscito a poter giungere senza
forti burrasche fino all'età di cinquant'anni.
Ma il povero Don Abbondio non avrebbe voluto esser conscio a se stesso di esser mosso da principj
bassi e da non confessarsi; e si era quindi fatto (come accade sempre) una dottrina sua propria,
secondo la quale la sua condotta era ragionevole anzi la sola ragionevole e onesta. Quando poi si
vide in virtù di questa sua buona condotta, bastantemente al coperto dalle offese altrui, pensò, come
accade, ad attaccare, e divenne un rigido censore delle azioni e degli uomini che non tenevano la
sua condotta, quando però questa sua censura potesse esercitarsi senza alcuno anche lontano
pericolo.
Chi era stato percosso e non era in caso di far vendetta era almeno almeno un imprudente, un
ammazzato era certamente un torbido, e se non lasciava parenti irritati della sua morte, era un
birbante; ma chi aveva commesso un omicidio poteva esser certo che Don Abbondio non gli
avrebbe mai trovato un difetto. Quello poi che più gli dava collera era il vedere qualcuno dei suoi
confratelli pigliare le parti di un debole, difenderlo contro una soperchieria. Questo chiamava egli
un comprarsi le brighe a contanti, un volere addirizzare le gambe ai cani. I potenti, i ricchi, i
facinorosi, i protettori, i protetti, insomma i vittoriosi d'ogni genere erano per lui uomini d'oro, e ne
parlava sempre col mele alla bocca. E se qualche seccatore trovava da apporre ad alcuno di questi,
mettendo il discorso sopra qualche grossa bricconeria commessa da alcuno di questi grandi
galantuomini, Don Abbondio si metteva a declamare contro quel vizio di pretendere che gli uomini
sieno perfetti. E quanto a quelli che avevano sofferto di quella bricconeria, egli sapeva trovar loro
qualche torto, il che non è mai difficile, perché tra lo scellerato e l'onesto, la ragione e il torto non si
dividono mai con un taglio così netto che l'uno stia tutto da una parte, e l'altro tutto dall'altra. E
sigillava sempre il discorso col suo assioma favorito, proferendo il quale rifletteva con compiacenza
sopra di sè: e l'assioma era: che ad un galantuomo che vuol viver quieto, che sa stare nel fatto suo,
non accadono mai brutti incontri.
S'immagini ora il lettore che colpo doveva essere stato questo per Don Abbondio. L'impressione di
spavento per quei visi e per quelle minacce, l'idea d'un pericolo associata a ogni momento
dell'avvenire, il frutto di tanti anni di studio e di politica perduto in un giorno, l'unica teoria sulla
quale era fondata tutta la sua speranza di quieto vivere, rovinata, e un passo stretto, pericoloso da
attraversare, un passo del quale non si vedeva una uscita. Poiché se si avesse potuto mandare in
pace Fermo con un bel no, l'affare sarebbe stato finito, essendo la coscienza di Don Abbondio
bastantemente soddisfatta della idea che a lui era stata fatta violenza. Ma Fermo vorrà delle ragioni,
e non istarà quieto, e la ragione buona non si poteva dire a tutto il mondo, troverà strano questo
ritardo, e molto più una ripulsa, mormorerà, e che cosa rispondere? E se Fermo ricorre? Angustiato
da questi pensieri il nostro Curato per sollevarsi un poco si scatenava in suo cuore contro chi era
venuto a togliergli per sempre la sua pace. Egli non conosceva Don Rodrigo che di nome, e di vista,
e non aveva avuta altra relazione con lui che di fargli una grande scappellata quando lo incontrava e
di riceverne un mezzo saluto di protezione. Gli era occorso talvolta di difenderlo, quando si parlasse
di qualche soperchieria da lui fatta, e aveva detto forse cento volte che Don Rodrigo era un degno
cavaliere. Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali l'aveva difeso in altre occasioni.
Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei due sposi che in fondo erano la prima cagione di una
tanta sua angustia. Ragazzi, - andava ripetendo - ragazzi, non pensano che a maritarsi e non si fanno
carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo.
Colla compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su
un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita
cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul
volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così
vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona che per distinguerli non vi sarebbero
bisognati gli occhi della vecchia Vittoria.
«Ma che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente niente».
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la contò per una risposta, e
proseguì.
«Come, niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere?...»
«Quando dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente, o è cosa che non posso
dire». Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato in due botte e
risposte, andò sempre più incalzando.
«Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
Quando Vittoria intese questo fu certa che v'era una cosa da sapersi e che la cosa era grave, e giurò
a se stessa di non lasciare andare a dormire il Curato senza averla saputa. «Ma, signor padrone, per
l'amor di Dio mi dica che cosa ha: vuol ella ch'io sappia da altra parte che cosa le è accaduto?» «Sì
sì, da brava, andate a fare schiamazzo, a metter la gente in sospetto». «Ma io non dirò niente se ella
mi toglie da questa inquietudine». «Non direte niente come quando siete corsa a ripetere alla serva
del curato nostro vicino tutti i miei lamenti contro il suo padrone, e m'avete messo nel caso di
domandargli scusa, come quando...» Vittoria sarebbe qui montata sulle furie se non avesse avuto un
secreto da scavare, e se non avesse pensato che nulla allontana da questo intento come il piatire
sopra cose estranee. Interruppe dunque Don Abbondio, ma in aria sommessa: «Oh per amor del
cielo, che va ella mai rimescolando: sono stata ben castigata, non aveva creduto far male, e dopo
d'allora guarda che mi sia uscita una parola. Signor padrone, se io parlo...» «Via, via, non giurate».
«Ma vorrei poterla soccorrere, chi sa che io non abbia un povero parere da darle. Io l'ho sempre
servita di cuore e con attenzione, ma ella sa», e qui fece voce da piangere, «ella sa che i misterj non
li posso soffrire. Una serva fedele ha da sapere...»
In fondo il curato aveva voglia di scaricare il peso del suo cuore, onde fattigli ripetere seriamente i
più grandi giuramenti le narrò il miserabile caso, mentre la buona Vittoria, tra la gioja del trionfo, e
l'inquietudine del fatto che non poteva esser lieto, spalancò gli orecchi e ristette colla posata alzata
nel pugno che tenne puntato sulla tavola. «Misericordia!» sclamò Vittoria: «oh gente senza timor di
Dio, oh prepotenti, oh superbi, oh calpestatori dei poverelli, oh tizzoni d'inferno!» «Zitto zitto, a che
serve tutto questo?» «Ma come farà Signor padrone?» «Oh! vedete», disse il curato in collera, «i bei
pareri che mi dà costei? Viene a domandarmi come farò, come farò, come se fosse ella
nell'impiccio e che toccasse a me cavarnela». «Sa il cielo se me ne spiace, Signor padrone, ma
bisogna pensarci». «Sicuro, e nell'imbroglio son io».
«Pur troppo», disse Vittoria, «ma non si lasci spaventare: eh! se costoro potessero aver fatti come
parole, il mondo sarebbe loro: Dio lascia fare ma non strafare: e qualche volta cane che abbaja non
morde». «Lo conoscete voi questo cane? e sapete quante volte ha morso?...» «Lo conosco e so bene
che...» «Zitto, zitto, questo non serve». «Signor padrone, ella ci penserà questa notte, ma intanto
non cominci a rovinarsi la salute per questo: mangi un boccone».
«Ma se non ho voglia». «Ma se le farà bene», e detto questo, si avvicinò al seggiolone dov'era il
curato e lo mosse alquanto come per dargli la leva: il curato si alzò, ella spinse il seggiolone vicino
alla tavola: il curato vi si ripose, e mangiato un boccone di mala voglia, facendo di tempo in tempo
qualche esclamazione, come: - Una bagattella! ad un galantuomo par mio: - ed altre simili, se ne
andò a letto colla intenzione di consultare tranquillamente, e ordinatamente sui casi suoi.
<B>CAPITOLO II</B>
FERMO
La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte. L'egoismo, la debolezza, e la paura vi si trovavano
come in casa loro, l'astuzia doveva quindi essere invitata, e ricevere L'incarico di proporre il partito,
e così fu. Senza annojare il lettore colla relazione di tutte le fluttuazioni, dei ripieghi accettati e
rigettati, basterà il dire che il partito di fare quello che si doveva senza darsi per inteso della
minaccia non fu nemmeno discusso, che si pensò a quello di assentarsi, tanto da aspettare qualche
beneficio dal tempo, ma questo anche fu rigettato perché non v'era spazio per eseguirlo. La
celebrazione del matrimonio era stabilita pel giorno vegnente, e una partenza di buon mattino, senza
lasciare nessuna disposizione avrebbe avuto tutto il colore d'una fuga, ed esponeva a molti impicci,
e rendiconti. Fu però riservato questo ripiego per l'ultimo, cercando intanto di guadagnar tempo e di
agire sulla parte più debole. Don Abbondio si preparò a questo esperimento; passò in rassegna tutti i
mezzi di superiorità e d'influenza che l'autorità, la scienza, (in paragone di Fermo), e la pratica gli
davano sopra quel povero giovane, e pensò al modo di farli giuocare. Questi bei trovati di Don
Abbondio appariranno più chiaramente nel discorso ch'egli ebbe con Fermo. Fermo non si fece
aspettare, e appena appena gli parve ora da potersi presentare al Curato senza indiscrezione, vi andò
colla lieta impazienza di un giovane che in quel giorno deve sposare quella ch'egli ama. Era Fermo
un tessitore di seta, sorta d'industria che da una grande attività era allora in decadenza, ma non però
al segno che l'operajo abile non potesse onestamente vivere del suo lavoro. L'emigrazione di molti
lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione del lavoro lasciandone a sufficienza a quelli che
rimanevano. In progresso di tempo crescendo a dismisura le cause che avevano diminuita quella
industria, essa fu ridotta quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo di terra che
faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato dal filatojo, dimodoché
non aveva a contrastare col bisogno. Era in quel giorno vestito dalla festa con piume di vario colore
al cappello, col suo coltello dal bel manico, e mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria di
festa e nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli uomini i più quieti, come
infatti era Fermo. L'accoglimento serio, freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto
singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo
fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che ora le convenga che
noi veniamo alla Chiesa».
«Di che giorno intendete?»
«Oggi, Signor curato; non siamo intesi così
«Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, non posso».
«Come non può? che cosa è accaduto?»
«Prima di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da fare è cosa di sì poco tempo,
e di sì poca fatica...»
«E poi, e poi, e poi...»
«E poi che cosa, Signor curato?»
«E poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?»
«Avete buon tempo voi altri, che non vi pigliate briga di niente, e vi fate servire, e non avete conti
da rendere. Ma io sono troppo dolce di cuore, procuro di togliere gli ostacoli, di facilitare tutto, di
fare quello che gli altri vogliono, e trascuro il mio dovere, e poi mi toccano dei rimproveri, e
peggio».
«Ma per carità, non mi tenga così sulla corda; mi dica che cosa c'è».
«Sapete voi quante e quante formalità sono necessarie per fare un matrimonio che non levi il sonno
a chi lo ha fatto?»
«Ma queste formalità non si sono già fatte?»
«Fatte, fatte, pare a voi, perché la bestia son io che trascuro il mio dovere per non far penare la
gente. Ma ora, so io quel che dico, non posso più fare a questo modo».
«Ma via, quale è la formalità com'ella dice, che bisogni fare? La si farà subito».
«Ecco: nessuno è contento a questo mondo: voi stavate bene colla vostra professione, libero,
industrioso, col tempo avreste potuto comperarvi un luoghetto vicino al vostro e poi un altro, e a
poco a poco vivere d'entrata: ecco che vi salta in capo di ammogliarvi».
«Ma a che serve questo discorso? appunto perché Dio mi dà un poco di bene voglio maritarmi; io
non son venuto adesso a domandarle un parere, ma a sapere quando mi vuol maritare».
«Sapete voi quanti sono gl'impedimenti dirimenti?»
«Che vuole che sappia io d'impedimenti? Mi sbrighi, mi dica che cosa manca, ed io farò tutto».
«<I>Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis
affinis...</I>»
«Si piglia ella giuoco di me? Ella sa che io non so il latino».
«Dunque se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che vuol da me, perché io
non capisco niente».
«Tutti questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n'è una filza».
«Insomma al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava di contenere.
Don Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come giovane buono
e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il dover sempre arzigogolare pretesti,
mentre aveva una buona ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si
abbandonò e rispose con tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi dir:
voglio?» Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che già aveva voluto
scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel caldo crescente delle sue risposte. «Lo voglio
per...» gridò con una subita trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero
figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno sproposito come qualunque
signore».
«Via via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane ch'eravate?»
«Mi dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son tranquillo, e parli».
«Sappiate adunque che è nostro dovere, dovere preciso di fare ricerche, ricerche esatte per vedere
se non ci sieno impedimenti».
«Ma se ve ne fosse, perché non me li sa indicare?»
«Ma non basta il non saperne, bisogna aver fatte quelle tali ricerche, e poi bisogna informarsi di
molte altre cose, altrimenti?... il testo è chiaro: <I>Antea quam matrimonium denunciet, cognoscet
quales sint...</I>»
«Non voglio latino. Ma perché non le ha fatte prima queste ricerche?»
«Ecco mi rimproverate la mia troppa bontà. Ma adesso, mi son venute... basta, so io».
«Insomma quanto tempo ci vuole?»
«Molto, molto».
«Quanto?»
«Almeno un mese».
«Un mese?» sclamò Fermo con volto burbero e sorpreso.
«Via in quindici giorni si procurerà...»
«Signor Curato...»
«Ebbene voi non volete intender ragione, vedrò se in una settimana...»
«Or bene, aspetterò una settimana, mi esporrò alle ciarle, ed ai fastidj di questo ritardo. Ma la
prevengo che questo ritardo non mi renderà di buon umore, né disposto a contentarmi di ciance.
S'ella vuol farmi una ingiustizia, si ricordi che tutto quello che può accadere è sulla sua coscienza.
La riverisco». E così detto se ne andò facendo un inchino frettoloso, e molto meno riverente del
solito, e lasciò Don Abbondio più soprappensiero di prima.
Il povero sposo che, entrato nella casa del Curato per parlare di nozze e di festa, non aveva sentito
altro che impedimenti ed imbrogli, in mezzo alla stizza che lo rodeva, andava però riflettendo sui
discorsi e sul contegno del Curato, e trovava tutto pieno di mistero...
L'accoglimento freddo e imbarazzato, l'impazienza e quasi la collera, il tuono continuo di rimbrotto
senza un perché, quel farsi nuovo del matrimonio che pure era concertato per quel giorno, e non
ricusando mai di farlo quando che sia, parlare però come se fosse cosa da più non pensarvi, le
insinuazioni fatte a Fermo di metterne il pensiero da un canto: il complesso insomma delle parole di
Don Abbondio presentava un senso così incoerente, e poco ragionevole, che a Fermo, ripensandovi
così nell'uscire, non rimase più dubbio che non vi fosse di più, anzi tutt'altro di quello che Don
Abbondio aveva detto. Stette Fermo in forse di ritornare al Curato per incalzarlo a parlare, ma
sentendosi caldo, temette di non passare i limiti del rispetto, pensò alla fin fine che una settimana
non ha più di sette giorni, e si avviò per portare alla sposa questa trista nuova. Sull'uscio del Curato
si abbattè in Vittoria che andava per una sua faccenda, e tosto pensò che forse da essa avrebbe
potuto cavar qualche cosa, e salutatala entrò in discorso con lei:
«Sperava che saremmo oggi stati allegri insieme, Vittoria».
«Ma! quel che Dio vuole, povero Fermino».
«Ditemi un poco, quale è la vera ragione del Signor Curato per non celebrare il matrimonio oggi
come s'era convenuto».
«Oh! vi pare ch'io sappia i secreti del Signor Curato?» È inutile avvertire che Vittoria pronunziò
queste parole come si usa quando non si vuole esser creduto.
«Via, ditemi quel che sapete, ajutate un povero figliuolo».
«Mala cosa nascer povero, il mio Fermino».
Per timore di annojare il lettore non trascriverò tutto il dialogo, dirò soltanto che Vittoria fedele ai
suoi giuramenti non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi
doveri colla voglia di parlare. Invece di raccontare a Fermo ciò ch'ella sapeva, gli fece tante
interrogazioni, e che toccavano talmente il fatto noto a Vittoria, che avrebbero messo sulla via
anche un uomo meno svegliato di Fermo, e meno interessato a scoprire la verità. Gli chiese se non
s'era accorto, che qualche signore, qualche prepotente, avesse gettati gli occhi sopra Lucia,
etc.,parlò dei rischj che un curato corre a fare il suo dovere, del timore che uno scellerato impunito
può incutere ad un galantuomo, fece insomma intender tanto che a Fermo non mancava più che di
sapere un nome. Finalmente per timore come si dice, di cantare, si separò da Fermo
raccomandandogli caldamente di non ridir nulla di ciò che le aveva detto.
«Che volete ch'io taccia», disse Fermo, «se non mi avete voluto dir nulla».
«Eh! non è vero che non vi ho detto nulla? Me ne potrete esser testimonio, ma vi raccomando il
segreto». Così dicendo si mise a correre per un viottolo che conduceva al luogo ov'ella era avviata.
Fermo che aveva acquistata tutta la certezza che una trama iniqua era ordita contro di lui, e che il
Curato la sapeva, non potè più tenersi, e tornò in fretta alla casa di quello, risoluto di non uscire
prima di sapere i fatti suoi che gli altri sapevano così bene. Entrò dal curato, lo sorprese nello stesso
salotto, e gli si avvicinò con aria risoluta: «Eh! eh! che novità è questa», disse Don Abbondio.
«Chi è quel birbante», disse Fermo colla voce d'un uomo che non vuole esser più burlato, «chi è
quel birbante che non vuole ch'io sposi Lucia?»
Don Abbondio diede un salto dal suo seggiolone per correre alla porta, Fermo vi balzò prima di lui,
come doveva accadere, la chiuse e si pose la chiave in tasca.
«Ah! ah! Signor Curato, adesso, parlerà ella?»
«Fermo, Fermino, per amor di Dio, aprite, guardate quel che fate, pensate all'anima vostra».
«Che pensare? Mi si è coperta la vista», rispose Fermo; un Toscano avrebbe detto: non vedo più
lume. E continuò: «lo voglio sapere subito, subito», e così dicendo pose forse inavvertitamente la
mano al coltello che però non si cavò di tasca. «Jesummaria!» sclamò Don Abbondio.
«Lo voglio sapere», gridò ancor più forte il giovane.
«Volete voi la mia morte?»
«Voglio sapere ciò che ho ragione di sapere».
«Ma se parlo, io son morto. Non m'ha da premere la mia vita?»
«Ah! le preme dunque la sua vita? Bene la sua vita è in mano mia in questo momento. Parli».
«Oh povero me! mi promettete, mi giurate di non dir niente?»
«Le prometto di fare uno sproposito se non parla subito».
Di botta in risposta il volto di Fermo diveniva più infocato, il labbro più tremante, e l'occhio più
stralunato. Don Abbondio vide che non poteva cavarsela che col proferire una parola, e articolò:
«Don...» «Don», replicò Fermo come per ajutare Don Abbondio a pronunziare il resto: «Don
Rodrigo» disse finalmente il Curato. E non l'ebbe appena proferita, che sentendo cessato il pericolo
imminente, e vedendo che Fermo non aveva più pretesto da minacciarlo, la paura si cangiò in
collera e cominciò a rimproverarlo. «Avete fatta una bella azione. Mi avete reso un bel servizio».
«Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico,
«Signor Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio
caso Ella avrebbe avuto più pazienza».
«Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno, aprite».
Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e gli domandò di
nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite», replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di
tasca, e la presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa una violenza.
Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa,
e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di
non dir niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e
da lui che molto anco volea
chiedere e udir qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era;
egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in situazioni imbrogliate
a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e
non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione
ottima, e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno
d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente. Lo spavento del giorno passato, l'agitazione
della notte, e lo spavento replicato di quella mattina lo servirono a maraviglia. Si ripose sul
seggiolone tremando del brivido e guardandosi le unghie e sospirando; giunse finalmente Vittoria.
Risparmio al lettore i rimproveri e le scuse. Basti dire che Don Abbondio ordinò a Vittoria di
chiamare due contadini suoi affidati e di tenerli come a guardia della casa, e di far sapere che il
curato aveva la febbre. Dati questi ordini si pose a letto, dove noi lo lasceremo senza più occuparci
di lui per un lungo tratto di tempo, nel quale egli cessa d'avere un rapporto diretto colla nostra
storia. Soltanto per prestarmi alla debolezza di quei lettori che non capiscono che l'uomo timido il
quale lascia di fare il suo dovere per ispavento merita meno pietà dello scellerato consumato il
quale cercando il male, e facendolo spontaneamente mostra almeno di avere una gran forza
d'animo, e di sentire le alte passioni, e che potrebbero essere solleciti per quel meschino, credo di
doverli informare che Don Abbondio non morì di quella febbre.
Fermo toltosi in fretta dalla vista di Don Abbondio, uscito del villaggio, si avviò a gran passi quasi
senza avvedersene da quella parte che conduceva al palazzotto di Don Rodrigo, ch'egli desiderava
in quel momento d'incontrare come un amico dopo una lunga assenza. I provocatori, i soperchianti,
tutti quelli che in ogni modo invadono i diritti altrui, sono rei non solo del male che fanno, ma del
pervertimento a cui portano gli animi di coloro che offendono. Fermo era come l'abbiam detto un
giovane tranquillo, ed innocuo, ma in quel punto il suo cuore non batteva che per l'omicidio.
Andava dunque per affrontare lo scellerato quando pensò che a quella casa benché discosta
alquanto dall'abitato, pure era cosa insensata e piena di pericolo l'avvicinarsi con mire ostili;
giacch'ella era una specie di picciol forte con una guarnigione di bravi. Egli sentì tosto che ad una
sola parola irriverente che avesse detta sarebbe stato scacciato, che mostrandosi, anche senza
parlare, intorno a quella casa sarebbe stato provocato, e ucciso, e che i suoi uccisori lo avrebbero
dipinto come un assassino. Ma risoluto alla vendetta, pensò che l'unico modo di eseguirla era
aspettare un momento in cui per caso Don Rodrigo uscisse scompagnato dai suoi bravi, di aspettarlo
dietro una macchia o un muricciuolo. In questa risoluzione si rivolse quasi macchinalmente per
tornare a casa a prendere il suo archibugio. Andando, egli s'immaginava di starsene appiattato, gli
pareva di sentire una pedata, di alzare chetamente la testa, di vedere Don Rodrigo, prendeva la
mira, sparava, lo vedeva cadere, gli lanciava una maledizione, e correva verso il confine per
mettersi in salvo. E mentre tripudiava in questa immaginazione, gli si attraversò un pensiero: - E
Lucia... che ne sarà? - Appena la catena delle idee feroci che lo dominava in quel punto fu
interrotta, le migliori idee a cui era avvezzo entrarono in folla. Si ricordò la consolazione che aveva
tante volte provata pensando di esser mondo di sangue, gli avvisi di suo padre, le preghiere ripetute
e sollecite di sua madre moribonda, pensò all'inferno, a Dio, alla Beata Vergine, e si risvegliò da
quel sogno di sangue con ispavento e con rimorso, e con una specie di gioja di non aver fatto niente.
- Dio mi ajuterà - disse, e deposto ogni pensiero di pigliar l'archibugio, continuò la sua strada per
andare ad informare Lucia e la madre del tristo stato delle cose. In mezzo alla ripugnanza che
sentiva a dovere dare una tal novella alla sua sposa, egli ardeva di parlargliene per togliersi un fiero
sospetto dal cuore. La prepotenza di don Rodrigo non poteva venire da altro, che da una sua brutale
passione per Lucia. E Lucia ne era ella informata? Così arrovellato giunse nel cortiletto della casa, e
sentì un gridio nella stanza superiore dov'era Lucia e s'immaginò che sarebbero amiche e comari, e
non si volle mostrare. Una fanciulletta che si trovava nel cortile gli corse incontro gridando: «lo
sposo, lo sposo!» «Zitto, zitto», disse Fermo, «sali da Lucia, pigliala in disparte e dille all'orecchio,
ma all'orecchio ve', che ho da parlarle, e che l'aspetto nella stanza terrena, e non lo dire a nessun
altro».
La fanciulletta salì subito le scale, lieta di avere una incombenza segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la rubavano, e le
facevano forza perché si lasciasse vedere, ma ella si schermiva con quella modestia un po' guerriera
delle foresi, chinando la faccia sul busto e facendole scudo col gomito. Aveva i neri capegli spartiti
sulla fronte con una dirizzatura ben distinta, e ravvolti col resto delle chiome dietro il capo in una
treccia tonda e raggomitolata a foggia di tanti cerchi, e trapunta da grossi spilli d'argento che
s'aggiravano intorno alla testa in guisa d'una diadema, come ancora usano le donne del contado
milanese. Al collo una collana di molte fila, di granate alternate con bottoni d'oro a filigrana. Un bel
busto di broccato a fiori, le maniche corte fino al gomito dello stesso colore, allacciate sopra le
spalle con nastri di seta, e terminate da due gran manichetti, una gonnella corta di filaticcio di seta
terminata all'allacciatura con fitte e spesse pieghe, due calze vermiglie, e due pianelle coperte di
seta e ricamate sul piede. Oltre questo che era l'ornamento particolare di quel giorno, Lucia aveva
quello quotidiano di una modesta bellezza, la quale era allora accresciuta e per dir così abbellita
dalle varie affezioni dell'animo suo in quel giorno. Poiché appariva nei suoi tratti una gioja non
senza un leggier turbamento, un misto d'impazienza, e di timore e quella specie di accoramento
tranquillo che ad ora ad ora si mostra sul volto delle spose, e che temperato dalle emozioni
gioconde e liete non turba la bellezza, ma l'accresce, e le dà un carattere particolare. La picciola
Santina entrò nella stanza, non fece vista di nulla, aspettò un momento in cui Lucia si era staccata
dalle donne, le disse la sua parolina all'orecchio, e se ne andò, per timore di non lasciarsi scorgere di
quello che aveva fatto. Lucia disse, «torno», e scese in fretta in fretta. La faccia stravolta e il
portamento agitato di Fermo la spaventò. «Che c'è di nuovo?» gli chiese ansiosamente. «Lucia»,
disse Fermo, con una voce nella quale più non si distingueva che la tristezza, «Lucia per oggi è
finita, e Dio sa quando saremo marito e moglie». «Perché perché chiese ancor più spaventata
Lucia. Fermo le narrò brevemente tutta la storia di quella mattina, tacendo però il nome di Don
Rodrigo.
«Ah! non può essere che quel demonio in carne», sclamò Lucia pallida, e sconfortata. «Chi?»
domandò Fermo. «Don Rodrigo». «Dunque voi sapevate?...»
«Pur troppo» interruppe Lucia, «e non ve ne ho parlato per buone ragioni; ora vi dirò il tutto:
lasciate che possiamo esser sole con voi». Così detto salì in fretta le scale, ritornò nella stanza dove
le donne erano radunate, e componendo il volto come potè meglio: «Il signor Curato», disse, «è
ammalato, e per oggi non si fa nulla». Detto questo salutò le donne e ripartì.
Quando non ci fosse stata altra cagione di ritardo, la situazione era abbastanza imbarazzante in una
sposa per motivare la sua subita scomparsa. La società si disciolse: la madre seguì la figlia per
ansietà e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per potere verificare il fatto, e far
congetture.
Ma la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle donne gli antecedenti che noi
racconteremo nel seguente capitolo.
<B>CAPITOLO III</B>
IL CAUSIDICO
I tre rimasti a consiglio erano agitati, turbati per la stessa causa ma in diverso modo. Fermo si
trovava nello stato di un uomo il quale ad un tratto dalla prosperità e dalla gioja è balzato in una
sventura della quale non conosce che una parte; è ansioso di sapere il di più, vuole essere informato
di tutto, aspetta, sospira nuove rivelazioni, e non ne può aspettare che non accrescano il suo
rammarico, che non peggiorino la sua condizione. Al dolore, al rancore, alla rabbia, si aggiungeva
ora il martello della gelosia. Egli aveva sempre avuta piena fede in Lucia, ma un mistero di questo
genere, un silenzio in questa materia lo tormentava, egli era come spaventato di conoscere che
Lucia aveva una cosa sul cuore, e ch'egli non ne aveva saputo nulla. Agnese, la madre di Lucia era
pure stupita, scandalizzata di essere all'oscuro d'una cosa simile: ella che sapeva tante cose che non
la toccavano per nulla, ignorare una cosa tanto importante della sua Lucia! Agnese le avrebbe fatto
un rabbuffo terribile, se in questo caso il bisogno d'ascoltare non avesse vinto d'assai quello di
parlare. Lucia... ma dalle sue parole il lettore intenderà lo stato del suo animo. «Parla! parla!
Parlate, parlate!» gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia atterrita, costernata, vergognosa,
singhiozzando, arrossando, sclamò: «Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose
sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio di Don Rodrigo veniva spesso alla
filanda a vederci trarre la seta. Andava da un fornello all'altro facendo a questa e a quella mille
vezzi l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista a chi una peggio: e si pigliava tante libertà:
chi fuggiva, chi gridava; e purtroppo v'era chi lasciava fare! Se ci lamentavamo al padrone, egli
diceva: "badate a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi", e borbottava poi: "gli è un
cavaliere; gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che sa mostrare il viso". Quel tristo
veniva talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi
volle tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: "ci
vedremo": i suoi amici ridevano di lui, ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non
andar più alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per avere un pretesto, e vi ricorderete
mamma ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire per grazia di Dio, e per quei
pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre di modo ch'egli non mi potè cogliere. Ma la
persecuzione non finì: colui, mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete mamma
ch'io vi dissi che aveva paura d'andar sola e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava a lavare,
ad ogni passo: io non dissi nulla, forse ho fatto male. Ma pregai tanto Fermo che affrettasse le
nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora...» Qui le
parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto. «Birbone! assassino!
dannato!» sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul
manico del suo coltello. «Ma perché non parlarne a tua madre?» disse Agnese: «se io l'avessi saputo
prima...» Lucia non rispose perché la risposta che si sentiva in mente non era da dirsi a sua madre:
tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di
parlare. «Non ne hai tu fatto parola con nessuno?» ridimandò Agnese. «Sì mamma, l'ho detto al
Padre Galdino, in confessione». «Hai fatto bene; ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha
detto il Padre Galdino?» «Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi non si
curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione egli ci penserebbe».
«Oh che imbroglio! che imbroglio!» riprese la madre. Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò
Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa, e disse: «Questa è l'ultima che fa quel birbante».
«Ah no Fermo per amor del cielo!», gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo: «No no per
amor del cielo, Dio c'è anche pei poveri! Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?» «No,
no per amor del cielo», ripeteva Agnese. «Fermo!» disse Lucia, «voi avete un mestiere, ed io so
lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi». «Ah! Lucia! e poi? non
siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? Non saremo pigliati come
vagabondi? dove andarci a porre?» Lucia ricadde nel pianto. «Sentite!» disse Agnese: «sentitemi
che son vecchia». Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma
necessità, e quando si trattava di dar fede alle sue parole. «Io ho veduto un poco il mondo: non
bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose
pajono talvolta imbrogliate imbrogliate perché non abbiamo la pratica per uscirne. Ma, sapete, c'è
della gente che si ride degli imbrogli. Fate a modo mio Fermo. Pigliate quei quattro capponi,
poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti, per le gambe,
andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pettola?» «Lo so benissimo». «Bene andate da lui,
presentategli i capponi: perché vedete quando si vede che uno può regalare gli si dà retta. Contategli
tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del
capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornavano
a casa vispi come un timollo che saltellando nella barca per disperazione cade nell'acqua, e si trova
in casa sua. Fate così Fermo». Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di
pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio definitivo e determinato presenta
ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo di consigliarsi di nuovo e meglio è semplice, non
nuoce, e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una
uscita.
Fermo adunque abbracciò molto volentieri il parere. Lucia vi aggiunse la sua approvazione. Agnese
superba di averlo dato pigliò i capponi, riunì le loro otto gambe come se facesse un mazzo di fiori,
le avvolse e le strinse con uno spago, e consegnò la preda in mano a Fermo, che date e ricevute
parole di speranza uscì per una porticella dell'orto, onde non esser veduto dai ragazzi che gli
correrebbero dietro gridando: lo sposo, lo sposo. Così attraversando i campi, o come dicono colà, i
luoghi andò a prendere il viottolo che guida a Lecco, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e
ruminando il discorso da fare al Dottor Pettola. Lascio poi pensare al lettore come dovessero stare
in viaggio quelle povere bestie così legate, e tenute per le zampe nella mano d'un uomo agitato da
tante passioni, e che di tempo in tempo stendendo con forza il braccio in un momento d'ira o di
risoluzione, o di disperazione, dava scosse terribili a quei prigionieri e faceva balzare le loro quattro
teste spenzolate le quali si andavano beccando l'una l'altra, come succede troppo sovente fra
compagni di sventura. In poco d'ora Fermo giunse a Lecco, e s'avviò alla casa del dottore.
All'entrare si sentì sorpreso da quella timidità che i poverelli illetterati provano in vicinanza d'un
signore e d'un dottore, dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati, ma diede un'occhiata ai
capponi, e si rincorò pensando che non veniva colle mani vuote. Entrato in cucina chiese alla
fantesca del signor dottore: la fantesca vide le bestie, e come avvezza a simili doni vi pose le mani
sopra, mentre Fermo le andava ritirando, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch'egli
portava qualche cosa. Il dottore giunse in fatti mentre la fantesca diceva: «date qui, e passate nello
studio». Fermo fece un grande inchino al dottore, che lo accolse umanamente con un: «venite
figliuolo», e lo fece entrare con sè nello studio. Era questo una stanza con un grande scaffale di libri
vecchi e polverosi, un tavolo gremito di allegazioni, di suppliche, di papiri, e intorno tre o quattro
seggiole, e da un lato un seggiolone a bracciuoli con un appoggio quadrato coperto di vacchetta
inchiodatavi con grosse borchie, alcune delle quali cadute da gran tempo lasciavano in libertà gli
angoli della copertura, che s'incartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto
d'una lurida toga che gli aveva servito molti anni addietro per perorare nei giorni di apparato,
quando andava a Milano per qualche gran causa. Chiuse la porta e rincorò Fermo con queste parole:
«Figliuolo, ditemi il vostro caso».
«Vorrei dirle una parola in confidenza», rispose Fermo. «Son qui per questo», rispose il dottore:
«parlate»; e si pose a sedere sul seggiolone. Fermo stette ritto dinnanzi al tavolo con le mani nel suo
cappello.
«Vorrei sapere da lei che ha studiato...» «Già», interruppe il dottore, «già voi altri siete tutti così;
invece di contare il fatto spiccio a chi può ajutarvi, cominciate a fare interrogazioni come se doveste
esaminare il causidico. Ma via, qualche minuto di più non fa niente: parlate a modo vostro».
«Ella ha da scusarmi signor dottore: noi altri poveri non abbiamo studio. Vorrei dunque sapere se a
minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c'è penale».
- Ho capito (disse fra sè il dottore, che in verità non aveva capito) ho capito, - e pensò subito al
modo di cavare partito da quello ch'egli aveva immaginato. Si fece dunque serio, ma in guisa di chi
teme per uno che vuol soccorrere: strinse fortemente le labbra facendone uscire un suono
inarticolato che accennava il sentimento che espressero più chiaramente le sue prime parole: «Caso
serio, figliuolo, caso contemplato. Avete fatto bene a venire da me. Non è mica vedete una di quelle
cose che si decidono con leggi vecchie, scritte in latino, nelle quali ci è sempre una decisione per
una parte e per l'altra. È un caso chiaro, deciso in una grida, confermata da una grida, tenete,
dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore del ducato di Milano. Vedete, figliuolo», e qui si
alzò, pose le mani su un fascio di gride, scartabellò un momento, e subito ne prese una, e segnando
col dito, «sapete leggere?», dimandò. «Qualche cosa, signor dottore». «Orbene ecco il vostro caso».
«...quel prete non faccia quel che è obbligato per l'officio suo: ecco ci siamo: non è questo il caso
vostro». «Pare che abbiano fatta la grida per me». «Vedete figliuolo? ora mò sentite la penale...
Mentre il dottore leggeva ad alta voce, pronunziando distintamente le parole che risguardavano il
caso, per incutere a Fermo quello spavento salutare di cui il dottore aveva bisogno, Fermo
compitando lentamente, seguiva coll'occhio la lettura cercando di cavare il costrutto chiaro, e di
vedere proprio quelle benedette parole che gli parevano dover essere il suo ajuto. Il dottore alzò gli
occhi intanto, squadrò Fermo, e gli disse: «Ah! ah! figliuolo vi siete fatto radere il ciuffo: avete
avuto prudenza: ma volendo venire da me non faceva bisogno: si vede che non mi conoscete: non
sapete quello ch'io sia in caso di fare: vi avrei cavato anche di questo». Per aver la ragione di questa
uscita del dottore, bisogna che l'ignaro apprenda e il dotto si ricordi che a quei tempi coloro che
facevano il mestiere di bravi, e che vivevano di soprusi fatti spontaneamente o per mandato,
usavano molti ingegni per travisarsi, e non esser riconosciuti, e togliere così una prova materiale del
delitto. L'uso più comune era quello di portare un lungo ciuffo che ordinariamente lasciavano
cadere dietro la testa, e si gettavano poi sul volto come una visiera al momento di affrontare
qualcheduno, di far qualche impresa che era meglio di poter poi negare. Per togliere questo abuso si
erano fatte gride sopra gride, le quali proibivano che si portassero capelli lunghi, sotto pena... e
discendendo al particolare ordinavano al barbiere come dovesse tosare uno, intimando a chi
lasciasse capelli più lunghi dell'ordinario la pena di 100 scudi, o tre tratti di corda colla solita
estensione di pena maggiore all'arbitrio di S.E. Quale effetto producessero queste gride è manifesto
dalle diverse date di quelle.
La grida si ristampava di tempo in tempo coll'avvertenza che ciò era necessario perché fino allora
non aveva giovato a nulla: e come nella medicina, si cresceva la dose. Il ciuffo era dunque come
un'insegna di bravo, e di scapestrato. Da questa foggia è nato un termine metaforico tuttavia in uso
nel dialetto milanese: e non vi sarà forse alcuno, dei miei lettori milanesi che non si ricordi di aver
sentito, nella sua adolescenza, alcuno de' suoi parenti, o il maestro del collegio, o il servo che lo
conduceva a scuola, o la fante dare di lui questo giudizio: gli è un ciuffo: gli è un ciuffetto. Prego il
lettore di perdonarmi questa digressione e come necessaria, e in grazia della condizione che gli ho
data, e ripiglio il dialogo.
«In verità, da povero figliuolo», rispose Fermo, «ch'io non ho mai portato ciuffo in vita mia».
«Non facciamo niente» riprese il dottore, scotendo il capo, con un sorriso tra maligno e impaziente:
«se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice bugia al dottore, vedete figliuolo, è uno
sciocco che dirà la verità al giudice. Io non ho tempo da perdere. Se volete ch'io v'ajuti, voi dovete
contarmi tutto dall'a alla zeta, sinceramente, come al confessore. Dovete dirmi chi vi ha dato il
mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; ed allora io andrò da lui a fare un atto di dovere:
non gli dirò mica, vedete, ch'io sappia da voi che vi ha mandato egli: fidatevi: gli dirò che vengo ad
implorare la sua protezione per un povero giovane calunniato. E tutto si aggiusterà a vostra
soddisfazione: capite bene che salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra,
via, non mi ritiro, ho cavato altri da peggio imbrogli, e pur ché non abbiate offesa persona di
riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio, con un po' di spesa. Basta che mi sappiate
dire chi è l'avversario, che forse forse troveremo modo di appiccicargli qualche criminale, e forse
forse lo metteremo in panni più stretti dei vostri, e lo faremo venire a domandar grazia. Ma come vi
ho detto, se non avete un uomo, un uomo, il caso è serio, la grida canta chiaro, e se la cosa si deve
decidere fra la giustizia e voi così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo chiaro: le scappate bisogna
pagarle: se volete dormir quietamente sopra questa faccenda; denari, e sincerità, parlare col cuore in
mano, e poi obbedire, fare quello che vi sarà suggerito».
Mentre il dottore faceva questa cicalata, Fermo lo stava ascoltando coll'attenzione d'un uomo che
sognando, s'immagina di cercar qualche cosa, ed ora gli pare d'averla trovata, di mettergli le mani
sopra, e poi la vede scomparire, e ne va di nuovo in cerca: tanto era lontano dal sospettare
l'equivoco preso dal dottore. Quando questi ebbe terminato, Fermo ebbe inteso: e tra un poco di
collera, però quella collera che un buon uomo di contado può avere contra un signore che sa, e tra
un certo orgoglio di farsi vedere libero da quei timori che il dottore supponeva, rispose: «Oh signor
dottore: la cosa non è così: io non ho minacciato nessuno: io non faccio di queste azioni, e domandi
pure a tutto il mio comune, che sentirà che io non ho mai avuto che fare con la giustizia.La
bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per informarmi come io possa farmi dar ragione; e son
ben contento d'aver veduta quella grida». «Diavolo!» disse il dottore, «che confusione mi avete
fatta? tant'è siete tutti così, possibile che non sappiate farvi intendere?» «Ma signor dottore, mi
scusi io non le ho contata la cosa, ora le conterò. Deve sapere ch'io doveva sposare oggi», e qui il
povero Fermo si commosse, «doveva sposare oggi Lucia Zarella, una giovane che non ha mai dato
da dire a nessuno, e avevamo fatto tutto da galantuomini, e il curato che doveva sposarci oggi non
volle perché... perché gli fu minacciata la vita. Quel prepotente di Don Rodrigo...»
Il dottore si fece serio davvero, e dando sulla voce a Fermo: «Eh!» gridò, «che mi venite a contare
di queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri che non sapete misurare le parole, e non
venite a farli con un galantuomo che sa che cosa vuol dire parlare. Andate, andate; non sapete quel
che vi diciate: io non m'impaccio con ragazzi, non voglio sentire discorsi in aria». «Lo giuro!»
«Andate vi dico, siete un ragazzo, pare che parliate ad un uomo che non abbia mai sentito giurare.
Andate, io non c'entro: imparate a parlare: non si viene così a sorprendere un galantuomo». Con
queste frasi spezzate, il dottore spingeva verso la porta Fermo, il quale andava ripetendo: «ma
senta, ma senta». Il dottore aperta la porta chiamò Felicita, e le disse: «restituite subito a quest'uomo
quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente». Felicita dacché era ai servigi del
dottore non aveva mai eseguito un ordine simile; ma era dato con una tale risoluzione, ch'ella non
esitò ad obbedire: prese le quattro povere bestie, e le diede a Fermo, guardandolo con un'aria di
compassione spregiante che pareva volesse dire: costui deve stare in cattivi panni, ne ha fatta una
grossa. Fermo voleva far cerimonie, ma il dottore fu inespugnabile; e Fermo attonito, e trasognato,
e stizzito dovette ripigliarsi le vittime rifiutate, e partirsi di là senza poter riposare il suo pensiero in
altra determinazione, che di tornarsene a casa sua, a riferire alle donne il tristo risultato della sua
consulta.
Lucia al suo partire era rimasta nel pianto a cangiare la sua veste nuziale coll'umile abito
quotidiano, a sentire le consolazioni e i pareri della madre, e a rispondere singhiozzando alle minute
interrogazioni ch'ella le andava facendo, mischiandole di qualche rimprovero sul suo aver sempre
taciuto. Fra questi tristi discorsi la madre e la figlia si erano sedute insieme presso il suo arcolajo a
dipanar seta. Ma la povera sposa andava pensando a quello che si potesse fare; il primo ripiego che
viene in mente ai poverelli è quello di aver parere ed ajuto, e Lucia si sovvenne del Padre Galdino.
Andare al convento, ch'era distante forse due miglia; ella non ardiva, in questo frangente, e aveva
ragione, pensava dunque di cercare qualche garzoncello disinvolto e fidato, per cui potesse fare
avvertire il buon Capuccino. Mentre ella stava per informare la madre del suo disegno s'ode
picchiare all'uscio, e nello stesso momento un sommesso ma distinto «<I>Deo gratias</I>...» Lucia,
immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e allora, fatto un inchino, entrò infatti un laico
cercatore cappuccino colla sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e l'imboccatura di essa
attorcigliata e stretta nelle due mani sul petto. «Frà Canziano» dissero le due donne. «Il Signore sia
con voi», disse il frate: «vengo per la cerca delle noci; e come il raccolto è stato buono voi ne darete
a Dio la sua parte, affinché ve ne dia un altro eguale o migliore l'anno venturo; se però i nostri
peccati non attireranno qualche castigo». «Lucia, vanne a pigliare le noci pei padri» disse Agnese.
Lucia si alzò, e si avviò all'altra stanza, ma prima di entrarvi ristette dietro le spalle di frà Canziano
che rimaneva ritto nella medesima positura, e ponendosi l'indice sulla bocca diede alla madre una
occhiata che domandava il segreto con tenerezza, con supplicazione, con fierezza, e anche con una
certa autorità. Partita Lucia, frà Canziano disse ad Agnese: «E questo matrimonio? si doveva pure
fare oggi: ho veduto nel paese come una confusione, come qualche cosa che indichi una novità; che
c'è
«Il Signor curato è ammalato, e bisogna differire», rispose in fretta Agnese, e per cangiare di
discorso richiese come andasse la cerca.
«Poco bene, buona donna, poco bene. Vedete tutto quello che ho. Son tutte qui», e così dicendo si
tolse la bisaccia dalle spalle e la fece saltare agli occhi di Agnese; «son tutte qui, e per raccogliere
questo ho mendicato in dieci case». «Mah! l'anno è scarso, fra Canziano, e i poverelli mancano di
pane, quando il pane è caro tutto si misura più per sottile».
«Perché l'anno è scarso, buona donna? pei nostri peccati; e per far tornare l'abbondanza che rimedio
c'è? l'elemosina. Eh! quando io era cercatore in Romagna, la limosina delle noci era tanto
abbondante, che bisognò che un benefattore ci facesse la carità d'un asino, perché il cercatore non
poteva durare. E si faceva tant'olio al convento che i poveri venivano a prendere ogni volta che ne
avevano bisogno. Ma in quel paese avevano più carità perché avevano avuta una grande scuola.
Sapete di quel miracolo?» «No in verità: contate contate». «Oh! dovete dunque sapere che molti
anni prima ch'io andassi in quel convento v'era stato un padre che era un santo; il padre Agapito. Un
giorno d'inverno ch'egli passava per un viottolo in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene
anch'egli, dunque il padre Agapito vide il benefattore vicino ad un gran noce, e quattro contadini
colle scuri al piede per gettarlo a terra; e avevano già fatta una fossa intorno per iscoprire le radici. -
Che fate a quella povera pianta? disse il nostro religioso. - Eh padre sono anni che non fa più frutto
ed io penso di farne legna. - Non fate non fate, disse il padre; sappiate che quest'anno la porterà più
noci che foglie. - Il benefattore che sapeva con chi parlava, ordinò subito ai lavoranti che gettassero
di nuovo la terra sulle radici, e chiamato di nuovo il padre che continuava la sua strada, - Padre
Agapito, gli disse, la metà del raccolto sarà pel convento. - Si sparse la voce della profezia, e tutti
correvano a guardare il noce: infatti a primavera, fiori a furia, e poi noci noci a furia.
Ma, Dio non volle che il benefattore avesse la consolazione di abbachiare quelle noci, e lo chiamò a
sè prima del raccolto. La consolazione toccò al figliuolo, ma fu corta perché era un poco di buono,
come sentirete. Ora dunque, al raccolto il cercatore andò per riscuotere la metà che era dovuta al
convento; e colui si fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai inteso
dire che i frati sapessero far noci. Il cercatore fece la sua denunzia al convento. Sapete ora che cosa
avvenne? Un giorno dunque quello scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e
così gozzovigliando, egli raccontava la storia del noce, e rideva dei frati. Quei giovinastri ebbero
voglia di andare a vedere quello sterminato mucchio di noci, ed egli li condusse al granajo. Ma,
sentite mò ora; apre la porta, va verso il cantuccio dove era il gran mucchio, e mentre dice: -
guardate -, guarda egli stesso e vede, che cosa? un bel mucchio di foglie secche di noce. Questo fu
un castigo, e benché il fatto sia di molti anni addietro, ad ogni raccolto di noci se ne parla tuttavia in
quel paese».
Qui ricomparve Lucia col grembiule tanto carico di noci che lo poteva reggere a fatica, tenendo i
due capi sospesi colle braccia tese e allungate. Mentre fra Canziano si tolse la bisaccia dalle spalle,
la pose in terra e aprì la bocca di quella per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un
volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata che voleva dire:
mi giustificherò. Fra Canziano proruppe in elogj, in augurj, in promesse, in ringraziamenti; e
rimessa la bisaccia si avviò; ma Lucia, fermatolo: «vorrei un servizio da voi», disse. «Vorrei che
diceste al Padre Galdino che ho bisogno di parlargli di somma premura, e che mi faccia la carità di
venire da noi poverette, subito subito, perché io non posso venire alla Chiesa».
«Non volete altro? non passerà un'ora che lo dirò al Padre Galdino».
«Non mi fallate».
«State tranquilla»; e così detto partì un po' più curvo e più contento che non quando era arrivato.
Il Padre Galdino era uomo di molta autorità fra i suoi, e in tutto il contorno; eppure fra Canziano
non fece nessuna osservazione a questa specie di ordine che gli si mandava da una donnicciuola di
venire da lei; la commissione non gli parve strana niente più che se gli si fosse commesso di
avvertire il Padre Galdino che il Vicario di provvisione e i sessanta del consiglio generale della
Città di Milano lo richiedevano per mandarlo ambasciatore a Don Filippo Quarto Re di Castiglia, di
Leone etc. Non vi era nulla di troppo basso né di troppo elevato per un Cappuccino: servire
gl'infimi, ed esser servito dai potenti; entrare nei palazzi e nei tugurii colla stessa aria mista di
umiltà, e di padronanza; essere nella stessa casa un soggetto di passatempo, e un personaggio senza
il quale non si decideva nulla, cercare la limosina da per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano
al convento, a tutto era avvezzo un Cappuccino, faceva tutto a un dipresso colla stessa naturalezza,
e non si stupiva di nulla. Uscendo dal suo convento per qualche affare, non era impossibile che
prima di tornarsene si abbattesse o in un principe che gli baciasse umilmente la punta del cordone, o
in una mano di ragazzacci che fingendo di essere alle mani fra di loro gli bruttassero la barba di
fango. La parola frate in quei tempi era proferita colla più gran venerazione, e col più profondo
disprezzo; era un elogio e un'ingiuria: i cappuccini forse più di tutti gli altri riunivano questi due
estremi perché senza ricchezze, facendo più aperta professione di umiliazioni, si esponevano più
facilmente al vilipendio, e alla venerazione che possono venire da questa condotta. La
considerazione poi data generalmente al loro ordine li poneva nel caso sovente di giovare e di
nuocere ai privati, di essere grandi ajuti e grandi ostacoli, e quindi anche la varietà del sentimento
che si aveva per essi, e delle opinioni sul conto loro. Varj pure e moltiformi erano e dovevano
essere i motivi che conducevano gli uomini ad arruolarsi in un esercito così fatto. Uomini compresi
della eccellenza di quello stato che allora era esaltata universalmente, altri per acquistare una
considerazione alla quale non sarebbero mai giunti vivendo, come allora si diceva, nel secolo, altri
per fuggire una persecuzione, per cavarsi da un impiccio, altri dopo una grande sventura, disgustati
del mondo, talvolta principi o fastiditi, o atterriti del loro potere; molti perché di quelli che entrano
in una carriera per la sola ragione che la vedono aperta; molti per un sentimento vero di amor di
Dio e degli uomini, per l'intenzione di essere virtuosi ed utili; e questa loro intenzione (perché
quando si è persuasi d'una verità bisogna dirla; l'adulazione ad una opinione predominante ha tutti i
caratteri indegni di quella che si usa verso i potenti) questa loro intenzione non era una pia illusione,
l'errore d'un buon cuore e d'una mente leggiera, come potrebbe parere, e come pare talvolta a chi
non sa o non considera le circostanze e le idee di quei tempi: era una intenzione ragionata, formata
da una osservazione delle cose reali; e in fatti con queste intenzioni molti abbracciando quello stato
facevano del bene tutta la loro vita; anzi molti che sarebbero stati uomini pericolosi, che avrebbero
accresciuti i mali della società, diventavano utili con quell'abito indosso. Ho fatta tutta questa
tiritèra perché nessuno trovi inverisimile che fra Canziano, senza fare alcuna obbiezione, senza
stupirsi, si sia incaricato di dire, nullameno che al Padre Guardiano, che s'incomodasse a portarsi da
una donnicciuola che aveva bisogno di parlargli.
Partito Fra' Canziano: «tutte quelle noci!» gridò Agnese; «in questi anni di miseria! e per noi che
rimarrà? sei fuor di te per la disgrazia». «Mamma», rispose Lucia, «perdonatemi; ma voi vedete
quanto importi di parlar subito al Padre Galdino che ci può dar parere e soccorso. Se io avessi fatta
una elemosina come gli altri, Fra Canziano avrebbe dovuto girare Dio sa quanto, prima di aver la
bisaccia piena, e di tornare al convento; e colle ciarle che avrebbe fatte e sentite, forse avrebbe
dimenticata la mia commissione...»
«Via, hai pensato bene, e poi è tutta carità; purché faccia buon frutto».
Mentre le donne stavano in questi ragionamenti, Fermo, si avviava verso il villaggio ripassando
nella sua mente gli strani discorsi del dottore, passando d'una passione nell'altra, proponendo ora un
disegno or l'altro, e non potendo riposarsi in alcuno. - Tutti così: siete fatti tutti così: andava
dicendo fra sè: oggi me lo sento dire per la seconda volta: siam fatti così: come siamo dunque fatti
noi poverelli? che cosa pretendo io da costoro? andava forse a domandare la carità? Pretendo la
giustizia, per bacco, (ommettendo molte altre più che esclamazioni, perché Fermo non aveva mai
tanto sagrato in tutta la sua vita, come fece in quel giorno). Pretendo alla fine delle fini di sposare
una donna secondo la legge di Dio. Birbi tutti! tutti ad un modo! tutti d'accordo per mandare gli
stracci all'aria! Ma, se mi riducono alla disperazione... - Con questi pensieri giunse alla casetta delle
due donne ed entrando colla faccia adirata, e vergognosa nello stesso tempo per la trista riuscita,
gittò i capponi sur un tavolo; e fu questa l'ultima trista vicenda delle povere bestie per quel giorno.
«Bel parere che mi avete dato» diss'egli ad Agnese, «mi avete mandato da un buon galantuomo, da
uno che ajuta veramente i poverelli». E qui raccontò il suo abboccamento col dottore. Agnese
voleva replicare, e sostenere che il parere era buono, e che se non aveva avuto buon effetto la colpa
doveva essere di Fermo, ma Lucia, interruppe, narrando a Fermo ch'ella sperava di aver trovato un
miglior consigliero. Il nome del Padre Galdino diede qualche speranza a Fermo; ma Fermo accolse
anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impaccio. «Ma, se il
Padre», diceva, «non vi trova un ripiego, lo troverò io in un modo o nell'altro». Le donne
consigliarono la pace e la pazienza, e la prudenza. «Domani», disse Lucia, «il Padre Galdino verrà
sicuramente, e vedrete che troverà qualche rimedio che noi poveretti non sappiamo nemmeno
immaginare».
«Lo spero», disse Fermo; «ma in ogni caso saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c'è
giustizia finalmente».
«Addio Fermo», disse Lucia; «andate a casa, Dio ci ajuterà e non è lontano il tempo che potremo
star sempre insieme. Usate prudenza, non fatevi vedere, non parlate». Agnese aggiunse altri
consigli, e Fermo partì colle lagrime agli occhi, e col cuore in tempesta, ripetendo di tempo in
tempo queste portentose parole: «A questo mondo v'è giustizia finalmente». Tanto è vero che un
uomo sopraffatto da grandi dolori non sa più quello che si dica.
<B>CAPITOLO IV</B>
IL PADRE GALDINO
Era un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago: le più alte cime erano
dorate dal sole non ancora comparso sull'orizzonte, ma che stava per ispuntare dietro a quella
montagna che dalla sua forma è chiamata il Resegone (segone), quando il Padre Galdino a cui Fra
Canziano aveva esposta fedelmente l'ambasciata si avviò dal suo Convento per salire alla casetta di
Lucia. Il cielo era sereno, e un venticello d'autunno staccando le foglie inaridite del gelso le portava
qua e là. Dal viottolo guardando sopra le picciole siepi e sui muricciuoli si vedevano splendere le
viti per le foglie colorate di diversi rossi; e i campi già seminati, e lavorati di fresco spiccavano
dall'altro terreno come lunghi strati di drappi oscuri stesi sul suolo. L'aspetto della terra era lieto;
ma gli uomini che si vedevano pei campi o sulla via mostravano nel volto l'abbattimento e la cura.
Ad ogni tratto s'incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti invecchiati nel mestiere, fra i
quali molti si conoscevano per forestieri che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la
carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi indigeni del cantone
gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo
si vedevano alcuni i quali dal volto dal modo e dall'abito mostravano di non aver mai tesa la mano e
di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano cheti a canto al Padre Galdino, facendogli
umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perché la sola parola che indirizzavano ai passaggeri era
per chiedere l'elemosina, e un capuccino, come ognun sa non aveva niente. Ma il buon Padre
Galdino si volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di
compassione: «andate al convento, fratello; finché ci sarà un tozzo per noi, lo divideremo». I
contadini sparsi pei campi non rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli.
Salutavano essi umilmente il Padre Galdino, e quelli a cui egli domandava come l'andasse: «Come
vuole padrerispondevano: «la va malissimo». Alcuni, che in tempi ordinarj non avrebbero osato
fermare e interrogare il Padre Guardiano, fatti più animosi per la miseria dei tempi gli dicevano:
«Come anderà questa faccenda, Padre Galdino?»
«Sperate in Dio che non vi abbandonerà. Povera gente! il raccolto è proprio andato male?»
«Grano non ne abbiamo per due mesi, le castagne sono fallate e il lavoro cessa da tutte le bande».
Questa vista e questi discorsi crescevano vie più la mestizia del buon Capuccino, il quale
camminava col tristo presentimento in cuore di andare ad udire una qualche sventura.
Ma perché aveva egli in cuore questo presentimento? E perché si pigliava tanto a cuore gli affari di
Lucia? E perché al primo avviso si era egli mosso come ad una chiamata del Padre Provinciale? E
chi era questo Padre Cristoforo?
Se il lettore non fa tutte queste interrogazioni per malevola impazienza né per cavillare il povero
narratore, ma per una sincera volontà d'imparare e di essere informato della storia, legga quello che
siamo per dirgli intorno al nostro buon frate, e sarà soddisfatto.
Il Padre Cristoforo da Cremona era un uomo di circa sessant'anni; e il suo aspetto come i suoi modi
annunziavano un antico e continuo combattimento tra una natura prosperosa, rubesta, un'indole
pronta, ardente, avventata, impetuosa, e una legge imposta alla natura e all'indole da una volontà
efficace e costante. Il suo capo calvo e coperto all'intorno secondo il rito capuccinesco di una
corona di capelli che l'età aveva renduti bianchi, si alzava di tempo in tempo per un movimento di
spiriti inquieti, e tosto si abbassava per riflessione di umiltà. La barba lunga e canuta che gli copriva
il mento e parte delle guance faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del
volto, alle quali una antica abitudine di astinenza aveva dato più di gravità che tolto di espressione,
e due occhj vivi, pronti, che talvolta sfolgoravano con vivacità repentina: come due cavalli bizzarri
condotti a mano da un cocchiere col quale sanno per costume che non si può vincerla, pure fanno di
tratto in tratto qualche salto, che termina subito con una buona stirata di briglie.
Il signor Ludovico (così fu nominato dal suo padrino quegli che facendosi poi frate prese il nome di
Cristoforo) il Signor Ludovico era figlio d'un ricco mercante cremonese, il quale negli ultimi anni
suoi, vedovo, e con questo unico figlio rinunziò al commercio, comperò beni stabili si pose a vivere
da signore, cercò di far dimenticare che era stato mercante, e avrebbe voluto dimenticarlo egli
stesso. Ma il fondaco, le balle, il braccio gli tornavano sempre alla fantasia come l'ombra di Banco a
Macbeth: in mezzo ai conviti, e alle riverenze dei parassiti; e il pover'uomo passò gli ultimi suoi
anni nella angustia, parendogli ad ogni tratto di essere schernito, e non riflettendo mai che in verità
vendere e comprare non è cosa turpe, e che egli aveva fatta questa professione in presenza di tutto il
pubblico senza rimorso. Fece educare signorilmente il figlio come s'usava in allora, cercando
d'imitare, in quanto gli era permesso dalle leggi, dalle consuetudini, e dal timore del ridicolo. Gli
diede maestri di lettere, e di esercizi cavallereschi; e morì lasciandolo ricco e giovanetto. Ludovico
aveva contratte nella sua educazione abitudini signorili, e le ricchezze avevano attirati adulatori che
lo avevano avvezzo ad esigere molti riguardi; quando volle mischiarsi coi principali del paese,
l'accoglimento o piuttosto le ripulse che n'ebbe fecero un contrasto molto spiacevole colle sue
abitudini. A rendere la sua situazione più angustiosa, e ad accrescere il suo mal umore inquieto
contribuiva anche non poco l'indole sua onesta ed iraconda ad un tempo, che gli rendeva
insopportabile lo spettacolo delle angherie e dei soprusi che commettevano alla giornata quelli
ch'egli non era portato ad amare. Viveva egli lontano da essi, ma come non poteva non vederli, e
non sentirne parlare, ad ogni occasione mostrava apertamente il disprezzo e il rancore che sentiva
per essi. Questo sentimento unito alla bontà e all'amore della giustizia ch'era grande in lui, lo
portava ad assumere volentieri le difese degli oppressi; e con molte sconfitte e con qualche riuscita,
con molte spese, con molti raggiri, con molta audacia, e con qualche guajo che aveva corso si era
fatta una riputazione di protettore, ch'egli era sempre più impegnato a sostenere, e che gli aveva
procurato il favore di molti, e l'odio caldo e risoluto di alcuni potenti.
Quando un povero andava a raccontargli un sopruso che gli era stato fatto, ed a raccomandarsi alla
sua protezione parlando come se la tenesse per sicura, come se gli fosse dovuta, il signor Ludovico
si trovava quasi forzato a pigliare l'impegno, dal timore di perdere ad un tratto tutta la sua
riputazione. Ma non è da domandare se in questa sua carriera aveva avuto impicci, disgusti, e
pentimenti. Oltre i contrasti fortissimi, i pericoli, le inimicizie crescenti, le spese per le quali aveva
molto diffalcato del suo patrimonio; egli si trovava poi spesso anche in lite colla sua coscienza, la
quale come abbiam detto era sincera e bene intenzionata. Talvolta colui che veniva a richiamarsi, e
che bisognava torre da un impegno, non valeva niente meglio del suo persecutore, ed esaminando
ben bene i fatti dell'una e dell'altra parte si sarebbe trovato che se uno meritava la galea l'altro
avrebbe dovuto andare a fargli compagnia: talvolta il caso era chiaro, il ricorrente era onesto, e
meritava soccorso davvero; ma che? pigliata in mano la sua causa, per opporsi ad una batteria di
raggiri, di soprusi, di violenze, di busse, Ludovico aveva dovuto mettere in opera tanti raggiri, tanti
soprusi, tante violenze, menar tanto le mani egli stesso che terminato l'affare, ripensando ai casi
suoi, egli si rimaneva con un nemico potente di più, con molti quattrini di meno, e con dei rimorsi
alla coscienza. Questo dopo una vittoria, non dico niente poi delle sconfitte: e furono molte. Era poi
tormentato dall'idea del biasimo che gli era dato da molti d'imprudente e di accattabrighe, invece
della lode ch'egli si sarebbe aspettata.
Così combattuto sempre tra la sua inclinazione, e gli ostacoli, rispinto sovente, urtato ad ogni passo,
stanco ad ogni momento su questa strada ch'egli aveva scelta, più volte gli era passato per la mente
il pensiero che nasce dagli imbrogli e dai contrasti, il pensiero di uscirne e di attendere all'anima sua
col darsi alla solitudine, cioè col farsi frate, cosa che in quei tempi si chiamava uscire dal secolo.
Ma questo che non sarebbe stato forse che un disegno per tutta la sua vita, divenne una risoluzione
per uno di quegli accidenti che nelle sue circostanze non gli potevano mancare. Andava egli un
giorno per una via di Cremona, accompagnato da un antico fattore di bottega che suo padre aveva
trasmutato in maggiordomo, e che gli era stato fidato fino dall'infanzia. Aveva costui nome
Cristoforo: era un uomo di circa cinquant'anni, aveva moglie ed otto figli; e tutta la famiglia
sussisteva colle paghe del padre, e col di più che vi aggiungeva la liberalità di Ludovico, il quale e
per buon cuore e per un po' di boria non avrebbe mai lasciato mancar nulla ad un uomo che gli
apparteneva. Vide Ludovico venir da lontano un signor tale col quale egli non aveva mai parlato in
vita sua, ma che gli era cordiale nimico, e ch'egli pagava della stessa moneta: caso molto comune;
perché è uno dei diletti di questo mondo quello di potere odiare ed essere odiato senza conoscersi.
Costui si avanzava ritto, colla testa alta, colla bocca composta all'alterigia e allo sprezzo, mostrando
di non voler scendere verso il mezzo della via.
Ora bisogna sapere che Ludovico aveva il suo lato destro al muro, e che per conseguenza aveva il
diritto (bel diritto!) di passare accanto al muro, e che l'altro doveva dargli il passo, ma come abbiam
detto, costui accennava tutt'altro che la voglia di farlo. Anzi quando furono presso, guardando d'alto
in basso Ludovico, gli disse con aria di comando: «Tiratevi a basso».
«A basso voi», rispose Ludovico: «la strada è mia».
«Coi pari vostri, la strada è sempre mia».
«Sì s'ella appartenesse ai soperchiatori».
«A basso, vile plebeo, o ch'io ti dò quella educazione che non ti poteva dare tuo padre».
«Voi mentite ch'io sia vile: ma non è da stupire che siate così prodigo di quello che avete in tanta
copia».
«Tu menti ch'io abbia mentito», disse con furia e con disprezzo quel signore: e questa risposta era
di prammatica, come ora sarebbe dire: - benissimo - a chi vi domanda della vostra salute: indi
soggiunse; «e se tu fossi cavaliere come son io, ti vorrei far vedere con la spada e con la cappa che
tu sei il mentitore».
«È buona sorte per voi l'esser cavaliere; così potete essere insolente e dispensarvi di sostenere la
vostra insolenza, come vile che siete».
Così dicendo pose mano alla spada.
«Temerario», gridò quel signore, «io spezzerò questa», e la cavò pure così dicendo «dopo che sarà
macchiata del tuo sangue». Così si avventarono l'uno sull'altro. Cristoforo venne in ajuto del suo
padrone e cavò il suo coltello; e due servitori che accompagnavano il signore andarono addosso a
lui e a Ludovico. La gente si ritirava da ogni parte, e giacché nessuno di quelli che s'abbattevano
nella via era interessato per amicizia, o per onore a pigliar parte nella disputa, la quale da duello
divenne tosto un fatto generale. Il signor Ludovico e il suo Cristoforo dovevano difendersi contra
tre, e il combattimento era tanto più diseguale che Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a
disarmare il nemico che ad ucciderlo; ma il signore voleva la vita dell'avversario. Ludovico aveva
già toccata in un braccio una pugnalata d'un servitore; e il nemico gli cadeva addosso per finirlo,
quando Cristoforo vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo s'avventò col pugnale al signore, il
quale rivolta tutta la sua ira contro di lui lo passò colla spada. A quella vista Ludovico scordato ogni
ritegno cacciò la sua nel ventre del provocatore, il quale cadde quasi ad un punto col povero
Cristoforo: i servitori veduto il padrone sul terreno, si diedero alla fuga: e Ludovico rimase solo e
ferito, e circondato dal popolo che accorreva, vedendo finita la guerra. «Che è? che è? - Come è
andata? Son due morti. - Gli ha fatto un occhiello nel ventre. - Chi? a chi?» Grida e confusione; e il
povero Ludovico, col compagno ucciso, e quel che è peggio col nemico ucciso da lui, si trovava in
mezzo ad una folla che lo stringeva d'ogni parte. Ma, come è facile da supporre, il favore era
piuttosto per lui che per l'avversario, e tutti cercavano di salvarlo. Il caso era avvenuto vicino ad una
Chiesa di Capuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora ai birri, e a tutto quel complesso di
cose e di persone che si chiamava la giustizia. Il povero ferito fu quivi condotto o portato dalla
folla, e quasi fuori di sè pel furore, pel rimorso, e pel dolore i padri lo accolsero dalle mani del
popolo, che lo raccomandava ai suoi ospiti, dicendo: «è un uomo dabbene, che ha fatto freddo un
birbone».
Ludovico non aveva mai prima d'allora versato sangue; e benché l'omicidio fosse a quei tempi cosa
tanto comune che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo,
pure l'impressione che Ludovico ricevette dal veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu
nuova e terribile, fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nimico,
l'alterazione de' suoi tratti che passavano in un momento dalla minaccia e dal furore,
all'abbattimento e alla severa debolezza della morte, cangiarono in un punto l'animo dell'uccisore.
Strascinato al convento egli non sapeva quasi dove fosse e che si facesse; e cominciò appena a
comprendere la sua situazione, quando si trovò in un letto della infermeria, nelle mani del frate
chirurgo (i capuccini ne avevano sempre alcuno) che aggiustava faldelle e bende sopra due ferite
leggieri ch'egli aveva ricevute nello scontro.
Un padre che assisteva più frequentemente ai moribondi, e che aveva spesso reso di questi uficj
sulla via, fu chiamato tosto sul luogo del combattimento; e tornato pochi momenti dopo, entrò nella
infermeria, e fattosi al letto dove Ludovico giaceva: «Consolatevi», gli disse; «almeno è morto
bene, e mi ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo». Questa parola fece
rinvenire affatto il povero Ludovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti
che erano confusi e affollati nel suo cuore, dolore per l'amico, pentimento e rimorso di ciò ch'egli
aveva fatto, e nello stesso tempo un senso forte e sincero di commiserazione e di amore per
l'infelice ch'egli aveva ucciso: Ludovico allora avrebbe volentieri data la sua vita per ricuperare
quella del suo nemico. «E l'altro?» domandò al padre. L'altro era spirato.
Frattanto le uscite e i contorni del convento erano affollati di popolo curioso: ma giunta la sbirraglia
fece smaltire la folla, e si pose in agguato a una certa distanza dalle porte; ma in modo che nessuno
potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini, e un vecchio zio vennero pure
armati da capo a piede; e facevano la ronda intorno, guardando con aria di minaccia gli accorsi del
popolo, i quali mostravano nei volti quasi una sorta di trionfo e di contentezza.
Appena Ludovico potè riflettere più pacatamente, chiamato un frate confessore, lo pregò che
andasse a casa della moglie di Cristoforo, che l'assicurasse ch'egli non aveva fatto nulla per
cagionare la morte del suo amico, e nello stesso tempo le desse parola ch'egli si riguardava come il
padre della famiglia. Quindi pensando ai casi suoi, il pensiero di farsi frate che tante volte come
abbiamo detto gli era passato per la mente, gli si presentò allora, e divenne tosto vera risoluzione.
Chiamò il guardiano, e gli aperse il suo cuore, e n'ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle
risoluzioni precipitate, ma che s'egli persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora egli fece chiamare un
notajo, e fece in buona forma una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (che era tuttavia un bel
patrimonio) alla famiglia di Cristoforo; una somma alla madre, come se le costituisse una
contraddote, e il resto ai figli.
Gli ospiti di Ludovico erano impacciati assai. Consegnarlo alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi
nemici, oltreché l'esser cosa vile e crudele (ragione che è più potente quando è accompagnata da
altre), sarebbe stato lo stesso che rinunziare al privilegio di asilo, screditare il convento presso tutto
il popolo, attirarsi l'animavversione di tutti i capuccini dell'universo per aver lasciato ledere il diritto
di tutti, tirarsi contra tutte le autorità ecclesiastiche, le quali allora si consideravano come tutrici di
questo diritto. Per l'altra parte la famiglia dell'ucciso era potentissima, forte di aderenze, irritata, e si
faceva un punto d'onore di vendicarsi, e minacciava della sua indegnazione tutti quelli che
mettevano un ostacolo alla vendetta. E quand'anche ai parenti fosse poco importato della morte del
loro congiunto (cosa che la storia non dice però) tutti avrebbero esposta la loro vita per avere nelle
mani l'uccisore; e come toglierlo dalle mani dei capuccini sarebbe stato un esempio insigne, di cui
si sarebbe parlato per più d'una generazione, e che avrebbe renduta sempre più rispettabile la casa,
così erano tutti impegnati, accaniti a riuscirvi.
La risoluzione di Ludovico era il miglior ripiego per cavare i frati da questo viluppo. Vestendo
l'abito di capuccino, egli faceva una specie di riparazione, rinunziava a tutte le massime di puntiglio
e di vendetta che allora si consideravano come leggi eterne e naturali di onore, rinunziava ad ogni
nimicizia, ad ogni gara, era insomma un nemico che depone le armi e si arrende. I parenti poi
potevano anche credere e dire che Ludovico si era indotto a ciò per disperazione e per timore; e
ridurre un uomo a rinunziare tutto il fatto suo, a tagliarsi i capelli, a crescersi la barba, a camminare
a piedi nudi, a non possedere un quattrino, a dormire sulla paglia, a vivere di elemosina, poteva
parere un castigo bastante anche all'offeso il più superbo. Il Padre Guardiano andò umilmente dal
fratello del morto, e dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di servirla
in tutto ciò che non fosse contrario alle leggi della chiesa, parlò del pentimento di Ludovico (che era
vero), e della sua risoluzione, come se chiedesse un consiglio o quasi un permesso. Il fratello diede
nelle smanie, che il capuccino lasciò passare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto
dolore»: parlò alteramente, e il capuccino raddoppiò di umiltà e di complimenti; fece intendere che
in ogni caso la sua famiglia avrebbe saputo pigliarsi una soddisfazione; e il capuccino che non ne
era persuaso, non gli contraddisse però; finalmente domandò, impose come una condizione che
l'uccisore di suo fratello partirebbe tosto da Cremona. Il capuccino, che aveva già pensato di far
così, mostrò di accordar questo alla deferenza ch'egli e tutti i suoi avevano per l'illustrissima casa, e
tutto fu conchiuso.
Contenta la famiglia per le ragioni che abbiam dette, contenti i frati, contenti quelli che avrebbero
dovuto punire Ludovico, perché dopo la donazione fatta da lui di tutto il suo avere, la persecuzione
che gli si sarebbe fatta non avrebbe portato che impicci e fatiche, contento il popolo il quale vedeva
salvo un uomo che amava, dalle persecuzioni di prepotenti che odiava; e che nello stesso tempo
ammirava un conversione; contento finalmente ma per motivi diversi e più alti il nostro Ludovico;
il quale non desiderava altro che di cominciare una vita di espiazione, di patimenti e di servizio agli
altri che potesse compensare il male ch'egli aveva fatto, e raddolcire il sentimento insoffribile del
rimorso. Così Ludovico a trent'anni si avvolse, come si direbbe poeticamente, nelle ruvide lane,
diede un eterno addio al mondo ed al barbiere, e fu novizio. Il sospetto che la sua risoluzione fosse
attribuita al timore lo afflisse un momento; ma tosto egli fu lieto di poter sofferire questa
ingiustizia. Ognuno sa che quando uno si affigliava ad una regola, lasciava il nome di battesimo, e
ne prendeva un altro; Ludovico assunse quello di Cristoforo.
Appena Fra Cristoforo ebbe assunto l'abito, il guardiano gl'intimò che andrebbe a fare il noviziato a
Modena, e partirebbe all'indomani. Il novizio gli si gettò allora ai piedi, e lo chiese d'una grazia. «Io
parto», diss'egli, «da questa città dove ho sparso il sangue d'un uomo, e vi lascio i congiunti di esso
e un fratello, quelli che io ho offesi, senza aver fatta una riparazione. Permettetemi che io quanto è
da me ripari almeno col fratello l'ingiuria, e tolga se si può il rancore dal suo cuore». Al guardiano
parve che questo passo, fatto con tutte le precauzioni, riconcilierebbe al tutto il convento colla
famiglia e gli disse che gli darebbe risposta, e andò difilato dal fratello dell'ucciso, esponendogli la
richiesta di Fra Cristoforo. Dopo qualche sbruffo di collera, e qualche esitazione: «venga domani»
diss'egli, e indicò l'ora. Il guardiano si assicurò che il novizio non arrischiava nulla, e gli diede la
licenza desiderata.
Il signore superbo pensò tosto che poteva dare molta solennità a questa riparazione, e soddisfare
così in un punto la vendetta e l'orgoglio, e crescere la sua importanza presso tutta la parentela, e
presso il pubblico: e fece avvertire in fretta tutti i parenti che all'indomani al mezzo giorno
restassero serviti (così si diceva allora) di venire da lui per ricevere una soddisfazione comune. Al
mezzogiorno la casa era piena di signori d'ogni età e d'ogni sesso, tutti in grande apparato, con
grandi cappe e con durlindane infinite con... Il cortile e le anticamere e la strada formicolavano di
servi, di paggi, e di bravi. Fra Cristoforo vide tutto l'apparato, ne indovinò il motivo, e dopo un
picciolo contrasto fu contento che la riparazione fosse clamorosa. - L'ho ucciso in pubblico,
diss'egli fra sè, alla presenza dei suoi nemici: quello fu lo scandalo; questa è riparazione -. Così con
gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, attraversò la folla che lo riguardava con una curiosità
poco cerimoniosa, salì le scale, e con una confusione che cercava di vincere giunse di sala in sala
alla presenza del fratello il quale era circondato dai parenti più prossimi.
Fra Cristoforo gli si gettò ai piedi e disse: «Io sono l'omicida di vostro fratello. Sa Iddio se io vorrei
restituirvelo a costo del mio sangue; ma non potendo che farvi inutili scuse, vi supplico di accettarle
per Dio, e di perdonarmi». Tutti gli occhi erano rivolti sul povero novizio e sull'uomo a cui egli
parlava, e s'intese un mormorio di pietà, e di rispetto. Il signore che stava in atto di degnazione
forzata e d'ira compressa, e si preparava a goder d'un trionfo, fu turbato, e chinandosi verso
l'inginocchiato: «Alzatevi», disse; «l'offesa... ma l'abito che portate... non solo questo; anche per
voi... Si alzi padre... Mio fratello... non lo posso negare; era... era un po' caldo... ma, quello che Dio
ha voluto... Non se ne parli più... Padre si alzi per amor del cielo»; e presolo per le braccia lo
sollevò...
Fra Cristoforo alzato quasi a forza, e tenendosi pur chino rispose: «Se quegli che io non oso
nominare ha fallato, ha avuto pur troppo un severo castigo, e spero che Dio misericordioso si sarà
contentato di questo, e gli avrà dato il suo perdono; ma io son qui, e non ho altro motivo per
pretenderlo da lei che la sua bontà, e i meriti del signore».
«Perdono!» disse il signore: «ma padre Ella non ha bisogno... pure giacché lo vuole: certo, certo io
le perdono di cuore, in nome anche di tutti», e qui si guardò intorno, e gli astanti: «sì sì» gridarono
ad una voce «tutti tutti». Allora il signore mosso dall'aspetto del frate, e dal sentimento di tutti gli
astanti, gettò le braccia al collo di Cristoforo, il quale stringendolo più basso ricevette da lui e gli
rendette il bacio di pace.
Tutti allora furono intorno a Fra Cristoforo, e la conversazione divenne generale. Il signore che
aveva voluto in questa occasione far pompa di tutto, aveva fatto preparare un rinfresco sontuoso, e
fatto cenno ad un cameriere, si riavvicinò a Fra Cristoforo il quale stava in atto di accomiatarsi, e
gli disse: «Padre mi dia una prova di amicizia col gradire una picciola refezione, e fare un po' di
festa con noi». Intanto giunsero i rinfreschi. Il signore volle servire pel primo il buon novizio: il
quale scusandosi con umiltà cordiale: «Queste cose» disse «non sono più per me; ma tolga il cielo
ch'io rifiuti i suoi doni: io sto per pormi in viaggio, si degni di farmi portare un pane, perché io
possa dire di aver goduta la sua carità, di aver mangiato il suo pane, di aver questo segno del suo
perdono».
Il signore commosso ordinò che così si facesse e tosto giunse un cameriere riccamente vestito, che
portando un pane sur un bacile d'argento lo presentò al Padre, il quale presolo e ringraziato, lo pose
nella sua bisaccia. Il signore alzando la voce disse al cameriere: «si mandi pane bianco e vino al
convento per tutta la comunità». Dopo alcuni momenti Fra Cristoforo chiese licenza, ed abbracciato
di nuovo il signore, e tutti quelli che lo stringevano e che volevano pure abbracciarlo, si sviluppò da
essi a fatica, ebbe a combattere nelle anticamere per isbrigarsi da quelli che gli baciavano il lembo
dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella via portato come in trionfo, ed accompagnato da
una folla di popolo fino alla porta donde uscì cominciando il suo pedestre viaggio verso il luogo del
suo noviziato.
Il fratello dell'ucciso e il parentado, che si erano preparati ad assaporare quel giorno la trista gioja
dell'orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioja serena del perdono e della benevolenza. La
conversazione rimase più pacata, più semplice, senza apparato, cordiale: e invece di trattenersi di
riparazione, di puntigli, di ricantare le storie delle soddisfazioni prese, e dei sopramani vendicati,
non si parlò che del Padre Cristoforo, e delle virtù dei capuccini; e taluno che per la cinquantesima
volta avrebbe raccontato come il Conte Muzio suo avo aveva saputo fare stare quel Marchese
Stanislao che ognun sa che Rodomonte era, parlò invece della vita penitente di un Fra Benedetto,
morto molti anni prima. Sciolta la brigata, il signore, ancora tutto commosso si maravigliava di
tratto in tratto fra sè di ciò che aveva detto, di ciò che aveva sentito, e borbottava fra i denti: «Gran
Frate, Frate singolare! Se rimaneva ancor lì per qualche momento, quasi quasi gli avrei domandato
io scusa perch'egli mi abbia ammazzato il fratello!» Però è da notarsi che tutti i convitati partirono
di là un po' migliori di quello che vi fossero andati, e ch'egli stesso fu per tutta la sua vita un po'
meno superbo e un po' più indulgente.
Il Padre Cristoforo camminava con una consolazione quale non aveva provata mai dopo quel giorno
terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva essere consacrata. Ai novizj era imposto
silenzio; e Cristoforo serbava senza fatica questa legge, tutto assorto nel pensiero delle fatiche, delle
privazioni e delle umiliazioni che avrebbe incontrate per espiazione del suo fallo. Fermandosi
all'ora della refezione presso un benefattore, egli si mangiò con una specie di voluttà il pane del
perdono: ma ne risparmiò un tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come un ricordo perpetuo.
Non è nostro disegno di narrare la vita fratesca del nostro buon padre: diremo dunque soltanto
ch'egli passò il suo noviziato sostenendo alacremente le dure discipline di quello stadio, e
sottomettendosi bravamente alle prove, talvolta assai strane a cui erano posti i novizj; facendo per
ragione ciò che gli appariva ragionevole, e pensando pel resto che un omicida non doveva esser
trattato con molte cerimonie. Divenuto frate professo egli si consacrò specialmente in quanto
dipendeva dalla sua scelta a tre sorta di servizi: assistere moribondi, comporre dissidj... e proteggere
gli oppressi. A questa ultima occupazione era egli portato dalla antica abitudine, la quale operava in
lui con motivi più puri, e da un resto di spirito guerriero che le umiliazioni e le macerazioni non
avevano sopito. Il suo linguaggio come le sue azioni mostravano a chi l'avesse attentamente
considerato i segni di questo spirito indeboliti ad ogni momento da uno sforzo continuo, ma non
mai cancellati del tutto.
Era a quei tempi comunissima a tutte le classi di persone l'usanza d'infiorare il discorso di quelle
parole delle quali quando si vogliono stampare non si pone che l'iniziale con alcuni puntini, di
quelle parole che esprimono o ciò che vi ha di più sozzo o ciò che vi ha di più riverito, di quelle
parole le quali quando scappano ad un signorino nella puerizia, fanno fare viso dell'arme alla
mamma, e la fanno sclamare: «ohibò! dov'hai tu inteso questo: nella via o dai servitori certamente»
(e l'avrà inteso dal signor padre) di quelle parole che non sono sconosciute nelle sale fastose, e che
formano la terza parte dei colloquj del popolo, al quale dicono alcuni sapienti che converrebbe
abbandonarle; ma questi sapienti non dicono bene, perché comunque gli uomini sieno classificati,
non vi ha alcuna classe d'uomini alla quale convenga ciò che è turpe. Quest'uso era adunque
comunissimo in allora, e chi ne vuol la prova dia una occhiata alle leggi che bestemmiavano pene
atroci per impedir la bestemmia, guardi alla cura che i vescovi prendevano per togliere questa
vergogna dal clero stesso. Il signor Ludovico aveva fatto un tale uso di queste frasi che la lingua del
Padre Cristoforo durava fatica a rimandarle tutte le volte che si presentavano, cioè ad ogni primo
impeto di passione di qualunque genere; ma il Padre Cristoforo faceva stare la sua lingua.
Solamente in certi casi rari, nei quali la passione era tanto viva che quasi quasi Cristoforo tornava
per un momento Ludovico, veniva ad un componimento. Si proferivano le parole, ma trasformate:
ad alcune consonanti radicali n'erano sostituite altre che toglievano il senso ordinario alla parola, e
lasciavano soltanto travedere una lontana intenzione, quasi un bisogno di proferirla. Così mutato,
trasformato, temperato era l'animo, in modo però che riteneva alquanto dell'antica sua natura.
Abbiamo già detto che la Lucia si confessava dal Padre Cristoforo, e che gli aveva confidate le
sozze persecuzioni di Don Rodrigo. È quindi naturale che il Padre accorresse alla chiamata di Lucia
con ansia tanto più grande, che avendole egli dato consiglio di non palesar nulla, e di starsene quieta
sperando che la burasca passasse, temeva ora che il suo consiglio fosse stato cagione di qualche
nuovo pericolo; ed alla sollecitudine di carità che gli era naturale, si aggiungeva quello scrupolo
delicato che tormenta i buoni.
Ma frattanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del Padre Cristoforo, egli è giunto, si è affacciato
alla porta; e le donne lasciando il manico dell'aspo che facevano girare e stridere, si sono alzate,
dicendo ad una voce: «Oh Padre guardiano!»
<B>CAPITOLO V</B>
IL TENTATIVO
Il qual padre guardiano si fermò ritto sulla soglia, e vedendo le due donne sole, abbassò gli occhi, e
si raccolse un momento, come era uso a fare dacché era divenuto capuccino, tutte le volte che si
trovava solo in presenza di qualche persona di quel sesso terribile, che non avesse l'età prescritta
alle fantesche dei curati. Rialzando poi lo sguardo, s'accorse al volto turbato delle due donne che i
suoi presentimenti non erano fallaci; e soprastato alquanto sulla soglia come per aspettarne la trista
conferma, disse con quel tuono di interrogazione che si risente già di ciò che deve significare una
risposta troppo preveduta: «E bene?» Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciò
dal chiedere scuse infinite al padre guardiano dell'avere ardito incomodarlo, ma egli si avanzò e
postosi sur un sedile contesto di alga, troncò tutte le scuse, e dopo aver detto a Lucia: «quetatevi
povera figliuola», domandò di essere informato di tutto brevemente. Il buon Padre ben si accorgeva
di mettere una condizione un po' dura e difficile; Agnese gli raccontò tutta la trista storia del giorno
antecedente fra le interruzioni del guardiano, che faceva abbreviare le ciarle e che chiedeva
schiarimenti, e che di tempo in tempo diceva qualche parola di compassione e di conforto a Lucia
che singhiozzava amaramente. Quando la storia fu terminata; «Dio benedetto!» sclamò il Padre
Cristoforo: «fino a quando li lascerai fare costoro?» Indi volgendosi tosto alle donne: «poverette!»
disse: «Dio vi ha visitate: povera Lucia! mah! non vi perdete d'animo: Dio vi ajuterà, ve lo prometto
io: oh non vi ha mica creata perché foste tormentata da costui: Dio ha i suoi fini, e al termine delle
cose si vede la sua mano. Ascoltate; io vi prometto di non abbandonarvi: oh non vi abbandonerò
certo; mah! Dio sa quello che io potrò fare: e chi sa che Dio non voglia servirsi di un uomo da nulla
come son io per cambiare un prepotente, e per sollevare dei poverelli. Lasciate ch'io pensi un
momento che cosa si possa fare per andare incontro al pericolo più pressante, e poi Dio
provvederà». Così dicendo appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, e la fronte nella palma, e colla
destra strinse il mento barbuto, come per concentrare e tener ferme tutte le forze della sua mente;
Lucia stava aspettando con fiducia e con dolore, e la madre mandava giù giù lo sguardo quanto
poteva per ispiare qualche cosa dei pensieri del padre, il quale fece mentalmente questo monologo:
- Poffare, che quell'uomo dovesse giungere a questo segno! Eh non è il primo pur troppo! Ma non ci
sarà chi possa farlo stare? Vediamo. Quello che più importa sarebbe di far succedere subito il
matrimonio. Per... dinci: il signor curato fa una gran villania, e io gli parlo fuor dei denti... ciarle,
ciarle: egli sa che io non dò pugnalate, e mi lascerà dire, o mi risponderà bravamente. Ma posso
fargli paura anch'io: se trovassi il modo di fargli venire un comando, ma un comando, e con un
buon rabbuffo: Monsignore illustrissimo non vuole di queste infami porcherie, sì ma intanto, che
cosa può accadere? No no bisognerebbe mettere in salvo questa povera colomba e mettere un freno
a quel birbante. Il fatto è chiaro: la legge c'è; e la giustizia,... quando fosse stimolata. Eh qui non
facciamo niente: costui gli spaventa tutti: toccare Don Rodrigo, già! per amor di Dio! chi
l'oserebbe? Ma il mondo poi non finisce qui: costui fa il tiranno spaventa questi poveri foresi che lo
credono più potente che non è! E il cordone di San Francesco ha legate altre spade che quella di
costui: se potessi mettere in moto le mie barbe a Milano... E intanto? e poi? e poi? E chi sa se non
sarei contraddetto da alcuni dei nostri? costui fa il protettore dei cappuccini, l'amico del convento: e
i suoi bravi si sono ricoverati talvolta da noi... e chi sa come si rappresenterebbe la cosa? e quando
si vedesse che si tratta di soccorrere una povera figlia che non può compensare con altrettanta
protezione! Ah! se fosse una gran signora! Ma se fosse una gran signora non sarebbe in questo
caso. Oh poveretti noi! Oh che tempi! Quando io credeva che facendomi cappuccino sarei fuori di
questo mondo infame! Eh non se ne va fuori che quando si muore. E fare un tentativo presso Don
Rodrigo? Ehn! che cosa varranno le parole d'un povero frate su quel diavolo in carne? Eppure non
c'è altro da fare. Chi sa che adoperando preghiere, qualche minaccia lontana: fargli sentire che c'è
qualcheduno che sa quel che si può fare contra uno scellerato soperchiatore? Forse non sarà che un
infame cappriccio venutogli dall'aver tanto fatto impunemente: e quando vedrà che l'affare può
diventar serio... Sì non c'è altro, non c'è altro. Se non altro si vedrà come giuoca costui, e si
guadagnerà tempo.
Il Padre Cristoforo si fermò in questa determinazione, pei motivi che abbiamo riferiti, e che in
verità bastavano se non a farne sperar molto, a renderla almeno preferibile ad ogni altra: ma dietro a
tutti questi motivi ve n'era un altro che dava un gran peso a tutti questi, e che quantunque agisse
così potentemente non era distintamente avvertito da lui. Il Padre Cristoforo era portato a cogliere
con premura una occasione di trovarsi a fronte d'un soperchiatore, di resistergli se non altro con
esortazioni, di confonderlo, e di provargli ch'egli aveva il torto, e di combatterlo e di vincerlo come
che fosse.
Mentre il buon frate stava ancor meditando, Fermo il quale per tutte le ragioni che ognuno può
indovinare non sapeva star lontano da quella casa, erasi affacciato alla porta, e visto il padre
assorto, e le donne che gli facevano cenno di non disturbarlo, sdrucciolò per un angolo della
porticella nella stanza, e costeggiando il muro andò a riporsi tacitamente in un angolo della stanza.
Quando il Padre si alzò per comunicare alle donne il suo disegno, s'accorse di Fermo, e gli fece un
saluto che esprimeva una affezione resa più intensa dalla pietà, e Fermo ne fu commosso.
«Ha saputo?» disse Fermo.
«Pur troppo ho inteso la vostra disgrazia» rispose il Padre; «ma tu non ti perderai d'animo come
queste poverette, e sopra tutto aspetterai che Dio ti ajuti, e Dio ti ajuterà».
«Benedette le sue parole», rispose Fermo: «ella non è di coloro che danno sempre torto ai poverelli,
e che rimproverano una disgrazia come se fosse una colpa. Ma il signor curato e il signor dottore...»
«Non pensare a questo che è inutile: io sono un povero frate, ma ti ripeto quello che ho detto a
queste donne: per poco ch'io sia non vi abbandonerò». «Oh lei non è come gli amici del mondo.
Sciaurati! dopo tante promesse fatte nell'allegria, che darebbero il sangue per me, che mi avrebbero
sostenuto sempre, che se avessi avuto briga con qualcuno per cavaliere ch'ei fosse... e poi: se
vedesse come si ritirano: oh nessuno più ne vuol sentire a parlare...»
Mentre Fermo parlava il Padre Cristoforo lo guardava coi suoi occhi scintillanti, e prendeva un'aria
severa di modo che Fermo si andava accorgendo che le parole sue non erano gradite, ed ora voleva
lasciar cadere il discorso, ora tentando di raggiustare la faccenda, si andava incespicando e
pronunziava parole sconnesse... «voleva dire: cioè Padre, non m'intendo mica...»
«E che Fermo! dunque tu avevi cominciato a guastare l'opera mia, prima ch'ella fosse intrapresa! Tu
pensavi a difenderti della violenza colla violenza! Ringrazia il cielo che sei stato disingannato a
tempo. Come! tu speravi soccorso da questi che tu chiami amici? Soccorso per liberarti dalla
ingiustizia? Poveretto! non sapevi che ogni uomo ama troppo la sua vita e il suo riposo per
sagrificarlo alla giustizia, alla giustizia altrui? Sì; pel denaro, per la vendetta, pel diletto di far male
l'uomo disprezza il pericolo; sì allora egli sente qualche cosa che lo porta con gioja ad affrontare il
suo simile: ma perché uno non sia oppresso, ma perché non s'impedisca una cosa giusta, ma perché
le cose vadano come dovrebbero andare, tranquillamente ordinatamente, tu credevi che troveresti
chi si armerebbe con te contra un potente? Gli uomini non provano per questo quella gioja feroce
che fa desiderare di affrontarsi coll'uomo: o se ve n'ha di tali sono tanto rari...; e - a queste parole
Fra Cristoforo strinse fortemente la mano a Fermo - e anche questi han torto. Ringrazia il cielo che
non ti ha dato il tempo di confidare in questi ajuti tanto da far qualche cosa della quale ti saresti
pentito. Ascolta, Fermo, io son pronto a fare quello che posso per voi; ma vi pongo una
condizione».
«Comandi, padre guardiano».
«Tu mi devi promettere che ti fiderai di me, che non affronterai, che non provocherai nessuno...»
«Promettete promettete», dissero le donne.
«Prometto prometto», disse Fermo.
«E bene» continuò il buon frate; «importa assai che di questo affare si parli il meno possibile:
perché i discorsi potrebbero rendere inutili i miei sforzi per farlo terminar bene: io spero che quelli
che tu chiamavi amici non parleranno, per la stessa ragione che gli ha distolti dall'operare. Io andrò
oggi a parlare con quell'uomo dal quale viene tutto questo male, e non dispero di far tutto finire: in
ogni caso, vi prometto di nuovo di non abbandonarvi mai. Frattanto voi state ritirati, schivate i
discorsi, e sopra tutto non vi mostrate; questa sera o domani avrete nuove di me». Detto questo egli
interruppe tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì inculcando di nuovo la quiete e la
prudenza; e s'avviò al suo convento.
Ivi andò in coro a cantare terza e sesta, s'assise alla parca mensa, e allora più parca del solito per la
carestia che cominciava a farsi sentire dappertutto, e dopo raccomandati al vicario gli affari del suo
picciolo regno, si pose in via verso il covile dell'orso che si trattava di ammansare; senza riporre a
dir vero, molta speranza nel suo tentativo.
Il Castellotto di Don Rodrigo era posto sul pendio della montagna discosto due miglia dalla casetta
di Lucia, un po' più basso e più verso settentrione, e a tre miglia circa dal convento il quale come
abbiam detto era al piano del fiume, e nel paesetto posto sulla riva sinistra. Questo castellotto posto
sulla cima d'uno di quei piccioli promontorj fra i quali si dividono le grandi montagne, era fuori
dell'abitato. Intorno al castellotto erano tre o quattro casette di contadini che lavoravano i fondi di
Don Rodrigo, e che gli facevano da servitori e da bravi secondo l'occorrenza: vecchj che parlavano
dell'antico onore della casa e delle loro prodezze giovanili, e le proponevano in esempio ai giovani:
giovani che cercavano di emulare quei fatti gloriosi, e donne che sentivano pure un nobile orgoglio
della loro condizione di suddite ad un cavaliere che sapeva farsi rispettare, e di madri e mogli
d'uomini che si facevano temere. Quando però, il che non era caso raro, alcuno degli uomini loro
tornava col capo rotto a casa, o si trovava minacciato della vendetta di qualche offeso furibondo, o
in un altro di quegli impiccj in cui doveva farli cader sovente il modo loro di vivere, le donne
urlavano allora, mostravano con furore i ragazzi sul volto ai mariti, predicavano la pace e il timor di
Dio, e non si mettevano in silenzio che dopo aver toccata qualche bussa. L'aspetto delle abitazioni
di costoro dava un indizio della vita tra il rustico e l'eroico che essi menavano, poiché guardando
dalle porte si vedevano nelle loro stanze terrene appesi alla rinfusa gli archibugj e le zappe, la
reticella e il berretto piumato col cappello pastorale di paglia.
Quando il Padre giunse dinanzi al Castellotto trovò la porta chiusa, segno che il padrone stava a
tavola e non voleva esser frastornato. Le rade e picciole finestre che davano sulla via erano chiuse
da imposte cadenti per vetustà ma difese da grosse ferriate, e quelle del piano terreno tanto elevate
che un uomo avrebbe appena potuto affacciarvisi salendo sulle spalle d'un altro.
Tutto al di fuori era silenzio, e un passaggero avrebbe potuto credere che quella casa fosse
abbandonata, se quattro creature, che erano poste in euritmia al di fuori, non avessero dato un
indizio di abitazione, e nello stesso tempo un simbolo della ospitalità di quei tempi. Due grandi
avoltoj colle ali tese erano inchiodati ciascuno sur una imposta; ed uno già mezzo consumato dal
tempo aveva perduta gran parte delle piume, e qualche membro, non aveva quasi più nemmeno la
figura d'un bel cadavere: e due bravi (quei due medesimi che avevano messa quella bella paura in
corpo al curato) sdraiati ciascuno sur una delle panche di pietra poste al di qua e al di là della porta,
facevano guardia oziosa al castello del signore aspettando di godere gli avanzi della sua mensa. Il
Padre stava per ritirarsi ed aspettare in qualche distanza che la porta si aprisse; ma uno de' bravi
avendolo veduto: «padre» gli disse: «ella vuol riverire il Signor Don Rodrigo: aspetti aspetti, qui
non si mandano indietro i religiosi, noi siamo amici del convento», e così dicendo si alzò, e senza
dar retta al frate che voleva ritornarsene, battè due colpi del martello sulla porta; a quel segno
giunse borbottando un servo; ma quando ebbe veduto il Padre, lo fece entrare tosto dicendogli che
avvertirebbe il padrone, e attraversato un angusto cortile lo condusse per alcuni salotti quasi fino
alla porta della sala del convito. A misura che il frate si avvicinava col suo duca, sentiva un romore
crescente di forchette e di coltelli, un sordo fragore di piatti di stagno posti l'uno sull'altro, e sopra
tutti un frastuono di voci discordi che tutte volevano coprire le altre. Il frate desideroso allora più
che mai di attendere miglior congiuntura stava litigando sulla porta col servo per ottenere di
aspettare in un canto della casa che il pranzo fosse terminato, quando la porta si aperse, e Don
Rodrigo che stava di contro veduta la barba e il cappuccio, e accortosi della intenzione modesta del
buon Frate: «Ehi ehi» disse «non ci scappi Padre, avanti, avanti». Il padre, mal suo grado si avanzò,
in mezzo ai clamori e alle dispute dei convitati, i quali accorgendosi ad un per volta del
sopravvenuto lo salutavano con quell'aria di rispetto ironico ed affettato che gli amici di Don
Rodrigo dovevano avere per un cappuccino.
Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, è un più bel
vivere che a questo mondo: ben è vero che vi s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più
colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite che non
nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare
molti mali, uno dei più invidiabili si è, che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per
quanto sieno inferiori di forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio ancor che
trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la
buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi,
quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa
difficile in favore della giustizia sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e
i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli,
fa bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in
uno stato di esitazione, di cautela, e di studio, che gli fa sovente scomparire, in faccia ai loro
avversarj risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien
dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero con certezza e
con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza d'una
serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime fa
ridere l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e
pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio e per approvatore, e che vede
negli altri contraddizioni e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare: o
almeno si trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi
spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si
prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza se fosse più placida e più composta, e che
l'uomo onesto e nella espressione esteriore, e nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie
d'angustia e di vergogna che si crederebbe rimorso; dimodoché a poco a poco finisce per essere
soperchiato non solo nei fatti ma anche nel discorso, e nel contegno, e sta come un supplichevole e
quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo, il quale veniva per
domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più stretta giustizia, e la cessazione della più vile
iniquità, si rimase come confuso, e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le sue buone
ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in sua
presenza. Era questi in capo alla tavola: alla sua destra sedeva il giovane Conte Orazio cugino di
Don Rodrigo, suo compagno di libertinaggio e di soperchieria, e che villeggiava con lui: alla
sinistra il Podestà, che Don Rodrigo aveva invitato non senza perché, potendo trovarsi in un
impegno dal quale si sarebbe cavato meglio quando la Giustizia fosse tutta disposta in favor suo. Il
Podestà mostrava di ricevere l'onore di sedere famigliarmente a tavola d'un cavaliere con un rispetto
misto però d'una certa libertà che gli dava il suo uficio; accanto a lui, e con un rispetto il più puro e
il più sviscerato sedeva il nostro Dottor Duplica, il quale avrebbe voluto essere il protetto di tutti
quelli che eran da più di lui, e il protettore di tutti quelli che gli erano inferiori: due o tre altri
convitati di ancor minore importanza attendevano a mangiare e a sorridere con una adulazione
ancor più passiva di quella del dottore: e quando questi approvava con un argomento o con una lode
che voleva esser ragionata, essi non sapevano dire più in là di: «certamente».
«Da sedere al padre», disse Don Rodrigo; e un cameriere avvicinò una scranna sulla quale si pose il
Padre Cristoforo facendo qualche scusa al signore di esser venuto in ora inopportuna, a parlargli
d'un affare d'importanza.
«Parleremo, quanto Ella vorrà, ma intanto portate da bere al Padre». Il Padre voleva schermirsi, ma
Don Rodrigo in mezzo al trambusto dei litiganti gridava: «No per... non mi farà questo torto, padre:
non sarà mai detto che un cappuccino si parta da questa casa senza aver gustato del mio vino, né un
creditore insolente senza avere assaggiato della legna dei miei boschi». Queste parole produssero
un riso universale e interuppero un momento la quistione che si agitava caldamente fra i
commensali. Un servo portando sur un bacile un'ampolla, come allora usava, di vino, e un lungo
bicchiero a foggia di calice, lo presentò al Padre, che non volendo resistere ad un invito tanto
pressante dell'uomo che voleva farsi propizio, non esitò a mescere, e si pose a sorbire lentamente il
vino.
«Le torno a dire, Signor Podestà riverito, che l'autorità del Tasso non serve al suo assunto, che anzi
è contro di lei», riprese ad urlare il Conte Orazio: «perché quel grand'uomo che conosceva tutte le
regole e tutti i puntigli della cavalleria più soprafina ha fatto che il messo di Argante prima di
esporre la sfida ai cavalieri cristiani, domandi licenza a Goffredo...»
«Ma questo», replicava non meno urlando il Podestà, «questo è un sopra più, un mero sopra più:
giacché il messo è di sua natura inviolabile per diritto delle genti, <I>jus gentium</I>, e secondo
quel proverbio, - ella m'insegna che i proverbi sono voce di Dio secondo quell'altro proverbio che
dice: <I>vox populi vox Dei</I> - quel proverbio: ambasciator non porta pena; dico che non
avendo il messaggero detto nulla in persona propria, ma solamente presentata la sfida in iscritto,
secondo tutte le regole, non doveva mai...»
«Con buona licenza di questi signori», interruppe Don Rodrigo il quale questa volta contra il suo
solito aveva voglia di troncare la quistione: «rimettiamola nel Padre Cristoforo, e si stia alla sua
sentenza».
«Bene, benissimo», disse il Conte Orazio al quale parve cosa molto graziosa il far decidere una
questione di cavalleria da un cappuccino; mentre il Podestà, a cui pareva un po' ostico l'esser
sottoposto ad un giudizio mostrava leggermente il suo malcontento con un suono inarticolato
accompagnato da una quasi invisibile mossa di spalle. «Ma, da quel che mi pare d'avere inteso»,
disse il Padre, «non sono cose di cui io mi debba intendere».
«Solite scuse di modestia di loro Padri», disse Don Rodrigo; «ma non mi scapperà: Eh via!
sappiamo bene ch'ella non è venuta al mondo colla barba, e col cappuccio, e il mondo lo ha
conosciuto. Via via. Ecco il fatto».
«Il fatto è stato...» gridò il Conte Orazio.
«Lasciate pur dire a me che sono neutrale, cugino», riprese Don Rodrigo. «Il fatto accaduto in
Milano è: che un Cavaliere spagnuolo mandò la sfida ad un cavalier milanese: e il portatore non
trovando il provocato in casa, consegnò la lettera ad un fratello del cavaliere; il quale, letta che
l'ebbe diede alcune bastonate al portatore...»
«Ben date, bene applicate» gridò il Conte Orazio; «fu una vera ispirazione...»
«Del demonio», interruppe il podestà «battere un ambasciatore! persona sacra! anch'Ella padre, mi
dirà se questa è azione da cavaliero...»
«In verità signor Podestà ch'io non avrei mai potuto credere che un par suo desse tanta importanza
alle spalle di un mascalzone».
«Ma Signor conte, ella mi fa dire dei paradossi ai quali io non ho mai pensato. Io parlo dell'offesa
fatta alla livrea del Cavaliere spagnuolo, e non delle spalle del messo: parlo sopra tutto delle leggi
di cavalleria. Mi dica un po' se i Feciali, che erano quelli che gli antichi romani mandavano ad
intimar le sfide ai popoli con cui si mettevano in guerra, domandavano il permesso di esporre
l'ambasciata; e mi trovi un po' uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato
bastonato».
«Che mi parla di antichi romani, che in queste cose erano rozzi, e principianti?... non v'erano stati
ancora paladini nel vero e stretto senso della parola: ma ora che le cose si sono raffinate, che
l'esperienza ha resi gli uomini ben più delicati, e che abbiamo scrittoroni i quali hanno immaginati
tutti i casi escogitabili, e hanno scavato coll'acume del loro ingegno fino all'ultimo fondo di queste
questioni, ora, io dico e sostengo, che un messo che non domanda la licenza di esporre una
ambasciata di sfida è un temerario, violabile, violabilissimo, e che a bastonarlo si acquista
indulgenza».
«Ebbene mi risponda un po' a questo. Il portatore non è disarmato? e offendere un disarmato non è
atto proditorio? Dunque il cavaliere milanese...»
«Piano piano, che bell'equivoco mi fa ella Signor podestà?...»
«Come?»
«Ma lasci rispondere. Atto proditorio è ferire colla spada un cavaliere disarmato. Confesso che
infilzare colla spada un plebeo senza necessità sarebbe azione tanto vile, quanto bastonare un
cavaliere: ma qui si tratta di bastonate date ad un plebeo; e lei non mi troverà una regola che
imponga di dire guarda che ti bastono, come si dice: mano alla spada... E lei Signor Dottore
riverito, invece di farmi dei sogghigni, per darmi ad intendere che è del mio parere, perché non
sostiene le mie ragioni colla sua buona tabella, per ajutarmi a fare entrare la ragione in capo a
questo signore?»
«Io...» rispose alquanto sconcertato il dottore, «io godo di questa dotta disputa; e benedico quel
grazioso accidente che ha dato occasione ad una guerra di ingegni sottili, e di labbra eloquenti che
serve d'istruzione e di diletto agli ascoltatori; di modo ché non vorrei, anche potendo, metter
daccordo due combattenti che fanno sì bella mostra delle loro forze. Ho detto, potendo, giacché io
non m'arrogo di fare il giudice... e se non m'inganno il nobile padrone di casa ha nominato un
giudice... qui il padre...»
«È vero», disse Don Rodrigo, «ma come volete che il giudice parli quando gli avvocati non
vogliono tacere!»
«Son muto», rispose il Conte Orazio: il Podestà fece pur cenno che tacerebbe.
«Ah! finalmente! A lei padre», disse Don Rodrigo con una serietà beffarda.
«Ho già fatte le mie scuse col dire che non me ne intendo», rispose Fra Cristoforo dando il
bicchiere ad un servo.
«Scuse magre», gridarono tutti: «vogliamo la sentenza».
- Mascalzoni... cioè poveri traviati; pensava fra sè il Padre Cristoforo, credete voi che starei qui a
sentire le vostre pappolate se non si trattasse di cavare una innocente dagli artigli di quel lupo che
voi accarezzate vilmente?
Ma come s'insisteva d'ogni parte: «Ebbene», disse, «poiché lor signori non vogliono credermi
quand'io dico che non me ne intendo, vedrò di far dire a loro la stessa cosa. Il mio debole parere
dunque in tutto questo si è, che a ben fare non vi dovrebbero essere né sfide, né portatori, né
bastonate».
«Nè cavalieri spagnuoli, né cavalieri milanesi, voleva forse dire padre»: rispose il Conte Orazio:
«ed io aggiungo: nemmeno padri cappuccini. Oh vorrebb'essere un bel vivere, padre... come si
chiama il padre?»
«Padre Cristoforo».
«Padre Cristoforo ella ci vorrebbe ricondurre a vivere di ghiande. Senza sfide e senza bastonate!
sarebbe un bel mondo! impunità per tutti i paltonieri, e il punto d'onore andato. Ma scommetto che
il Padre ha voluto scherzare perché sa benissimo che la sua supposizione è impossibile».
Don Rodrigo il quale non vedeva volentieri che il suo schiamazzatore cugino facesse tante questioni
col podestà che gli premeva di tenersi amico, approfittò della sentenza del padre Cristoforo per
divertire il discorso dalla questione, e rivolto al dottore con aria di protezione e di scherno.
«Oh» disse, «voi dottore che siete famoso per dar ragione a tutti, vediamo un po' come farete per
dar ragione in questo al padre Cristoforo».
«In verità», rispose il dottore, rivolgendosi al padre, «io non so intendere come il padre Cristoforo,
il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non abbia posto mente che la sua
sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in
una disputa cavalleresca: perché ogni cosa è buona a suo luogo: ma credo anch'io che il padre
Cristoforo ha voluto terminare con uno scherzo ingegnoso una questione broccardica».
Il Padre Cristoforo non rispose, e perché come è facile indovinarlo era stomacato da lungo tempo
della disputa e dei disputanti, e perché sapeva che il dottore non si curava di esser persuaso: e
finalmente perché sarebbe stato impacciato a rispondere; giacché quantunque nel suo cuore egli
pensasse veramente ciò che avevano espresso le sue parole; le ragioni della sua sentenza erano tanto
lontane dalle idee di quel tempo ch'egli stesso avrebbe durato fatica a trovarle.
Il dottore il quale vide che i due litiganti stanchi di avere impiegata la bocca in parole si erano
rimessi a guadagnare sul piatto il tempo perduto, e temendo che non si valessero delle forze
riacquistate per ricominciare una guerra nella quale egli era già compromesso, pensò di toccare
un'altra materia, e disse: «Del resto signori miei giacché si è parlato di cavalieri spagnuoli e di
cavalieri milanesi, o viceversa, giacché ho un eguale rispetto per gli uni e per gli altri; credo che
presto vedremo anche dei cavalieri alemanni, se le notizie che girano sono fondate, cosa che loro
signori sapranno meglio di me».
«Le lettere ch'io ricevo da Milano», rispose Don Rodrigo, «mi danno che è voce comune che gli
alemanni ottengono il passaggio per andar contro Mantova, e che pur troppo si crede che il
passaggio sarà per di qui, giacché i comaschi muovono cielo e terra per fare a noi questo regalo...»
«Non si sturbi, non si sturbi...» rispose sorridendo il podestà: «non verranno alemanni né a Como,
né qui».
«Ed io le dico» ricominciò il Conte Orazio, «che si assicura che sono già in marcia per Lindò, e si
nomina il generale che sarà il celebre Conte di Colalto, e che si dà la nota dei reggimenti fra i quali
vi è quel rinomatissimo reggimento dei più scelti e forbiti diavoli in carne che abbiano mai portato
moschetto, il reggimento del famoso principe di Valdistano, o Vallistai come lo chiamino...»
«Il nome legittimo in lingua alemanna», interruppe il podestà, «è Vagliensteino, come l'ho inteso
più volte proferire dal nostro signor comandante spagnuolo».
«Ebbene il reggimento di Vaglien... quello che è: e oltre di questo vi è il reggimento di Galasso, del
Barone Aldringhen ed altri simili, tutta gente che ha combattuto contro i Luterani, e che non ha
timor di Dio né degli uomini, e che dove passa non lascia un filo d'erba».
«Per me», riprese Don Rodrigo, «non ho voglia di aspettarli qui, continuò sogghignando verso il
Conte Orazio, «se non avessi un affaruccio da sbrigare, sarei già a Milano».
«Il vostro affare è già bell'e disperato, e se non avete altro potete partire».
«Voi vorreste aver guadagnata la scommessa; ma piano, caro mio, se gli alemanni non vengono in
questi giorni, la scommessa la pagherete». Queste parole e il sorriso infernale con cui furon dette e
risposte furono un lampo pel padre Cristoforo il quale s'accorse fremendo e tremando, che l'oggetto
della scommessa doveva essere l'innocente Lucia. Il dottore intese forse quanto il padre, ma non
tremò né fremè, né fece vista di nulla.
«Attenda a tutto bell'agio ai suoi affari, sulla mia parola signor Don Rodrigo e non pensi a privarci
della sua rispettabile persona; che già gli alemanni non sognano nemmeno di passare per di qua. Per
mettere il piede sul nostro territorio che ha l'onore di appartenere alla monarchia spagnuola, bisogna
ottenere il permesso del re Cattolico Don Filippo Quarto nostro signore che Dio guardi. Ora il
permesso a chi tocca concederlo o negarlo? Niente meno che al Conte Duca, al gran d'Olivares, a
quel modello dei politici, a quell'uomo che si può chiamare il favorito dei principi e il principe dei
favoriti. Ora pensino le signorie loro, se un Olivares vuol permettere il passaggio...»
«Ma le dico che si radunano a Lindò...»
«Appunto questo è quello che mi persuade di più che non passeranno in Italia. Certe cose io le so
dal nostro signor comandante spagnuolo, il quale si degna - brav'uomo! - di trattenersi meco con
qualche confidenza. Sapranno ch'egli è un figliuolo d'un creato del Conte Duca, e che sa qualche
cosa di questo gran ministro. Ebbene fra le strepitose doti del Conte Duca la più strepitosa forse è
quella di saper nascondere i suoi disegni: di modo che quegli stessi che lo servono più da vicino,
quegli che scrivono i suoi dispacci non sanno mai che cosa passi in quella testa, e molte volte anche
dopo che un affare è stato conchiuso, nessuno ha potuto indovinare quale era in esso l'intenzione del
Conte Duca. È una volpe, col dovuto rispetto, un furbo che farebbe perder la traccia a chichessia; e
quando accenna a destra si può esser certi che batterà a sinistra, ed è perciò che nessuno può mai
indovinare quello ch'egli sia per risolvere. Onde quand'io veggo truppe alemanne venire alla volta
d'Italia, tanto più dico, che sono destinate per altra parte; perché chi regola tutto anche fuori della
monarchia è il Conte Duca; che ha le mani lunghe quanto la vista».
«Ma per dove crede lei che siano destinate tutte queste truppe?»
«Per dove? non per l'Italia certo. Potrebbero esser destinate a gettarsi nella duchea di Borgogna per
far diversione ai francesi, i quali (tutto per invidia del Cardinal di Riciliù contro il Conte Duca,
perché vede benissimo che non può competere con quella testa) i quali francesi dico per invidia
soccorrono gli olandesi che si trovano all'assedio di Bolduc. E questa congettura, per dir tutto, la
tengo dal signor comandante spagnuolo».
«Ma sappia signor podestà che le notizie che noi abbiamo da Milano, vengono da personaggi in
confronto dei quali...»
«Via via, cugino», interruppe Don Rodrigo «che il signor dottore è impaziente di dare egli una
decisione questa volta».
«Io decido e sentenzio», disse il Dottore, «che le cene di Eliogabalo sarebbero vinte al confronto dei
pranzi del nobile signor Don Rodrigo, e che la carestia non ardisce approssimarsi a questa casa
dove regna la splendidezza sua capitale nemica».
Tutti fecero plauso al dottore e viva a Don Rodrigo; e tutti subito si misero a parlare della carestia.
Qui tutti furono d'una sola opinione; ma il fracasso era forse più grande che se vi fosse stato
disparere: giacché tutti esprimevano energicamente la stessa opinione con diverse frasi, ma tutti in
una volta. «Carestia!» diceva uno, «non c'è carestia sono gli accapparratori, birbanti». «I fornaj, i
fornaj» gridava un altro. «Impiccarli! dei buoni esempj, senza pietà. E quei birboni impostori che
con un'aria pietosa hanno la sfrontatezza di dire che il pane è caro perché il raccolto è stato scarso, e
che il grano manca! Impiccarli, impiccarli! sono i peggiori: tutte invenzioni per nascondere gli
accapparramenti».
«Hanno detto che non vogliono vendere finché un terzo degli abitanti non sia morto di fame e il
frumento non costi cento lire al moggio. Oh scellerati! impiccarli!»
«Il grano c'è: questo è un fatto innegabile: dunque bisogna farlo saltar fuori: e il mezzo è pronto:
impiccare quelli che lo nascondono».
«Dov'è tutto il male? nella carezza del pane: e chi lo vende caro? i fornaj: e per farli mutar vezzo,
impiccarne uno o due».
«Eh ci vuol altro che uno o due: sono tutti birbanti, col pelo sul cuore. Impiccarli, impiccarli!» Chi
ha mai intesa e goduta l'armonia che fa in una fiera di campagna, una troppa di cantambanchi,
quando prima di spiegare i suoi talenti dinanzi al rispettabile pubblico, ognuno accorda il suo
stromento, facendolo stridere più forte che può affine di poterlo sentire in mezzo al romore degli
altri, che procura di non ascoltare, s'immagini che tale fosse la conversazione di economia politica
dei nostri commensali. In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e
dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni
arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato di quello che in Lombardia si chiama vino della
<I>chiavetta</I>, e del quale, per un privilegio singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore
del contorno. Gli elogj del vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però
cangiarla del tutto: il gridio continuò per una buona mezz'ora: le parole che si sentivano più spesso
erano <I>ambrosia</I> e <I>impiccarli</I>. Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la
rubiconda brigata: e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al padre Cristoforo, e lo
condusse seco in una stanza vicina.
<B>CAPITOLO VI</B>
PEGGIO CHE PEGGIO
Ognuno può avere osservato che, dalla peritosa sposa di contado fino a... fino all'uomo il più
disinvolto e imperturbabile, e per dirla in milanese il più navigato, tutti hanno certi loro gesti
famigliari, certi moti insignificanti dei quali fanno uso quasi involontariamente quando, trovandosi
con persone colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il
momento di dir cosa la quale non è attesa né sarà molto gradevole a chi deve intenderla. La
differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal
dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è che i
primi coi loro moti incerti, e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo, e vi si vanno
sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di
eleganza e di superiorità. Tutte le classi hanno una provvisione particolare, e caratteristica di questi
atti, e questa distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano più distinte per
abitudini, e anche pel costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi di questo
genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi
più celebri e dalle condizioni più note degli antichi romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo
provocare l'impazienza del lettore avido certamente di seguire la nostra interessante storia. Diremo
soltanto che gli atti più usuali dei cappuccini per avere come dicono i francesi <I>une
contenance</I>, erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro dal
sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il
cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario che tenevano appeso alla cintola.
Questa ultima operazione appunto faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don
Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore sa che il
buon padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di Don Rodrigo non occorre parlare, giacché
ognun sa che nessuno è tanto sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare.
Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello che il padre fosse per dirgli,
sospetto che il contegno un po' irresoluto del padre aveva quasi cangiato in certezza. Gli accennò
con sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole:
«In che posso obbedirla, padre?»
Questo era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire chiaramente: frate,
bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni imbarazzo al padre Cristoforo;
perché risvegliando quell'uomo vecchio che il padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto
quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicché invece di farsi animo dovett'egli
frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata
che stava per intraprendere.
Onde, con modesta, ma assoluta franchezza, rispose:
«Signor Don Rodrigo il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con Vossignoria. Io
desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle: e per antivenire ad ogni disgusto
debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di
qualunque altra persona».
Don Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando le ciglia, e
dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e sprezzante. Il Padre fece le viste di non
avvedersene, e continuò, con qualche esitazione, perché le parole ch'egli stava per proferire non
esprimevano veramente quello ch'egli sentiva:
«Qualche tristi hanno abusato del nome di Vossignoria illustrissima per minacciare un parroco, ed
atterrirlo dal fare il debito suo, e sopraffare indegnamente due poveri innocenti. Vossignoria può
con una parola confondere questi ribaldi, disingannare quelli che potessero aver dato fede alle loro
parole, e sollevare quelli che ne patiscono. Lo può, e ardisco dirle, lo deve. La sua coscienza, la sua
sicurezza, il suo onore sono interessati in questo sciagurato affare».
«Della mia coscienza, padre, non mi si deve parlare che per rispondermi quando mi piaccia di
parlarne; la mia sicurezza... ma non posso credere ch'ella abbia avuta l'intenzione ardita di farmi
una minaccia; e suppongo che questa parola le sia sfuggita senza riflessione. Quanto al mio onore,
io potrei esser grato a chi ne sente premura in cuor suo, ma sappia che ne ho la cura io, e che
chiunque osa prendersi questa cura per me, io lo riguardo come colui che lo offende».
La fredda ed altiera impudenza di Don Rodrigo avrebbe fatta perder la flemma al Padre, se questi
non ne avesse fatta una provvisione per trenta anni, e se non fosse stato compreso dell'importanza
del negozio che stava trattando. Con questo pensiero, riprese: «Signor Don Rodrigo: sa il cielo se io
ho disegno di spiacerle: ella pure lo sa: non volga in ingiurie quello che mi detta la carità, sì una
umile carità: con me ella non potrà venire a parole, io son disposto ad ingojare tutto quello che le
piacesse di dirmi: ma per amor del cielo, per quel Dio innanzi a cui dobbiamo tutti comparire (così
dicendo il padre aveva preso fra le mani e poneva dinanzi agli occhi di Don Rodrigo il teschietto di
legno che era appeso in capo al suo rosario, e che i cappuccini portavano per un ricordo continuo
della morte) per quel Dio, non si ostini a volere una misera, una indegna soddisfazione a spese
dell'anima sua, e delle lagrime dei poverelli: pensi che Dio gli ha cari come la pupilla dei suoi
occhj, e che le loro imprecazioni sono ascoltate lassù: risparmi l'innocenza e la...»
«Padre Cristoforo», interruppe bruscamente D. Rodrigo: «il rispetto ch'io porto al suo abito è
grande; ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo in dosso ad uno che
ardisse di venire a farmi la spia in casa».
Questa parola fece salire una fiamma sulle guance del frate: ma fatti tutti i vezzi d'un uomo che
tranghiotte in fretta una amarissima medicina, egli rispose: «Lo dica pure, purché non lo creda; e
già non lo crede. Ella sa che le ingiurie che io posso ascoltare per questa causa non mi avviliscono,
ella sa che il passo che io faccio ora non è mosso da fini spregevoli: ella non mi disprezza in questo
momento. Faccia Dio che non venga un giorno in cui ella si penta di non avermi ascoltato. Non
metta la sua gloria nel... Qual gloria, signor Don Rodrigo! Qual gloria dinanzi agli uomini! E
dinanzi a Dio! Fare il male è concesso sovente all'ultimo degli uomini: il più vile dei banditi può far
tremare. Non v'è disonore a ritrarsi dalla iniquità: la codardia sta nel fare delle azioni inique per
timore di scomparire dinanzi ai tristi. Signor Don Rodrigo, le parole ch'io proferisco ora dinanzi a
lei sono numerate, un giorno le potrebbero esser fatte scontare ad una ad una da Colui che me le
ispira».
«Sa ella», disse interrompendo con istizza ma non senza qualche raccapriccio Don Rodrigo, «sa ella
che quando mi viene il ghiribizzo di sentire una predica, io so benissimo andare in chiesa come
fanno gli altri? Ma in casa mia. Oh!» e continuò con un sorriso affettato, «io non posso lagnarmi di
Dio che m'abbia fatto nascere in basso luogo, ma ella mi tratta per da più che io non sono alla fine.
Il predicatore in casa! non l'hanno che i principi regnanti».
«E quel Dio che domanda conto ai principi della parola che fa loro intendere nelle loro reggie, quel
Dio le fa ora un tratto di misericordia mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo
ministro, a pregare per una innocente...»
«Insomma, padre», disse alzandosi dispettosamente Don Rodrigo; «io non so quello ch'ella mi
voglia dire: io non capisco altro se non che vi debb'essere qualche fanciulla che le preme assai: vada
a fare le sue confidenze a chi le piace; e non si permetta di seccare più a lungo un gentiluomo».
Il Padre Cristoforo vedendo Don Rodrigo alzarsi, come perduta la pazienza, temè che questi
rompesse affatto il discorso, e levatosi egli pure col maggior garbo che potè, e con aria quasi
supplichevole, dissimulando quello che potevano avere di frizzante le parole che aveva intese,
rispose: «Sì la mi preme; ma non più di lei: io veggio in entrambi dei fratelli di redenzione, e delle
anime che mi sono più care del mio sangue. Don Rodrigo io sono un nulla dinanzi a lei, ma il mio
rispetto, ma la mia riconoscenza potranno forse valere qualche cosa per la intensità loro se non per
la mia persona. Non mi dica di no: salvi una innocente, una sua parola può far tutto».
«Ebbene», disse Don Rodrigo, «giacch'ella crede ch'io possa far molto per questa persona; giacché
questa persona le sta tanto a cuore...»
«Ebbene?» riprese ansiosamente il Padre Cristoforo al quale l'atto e il contegno di Don Rodrigo non
permettevano di abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare le sue parole.
«Ebbene», proseguì Don Rodrigo: «le consigli di venirsi a mettere sotto la mia protezione. Non le
mancherà più nulla, e non son cavaliere, se alcuno ardisce inquietarla».
«La vostra protezione!» riprese il padre Cristoforo, dando indietro due passi, appoggiandosi
fieramente sul piede destro, e mettendo la destra sull'anca, levando la manca coll'indice teso verso
don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! bene sta che
abbiate parlato così; che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colma la misura, e non vi temo
più».
«Come parli, frate?...»
«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Io
sapeva che Lucia era sotto la protezione di Dio: ma voi, voi me lo fate sentire ora con tanta
certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia dico: vedete come io pronunzio
questo nome colla fronte alta, e con gli occhi immobili».
«In questa casa...»
«Ho compassione di questa casa: ella è segnata dalla maledizione. State a vedere che la giustizia di
Dio avrà rispetto a quattro pietre e a quattro scherani! Voi avete creduto che Dio abbia fatta una
creatura a sua immagine per darvi il diletto di tormentarla! voi avete creduto che Dio non saprebbe
difenderla! Vi siete giudicato. Ne ho visti di più potenti, di più temuti di voi; e mentre agguatavano
la loro preda, mentre non avevano altro timore che di vederla fuggire, la mano di Dio si allungava
in silenzio dietro alle loro spalle per coglierli. Lucia è sicura di voi, ve lo dico io povero frate, e
quanto a voi, ricordatevi che verrà un giorno...»
Don Rodrigo che combattuto tra la rabbia, e il terrore non trovava parole per rispondere, quando
sentì che una predizione stava per venirgli addosso, prese la mano tuttavia alzata del padre, e
coprendogli la voce gridò:
«Levamiti dinanzi, plebeo incappucciato, poltrone temerario».
Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di strapazzo e di
villania era nella sua mente così bene, e da tanto tempo associata l'idea di sofferenza e di silenzio,
che a quel complimento gli cadde ogni spirito d'ira e di entusiasmo, e non gli restò più altro da fare
che di udire tranquillamente quello che piacesse a Don Rodrigo di aggiungere. Onde, ritirata
placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo e rimase immobile, come quando
nel forte della burrasca il vento cade, un'antica pianta ricompone naturalmente i suoi rami e riceve
la gragnuola come la manda il cielo.
«Villan rifatto!» proseguì Don Rodrigo: «così rimeriti accoglienze alle quali non sei avvezzo, e che
non son fatte per te: ma tu adoperi da par tuo. Ringrazia quel sajo che ti copre quelle spalle di
paltoniere, e ti salva dalle carezze che si fanno ai pari tuoi per insegnar loro a parlare. Esci colle tue
gambe per questa volta; e la vedremo».
Così dicendo, accennò una porta opposta a quella per cui erano entrati: il padre Cristoforo chinò il
capo, come salutando, e se ne uscì per quella, tranquillamente, lasciando don Rodrigo a misurare a
passi concitati il campo di battaglia.
Non è da credere che l'animo del buon frate fosse pacato come il suo aspetto; ma in mezzo al
turbamento naturale nelle sue circostanze, egli sentiva più di fiducia che non ne avesse prima di
quell'infelice colloquio. Le parole di sicurezza ch'egli aveva dette a Don Rodrigo, non erano state
un'arte per atterrir l'avversario: esprimevano un sentimento sincero e distinto. Gli pareva che la
superbia e l'iniquità di Don Rodrigo fossero salite a quell'altezza, dove la provvidenza le arresta, e
le rovina. Questi calcoli riescono spesse volte fallaci, e l'ingiustizia a questo mondo talvolta sale,
sale, sale, quando si crede che giunta al colmo, non possa che precipitare: ma Fra Cristoforo la
pensava così come abbiam detto; e sperava più che mai che la cosa si terminerebbe con una uscita
inaspettata e favorevole all'innocenza. Ma quale uscita? Non avrebbe egli saputo dirlo: ma credeva
confusamente che una se ne troverebbe.
Quand'ebbe chiusa dietro sè la portiera, vide nella stanza dov'entrava, e che riusciva nel cortile, vide
una persona che si andava tirando pian piano dietro la parete come per non esser veduta dalla stanza
del colloquio; e s'accorse che era un servo il quale era stato ad origliare, e continuò a camminare
senza far vista di nulla, per uscir nel cortile. Ma il servo fattosigli vicino gli disse sottovoce: «padre,
ho inteso tutto, e le vorrei parlare».
«Dite tosto».
«Non posso qui: guai se il padrone o altri mi sorprende. Ma io so tante cose, e non mi regge la
coscienza né il cuore... Vedrò di venir domani al suo convento».
«Dio vi benedica; ma intanto?»
«Non si farà nulla prima. Vada vada».
«Dio vi ricompenserà: io non uscirò domani, e mi troverete certamente».
«Vada vada per amor del Cielo, e non mi tradisca».
Il volto del buon frate rispose a queste parole più chiaro che non avrebbe potuto qualunque
discorso; il servo rimase, e il padre uscì nel cortile, quindi nella via, e respirò più liberamente
quando si vide fuori di quella caverna. L'inaspettata proposta del servo confermò e crebbe la sua
fiducia. - Ecco, diss'egli tra sè, un filo che la provvidenza mi pone in mano. - Così pensando guardò
in alto e vide che il sole era poco discosto dalla cima del monte; e che non rimaneva che un'ora e
mezzo di giorno. Allora benché affaticato per la via che aveva già fatto, e per quello che aveva detto
e inteso, studiò il passo affine di poter riportare un avviso qual ch'e' fosse alle donne, come aveva
promesso, e trovarsi al convento prima di sera. Era questa una delle leggi più severe del codice
fratesco: e le trasgressioni erano punite con rigore, e talvolta le recidive con crudeltà, perché oltre la
disciplina, l'onore del convento era interessato a prevenire delle assenze che avrebbero fatto dire
Dio sa che. Al qual proposito si può osservare che ogni volta che gli uomini hanno potuto dividersi
in classi, in crocchi, in picciole società, e farsi leggi particolari, per lo più invece di approfittare di
questa esenzione dalle leggi comuni per istabilire una certa condiscendenza utile a tutti i contraenti,
hanno aguzzati gl'ingegni per trovare rigori e pene più raffinate: di modo che parrebbe quasi che
tormentare altrui sia più dolce che assicurar se stesso.
Ma nella casetta di Lucia dal momento che il padre ne era partito non si era stati in ozio: si eran
messi in campo e ventilati disegni dei quali è necessario informare il lettore. Partito il padre, Fermo
e Lucia stavano in silenzio osando appena di sogguardarsi di tratto in tratto, e non si parlando che
con sospiri: poiché le speranze che avevano nella spedizione del buon padre erano tanto leggere e
indeterminate, che temevano entrambi di farle svanire col comunicarle.
Lucia andava tristamente ammanendo il desinare, e Fermo stava in tra due, volendo ad ogni
momento partire per togliersi dallo spettacolo di Lucia così accorata, e non sapendo staccarsi. Ma
Agnese dopo aver meditato un poco, dopo aver più volte risposto a se stessa di sì col capo, con una
voce piena di pensiero ruppe il silenzio e disse: «Sentite, figliuoli. Se aveste coraggio e destrezza
quanto è di mestieri, se vi fidate di vostra madre (quel <I>vostra</I> fece trasalire Lucia) io
m'impegnerei a cavarvi di questo impiccio, meglio forse e più presto del padre Cristoforo, con
rispetto del suo studio».
Lucia si fermò sui due piedi con più ansia che speranza in una promessa tanto magnifica; e Fermo:
«Coraggio!» disse: «destrezza! dite, dite quel che si può fare».
«Non è vero», proseguì Agnese, «che se voi foste maritati, il punto principale sarebbe vinto, che a
tutto il rimanente vi sarebbe rimedio?» «Oh maritati» rispose Fermo: «e poi quel che Dio vuole».
Lucia non aperse bocca; ma un rossore che le velò tutta la faccia parve ripetere parola per parola ciò
che Fermo aveva detto.
«Maritati che foste», continuò Agnese, «coi pochi risparmi di Fermo, e coi nostri, colla nostra poca
abilità, possiamo vivere anche via di qui: per me non ho che questa poveretta al mondo, e grazie al
cielo non vi sarei di peso, giacché il pane me lo guadagno. Lontani dalla persecuzione di questo
tiranno senza timor di Dio, noi potremmo far casa, e vivere in santa pace, non è vero, figliuoli?»
«Sicuro», rispose Fermo, «ma tutto sta nell'essere maritati».
«Ebbene, come vi ho detto, coraggio e destrezza; fare quello che vi dirò io, e la cosa è facile».
«Facile!» dissero ad una voce quelli per cui la cosa era divenuta tanto stranamente, e dolorosamente
difficile.
«Facile, a saperla fare»; replicò Agnese. «Bisogna fare un matrimonio <I>gran destino</I>». - La
buona donna voleva dire clandestino.
«Cospetto!», disse Fermo: «mi par bene di avere inteso altre volte questa parola, ma non so che
cosa voglia dire. Ma come fare il matrimonio se il curato non vuole? Senza il curato non si può
fare».
«Bisogna che il curato ci sia, e questo è facile, ma non fa bisogno ch'egli voglia, che è il punto».
«Spiegatevi meglio».
«Ecco come si fa. Bisogna aver due testimoni, destri e ben informati. Si va dal parroco. Lo sposo
dice: - Signor curato, questa è mia moglie: - la sposa dice: Signor curato, questo è mio marito: - il
parroco sente, i testimonj sentono, e il matrimonio è fatto, e sacrosanto come se lo avesse fatto il
papa. Ma bisogna che il curato senta, che non v'interrompa, perché se ha tempo di fuggire prima
che tutto sia detto, non si è fatto niente. Bisogna dire in fretta, ma chiaro, sentite: come faccio io: -
questa è mia moglie: questo è mio marito: - (e faceva mostra di una volubilità di lingua che in verità
possedeva in un modo singolare). Quando le parole son proferite, il curato può strillare, strepitare
fare quello che vuole, siete marito e moglie».
«Possibile!» sclamò Lucia.
«Oh vedete», disse Agnese «che nei trent'anni che sono stata al mondo prima di voi altri, non avrò
imparato niente. La cosa è certa e una mia amica che voleva pigliar marito contra la volontà dei
suoi parenti, ha fatto così. Poveretta! che arte ha usata per riuscirvi, perché il curato stava
sull'avviso, ma ha saputo cogliere il momento, ha pigliato colui che voleva, e se ne è pentita tre
giorni dopo».
«Se fosse vero, Lucia!...» disse Fermo, riguardandola con aria di una aspettazione supplichevole.
«Come! se fosse vero», ripigliò Agnese: «Io mi cruccio per voi, e non son creduta. Bene bene;
cavatevi d'impiccio come potete: io me ne lavo le mani».
«Ah no! non ci abbandonate», disse Fermo.
«No no»: riprese Agnese: «me ne lavo le mani: sentite, io son donna che sopporto ogni cosa per
quelli a cui voglio bene, ma non voler credere alle mie parole, e non voler fare quello che dico io;
questo non lo posso sopportare».
Chi avesse tentato direttamente con preghiere di smuovere Agnese irritata, avrebbe facilmente
avuto da fare per molto tempo: ma Lucia ottenne l'effetto in un momento, senza porvi astuzia,
facendo una obbiezione:
«Ma, perché dunque», diss'ella, «questa cosa non è venuta in mente al Padre Cristoforo?» Questa
interrogazione impegnò la buona Agnese a rispondere, e a giustificare il suo assunto.
«Bisogna saper tutto», diss'ella. «Al Padre Cristoforo che ne sa molto più di me, la cosa sarà venuta
in mente prima che a me: ma io so bene perché non ne avrà voluto parlare».
«Perché?» domandarono i due giovani.
«Perché?... perché... i religiosi dicono che è una cosa che non istà bene».
«Come possono dire che non istia bene, quando dicono che non si può disfare», disse Fermo.
«Se non istà bene», disse Lucia, «non bisogna farla».
Per rispondere a Fermo era necessario un ragionamento troppo sottile per Agnese: si volse ella
adunque a Lucia, e disse: «Non bisogna dirla prima di farla, perché allora sconsigliano: ma quando
sarà fatta, che cosa vuoi che ti dica il Padre Cristoforo? - Ah figliuola è stata una scappata, non me
ne tornate a fare una simile! - Tu gli prometterai di non tornarvi: non è vero? non son cose che si
facciano due volte. E allora il Padre Cristoforo ti assolverà».
Lucia non si mostrava convinta di questo raziocinio; ma Fermo tutto rincorato disse: «Ebbene
quand'è così la cosa è fatta. Lucia, voi non mi verrete meno, non mi avete voi promesso d'esser
mia? Non abbiamo noi fatto ogni cosa da buoni cristiani? E se non fosse stato questo... non
saremmo noi marito e moglie?»
«Fatta! fatta!» disse Agnese: «adagio. E i testimonj? E trovare il modo di acchiappare il signor
curato, che da due giorni se ne sta rincantucciato in letto, e che quando vi vedesse comparire a un
miglio di distanza, scapperebbe come il diavolo dall'acqua santa?»
«Ho trovato il modo; l'ho trovato», disse Fermo, battendo il pugno sulla tavola e facendo trasalire e
fremere le stoviglie apparecchiate pel desinare: «l'ho trovato. Vado, e torno. Bisogna ch'io parli con
Toni; e se posso acconciare la faccenda con lui, l'è fatta; e vengo subito ad informarvene».
«Ma ditemi prima quello che intendete di fare» disse precipitosamente Agnese, alla quale pareva
pure di dover esser consultata la prima.
«Non ho un momento da perdere: bisogna ch'io lo colga in casa a quest'ora: altrimenti, chi sa se
potrei trovarlo. Vado e torno, per sentire il vostro parere; senza il vostro parere non si farà nulla.
Cara Agnese, io vi considero come se foste la madre che ha patito: sono nelle vostre mani.
Persuadete Lucia». Così detto sparì.
Non ci voleva meno di queste parole perché Agnese perdonasse a Fermo di farle aspettare una
confidenza e di intraprendere qualche cosa senza il suo consiglio.
«Ragazzo!» diss'ella quando fu partito «purché non me ne faccia una e non mi guasti tutto. Basta:
mi ha promesso di non far nulla senza la mia licenza».
Necessità, come si dice, assottiglia l'ingegno: e Fermo il quale nel sentiero retto e facile di vita che
aveva percorso fin allora non aveva mai avuto occasione di far molto uso della sua penetrazione, ne
pensò in questo caso una, che avrebbe fatto onore ad un giurisperito. Corse alla casetta di Tonio, la
quale era nel villaggio dove risiedeva il parroco, a forse trecento passi di distanza dalla abitazione
di Lucia. Quando Fermo entrò nella cucina, la moglie, la vecchia madre di Tonio stavano sedute
alla mensa, e tre o quattro figli ritti intorno aspettando il desinare che Tonio stava cucinando. Ma
non si vedeva sui volti quell'allegria che ordinariamente anche i poverelli mostrano in quel
momento: la carestia aveva costretti i poverelli ad una sobrietà ancor più rigida che per l'ordinario,
e tutti cogli occhi fissi sulla pentola nella quale Tonio tramestava accidiosamente una bigia polenta
di fraina (o se volete di <I>poligonum fagopyrum</I> ) pareva che invece di rallegrarsi della vista
del desinare pensassero tristamente a quella buona parte di appetito che rimarrebbe intatta dopo
sparecchiato. In quel momento Tonio riversò la polenta sulla tafferia di faggio che stava appronta a
riceverla, e il largo orlo che rimase vuoto all'intorno fece ancor più chiaramente risaltare la povertà
del convito. Nullameno le donne rivolte cortesemente a Fermo, gli dissero se voleva <I>restar
servito</I>: complimento che il contadino di Lombardia non lascia mai di fare quando mangia
seduto sulla sua porta a chi s'abbatte a passarvi quand'anche stesse mangiando l'ultimo boccone del
suo piatto. «Vi ringrazio», rispose Fermo: «io vengo per dire qualche cosa a Tonio; e se vuoi Tonio,
per non incomodare le tue donne vieni a pranzar meco all'osteria, e parleremo». La proposta fu per
Tonio tanto gradita quanto meno aspettata; e le donne che in un'altra occasione forse avrebbero
avuto che dire su questa partita videro con piacere che si scemasse alla polenta un concorrente, e il
più formidabile. Tonio non domandò altro, e partì con Fermo.
Giunti all'osteria del villaggio, seduti a tutto loro agio in una perfetta solitudine giacché la miseria
aveva fatti sparire tutti i frequentatori di quel luogo di delizie, fatto recare quel poco che si trovava,
vuotato un boccale di vino, Fermo con aria di mistero disse a Tonio: «Se tu vuoi farmi un picciolo
servizio; io posso e voglio farne uno grande a te».
«Parla, parla, comandami pure», rispose Tonio, versandosi da bere, «oggi andrei nel fuoco per te».
«Tu sei in debito di venticinque lire col signor curato per fitto del suo campo che lavoravi l'anno
passato».
«Tu sei sempre stato un martorello, Fermo: non sai che all'osteria non si fa menzione di debiti?
Ecco, io mi sentiva una voglia che sarei andato nel fuoco per te, ma con questo discorso tu mi hai
fatto passare tutta l'allegria, e quasi non ti son più obbligato».
«Se ti parlo del debito», rispose Fermo «è per darti il mezzo di soddisfarlo. Eh! non ti farebbe
piacere? saresti contento?»
«Contento? per diana se sarei contento. Non pel curato vedi: ma per togliermi la seccatura: se la
faccenda continua così non potrò più andare alla Chiesa: non mi vede una volta che non me ne gitti
un motto, o almeno almeno non mi faccia un cenno con quella sua brutta cera. E poi e poi, egli si
tiene in pegno la collana d'oro di mia moglie; e prevedo che quest'inverno se l'avessi, la cangerei in
tanta polenta; non in vino», e qui fece un sospiro, «in polenta. Ma...»
«Ma, ma; se tu mi vuoi rendere un servizio, io ti darò le venticinque lire».
«Il servizio è fatto» rispose Tonio; «non fa nemmeno bisogno che tu mi dica che cosa è».
Fermo, gli fece promettere sul bicchiere il segreto, e continuò:
«Tu sai che io sono promesso a Lucia Zarella. Il curato mi va cercando cento scuse magre per tirare
in lungo: io vorrei spicciarmi. Mi hanno mò detto che presentandomi al curato con due testimonj, e
dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto. M'hai tu
inteso?»
«Tu vuoi ch'io venga per testimonio?»
«Appunto».
«Il matrimonio è fatto, è fatto», rispose Tonio baldanzosamente, versandosi un altro bicchiere di
vino. «Così vi fossero molti tribolati come te, e in caso di spendere venticinque lire».
«Ma bisogna che tu mi trovi un altro testimonio».
«Bisogna che lo trovi io ah? io perché son più destro di te. Bene è trovato. Quel martoraccio di mio
fratello Gervaso, farà quello che gli dirò io: basta che tu mi dia tanto ch'io gli possa pagar da bere;
perché, a questo mondo, niente per niente: è un proverbio che lo sa anche Gervaso, lo sanno anche
quelli che non sanno dire il <I>Credo</I>».
«Farò di più», disse Fermo, «lo condurremo qui a stare allegro con noi».
«Benone» rispose Tonio.
Fermo pagò lo scotto, ed uscirono quindi entrambi pieni di speranza; Fermo avvisò il compagno che
si tenesse pronto per l'indomani sull'imbrunire; gli raccomandò di nuovo il segreto, quindi si avviò
alla casa di Lucia, e Tonio alla sua cantando ad alta voce, come non aveva più fatto da molti mesi.
Ma in questo frattempo Agnese aveva penato in vano a persuadere Lucia. In tutto il tempo del
desinare (il quale non era grazie a Dio più scarso dell'ordinario, perché tanto le donne, quanto
Fermo erano dei più agiati del contorno) e dopo quando le furono ritornate all'aspo, Agnese pose in
opera tutta la sua eloquenza, ma invano.
Lucia rispondeva sempre con un dilemma senza però saperlo presentare in forma: «O si può fare»,
diceva, «e perché non dirlo al padre Cristoforo? o non si può fare, e non si deve fare». Non già che
questo rifiuto non fosse più amaro a Lucia che lo proferiva che alla madre; ma Lucia non avrebbe
voluto per nulla al mondo far contra la sua coscienza. «Abbiamo bisogno più che mai», diceva
ancora, «dell'ajuto di Dio, e se facciamo ciò che non istà bene, come lo potremo sperare?» Così
spesero tutto quel tempo in argomentazioni; e uno che le avesse intese disputare, e tornar da capo
ognuna a ripetere le stesse ragioni, avrebbe potuto credere che la fosse controversia fra due dotti,
piuttosto che disputa fra due donnicciuole.
Fermo giunse che si disputava tuttavia. Ma Agnese, alla quale allora premeva più di sapere che di
parlare, «ebbene Fermo», disse, «avete trovato il bandolo? Dite, vediamo un po'».
Fermo snocciolò tutto il disegno; e terminò con un «ahn!» interiezione milanese la quale significa:
sono o non sono un uomo? si poteva trovar di meglio? ve lo sareste aspettato? e cento altre cose
simili.
Agnese crollò il capo, e disse: «non avete pensato a tutto».
«Che ci manca?» rispose Fermo, punto, e spaventato nello stesso tempo.
«E Perpetua?» gridò Agnese; «e Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Come volete ch'ella vi
lasci entrare dal curato? Pensate s'ella non avrà ordini severissimi di tenervi lontani più che un
ragazzo da una pianta di pomi maturi. Come farete ad ingannare Perpetua?»
«Povero me! non ci ho pensato, io».
«Sentite, se non ci fosse altra difficoltà, a Perpetua ci penso io», rispose Agnese, la quale giacché
l'iniziativa gli era stata tolta, era almeno contenta di mostrare che era necessaria la sua sanzione.
«Ecco come la cosa si dovrebbe fare. Sull'imbrunire, capite bene che quella è l'ora giusta, Tonio va
alla porta del curato, picchia, viene Perpetua, Tonio le dice di avvertire il curato ch'egli è lì per
pagare. Voi altri due intanto vi apparecchiate dietro l'angolo della casa a man sinistra. Quando
Perpetua torna per aprire a Tonio, io mi trovo sulla porta, e quando Perpetua ha detto a Tonio: -
andate su -, io mi mostro a Perpetua, la chiamo, e le dico queste parole magiche: - ho da parlarvi di
quel tale affare. - Con quest'amo vedete io la tiro con me dalla destra fin dove voglio; ma basterà
che io l'allontani tanto che voi possiate pian pianino introdurvi nella porta lasciata aperta da Tonio,
e tenergli dietro pian pianino per le scale, e poi fermarvi nella stanza vicina a quella dove sarà il
curato, ed essergli addosso poi nel momento opportuno». Agnese chiuse il discorso alla sua volta
con un «ahn?» prolungato in aria di trionfo, levando il mento, ed avanzando la faccia verso Fermo.
«Benedetta voi...!»
«Mah!» interruppe Agnese: «tutto questo serve poco, perché Lucia si ostina a dire che è peccato».
Fermo pos'egli pure in campo la sua eloquenza: fece mille interpellazioni a Lucia, e rispose sempre
egli per mostrare che i dubbj di essa erano vani: ma Lucia fu inconcussa.
«Sentite», diss'ella, «fin qui abbiamo fatto tutto col timor di Dio; proseguiamo a questo modo, e Dio
ci ajuterà. Io non capisco tutte queste vostre ragioni: vedo che per far questa cosa bisogna
camminare a forza di bugie, di nascondigli. No no Fermo: io voglio esser vostra, ma colla fronte
scoperta, il bandolo lo troverà la provvidenza».
La disputa, come era da supporsi, divenne generale. Fermo insisteva rimproverando Lucia di poco
amore, e ripetendo i suoi argomenti con una forza e una amarezza sempre crescente: Lucia
addolorata, tenera, ma ferma li ribatteva singhiozzando, ed Agnese predicava all'una, dava sulla
voce all'altro secondo l'occasione. Tutt'ad un tratto, un calpestio affrettato di sandali, e un romore di
tonaca sbattuta, somigliante a quello che produce in una vela allentata il soffio ripetuto del vento,
annunziò il Padre Cristoforo. Si fece silenzio, e Agnese ebbe appena il tempo d'imporre sotto voce a
Lucia di non dir parola del disegno contrastato.
<B>CAPITOLO VII</B>
...
Il Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale, il quale, perduta, senza sua colpa,
una battaglia importante, afflitto ma non iscorato, soprappensiero, ma non istordito, a corsa e non in
fuga, si porta ove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi che potrebbero esser minacciati, a dare
ordini, disposizioni, avvertimenti.
«La pace sia con voi», diss'egli, entrando, tutto ansante, ma con voce ferma. «Non v'è nulla a
sperare dall'uomo: tanto più bisogna confidare in Dio». Benché nessuno dei tre sperasse molto nel
tentativo del Padre Cristoforo, giacché il vedere un potente recedere da una soperchieria per
preghiera e senza esser sopraffatto da una forza superiore era cosa più inaudita che rara, nullameno
la trista certezza fu un colpo per tutti.
Ma Fermo ne prese più sdegno che accoramento. Le ripulse replicate di Lucia, i suoi disegni così
ben meditati, e le sue speranze al vento, il non saper più come uscire per altra via d'impaccio, un
lungo diverbio, avevano cresciuta e riscaldata la stizza che egli covava già da due giorni: l'amore,
però, e il rispetto che Lucia gli ispirava anche rifiutando ciò ch'egli bramava sopra ogni cosa,
avevan temperata questa stizza, e impedito ch'ella non iscoppiasse in escandescenza. Ma quando a
quella passione compressa si presentò un oggetto odioso per ogni parte, quello che ne era l'oggetto
principale, la passione non ebbe più freno.
«Vorrei sapere», gridò Fermo colla bava alla bocca e come non aveva mai gridato in presenza del
Padre Cristoforo, «vorrei sapere che ragione ha detto quel cane, per sostenere che Lucia non ha da
esser mia moglie».
«Povero Fermo!» rispose il Padre, con un accento di pietà e d'amorevolezza. «Sai tu che se alcuno
potesse costringere quei signori a dire le loro ragioni, le cose non andrebbero a questo modo».
«Dunque ha detto il cane che egli non vuole, perché non vuole?»
«Non ha detto nemmen questo. Piacesse a Dio che per commettere l'iniquità gli uomini fossero
costretti di confessarla apertamente; l'iniquità trionferebbe meno sulla terra».
«Ma che parole ha dette quel tizzone d'inferno?»
«Io le ho intese, Fermo, e non te le saprei ripetere. Dimmi, se tu dopo un lungo giro uscissi da un
sentiero intricato, pieno di oscurità e di spini, sapresti tu descrivere la via che hai percorsa?
noverare i tuoi passi, segnare le giravolte e gl'inciampi? Povero Fermo! Le parole della iniquità
potente sono come il lampo che abbaglia e fa terrore, e non lascia vestigio. Essa può minacciarti di
vendetta perché tu abbi sospetto di lei, e nello stesso tempo farti intendere che il tuo sospetto è
certezza: può dirti: guai a te se non mi comprendi, guai a te se mostri di comprendermi: può
insultare, e mostrarsi offesa, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere impudente e
irreprensibile. Non cercar più altro. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo,
non ha mostrato di sapere che voi viviate, non ha detto di voler nulla; ma... pur troppo quello che
voi mi avete rivelato, quello che io non avrei voluto credere, è vero. Mah! confidenza in Dio come
v'ho detto: questa è l'ora dell'uomo, ma va passando. Voi, poverette, non vi perdete d'animo, e tu,
mio Fermo... oh! credi ch'io so pormi ne' tuoi panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore... ma
abbi pazienza: io so che questa parola è amara: ma è la sola che ti possa dire un uomo che non sia
tuo nemico. Dio stesso, che è onnipotente, non te ne vuol dir altra, per ora. Io parto, e vi lascio nelle
mani di Dio... Oh il sole è caduto e arriverò tardi: ma poco importa. Fatevi animo: Dio mi ha già
dato un segno di volervi ajutare. Domani non ci vedremo: io rimango al convento; ma per voi.
Mandate, Lucia, un garzoncello fidato, che giri vicino al convento, alla Chiesa, e pel quale io possa
farvi sapere quello che occorrerà: io sarò avvertito, e vi farò avvertite: avremo dei mezzi che colui
non sospetta, che finora non conosco nemmeno io: in Milano ho qualche protezione, e la vedremo.
Sento una voce che mi dice che tutto finirà presto e bene. Fede, coraggio, e buona sera». Detto
questo s'avviava frettolosamente, quando udì Fermo dire, mormorare con voce contenuta dal
rispetto, e velata dalla collera, ma intelligibilmente: «la finirò io». La faccia e l'atteggiamento di
Fermo non lasciava dubbio sul senso di queste parole.
«Misericordia!» sclamò Agnese. Lucia si volse supplichevolmente al Padre Cristoforo, come se
volesse dire: - ammansatelo -.
«Tu la finirai!» disse rivolgendosi il Padre Cristoforo, ed appostandosi sulla porta: «no Fermo, tu
non sei da tanto: non tocca a te. Dio solo può finirla, e guai a te se tu ardisci di prevenire il suo
giudizio».
«Nasca quel che può nascere, ad ogni modo la voglio finire. Sì la voglio finire. È di carne
finalmente lo scellerato».
«Fermo, in nome di Dio», disse Lucia.
«Dio! Dio!» disse Agnese. «Voi perdete la testa: non sapete quante braccia egli ha ai suoi comandi?
e quand'anche... oh misericordia! contra i poveri c'è sempre la giustizia».
«Non gli parlate di questo», interruppe il Padre: «egli non se ne cura. Ascoltami Fermo: voglio che
tu mi ascolti. Io ti leggo in cuore: io so che il tuo pericolo non ti fa terrore; so che in questo
momento l'idea della morte non ti spaventa né per gli altri né per te. Ma ascolta. Tu eri nella gioja e
nella speranza; un uomo ti si è parato sulla via, e ti ha gettato nella angoscia e nella miseria: tu credi
che tolto di mezzo quest'uomo, ti ritroverai al posto dove tu eri prima d'incontrarlo. Povero
ingannato! la tua via è cangiata, ti è forza intraprenderne un'altra: guai a te se ti poni in quella
dell'omicidio. Poni che tutto ti riesca a tuo grado: ebbene! che avrai tu fatto? l'odio è dolce ora al
tuo cuore: ma sai tu... sai...» e così dicendo prese la mano di Fermo e la strinse a segno di dargli
dolore... «sai tu come si volge il cuore dell'uomo che ha versato il sangue? Ve n'ha che rimangono
quelli di prima; ma tu non sei uno di loro: guai a te! son reprobi. Io ho perduto degli amici cari, ben
cari... ma se Dio mi concedesse di poter far rivivere un uomo, credi tu ch'io sceglierei uno di essi?
Quegli ch'io vorrei poter risuscitare col mio sangue è un uomo a cui io non aveva mai fatto il torto
più leggiero, e che mi ha insultato. Poni che tutto ti riesca, poni che non vi sia giustizia, che tu sposi
tranquillamente... che la colomba si unisca allo sparviero. Ma sarai tu Fermo? avrai sposato Lucia?
Tu non sarai Fermo, te lo dico io: tu non penserai come ora: in ogni tuo pensiero, per quanto
importante egli sia per essere, per quanto lieto, oltre quello che ci sarebbe per tutti, per te ci sarà
sempre un morto di più. Avrai tu figli? Guardati dal trovarti in casa quando questa sfortunata farà
loro ripetere i comandamenti di Dio, e dirà loro: non fare omicidio. Potrai tu ricordare con tua
moglie, le speranze e le traversie che hanno preceduto il tuo matrimonio: potrete voi dire una volta:
ma Dio ci ha ajutati? Quand'ella si sveglierà al tuo fianco, penserà tremando che è coricata con uno
che ha ucciso; e quando la collera più leggera, un primo moto d'impazienza apparirà sul tuo volto;
ella crederà di scorgervi le prime tracce dell'omicidio. No Fermo; vedi: è notte; io già son colpevole
di avere indugiato a tornare al convento; ma io non mi parto di qui se tu non mi giuri in faccia a
quella Vergine» (e accennò una immagine attaccata al muro della stanza) «di aver deposto ogni
pensiero di vendetta».
«Io per lei ho tutta la stima, ma colui...»
«Ti parlo io per me? Che hai tu a perdonarmi? A colui, sì a colui tu devi perdonare. Io te l'ho detto,
e tu non hai più scusa: la maledizione del cielo cadrebbe sopra di te. Tu sei giovane e più robusto di
me, ma se tu non vuoi gettare a terra un vecchio che non ti ha fatto mai del male, tu non uscirai di
qui prima d'aver fatto quel giuramento».
Fermo esitava; Agnese stava attonita ed in aspettazione colla bocca aperta. «Ebbene Fermo» disse
Lucia, come costretta, ed in modo che il Padre non intendesse tutto il senso delle sue parole: «fate
quel che vi dice quest'uomo del Signore, ed io vi prometto che io farò tutto quello che si potrà, tutto
quello che vorrete perch'io possa esser vostra moglie».
«Lo giuro», disse Fermo.
«Chiama in testimonio quella Vergine», disse il Padre Cristoforo, «che tu non attenterai alla vita del
tuo nemico, che tu farai tutto per evitarlo».
«Così la Vergine non mi abbandoni», disse Fermo, commosso, ma risoluto.
«E non ti abbandonerà»; rispose il Padre gettandogli le braccia al collo. «Addio: ricordatevi del
garzoncello. Dio sia con voi».
Lucia lo salutò piangendo.
«Padre, padre», gridò Agnese, trattenendolo, «quanto sono mortificata che in grazia nostra Ella
torni così tardi al convento». Il Padre Cristoforo pensò che il miglior modo di corrispondere a
questo complimento era di non perder tempo in altre parole, e partì.
«Me lo avete promesso», disse Fermo a Lucia.
«Ve l'ho promesso e lo manterrò»: rispose Lucia colle lagrime agli occhi, «ma vedete, come me lo
avete fatto promettere. Dio non voglia...»
«Perché volete farmi un tristo augurio, Lucia? Dio sa che non facciamo torto a nessuno».
Agnese voleva riparlare della spedizione, e pigliare i concerti, ma Lucia pregò che tutto si
rimettesse all'indomani, e Fermo partì agitato lasciando le donne più agitate di lui.
Intanto il Padre Cristoforo, benché fiaccato e frollo delle corse, dei disagi, delle inquietudini, e delle
parlate di quel giorno, aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento; e andava
saltelloni giù per quel viottolo sassoso torto, e reso ancor più difficile dalla oscurità; andava il
povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata, e quello che poteva soprastare, parte
pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur
finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio
fosse per mandare. Il frate portinajo aperse, e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto
misto di sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini
(tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo o anche per
qualche sventura sembra loro stare in cattivi panni. «Il Padre Guardiano le vuol parlare», disse
costui al nostro amico, il quale seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a
toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale gl'impedisse di potere
all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso
avesse richiesto.
Giunto alla cella del guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria del guardiano, si pose
le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul petto e disse: «Padre son balordo». Era questa,
chi nol sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore. Bisogna
sapere che il guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un
mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui domandare, perché faceva il volto serio, se era
contento; e gli si risponderebbe, che appunto era contento perché il Padre Cristoforo gli aveva dato
il diritto di fargli il volto serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile che il
guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della
autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser daddovero
il padre guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il dottore, senza disputare, dava però a
divedere chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi
confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri;
biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il guardiano avevano
per lui più rispetto che amore. E il rispetto veniva in parte anche dalla fama di santo che il padre
Cristoforo aveva al di fuori; e che apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da stupirsi
se il guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel padre Cristoforo, e gustasse a lenti sorsi
l'umiliazione di lui, e il sentimento della propria autorità.
«È questa l'ora», diss'egli gravemente, «di ritornare al convento?»
«Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo».
«E perché vi siete dunque tanto indugiato? perché avete violata una regola che conoscete così
bene?»
«Fui trattenuto da un'opera di misericordia».
Il guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire; e vide tosto che se avesse voluto andar più
ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo
onore: onde gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto
colpevole. Gli disse che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di
orgoglio, e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le
regole: che bisogna prima fare il dovere, e poi attendere alle opere di surerogazione; e altre cose di
questo genere. Aggiunse poi che egli, padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta
importanza fosse la regola da lui infranta, e per la disciplina, e per evitare ogni scandalo; ma che
per l'età sua, e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perché si teneva certo che non
v'era altro che la violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di coricarsi
recitasse un <I>miserere</I> colle braccia alzate; e così lo congedò, e si gittò sul duro suo
pagliaccio; più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato: poiché non è da dire
quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne
allontanano.
Questa fu la mercede che il nostro padre Cristoforo ebbe della sua giornata spesa come abbiam
detto. Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo. Egli recitò il suo buon <I>miserere</I>, e lo
concluse dicendo: «Dio, fate misericordia a me, e a quel poveretto che io... toccate il cuore di Don
Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il Padre guardiano.
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e degli infedeli, degli oppressi e
degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti
i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei ladri, dei birri, delle
vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi, e dei morti. Così sia». Quindi
si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire; che ne ha bisogno.
Ma i nostri tre altri personaggi passarono la notte come sono tutte le notti che precedono una
giornata destinata ad una impresa scabrosa e di incerto esito. Agnese appena levata cominciò a
spiegare a Lucia tutte le parti del disegno, ad istruirla a puntino sul da farsi e da evitarsi in ogni
operazione, e a combattere di nuovo le obbiezioni che Lucia aveva fatte nel giorno antecedente. Ma
Lucia ascoltò le istruzioni, promise di eseguirle, e non oppose più nulla. Data la sua promessa, ella
stimava inutile ogni parola che tornasse a mettere in questione ciò ch'era stabilito: e non è senza
ragione che noi amiamo Lucia come cosa rara non dirò nel suo sesso, ma nella specie.
Del resto non è ben chiaro se nella rassegnazione di Lucia non entrasse anche un po' il pensiero
ch'ella sarebbe stata di Fermo, e se, giacché l'iniquità degli uomini aveva voluto che questa si
facesse come per forza, ella non era un po' contenta che forza le si facesse. La poveretta ad ogni
modo era abbattuta, piena d'incertezza, d'angoscia, e di tristi presentimenti: in quella agitazione
insomma in cui pone una grande aspettazione, e che è più dolorosa che la prostrazione che nasce
dopo la sventura.
Fermo non fu tardo a lasciarsi vedere, e concertò colle donne l'operazioni della giornata,
prevedendo ogni contrattempo, parando ogni ostacolo, e ricominciando ad ogni tratto a descrivere
la faccenda come si racconterebbe una cosa fatta. Appena partito Fermo, Agnese andò nella casa
vicina a cercare un garzoncello suo nipote, chiedendolo ai parenti per quel giorno per fare un
servizio. Quando l'ebbe ottenuto, lo introdusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gl'impose
che ne andasse a Pescarenico, e si stesse un po' in Chiesa, un po' sulla piazza del convento, ma
sempre in vicinanza, aspettando che il Padre Cristoforo lo venisse a chiamare. «Il Padre Cristoforo,
quel bel vecchio: tu sai: colla barba bianca: quel che chiamano il santo...»
«Ho capito», disse Menico: «quel che accarezza sempre i ragazzi, e che dà spesso qualche
immagine».
«Appunto Menico: tu lo aspetterai, come t'ho detto: ma non ti sviare, ve': bada di non andare cogli
altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell'acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti
appese al muro ad asciugare, né...»
«No no, medina mia: non sono poi un ragazzo».
«Bene, abbi giudizio, e quando tornerai vedi, queste due belle <I>parpagliole</I> nuove sono per
te».
«Datemele ora, che...»
«No no, tu le giuocheresti. Va' e portati bene che avrai anche di più».
Nel rimanente di quella lunga mattina, accaddero alcune cose che posero in sospetto ed in
agitazione l'animo già conturbato delle donne. Un mendico più rubesto e di più florido viso che non
fossero per l'ordinario i suoi confratelli, con qualche cosa di coperto e di sinistro nell'aspetto, entrò
a domandare per Dio, gettando gli occhi qua e là come per ispiare. Quand'ebbe ricevuto un pezzo di
pane, lo ripose con molta indifferenza lasciando quasi travedere che quello non era il suo fine
principale. Si trattenne anzi con una certa impudenza e nello stesso tempo con esitazione, facendo
molte inchieste, alle quali Agnese si affrettò di rispondere sempre il contrario di quello che era; e
finalmente, congedato se ne andò. Di tempo in tempo poi passavano figure sospette, come di bravi
travestiti, di servi oziosi, di contadini che girandolavano, e giunti dinanzi alla porta allentavano il
passo, e sogguardavano nella stanza, come chi vuol guatare, e non dar sospetto. Le donne
socchiusero la porta, per togliersi da questa persecuzione che dava loro molto da pensare. Ma
questa precauzione fu causa che il sospetto divenisse più serio e più nojoso: perché avendo Agnese
un tratto visto che tra le due imposte socchiuse s'era fatto un po' di spiraglio, guatò più
attentamente, e vide attraverso la picciola fessura un uomo che stava adocchiando nella stanza: ella
si alzò, e l'uomo sparì.
Finalmente all'ora del pranzo la persecuzione cessò. Agnese rincorata non udendo più pedate
sospette, si alzava di tempo in tempo, si metteva sull'uscio, guardava nella via, a dritta e sinistra; e
non vide più nulla che le desse da pensare. Nullameno ne rimase alle donne, e particolarmente alla
timidetta Lucia, una perturbazione indeterminata, che le tolse una gran parte della risoluzione di che
ella aveva bisogno in una tale giornata.
Alle ventitrè ore tornò Fermo, come era stato convenuto, e disse: «Tonio e Gervaso son qua fuori,
noi andiamo all'osteria a cenare, come siamo intesi, e al tocco dell'avemmaria, verremo a prendervi.
Coraggio, Lucia, tutto dipende da un momento». Lucia sospirò, e rispose: «oh sì, coraggio»: con
una voce che smentiva la parola.
Fermo e i due suoi compagnoni trovarono questa volta l'osteria più popolata. Sul limitare stesso,
colla schiena appoggiata ad uno stipite, colle mani sotto le ascelle, coll'occhio teso, e con una faccia
tra l'annojato e l'agguatante, stavasi un uomo, che non aveva cera né di contadino, né di viaggiatore,
né di benestante; non pareva uno sfaccendato, ma non si sarebbe potuto immaginare che faccenda
egli s'avesse. Un uomo più sperimentato di Fermo, guardandolo attentamente l'avrebbe detto un
servo travestito. Questi non si mosse, e mirò fisamente Fermo, il quale si torse entrando per fianco
nella picciola apertura lasciata da quella cariatide. I suoi compagni l'imitarono se vollero entrare.
Ad un deschetto stavano seduti due facce di scherani, giuocando alla mora, gridando quindi tutti e
due ad un fiato come si farebbe in una controversia fra due dotti: fra i due giuocatori stava un gran
fiasco di vino dal quale andavano essi versando a vicenda. Questi pure adocchiarono Fermo con una
curiosità molto significante. Finalmente ad un altro desco erano tre vestiti da contadini, ma con un
contegno che indicava abitudini più guerresche che casalinghe. E questi pure gli occhi addosso a
Fermo: quindi occhiate da un crocchio all'altro, dai crocchj alla porta. Fermo insospettito, e incerto
guardava ai suoi due compagni come se volesse cercare nei loro aspetti una interpretazione di
questo mistero: ma quelli non indicavano altro che un buon appetito. L'ostiere stava aspettando gli
ordini dei sopravvenuti, Fermo lo fece venire con sè in una stanza vicina; e comandò da cena.
«Chi sono quei forastieri?» chiese Fermo a voce bassa all'ostiere che stava stendendo sul desco una
tovaglia grossolana.
«Chi sono? Che m'importa chi essi sieno?» rispose l'ostiere. «Non sapete che la prima regola del
nostro mestiere è di non impacciarsi dei fatti altrui? Tanto è vero che fino le nostre donne non son
curiose. Quel che ci preme si è che quelli che frequentano la nostra casa sieno galantuomini; come
sono certamente questi di cui mi chiedete».
«Ma se non li conoscete, come sapete che sieno galantuomini?»
«Le azioni, caro mio: l'uomo si conosce alle azioni. Quegli che bevono il vino e non lo criticano,
che mostrano sul banco la faccia del re, senza taccolare, e che non fanno questioni con gli altri
avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo aspettano fuori e lontano dall'osteria per
non far torto, quelli sono i galantuomini».
Fermo non ne potè cavar altro: la cena fu servita, ma l'umore diverso dei convitati fe' sì ch'ella non
fosse molto lieta. I due fratelli avrebbero voluto assaporarne tranquillamente e prolungarne le
delizie; e a Fermo parevano mill'anni di uscirne, e per andare a fare il fatto suo, e perché la presenza
e gli sguardi di tutti quegli ospiti gli avevano posta addosso, o per dir meglio, cresciuta
l'inquietudine.
«Che bella cosa», disse Gervaso, «che Fermo voglia pigliar moglie, e abbia bisogno...»
«Zitto, zitto», disse tosto Fermo, «per amor del cielo».
La cena divenne somigliante ad un pranzo diplomatico; e ci crediamo dispensati dal farne la
descrizione. Diremo soltanto che Fermo, osservando per sè una rigida sobrietà, largheggiò nel
mescere ai suoi convitati, per metter loro addosso del coraggio per ogni evento.
Terminata la cena dovettero i tre compagni passare un'altra volta dinanzi a quelle facce sconosciute,
le quali tutte si rivolsero a Fermo come la prima volta. Quand'egli ebbe fatti pochi passi fuori
dell'osteria, si volse addietro, e vide che due lo seguivano: sostette allora coi suoi compagni,
piantando gli occhi in faccia a quelle ombre, come se dicesse: - vediamo che cosa vogliono da me
costoro. - Ma i due quando s'accorsero che Fermo si era accorto di essi si fermarono un momento, si
parlarono sotto voce, e tornarono indietro. Se Fermo fosse stato tanto presso da intendere le loro
parole, avrebbe inteso che uno di essi diceva al compagno: «s'è addato di qualche cosa:
torniamocene per non guastar tutto: è troppo per tempo: non vedi che il paese è pieno di gente?
lasciamoli andare tutti al nido».
V'era infatti quel movimento, quell'andare e venire, quel trambusto che si sente in un villaggio al
cader della sera, e che dopo pochi momenti dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne
venivano dal campo portandosi in collo i bambini, e traendo per mano i figliuoletti più adulti, ai
quali facevano ripetere le preghiere della sera: giungevano gli uomini colle vanghe e colle zappe
sulle spalle, si vedevano qua e là fuochi accesi per le povere cene: si udivano saluti di quelli che
s'incontravano, e colloqui brevi e tristi sulla scarsezza del ricolto e sulle sventure di quell'anno
tristissimo. Frattanto, si udiva il tocco misurato e solenne della squilla che annunziava la fine della
giornata.
Quando Fermo vide che i due indiscreti s'erano ritirati, continuò la sua strada fra le tenebre
crescenti, ripetendo a bassa voce ai fratelli gli avvertimenti sul modo di condurre a buon termine
l'impresa. Quando giunsero alla casetta di Lucia, era notte fatta.
Fra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto un barbaro che non era
privo d'ingegno, l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi, e di paure. La povera Lucia era da molte
ore nelle angosce di questo sogno: Agnese, la stessa Agnese così risoluta, e disposta all'operare, era
sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma al momento in cui l'azione
comincia, e l'animo che fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a
vicenda, e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora
egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio che lo agitavano succede un altro terrore, e un
altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata, si scoprono
mezzi e ostacoli non pensati: ciò che sembrava più difficile si trova talvolta fatto quasi da sè,
l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano il loro uficio ad un passo che era sembrato
il più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Un matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione di un dittatore per Marco
Bruto. Quando s'intese bussare sommessamente alla porta, Lucia fu presa da tanto terrore, che
risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo piuttosto che
eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo entrato disse: «son qui, andiamo»; quando tutti si
mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già determinata, Lucia non ebbe spazio
né cuore di far contrasto e come strascinata, prese tremando un braccio della madre, e un braccio di
Fermo, e s'avviò senza far motto colla brigata avventurosa.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero in vicinanza della casa del nostro Don
Abbondio il quale era ben lontano, pover'uomo! dal pensare che una tanta burasca si addensasse sul
suo capo. Qui si separarono come erano convenuti: Lucia, Agnese e Fermo presero per un viottolo
tortuoso che girava attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di
fianco della casa vennero a porsi presso all'angolo di essa, Fermo e Lucia per trovarsi nel luogo più
vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe, Agnese per uscire ad incontrare Perpetua nel
momento opportuno. Toni destro col disutilaccio di Gervaso che non sapeva far nulla da sè, e senza
il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.
«Chi è, a quest'ora?» gridò una voce alla finestra che si aperse in quel momento: era la voce di
Perpetua. «Malati non ce n'è: dovrei saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?»
«Son'io», rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato».
«È ora da cristiani questa?» rispose agramente Perpetua: «che discrezione? tornate domani».
«Sentite: tornerò o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi ed ero venuto per pagare al signor
curato quel debituccio che sapete: ma se non si può aspetterò un'altra occasione, questi so come
spenderli, e verrò quando ne abbia guadagnati degli altri».
«Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perché venire a quest'ora?»
«Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado».
«No no: aspettate un momento; torno con la risposta».
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e detto sotto voce a
Lucia: «coraggio: è un momento; come a far cavare un dente», venne a porsi dinanzi la fronte della
casa, aspettando che Perpetua aprisse per far vista di passare.
Perpetua venne infatti tostamente, aperse la porta, e disse: «dove siete?» Quando i due fratelli si
mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò Perpetua fermandosi un momento sui due piedi.
«Buona sera, Agnese», disse Perpetua, «donde a quest'ora?»
«Vengo dalla filanda», rispose Agnese, «e se sapeste... mi sono indugiata appunto in grazia vostra».
«Oh perchérispose Perpetua: indi rivolta ai due fratelli: «entrate», disse, «ed aspettate che vengo
anch'io». Quegli entrarono.
«Perché», ripigliò Agnese, «una donna, pettegola! non sanno le cose e voglion parlare... credereste?
si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo perch'egli non vi ha voluto. Io sosteneva che
voi l'avete rifiutato...»
«Certo sono stata io, ma chi è costei?»
«Questo non fa... ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene tutta la storia
per confonder colei».
«Bugiarda, bugiarda», disse Perpetua. «È una bugiarderia, la più nera. Sentite, come andò la
faccenda: e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure ch'io verrò poi».
Tonio rispose di dentro che sì. Perpetua cominciò la sua storia, e Agnese si avviò passo passo verso
l'angolo della casa opposto a quello dietro cui erano in agguato i due giovani, e quando pur passo
passo vi fu giunta, lo voltò seguita da Perpetua: e voltatolo tossì per dar segno. Il segno fu inteso, e
Fermo traendo Lucia la quale correva come un leprotto inseguito, in punta di piè vennero fino alla
porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli che gli stavano
aspettando. Chiusero sommessamente il chiavistello per di dentro e salirono insieme, mentre
Agnese moltiplicava le inchieste per trattenere la fante. I quattro congiurati tutti diversamente
commossi ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: «Deo
gratias», ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio che gli aspettava rispose: «Avanti». Fermo e
Lucia ristettero dietro la porta: senza moversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe
potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni entrato socchiuse la porta dietro di sè.
Don Abbondio convalescente della febbre, e non guarito della paura stava seduto su un vecchio
seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si
vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale
ognuno l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla
tavola una picciola lucerna che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il
resto nelle tenebre. Presso alla lucerna era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il
Quaresimale....
«Ah! ah!» fu il saluto di Don Abbondio.
«Il signor Curato dirà che siamo venuti tardi», disse Toni inchinandosi, come pure fece più
goffamente Gervaso.
«Venite tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo».
«Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un
gruppetto di tasca.
«Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate
irreprensibili.
«Ora signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera Tecla».
«È giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno
come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona,
introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse
la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?» disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi anche quest'incomodo».
«Che dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo.
Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato: cerchi il
calamajo che farà più presto».
Così brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere,
dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com'era
convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per
ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza
essere intesi. Don Abbondio tutto nella sua quitanza non badava ad altro. Al fruscio dei quattro
piedi che era il segno convenuto, Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con
sè, e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due
fratelli. Don Abbondio finito ch'ebbe di scrivere rilesse attentamente, da sè, quindi fatta lettura ad
alta voce, e prima di alzare gli occhi dalla carta: «sarete contento?» disse, e preso il foglio lo porse a
Toni. Toni allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi
apparvero in mezzo come all'alzare d'un sipario. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si
stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire
le parole magiche: «Signor curato, in presenza di questi testimonj, questa è mia moglie».
Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere
la quitanza, fatto un salto, afferrata colla manca e sollevata la lucerna, e tirato colla destra a sè un
tappeto che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola
e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con quella sua dolce voce tremante aveva appena
potuto dire: «e questo...» che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e
sul volto e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca perch'ella non potesse proseguire,
gridava a testa come un toro ferito: «tradimento! tradimento! ajuto! ajuto!» Il lucignolo della
lucerna che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e
la povera Lucia appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo pareva una statua sbozzata in
creta, cui un rozzo fattore dell'artefice copre, da testa, con un umido panno. Cessata ogni luce Don
Abbondio lasciò la poveretta la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico
com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò, vi si chiuse, e continuò
a gridare: «tradimento! Perpetua! accorr'uomo! gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione!
una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei!» Nella stanza
tutto era confusione: Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva trascinata con sè Lucia alla
porta, e bussava gridando: «apra apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo»: Toni curvo a
terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso spiritato gridava, e
andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
In mezzo a questo serra serra, non possiamo a meno di fermarci un istante per fare una riflessione.
Fermo il quale strepitava in casa altrui, che vi s'era introdotto frodolentemente, che assediava il
padrone in una stanza, pare un soperchiatore, un torbido; e pure gli era un poveretto a cui si negava
la ragione la più limpida, la più sacra. Don Abbondio impaurito, minacciato mentre tranquillamente
attendeva ai fatti suoi pare l'oppresso, la vittima, l'uomo onesto, e pure era egli in realtà il
soperchiatore. Così va il mondo; o... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul
sagrato, a gridare accorr'uomo. Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del
campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente con
un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale dopo suonata l'avemaria era rimasto
a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare. «Lorenzo!» gridò il curato, «accorrete, gente
in casa! ajuto». Lorenzo si sbigottì, ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò
tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva, e di farlo senza suo rischio. Corse
indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato
al campanile, prese la corda della più grossa campana, e tirò a martello.
<B>CAPITOLO VIII</B>
<B>LA FUGA</B>
- Ton, ton, ton, ton, - i contadini appena corcati balzano a sedere sul letto: - che è? che è? La
campana: fuoco? banditi? - Le donne pregano e consigliano i mariti di non si muovere, di lasciar
correre gli altri: gli uomini si alzano dicendo: - vado soltanto alla finestra -: i garzoni caccian la
testa dal fenile: i più curiosi e bravi sono già nella via colle forche e coi fucili: altri gl'imitano, e i
poltroni come se si lasciassero vincere dalle preghiere ritornano al covile.
Frattanto Perpetua che nelle ciarle s'era dimenticata di se stessa, ma che noi non abbiamo
dimenticata, aveva inteso come un romore, un gridio, e aveva interrotto il discorso per avviarsi
verso casa, cercando invano di rattenerla Agnese, la quale pure stava sulla corda non vedendo
tornare nessuno; e all'udire quel gridìo fu pure presa da una grande inquietudine. Ma quando la
campana a martello si fece udire, corsero entrambe verso la porta. Toni aveva finalmente ricolta la
quitanza, e pigliando a tentone Gervaso nelle tenebre, aveva pigliata la porta e scendeva saltelloni
dalla scala: Lucia pregava fievolmente Fermo di cavarla da quella caverna; e quando egli udì quel
tocco funesto gli parve pure mill'anni d'esserne fuori, e trovò la porta come gli altri. Perpetua
correndo affannata con Agnese, si abbattè in Toni e il fratello che uscivano, e gli assalì d'inchieste
alle quali essi non dierono risposta, ed usciti nella via, s'avviarono a casa.
Per buona sorte Fermo e Lucia usciti nella via, presero la strada opposta a quella donde veniva
Perpetua, ed ella entrò a furia in casa senza vederli, e vi si chiuse. Agnese che guardando fiso gli
aveva visti uscire, gli raggiunse, e tutti e tre voltarono in fretta, in silenzio, palpitando, il canto, e
s'avviarono pure verso casa. Intanto la gente traeva da tutte le parti alla chiesa: già i più lesti erano
entrati nel campanile e avevano inteso da Lorenzo che la gente era in casa del curato. Ma guardando
al di fuori videro le porte chiuse, e tutto quieto: taluni però osservando più per minuto s'accorsero
che una finestra era appena socchiusa e intravvidero per lo spiraglio la faccia lunga di Don
Abbondio, il quale avendo sentita sgombrata la stanza vicina, e conoscendo cessato il pericolo,
cominciava ad essere inquieto e malcontento del troppo soccorso. «Che cosa è stato?» domandò
uno degli accorsi: «Sono fuggiti», rispose il curato, «tornate a casa, vi ringrazio». «Fuggiti, chi?»
«Cattiva gente, cattiva gente, tornate a casa, non c'è più niente». Qui cominciarono risa di alcuni,
rimbrotti di alcuni altri, domande dei sopravvegnenti, discorsi d'ogni genere. Lorenzo lasciata
finalmente la corda uscì dalla Chiesa, e si pose in mezzo ai crocchj a render ragione dell'aver così
messo a soqquadro tutto il paese. Ma in mezzo ai paesani si videro passare in ordine di battaglia
alcuni armati e di sinistro aspetto: erano gli amici che abbiam già veduti all'osteria. A quelli che li
vedevano nasceva sospetto che fossero banditi, e che per cagion loro si fosse suonato a stormo: chi
si ritirava, chi si univa in crocchio, e già da molti si parlamentava del partito da prendersi.
Ma siccome coloro passavano senza molestare nessuno, e ad ogn'uomo che vedevano parevan dire:
- tu non sei quello -, così nessuno volle gittare la prima pietra, e a poco a poco la folla svanì,
ognuno si ritirò a casa, e Don Abbondio si rimase a schiamazzare con Perpetua.
Ma i tre personaggi che c'interessano nascondendosi quanto potevano, non rispondendo alle
inchieste e fuggendo la folla erano sulla via che conduceva alla casa di Lucia; quando un
garzoncello che andava guardando attentamente tutti quelli che passavano, al vederli, mise un
sospiro che pareva volesse dire: - gli ho trovati una volta -; si pose dinanzi a loro, pigliò Agnese pel
lembo della veste, e disse con voce bassa e affannata: «Tornate indietro per amor del cielo!» Era
Menico, e fu tosto riconosciuto. «Perché dissero tutti e tre. «Indietro, indietro, vi dico non tornate
a casa, venite al convento; così mi ha detto il padre Cristoforo». La proposta parve a tutti strana, e
in altri momenti udendola da un Menico non vi avrebbero posto mente; ma nei momenti di
confusione e di paura, tutti i consigli pajono buoni. Quelli ristettero: ma Menico continuava:
«Venite con me pei viottoli, vi condurrò io, usciamo di qui, vi dirò tutto per istrada». «Ma la
casa...» disse Agnese.
«Niente niente, venite con me, lo ha detto il Padre Cristoforo: Dio vi liberi dal tornare a casa». Essi
seguirono il ragazzo, il quale in quel punto era più presente a sè che essi non fossero, ed entrati per
una callajetta presero un viottolo, il quale, chi non si fosse curato di strada comoda, poteva condurre
al convento.
Quantunque il lettore possa aver facilmente indovinato quale fosse il novo pericolo di Lucia, e
donde il buon Frate ne avesse avuto l'avviso, pure è dovere dello storico il raccontare per esteso
tutta la faccenda. Per procedere ordinatamente è mestieri tornare a Don Rodrigo che abbiamo
lasciato solo, avendo noi preferito di accompagnare il Padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto passeggiava a gran passi per la sala, le pareti della quale come ora
diciamo erano coperte da grandi ritratti di famiglia. Quando Don Rodrigo si voltava ad un capo
della sala, si mirava in faccia un suo antenato guerriero, terrore dei nemici, colle gambiere, colla
corazza, coi bracciali, coi guanti, col cimiero di ferro, avente la mano manca posta sul fianco e la
destra sullo spadone a foggia di bastone. Quando Don Rodrigo era sotto a questo antenato, e
voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei litiganti, seduto sur un'alta seggiola
di velluto, con una lunga toga nera, tutto nero fuorché un collare con due ampie facciuole: aveva
una faccia squallida, due ciglia aggrottate, teneva in mano una supplica, e pareva dicesse: - vedremo
-: di qua una matrona terrore delle sue damigelle, di là un abate terrore dei monaci, tutta gente
insomma che spirava terrore. In presenza di queste memorie, tanto più si rodeva Don Rodrigo che
un frate avesse osato prender con lui il tuono di Nathan, e ammonirlo, anzi minacciarlo. Formava
un disegno di vendetta, lo abbandonava, pensava come soddisfare ad un tempo alla passione e
all'onore; e talvolta, sentendosi fischiare agli orecchi quella profezia incominciata, rabbrividiva, e
quasi stava per deporre il pensiero di soddisfarsi.
Finalmente, per fare qualche cosa, chiamò un servo, e ordinò che facesse le sue scuse alla brigata,
dicendo ch'egli era trattenuto da un affare urgente. Quando il servo tornò a riferire che quei signori
erano partiti lasciando i più umili ossequj e i più vivi ringraziamenti: «E il conte Attilio?» domandò,
sempre passeggiando, don Rodrigo. «È uscito con quei signori». «Bene: sei persone di seguito pel
passeggio: la mia spada; il cappello; il pugnale di gala». Il servo partì facendo un inchino, e Don
Rodrigo, salì nella sua stanza, si cinse una ricca spada, depose il pugnale che aveva in cintura, e ne
prese uno di gala col fodero a rilievi d'oro, e con un bel diamante sul pomo, si gettò la cappa sulle
spalle, si coperse col cappello a grandi piume, e colla palma lo inchiodò sul capo; e si dispose ad
uscire. A dir vero, egli non andava né per faccenda né per diporto; ma sentiva un bisogno indistinto
e confuso di uscire in gran pompa, di circondarsi della sua forza per mostrare agli altri ed a sè
stesso ch'egli era pur sempre quel Don Rodrigo. Al piede della scala trovò i sei seguaci tutti armati,
i quali fatta ala ed inchino, gli tennero dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito
uscì egli e si pose a camminare verso Lecco ricevendo inchini profondi, simili a genuflessioni dai
contadini in cui s'abbatteva: i bravi che lo seguivano non avrebbero lasciato di punire il contegno
poco ossequioso d'uno smemorato, o d'un temerario. Don Rodrigo rispondeva con una leggera
mossa di capo. I signorotti pure facevano riverenza a colui che, senza contrasto, era il più potente di
loro, e Don Rodrigo corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quando però Don Rodrigo
s'incontrava nel signor Castellano spagnuolo, l'inchino allora era egualmente profondo dall'una e
dall'altra parte; si vedevano come due potentati i quali non hanno fra loro nessuna relazione né di
pace né di guerra, ma che per convenienza fanno onore al grado l'uno dell'altro. Dopo aver
passeggiato, Don Rodrigo si presentò in una casa dove si teneva brigata, e dove fu accolto con
quella cordialità rispettosa che è riserbata a quelli che fanno paura, e finalmente a notte avanzata
tornò al suo castellotto.
Il Conte Attilio era giunto da poco; e fu servita la cena, alla quale Don Rodrigo pareva ancora
alquanto sopra pensiero.
Il Conte ruppe il silenzio, dicendo con aria maligna:
«Cugino, quando pagate questa scommessa?»
«Il giorno di San Martino non è venuto».
«Bene; ma tanto fa che la paghiate ora; perché passeranno tutti i santi del paradiso prima che...»
«Questo è quello che si ha da vedere».
«Cugino, voi volete nascondervi da me: ma io ho capito tutto, e tanto son certo di aver vinta la
scommessa, che son pronto a farne un'altra».
«Che?...»
«Che il Padre..., il padre... che so io? quel frate insomma vi ha convertito».
«Questa pensata è veramente una delle vostre».
«Convertito, cugino, convertito, vi dico. Io per me ne godo: sapete che bella cosa sarebbe vedervi
tutto compunto e cogli occhi bassi. E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa pettoruto!
Non son mica pesci che si pigliano ogni giorno e con ogni rete. Siate certo che vi citerà per
esempio; e quando andrà a far qualche missione un po' lontano, parlerà dei fatti vostri. Mi par di
sentirlo con quella voce nel naso, predicare a questo modo: - In una parte di questo mondo, che per
degni rispetti non nomino, viveva, uditori carissimi, un cavaliere dissoluto, amico più delle femine
che dei servi di Dio, il quale avvezzo a far d'ogni erba fascio...»
«Basta basta», interruppe Don Rodrigo mezzo sogghignando, e mezzo arrovellato. «Se volete
raddoppiar la scommessa, io son pronto».
«Diavolo! che aveste voi convertito il padre!»
«Non mi parlate di colui: e quanto alla scommessa, aspettate san Martino».
La curiosità del Conte era stuzzicata; egli non fece risparmio d'inchieste, ma Don Rodrigo le deluse
tutte, rimettendosi sempre al giorno della prova, e non si arrischiando di comunicare al suo
avversario disegni che non erano ancora né incamminati, né assolutamente risoluti.
Ma quando Don Rodrigo si svegliò al mattino susseguente, di tutte le passioni che si erano
combattute nel suo animo non vi rimaneva altra che il desiderio di soddisfarsi.
Quel poco di compugnimento, che il colloquio del padre Cristoforo aveva messo addosso, era
svanito insieme coi sogni della notte, e la memoria stessa di averlo sentito non serviva che a
raddoppiargli la stizza. Le sensazioni posteriori a quel colloquio, il passeggio coi bravi, gl'inchini,
le canzonature del Conte avevano ritornata...................................... e quei tristi credendosi scoverti,
si ritirarono in buon ordine come abbiamo detto. Ma quel buon servo che aveva già promesso al
Padre Cristoforo di tenerlo avvertito, seppe quello che si tramava; trovò il modo di correre al
convento, informò il Padre, il quale spedì tosto Menico, come abbiamo veduto.
I nostri tre fuggitivi camminarono qualche tempo in silenzio, dietro il loro picciolo guidatore, il
quale superbo di andar così di notte, per un affare, come un uomo, superbo di essere nella brigata,
quello che dava consiglio, che avvisava al da farsi, che rincorava, che aveva la mente più riposata,
guardava attentamente la via, scegliendo i tratti più brevi, e i più fuor di mano, e rivolgendosi alle
rivolte con aria d'importanza, a dire: «per di qua».
Avevano fatto un terzo circa della via, ed erano lontani dal paese, tanto che guardando indietro non
si vedevano più i radi lumi delle lucerne che le donne sporgevano dalle finestre ponendovi la mano
sopra di traverso per non esser vedute e per mandar la luce sulla via per dove tornavano a casa gli
uomini a subire un interrogatorio: e nessuno dei tre aveva ancora avuto animo di comunicare agli
altri i pensieri che lo agitavano: s'udiva solo di tempo in tempo Agnese sclamare: - poveri morti
benedetti, ajutateci -, Lucia invocare la Vergine, e Fermo mormorare qualche esclamazione di
sdegno. Fu la prima Agnese che proferì un periodo compiuto. «E la casa?» diss'ella: «l'abbiamo
lasciata in abbandono, senza nemmeno porvi una custodia: sulla fede di questo ragazzo, che Dio sa
come ha inteso».
«Come!» rispose con un poco di stizza e di albagia, Menico: «come! sentirete, sentirete or ora dal
Padre Cristoforo. Buon per voi che io vi abbia saputi trovare. Guaj se andavate a casa: mi ha detto il
Padre, che doveste uscirne subito subito, e temeva ch'io non fossi in tempo». «Bembè sentiremo»,
rispose Agnese. Ma Lucia andava stretta al braccio della madre, rifiutando dolcemente l'appoggio di
Fermo, ed arrampicando la prima sui muricciuoli che avevano a superare per non essere ajutata da
lui, e in mezzo a tutte le agitazioni tremando pure di trovarsi così di notte per via con lui, per quel
pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, e somiglia
al sospetto del fanciullo che trema nelle tenebre senza sapere che cosa ci sia da temere. Le parole di
Agnese furono il principio d'una conversazione generale: addomesticati già un poco alla loro nuova
e inaspettata situazione, si posero tutti e tre a favellar sotto voce (il che spiacque assai a Menico, al
quale pareva pure di meritar fiducia dopo la sua impresa) a favellare dell'accaduto e di quello che
poteva soprastare. La povera Lucia parlò poco: e quello che me la rende più cara e più pregiata si è
ch'ella non si lasciò sfuggire una parola che rinfacciasse alla madre ed a Fermo l'ostinazione loro a
volerla tirare a quella impresa ch'era così mal riuscita: non proferì mai quelle parole: «l'aveva detto
io».
Finalmente per viottoli di campi, e per selve senza sentiero giunsero i viaggiatori ad un torrente che
dal monte chiamato Resegone scende nell'Adda e si chiama Bione, nome che invano altri
cercherebbe in un dizionario geografico. Il torrente era al di là dal convento, ma non è da dir per
questo che Menico avesse fallita la strada, giacché era stato mestieri allungarla per ischifare la via
comune e battuta. Scesero alcuni passi col torrente, e quindi volgendo a diritta divennero sulla
piazzetta che si apriva dinanzi al convento ed alla chiesicciuola unita a quello.
«Adesso vedrete», disse Menico sottovoce: si affacciò alla porta della chiesa, la sospinse
dolcemente, e quella in fatti si aperse, e la luna, entrando per lo spiraglio illuminò la barba
d'argento, e la tonaca del Padre Cristoforo, che stava ivi ritto ad aspettare. Quando egli vide che con
Menico v'erano i tre che egli dubbiosamente aspettava, disse a bassa voce: «Dio sia benedetto: siete
fuori di pericolo», e gli fece entrare. A canto del nostro Padre Cristoforo si trovava un altro
cappuccino. Era questi il laico sagrestano che egli con preghiere e con ragioni aveva determinato a
vegliar con lui, a lasciare aperta la chiesa, e a starvi in sentinella per accogliere quei poveri
minacciati; e non vi voleva meno dell'autorità del padre, e della sua fama di santo per condurre il
laico ad una condiscendenza piena non solo d'incomodo, ma di pericolo. Quando furono entrati:
«Chiudete ora la porta senza far fracasso», disse il padre Cristoforo. Ma il laico al quale pareva già
d'aver fatto troppo, crollò la testa, e disse: «Chiudersi di notte in chiesa con donne...! mi pare...» e
continuava a crollare la testa.
- Vedete un po', diceva fra sè il padre Cristoforo: se fosse un masnadiero, Fra Fazio non gli farebbe
una difficoltà al mondo, e una innocente che si vuol salvare dagli artigli del lupo...
«<I>Omnia munda mundis</I>» disse impetuosamente volgendosi a Fra Fazio, e dimenticando che
Fra Fazio non sapeva il latino. Ma questa dimenticanza fu appunto quella che ottenne l'intento. Se il
Padre avesse voluto addurre ragioni, Fra Fazio non avrebbe mancato di ragioni da opporre, e la cosa
sarebbe andata in lungo, Dio sa anche come sarebbe finita; ma quando egli udì quelle parole d'un
suono così pieno e solenne, e dette così risolutamente, gli parve che in esse dovesse essere tutta la
soluzione dei suoi dubbj, rispose: «Ha ragione», e volse a bell'agio la chiave nella toppa, e i nostri
profughi si trovarono chiusi nel santuario in salvo da ogni pericolo.
Il Padre Cristoforo si pose ginocchioni ad orare un momento; e tutti lo imitarono: quindi levato:
«Figliuoli miei», disse, «Iddio non vi vuole ancora in riposo, ma voi avete un segno della sua
protezione, e un'arra ch'egli non vi abbandonerà». E qui raccontò ai poveretti il pericolo a cui erano
sfuggiti, e proseguì: «Vedete che per ora è necessario allontanarvi di qua: vi siete nati, è casa
vostra, non avete fatto torto a nessuno, ma il serpente talvolta fa disertare l'uomo dalla sua dimora, e
gli uomini pure si cacciano su questa terra come se vi fossero posti per divorarsi l'un altro. È una
prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza rancore; è il mezzo di abbreviarla e di
renderla utile. Per me siate certi che penso a voi, e che troverò più mezzi per ajutarvi che altri forse
non crede. Frattanto io ho pensato a trovarvi per qualche tempo un rifugio ove possiate starvi in
sicuro finché si trovi il modo di ritornare sicuri a casa vostra, e di giungere all'adempimento dei
vostri giusti e santi desiderj. Usciti di qui, voi v'incamminerete in silenzio al lago presso allo sbocco
del Bione, ivi vedrete un battello: direte: - barca: - vi sarà risposto: - per chi? - replicate - San
Francesco -: e la barca vi accoglierà e vi trasporterà all'altra riva, dove troverete un baroccio, il
quale vi condurrà a salvamento». Chi domandasse come il Padre aveva ai suoi comandi tante
persone, e le aveva potute così disporre ai servigi dei suoi protetti, mostrerebbe di non sapere che
cosa potesse un cappuccino che aveva fama di santo. Prese quindi in disparte Agnese, le diede una
lettera, le disse a chi doveva consegnarla assicurandola che con quella troverebbe assistenza, e le
raccomandò, che facesse in modo che Fermo dopo averle accompagnate al luogo della loro dimora
proseguisse il suo viaggio. Quindi consegnò a questo un'altra lettera colle opportune istruzioni.
Rimaneva da pensare alla custodia delle case, le quali erano prive dei loro custodi naturali. Le
chiavi furono consegnate al Padre: quelle di Agnese per esser date in mano d'una sua sorella, e
quelle di Fermo per un suo cognato. Il Padre ricevette le commissioni d'entrambi, procurando di
acquietare la sollecitudine di Agnese.
I viaggiatori partivano quasi brulli di denaro: ma avevano dei risparmj in casa; indicarono al Padre
il luogo del deposito, ed egli promise di far loro tenere il tutto sicuramente e presto. Finalmente con
voce commossa, e contenendo le lacrime: «Dio sia con voi», disse: «partite senza ritardo: il cuore
mi dice che ci rivedremo presto».
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire. Ma che sa egli il cuore? Appena un
poco di quello che è già accaduto.
Il sagrestano aperse la porta, commosso anch'egli, i viaggiatori partirono dando e ricevendo un
addio con voce sommessa e alterata; e la porta si richiuse. Andarono quegli pian piano com'era stato
loro segnato alla riva del lago; quivi mutate le parole, entrarono nel battello, e il barcajuolo
puntando il remo alla riva, lo fece staccare, e remigando a due braccia, prese il largo verso la riva
opposta.
Il lago era sgombro, non soffiava un respiro di vento, e la superficie dell'acqua, illuminata dalla
luna giaceva piana e liscia senza una increspatura, come un immenso specchio. I remi che tagliando
l'onda con tonfo misurato uscivano ad un colpo grondanti, e segnando di infinite stille lo spazio sul
quale precorrevano per rituffarsi nell'acqua, rompevano solo la piana superficie del lago; l'onda
segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa segnava una striscia fuggente, che si andava
allontanando dal lido. I viaggiatori silenziosi, volgendosi addietro, guardavano le montagne e il
paese che la luna illuminava. Si distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il castellotto di
Don Rodrigo colla vecchia sua torre, alto sulle capanne, pareva un feroce ritto nelle tenebre che in
mezzo ad una folla di coricati nel sonno vegliasse meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì;
discese coll'occhio verso il sito della sua umile casa, e vide un pezzo di muro bianco che usciva da
una macchia verde scura, riconobbe la sua casetta, e il fico che ombreggiava la porta: e seduta
com'era sul fondo della barca, poggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per
dormire; e pianse segretamente.
Addio, monti posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui che
fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all'aspetto l'uno
dall'altro i suoi famigliari, valli segrete, ville sparse e biancheggianti sul pendio come branco
disperso di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il lasciarvi a chi vi conosce dall'infanzia! quanto
è nojoso l'aspetto della pianura dove il sito a cui si aggiunge è simile a quello che si è lasciato
addietro, dove l'occhio cerca invano nel lungo spazio, dove riposarsi e contemplare, e si ritira
fastidito come dal fondo d'un quadro su cui l'artefice non abbia ancor figurata alcuna immagine
della creazione. Che importa che nei piani deserti sorgano città superbe ed affollate? il montanaro
che le passeggia avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare edificj
che il cittadino chiama elevati perché gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra. Le vie,
che hanno vanto di ampiezza, gli sembrano valli troppo anguste, l'afa immobile lo opprime, ed egli
che nella vita operosa del monte non aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto timido
e delicato come il cittadino, si lagna del clima e della temperie, e dice che morrà se non torna ai
suoi monti. Egli che sorto col sole, non riposava che al mezzo giorno e al cessare delle fatiche
diurne, passa le ore intere nell'ozio malinconico ripensando alle sue montagne.
Ma questi sono piccioli dolori. L'uomo sa tormentar l'uomo nel cuore; e amareggiargli il pensiero di
modo che anche la memoria dei momenti passati lietamente affacciandosi ad esso perde ogni
bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto
una certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più quelle contentezze delle
quali non gli par più capace la sua mente trasformata. Dolore speciale: la contemplazione della
perversità d'una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile. Addio,
casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa nella quale sedendo
con un pensiero s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma
desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia intenta, e sicura
vedeva un soggiorno di sposa, e di compagna. Addio chiesa dove nella prima puerizia si stette in
silenzio e con adulta gravità, dove si cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno
esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire, Chiesa,
dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere
all'ebbrezza della gioia il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio! Il serpente nel suo
viaggio torto e insidioso, si posta talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi
conduce la sua famiglia, riempie il suolo e se ne impadronisce; perché l'uomo il quale ad ogni passo
incontra il velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo
senza sospetto, che trema pei suoi figli, sente venirsi in odio la sua dimora, maledice il rettile
usurpatore, e parte. E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo sulla terra come se gli fosse destinato per
preda: allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: ma i passi affannosi
del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.
La barca giunta alla riva, urtando sull'arena scosse Lucia, la quale dopo avere asciugate in segreto le
lagrime, si alzò come dal sonno. Fermo uscì il primo, porse la mano ad Agnese, questa uscita la
porse a Lucia, e tutti e tre resero tristamente grazie al barcajuolo, il quale rispose: «Niente, niente,
siamo quaggiù per ajutarci». Fermo voleva cavare una parte dei pochi quattrinelli che si trovava in
tasca; ma il barcajuolo li rifiutò come se gli fosse proposto un furto. Trovarono il barroccio,
v'ascesero, e continuarono silenziosamente la via. La notte aveva già passato il mezzo, e la luna
illuminava tuttavia il cammino che dopo aver seguito, abbandonato, e ripreso più volte il corso
dell'Adda, corse per lungo tempo di valle in valle fra monti che andavano sempre diminuendo
d'altezza.
L'aurora mostrò loro delle colline, il cui aspetto sarebbe stato lieto per animi lieti. Ma oltre la
sventura che teneva sotto di sè i nostri viaggiatori, la dura condizione dei tempi avrebbe impedita
ogni gioja in qualunque viaggiatore: giacché sur una terra ridente non s'incontrava che l'uomo tristo
e squallido dalla fame, che usciva per domandare soccorso non dovendo trovare quasi che il suo
simile bisognoso di soccorso.
A giorno fatto giunsero al luogo della fermata; e discesero ad una osteria dove li condusse la loro
guida, la quale pose a riposare il suo cavallo, per ritornarsene, e ricusò pure ogni pagamento. Qui
Fermo avrebbe voluto sostare almeno tutta la giornata, ma Agnese e Lucia lo persuasero a partire,
ed egli partì, tutto incerto dell'avvenire, ma certo almeno che un cuore rispondeva al suo, e viveva
delle sue stesse speranze.
<B>TOMO SECONDO</B>
<B>CAPITOLO I</B>
DIGRESSIONE.
-----
LA SIGNORA
Avendo posto in fronte a questo scritto il titolo di storia, e fatto creder così al lettore ch'egli
troverebbe una serie continua di fatti, mi trovo in obbligo di avvertirlo qui, che la narrazione sarà
sospesa alquanto da una discussione sopra principj; discussione la quale occuperà probabilmente un
buon terzo di questo capitolo. Il lettore che lo sa potrà saltare alcune pagine per riprendere il filo
della storia: e per me lo consiglio di far così: giacché le parole che mi sento sulla punta della penna
sono tali da annojarlo, o anche da fargli venir la muffa al naso.
La discussione viene all'occasione della osservazione seguente che mi fa un personaggio ideale.
- I protagonisti di questa storia, - dic'egli, - sono due innamorati; promessi al punto di sposarsi, e
quindi separati violentemente dalle circostanze condotte da una volontà perversa. La loro passione è
quindi passata per molti stadj, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi e
di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede nulla di tutto ciò: ho taciuto finora ma
quando si arriva ad una separazione secca, digiuna, concisa come quella che si trova nella fine del
capitolo passato, non posso lasciare di farvi una inchiesta: - Questa vostra storia non ricorda nulla di
quello che gl'infelici giovani hanno sentito, non descrive i principj, gli aumenti, le comunicazioni
del loro affetto, insomma non li dimostra innamorati?
- Perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi la parte la più
elaborata dell'opera: ma nel trascrivere, e nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere.
- Bella idea! e perché, se v'aggrada?
- Perché io sono del parere di coloro i quali dicono che non si deve scrivere d'amore in modo da far
consentire l'animo di chi legge a questa passione.
- Poffare! nel secolo decimonono, ancora simili idee! Ma i vostri riguardi sono tanto più strani, in
quanto l'amore dei vostri eroi è il più puro, il più legittimo, il più virtuoso; e se poteste descriverlo
in modo di eccitarne il consenso, non fareste che far comunicare altrui ad un sentimento virtuoso.
- Armatevi di pazienza, ed ascoltate. Se io potessi fare in guisa che questa storia non capitasse in
mano ad altri che a sposi innamorati, nel giorno che hanno detto e inteso in presenza del parroco un
<I>sì</I> delizioso, allora forse converrebbe mettervi quanto amore si potesse poiché per tali lettori
non potrebbe certamente aver nulla di pericoloso. Penso però, che sarebbe inutile per essi, e che
troverebbero tutto questo amore molto freddo, quand'anche fosse trattato da tutt'altri che dal mio
autore e da me; perché quale è lo scritto dove sia trasfuso l'amore quale il cuor dell'uomo può
sentirlo? Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d'una vergine non più
acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n'abbia), e di anguste fortune, la quale
perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere
occupato il cuor suo coll'idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e
colle speranze che il mondo non può dare né torre; ditemi un po' che bell'acconcio potrebbe fare a
questa creatura una storia che le venisse a rimescolare in cuore quei sentimenti, che molto
saggiamente ella vi ha sopiti. Ponete il caso che un giovane prete il quale coi gravi uficj del suo
ministero, colle fatiche della carità, con la preghiera, con lo studio, attende a sdrucciolare sugli anni
pericolosi che gli rimangono da trascorrere, ponendo ogni cura di non cadere, e non guardando
troppo a dritta né a sinistra per non dar qualche stramazzone in un momento di distrazione, ponete il
caso che questo giovane prete si ponga a leggere questa storia: giacché non vorreste che si
pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere: e ditemi un po' che vantaggio gli farebbe
una descrizione di quei sentimenti ch'egli debbe soffocare ben bene nel suo cuore, se non vuole
mancare ad un impegno sacro ed assunto volontariamente, se non vuole porre nella sua vita una
contraddizione che tutta la alteri. Vedete quanti simili casi si potrebber fare. Concludo che l'amore è
necessario a questo mondo: ma ve n'ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga di
coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno. Vi
hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può
diffondere un po' più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la
dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v'ha mai eccesso; e lode a quegli
scrittori che cercano di metterne un po' più nelle cose di questo mondo: ma dell'amore come vi
diceva, ve n'ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla
conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l'andarlo fomentando
cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per un prodigio, mi venissero ispirate le
pagine più eloquenti d'amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una
linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei.
- Ma queste sono idee meschine, pinzocheresche, claustrali, e peggio; idee che tendono a soffocare
ogni slancio d'ingegno, e ben diverse dalle idee grandi della vera religione...
- La religione ha avuto scrittori del genio il più ardito ed elevato, pensatori profondi, e pacati
ragionatori d'una esattezza scrupolosa, e tutti tutti questi senza una eccezione hanno disapprovate le
opere in cui l'amore è trattato nel modo che voi vorreste. Oh ditemi di grazia come mai io posso
persuadermi che tutti questi non han saputo conoscere quel che si voglia la vera religione, e che voi
avete trovata senza fatica la verità, dov'essi con uno studio di tutta la vita non hanno saputo pescare
che un errore grossolano?
- Così voi condannate tutti gli scritti...?
- Sono i giudici che condannano: per me vi dico solo il perché io abbia esclusi tutti quei bei passi da
questa storia. Ma se volete dei giudizj, e delle condanne, voi ne troverete nei casi in cui è lecito anzi
bello il condannare, cioè quando uno giudica se stesso. Vedete quello che hanno pensato dei loro
scritti amorosi quegli scrittori (del cristianesimo intendo) i quali si sono acquistata fama di grandi, e
nello stesso tempo di più castigati.
Vedete per esempio, il Petrarca e Racine.
- Il Petrarca viveva in tempi...
- Non parliamo del Petrarca, perché io spero che leggeremo presto intorno a lui il giudizio d'un
uomo il quale ne dirà, quello che né voi né io non giungeremmo a trovare. Vi tratto, come vedete,
senza cerimonie, perché siete un personaggio ideale.
- Ebbene, Racine. Non è ella cosa convenuta fra tutti gli uomini che hanno due dita di cervello, e
che non sono un secolo indietro dagli altri, che il pentimento che Racine provò per le sue tragedie è
una debolezza degli ultimi suoi anni, debolezza indegna di quel grande intelletto, debolezza che fa
compassione?
- Vi sono stati due Giovanni Racine. Uno per aver la grazia dei potenti, adulò in essi apertamente il
vizio, ch'egli conosceva per tale, e per giustificare appunto le sue tragedie, beffò degli uomini pei
quali aveva in cuor suo un rispetto sentito, e sostituì gli scherni personali ai ragionamenti per
evitare la quistione: punse acerbamente quanto potè ed umiliò con epigrammi stizzosi certi tali, che
non la natura certo, ma il giudizio di una gran parte del pubblico aveva fatti suoi emoli; e nello
stesso tempo si rose internamente, si accorò, perdette la sua pace ad ogni critica che sentiva fare
delle sue opere: tormentato e tormentatore pei meschini interessi della letteratura, e della sua
letteratura. Questi è quel Giovanni Racine che scriveva rime d'amore.
L'altro, viveva ritirato tranquillamente nel seno della sua famiglia: se non si allontanò affatto dai
potenti, almeno parlò ad essi (caso raro, quasi unico in quei tempi) delle miserie degli uomini che
essi avrebbero dovuto sollevare, o non creare: non solo non cercava più gli applausi, non solo non
provocava le lodi degli amici, ma le sentiva con dolore: non solo non si arrovellava ad ogni critica;
ma quando un uomo non provocato lo fece segno ad un pubblico insulto, non se ne lagnò, e invece
di ricevere scuse, rispose con ringraziamenti. Egli che era stato cortigiano nella sua giovinezza,
rifiutò di sedere alla mensa di un principe per non privare i suoi figli della sua compagnia. In pace
con sè, col genere umano, e coi letterati, egli trascorse vent'anni libero da quelle passioni che
avevano agitata la sua prima età, e non si può proprio dire per questo che fosse rimbambito, poiché
scrisse «Atalia». Questi è quel Giovanni Racine, che si pentiva di avere scritte rime d'amore. Che di
questi due uomini il debole fosse il secondo, si può certamente dire, se ne dicono tante! ma per me,
non posso persuadermene.
- Dunque secondo voi, aveva ragione di pentirsi: dunque se non fosse rimasto che un esemplare
delle tragedie amorose di Racine, se questo esemplare fosse stato in vostra mano, se Racine ve lo
avesse chiesto per abbruciarlo, per privare la posterità d'un tale monumento d'ingegno, voi
avreste...? non ardisco quasi interrogarvi.
- Io glielo avrei dato subito perché quel brav'uomo potesse aver la soddisfazione di gettarlo sul
fuoco. Come! voi credete che si sarebbe dovuto esitare a togliergli dal cuore questa spina? Gliel
avrei dato subito, perché il dispiacere ragionato, serio, riflessivo, nobile di Racine era un sentimento
più importante, che non sia stato e non sia per essere il piacere che hanno dato e che sono per dare
le sue tragedie fino alla consumazione dei secoli.
- Queste sono ciarle; ma avete pensato che con questi stralci voi vi andate scemando sempre più il
numero de' lettori; e che se avrebbero potuto essere centinaja, sa il cielo se li conterete a dozzine?
- Voi mi ci fate pensare; ma, a dir vero, non arrivo a sentire la forza di questo inconveniente.
- Ma voi volete privarvi volontariamente dei mezzi più potenti di dilettare, di quei mezzi che anche
in mano della mediocrità possono talvolta produrre un grande effetto?
- Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che
divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l'ultima delle professioni. E vi confesso che
troverei qualche cosa di più ragionevole, di più umano, e di più degno nelle occupazioni di un
montambanco che in una fiera trattiene con sue storie una folla di contadini: costui almeno può aver
fatti passare qualche momenti gaj a quelli che vivono di stenti e di malinconie; ed è qualche cosa.
Ma, per non ingannarvi, avvertite che in tutte queste ciarle che abbiam fatte finora, non abbiam
detto nulla o quasi nulla sul fondo della quistione. Voi non lo avete toccato; ed io sono rimasto,
rispondendovi, in quella sfera dove vi siete posto: abbiam ciarlato di fuori, come si usa. Che se
volete veder qualche cosa sul fondo della quistione, andate di grazia a quegli scrittori di cui abbiam
fatto cenno; o pure pensateci un po' seriamente voi stesso.
- Pensarci? Per giungere a queste belle conseguenze? Sappiate che, a porre insieme le idee di un
Vandalo e d'una donnicciuola...
- Sparisci; e torniamo alla storia.
-----------
Dove siamo? Il nostro autore non lo dice, anzi protesta di non volerlo dire. Abbiam già avvertito
che delle due classi fra le quali era divisa la società al suo tempo, di circospetti cioè e di facinorosi,
d'uomini che avevano, e d'uomini che facevano paura, egli apparteneva alla prima. La sua timida
discrezione raddoppia però a questo punto della narrazione: e il progresso della narrazione stessa ne
fa vedere il motivo. Le avventure di Lucia nel suo novello soggiorno si trovano implicate con
intrighi tenebrosi, rematici, misteriosi, terribili, di persone che deggiono essere state potenti, e
imparentate assai: e l'autore si scopre impacciato tra il desiderio di raccontare quello che sa, e il
terrore di offendere di quelle famiglie il mormorare contra le quali era un peccato punito in questo
mondo. Quindi egli va col calzare del piombo, e narrando i fatti, sopprime tutte le indicazioni che
potrebbero servir di filo a trovar le persone, e fra queste indicazioni anche quella del luogo. Ma in
questa parte almeno egli non è stato destro abbastanza, e noi possiamo annunziare senza timore
d'ingannarci il luogo dove si è fermata Lucia: poiché l'autore senza avvedersene ci ha dato un filo
che condurrebbe alla scoperta anche un ragazzo. Egli dice in un passo del suo racconto che Lucia
giunse ad un borgo nobile e antico al quale di città non mancava che il nome; altrove parla del
Lambro che vi scorre: altrove ancora dice che v'era un arciprete: con queste indicazioni non v'ha in
Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza.
La madre e la figlia si trovavano dunque, dopo la partenza di Fermo, solette in una osteria di
Monza, senza alcuna pratica del paese, senza alcuna conoscenza, non avendo in così alto mare altra
bussola che la lettera del Padre Cristoforo. La lettera era diretta al Padre Guardiano dei Cappuccini.
Agnese chiese conto del convento alla moglie dell'albergatore; la quale non lo diede che dopo aver
tentata ogni via per avere un pagamento anticipato di un così picciol servizio, in tante informazioni,
sul nome e sulla qualità delle donne, sui motivi del loro viaggio, sugli affari che potevano avere col
Padre Guardiano. Ma le donne, alle quali era stato dal loro protettore raccomandata la discrezione,
seppero ingannare le ricerche della ostessa, la quale fu obbligata di insegnar loro gratuitamente la
via del convento. Si mossero quindi tosto benché dovessero risentirsi del travaglio della notte e del
giorno antecedente: la lepre cacciata non sente la stanchezza che quando ha trovato un ricovero.
Agnese a cui l'aspetto di Monza non era nuovo perché v'era passata molti anni addietro, né
imponente perché aveva soggiornato a Milano, camminava francamente guidando e incoraggiando
Lucia, la quale andava rasente il muro tutta sospettosa. Girando di via in via, e ad ogni rivolta di
canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da una maraviglia mista di non so quale afa,
come chi vede una brutta grandiosità. Ma il sentimento predominante di accoramento e di terrore
non le dava campo di esprimere quello che allora provava, né di provarlo distintamente e con forza.
Giunte alla porta del convento, tirarono il campanello, e al portinajo che sopravvenne chiesero del
padre guardiano al quale avevano una lettera da consegnare. Quando Lucia vide una tonaca
cappuccinesca le parve di essere in paese conosciuto, e si riebbe alquanto. Il padre guardiano non si
fece aspettare, salutò le donne, prese la lettera dalle mani di Agnese, e veduta la soprascritta, disse
con una voce che annunziava la compiacenza: «Oh! il mio Padre Cristoforo». Il Padre Cristoforo
era stato suo collega nel noviziato; e d'allora in poi essi avevano contratta una amicizia da chiostro,
voglio dire una amicizia cordiale, intima più che fraterna, simile a quelle che si narrano di qualche
pajo d'uomini dell'antichità, di quelle che si formano in tutte le società separate con vincoli
particolari dalla società universale degli uomini. Queste frazioni, questi crocchj creano fra tutti i
membri che li compongono un vincolo particolare d'interessi, di amor proprio comune e di
benevolenza, vincolo talvolta debole assai e che non basta ad impedire odj accaniti e mortali, ma
forte però abbastanza per contenere gli odj nell'interno della picciola società, e per dare a quegli
stessi che si odiano una apparenza, e una condotta da amici ogni volta che essi si trovino in
contrasto cogli estranei. Quando poi una conformità di sentimenti e di inclinazioni, crea fra due
individui di queste società una benevolenza particolare ella è tanto più forte quanto più essi si sono
scelti in un picciol numero già separato dal resto degli uomini.
Il padre guardiano aperse la lettera, e di tempo in tempo alzava gli occhj dal foglio e guardava
Lucia e la madre con aria di compassione e d'interessamento.
Quand'ebbe terminato, crollò alquanto il capo, pensò, passò la mano sul mento barbuto, e quindi
sulla fronte, e disse, come chi spera di aver trovato quello di che aveva bisogno: «Non c'è altri che
la Signora: se la Signora vuol pigliarsi l'impegno...» Fece quindi a bassa voce ad Agnese alcune
interrogazioni alle quali ella soddisfece, indi domandò: «Volete seguirmi? Io spero di aver trovato
ove collocare in sicuro questa buona ragazza». Le donne si disser pronte a far tutto ciò che sarebbe
da lui suggerito: e il padre: «venite con me» disse; «statemi soltanto alcuni passi addietro; perché ,
vedete, il paese è maligno, e Dio sa quante storie si farebbero se si vedesse il padre guardiano con
una bella giovane, voglio dire con donne per la via». Lucia arrossì, e con la madre tenne dietro al
guardiano alla distanza ch'egli aveva indicata. Giunti al monastero, il guardiano si fermò sulla
soglia, le aspettò, e raccomandatele alla moglie del fattore la quale le introdusse in una stanzetta che
dava sulla via, progredì nel cortile promettendo di tornare a momenti.
L'interrogatorio della fattora fu come doveva essere, più imperioso, più astuto, più pressante d'assai
che non fosse stato quello dell'albergatrice; e Agnese schermendosi a stento, andava già
componendo una filastrocca nella sua mente, perché vedeva di non potersi sbrigare senza raccontar
qualche cosa, quando per buona sorte, ritornò il padre guardiano con faccia giuliva ad annunziare
alle donne che la Signora si degnava riceverle. La fattora le lasciò partire guardando con dispetto il
guardiano ch'era venuto a farle fuggir di mano una preda che stava per cadere nel laccio.
Attraversando il cortile, il guardiano addottrinò le donne sul modo da tenersi colla Signora: «Siate
umili, e riverenti, raccomandatevi alla sua protezione, rispondete con semplicità alle interrogazioni
ch'ella sarà per farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me».
Agnese e Lucia stavano in grande aspettazione, mista di speranza, e di pensiero di questa Signora:
ma non ardirono nemmeno domandare al padre chi ella fosse: probabilmente un lettore di questi
tempi non sarà così modesto, e per prevenire la sua impazienza è forza dirgli chi fosse la Signora;
ma, come si usa con chi vuol troppo pressare, si potrà dargli una risposta, la quale sembrando
soddisfare a tutta la sua inchiesta, contenga però solo quel tanto che non si potrebbe tacere.
Era la Signora una giovane donna, uscita di sangue principesco che era stata posta dall'adolescenza
in quel monistero, e vi aveva assunto il velo, e fatta la professione. Aveva essa l'incarico di vegliare
sulle fanciulle che erano nel monistero per educazione, e il suo titolo sarebbe stato, maestra delle
educande; ma per la sua nascita, per le parentele, e per la superiorità che queste le davano sulle altre
sorelle, non era chiamata con altro nome che di Signora; ed era da tutte riguardata, come la
protettrice, la donna principe del monistero; e con una distinzione unica, due suore erano destinate
ai suoi servigi ed abitavano seco lei in un picciolo quartiere ch'ella teneva invece di cella.
La sua protezione e la sua influenza si estendeva fuori delle mura del monistero; e i cappuccini i
quali di generazione in generazione, o per meglio dire di vestizione in vestizione, erano <I>ab
immemorabili</I> in rapporto di amicizia col monistero, godevano essi pure di questa protezione.
Ecco perché il padre guardiano fece tosto assegnamento su la Signora, ed ecco perché Lucia è
condotta ora dinanzi a lei.
Dal cortile si entrò in una stanza terrena, e da questa si passava al parlatorio; prima di porvi il piede
il guardiano, accennando la porta aperta disse sottovoce alle donne: «qui è la Signora», come per
farle rissovenire di tutti gli avvertimenti che dovevano seguire. Lucia non aveva mai veduto un
monistero: ponendo tutta timorosa il piede sulla soglia del parlatorio, si guardò intorno per vedere
dove fosse la Signora a cui si doveva fare l'inchino, e non iscorgendo persona, stava come
smemorata, quando osservando il padre che andava ritto verso una parte, e Agnese che lo seguiva,
guatò, e vide un pertugio alto la metà d'una finestra, e largo quasi il doppio con una doppia grata la
quale togliendo ogni passaggio alla stanza vicina, la lasciava però quasi tutta vedere, e presso alla
grata vide la Signora in piedi, e le s'inchinò profondamente come avevano già fatto gli altri due.
L'aspetto della Signora, d'una bellezza sbattuta, sfiorita alquanto, e direi quasi un po' conturbata, ma
singolare, poteva mostrare venticinque anni. Un velo nero teso orizzontalmente sopra la testa
scendeva a dritta e a manca dietro il volto, sotto il velo una benda di lino stringeva la fronte, al
mezzo; e la parte che si vedeva diversamente ma non meno bianca della benda sembrava un
candido avorio posato in un nitido foglio di carta: ma quella fronte liscia ed elevata si corrugava di
tratto in tratto quando due nerissimi sopracigli si riavvicinavano per tosto separarsi con un rapido
movimento. Due occhi pur nerissimi si fissavano talvolta nel volto altrui con una investigazione
dominatrice, e talvolta si rivolgevano ad un tratto come per fuggire: v'era in quegli occhi un non so
che d'inquieto e di erratico, una espressione istantanea che annunziava qualche cosa di più vivo, di
più recondito, talvolta di opposto a quello che suonavano le parole che quegli sguardi
accompagnavano. Le guance pallidissime, ma delicate scendevano con una curva dolce ed eguale
ad un mento rilevato appena come quello d'una statua greca. Le labbra regolarissime, dolcemente
prominenti, benché colorate appena d'un roseo tenue, spiccavano pure fra quel pallore; e i loro moti
erano, come quelli degli occhi, vivi, inaspettati, pieni di espressione e di mistero. Una gorgiera
bianca, increspata lasciava intravedere una striscia di collo bianco e tornito: la nera cocolla copriva
il rimanente dell'alta persona, ma un portamento disinvolto, risoluto, rivelava o indicava, ad ogni
rivolgimento, forme di alta e regolare proporzione. Nel vestire stesso v'era qua e là qualche cosa di
studiato, o di negletto, di stranio insomma che osservato in uno colla espressione del volto dava alla
Signora l'aspetto di una monaca singolare. La stoffa della cocolla e dei veli era più fine che non
s'usasse a monache, il seno era succinto con un certo garbo secolaresco, e dalla benda usciva sulla
tempia manca l'estremità d'una ciocchetta di nerissimi capegli; il che mostrava o dimenticanza o
trascuraggine di tener secondo la regola, sempre mozze le chiome già recise nella cerimonia
solenne della vestizione.
Questa stessa singolarità si faceva osservare nei moti, nel discorso nei gesti della Signora. S'alzava
ella talora con impeto a mezzo il discorso, come se temesse in quel momento di esser tenuta, e
passeggiava pel parlatorio; talvolta dava in risa smoderate, talvolta levando gli occhi, senza che se
ne intendesse una cagione, prorompeva in sospiri; talvolta dopo una lunga e manifesta distrazione,
si risentiva, ed approvava con negligenza ragionamenti che la sua mente non aveva avvertiti.
Queste cose non si facevano scorgere a Lucia non avvezza a scernere monaca da monaca, e neppure
ad Agnese: l'occhio del padre guardiano era certamente più esercitato, ma perciò appunto era
avvezzo ad osservare senza maraviglia nei grandi sempre qualche cosa di straordinario; e quindi
s'era già da molto tempo addomesticato all'abito e ai modi della Signora. Ma ad un viaggiatore che
l'avesse veduta per la prima volta ella avrebbe potuto parere non molto dissimile da una attrice
ardimentosa, di quelle che nei paesi separati dalla comunione cattolica facevano le parti di monaca
in quelle commedie dove i riti cattolici erano soggetto di beffa e di parodia caricata.
In quel momento ella era, come abbiamo detto, ritta in piedi, presso la grata, appoggiata ad essa
mollemente con una mano, intrecciando le bianchissime dita nei fori di quella, e colla faccia
alquanto curvata osservando quelli che si presentavano, e specialmente Lucia.
«Reverenda madre, e signora illustrissima», disse il padre guardiano colla fronte bassa, e con la
destra tesa sul petto; «ecco quella innocente derelitta, per la quale imploro la valida sua
protezione». E sulle ultime parole accennava alle donne che accompagnassero con atti e con inchini
la sua supplicazione; la povera Agnese dopo d'aver fatto al padre un cenno del volto che voleva
dire: - so quel che va fatto - raddoppiava gl'inchini, rannicchiandosi, e risorgendo come se una
molla interna la facesse muovere, e Lucia s'inchinò pure, da inesperta, ma con una certa grazia che
la bellezza, la giovinezza, e la purità dell'animo danno a tutti i movimenti. La Signora curvò
leggermente il capo verso il padre guardiano, fece alle donne cenno della mano che bastava, e
ch'ella gradiva i loro complimenti, fece a tutti cenno di sedersi, sedette e sempre rivolta al padre,
rispose: «Ho appreso dai miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non
ho da essi ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a qualche
cosa. È una buona ventura per me il potere render servizio a' nostri buoni amici i padri cappuccini».
Queste parole furono accompagnate da un sorriso che ad altri avrebbe potuto parere di
compiacenza, ad altri di scherno. Il Padre guardiano si faceva a render grazie, ma la Signora lo
interruppe: «Non mica complimenti, padre guardiano; i servigj fatti agli amici hanno con sè il loro
guiderdone; e del resto ad ogni evento io non dubiterei di far conto sul ricambio dei nostri buoni
padri. Il mondo è pieno di tristi e d'invidiosi: e nessuno può assicurarsi che non venga un momento
in cui possa aver bisogno di una buona testimonianza, e d'ajuto».
Il guardiano rispose premurosamente con una frase di gesti: la prima parte della quale significava
che la Signora non avrebbe mai bisogno di nessuno, e la seconda che i padri avrebbero tenuta a
guadagno ogni occasione di far cosa grata alla Signora. Questa proseguì: «Ma via; mi dica un po'
più particolarmente il caso di questa giovane, e così si vedrà meglio che si possa fare per essa».
Lucia arrossò tutta, e chinò la faccia sul seno. «Deve sapere, reverenda madre», cominciò Agnese,
«che questa mia povera figliuola, perché io sono sua madre...»
Il guardiano le gittò un'occhiata e interruppe.
«Questa giovane, signora illustrissima, mi è raccomandata da un mio confratello: essa ha bisogno
per qualche tempo di un asilo nel quale possa stare sconosciuta, o nel quale nessuno ardisca
toccarla; e questo per sottrarsi a dei gravi pericoli».
«Pericoli!» disse la Signora. «Quali pericoli? di grazia, padre guardiano. Mi dica la cosa per
minuto: ella sa che noi altre monache siamo vaghe d'intendere storie».
«Sono», rispose il padre, «pericoli dei quali la reverenda madre, non conosce nemmeno il nome,
beata lei! e parlarne più distintamente sarebbe offendere le purissime vostre orecchie, e contristare
l'illibatezza dei vostri pensieri, signora illustrissima».
«Oh! certamente!» rispose precipitosamente la signora, senza molto badare all'aggiustatezza della
risposta; e si fece tutta di porpora. Era verecondia? Chi avesse osservata una subitanea ma viva
espressione di scherno e di dispetto che accompagnò quel rossore avrebbe potuto dubitarne; e tanto
più se lo avesse paragonato con quello che di tratto in tratto saliva sulle guance di Lucia.
La Signora si alzò in fretta, come per avvicinarsi più alle donne, e stava per rivolgere il discorso a
Lucia, quando il guardiano, tenendo di non aver mal detto, ripigliò così il discorso: «Non tutti i
grandi del mondo, si servono dei doni di Dio a gloria di lui, e a vantaggio del prossimo, come fa la
Signora illustrissima. Un cavaliere prepotente e senza timor di Dio, ha tentato ogni via, giacché
deggio pur dirlo, per insidiare la castità di questa creatura, e dopo d'aver veduto che i mezzi di
lusinga gli andavano falliti, non temè di ricorrere alla forza aperta, tentando... insomma di farla
rapire. Ma Dio non l'ha lasciata cadere in quei sozzi artigli, e le ha invece preparato un ricovero
sotto le ale incontaminate...»
«Ma voi», disse la Signora rivolta repentinamente a Lucia, «voi che dite di codesto signore? A voi
tocca a dirci se egli era un persecutore, e se aveva gli artigli sozzi».
«Signora, madre, illustrissima», balbettò Lucia che sarebbe stata confusa a dover rispondere su
questa materia, quando pure l'inchiesta le fosse venuta da una persona sua pari e conosciuta. Ma
Agnese venne in soccorso: «Illustrissima signora», diss'ella, «il suo parlare è troppo alto per questa
povera figliuola. Ma io posso far testimonio che la mia Lucia aveva in orrore colui, come il diavolo
l'acqua santa; voglio dire, il diavolo era egli; ma ella mi compatirà se parlo male, perché noi siam
gente come Dio vuole; del resto, questa povera ragazza aveva un giovane che le parlava, un nostro
pari, timorato di Dio, e bene avviato, e se il Signor curato avesse avuto un po' più di giudizio; so
che parlo d'un religioso, ma il padre Cristoforo amico intrinseco qui del padre guardiano, è religioso
al pari di lui, e davantaggio, e potrà attestare...»
«Voi siete ben pronta a parlare senz'essere interrogata», disse la Signora, dando sulla voce ad
Agnese. «Non so che fare dei parenti che rispondono pei loro figliuoli». Agnese voleva aprir bocca,
ma la signora con tuono ancor più brusco riprese: «Zitto, zitto; le vostre parole non servono a
nulla». Così dicendo il suo aspetto prendeva sempre più un non so che di sinistro, di feroce che
quasi faceva scomparire ogni bellezza, o almeno la alterava di modo che chi avesse osservato quel
volto in quel punto ne avrebbe conservata una immagine disgustosa per sempre. I suoi guardi erano
fissi sopra Agnese, torvi e sospettosi, come se cercassero a raffigurare un nemico. E continuò: «Voi
fate conto forse, che perché io son qui rinchiusa, fuori del mondo, senza esperienza, mi si possa
dare ad intender qualunque cosa. Povera donna! appunto perché son qui, sono men facile ad essere
ingannata su certe materie. Certo, lo sposo che i parenti destinano ad una figlia è sempre un uomo
compito, e il monastero dove la vogliono rinchiudere è così allegro! in così bella situazione! così
tranquillo! è un paradiso! Poveretti! portano invidia alla loro figlia; vorrebbero anch'essi ritirarsi in
quel porto di pace, ah! a far vita beata: ma... pur troppo sono legati nel mondo. Scusi il mio caldo,
padre, ma ella sa meglio di me, almeno ella deve saper troppo bene come vanno queste cose, la
menzogna la più imperterrita, la più persistente, la più solenne è quella che sta sul labbro di colui
che vuole sagrificare i suoi figli, e far loro violenza. Questi sono i peccati, contra i quali si dovrebbe
predicare: a costoro bisognerebbe minacciare l'inferno».
A queste parole, la Signora, si pose a sedere tutta turbata, ed ognuno si sarebbe avveduto che un
pensiero che i discorsi di Agnese avevan fatto nascere, dominava allora la sua mente, e che gli
affari di Lucia non erano che un oggetto di considerazione secondaria.
Agnese intanto rimproverava alla figlia che il suo non saper parlare le avesse tirata addosso questa
tempesta, il guardiano voleva pure animar Lucia a parlare, ma questa animata già dalla circostanza,
si avvicinò alla grata, e in tuono modesto, ma sicuro disse: «reverenda signora, quanto le ha detto la
mia buona madre è la pura verità. Il giovane che mi parlava», e qui arrossò, «lo sposava io... di mio
genio, mi perdoni se parlo da sfacciata, ma è per difendere mia madre: e quanto a quel signore...»
«Buona fanciulla», interruppe la Signora con voce raddolcita, «credo un po' più a voi, ma non vi
credo ancora del tutto. Vi ha due linguaggi che si somigliano; quello che parte dal fondo del cuore,
e quello d'una figlia oppressa che dice il falso per terrore, e protesta di amare ciò ch'ella abborre più
al mondo. Voglio sentirvi da sola a sola. Padre guardiano, se ella conoscesse per testimonianza
degli occhi suoi i casi di questa giovane, certo ch'io non istarei ora in dubbio: ma ella non li conosce
che per relazione: e per me, piuttosto che servire alla violenza fatta ad una povera giovane...»
«Il Padre Cristoforo», disse il guardiano, «che mi ha posto nelle mani questo affare, è uomo tanto
oculato, quanto lontano dal favorire una violenza, ed alla sua asserzione io credo quanto ai miei
occhi. Stimo però cosa molto savia, che la Signora illustrissima, esamini col suo senno consumato
questa faccenda, e spero che l'esame mostrandole la verità dell'esposto, la determinerà ad accordare
il suo appoggio a questa famiglia perseguitata».
«Lo spero», rispose la Signora con una placidezza garbata, e come desiderosa di far dimenticare il
trasporto passato: «lo spero: e quel poco ch'io potrò fare, prego il padre guardiano di attribuirlo in
gran parte alla sua intromissione. Per ora ecco quello che mi sovviene di poter fare. La fattora del
monistero, ha collocata da pochi giorni l'ultima sua figliuola. Questa giovane potrà occupare la
stanza abbandonata da quella, e supplire ai pochi servigj ch'ella faceva. Ne parlerò colla madre
Badessa, ma da quest'ora, le dò la cosa per fatta, sempre che Lucia ne sia contenta». Il guardiano
proruppe in ringraziamenti, che la Signora troncò gentilmente, ma lasciando però capire che ella
faceva assegnamento sulla riconoscenza dei cappuccini. Chiamò quindi una delle monache che le
facevano da damigelle, e datele le opportune istruzioni, disse ad Agnese che andasse alla porta del
chiostro, per intendersi con la monaca e con la fattora, e per andar quindi a disporre l'alloggio che
sarebbe destinato a lei ed a Lucia. Il Padre si congedò, promettendo di ritornare ad informarsi della
decisione: le tre donne furono tosto a consulta; e Lucia rimase sola con la Signora a subire l'esame.
<B>CAPITOLO II</B>
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano certamente un
animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto quel colloquio per comparire una
monaca come le altre. Ma quando ella si trovò sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto
meno temeva le osservazioni di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i suoi
discorsi divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è necessario
raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i fatti che rendevano tale il suo
linguaggio.
Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta memoria fossero comuni
molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità di un anonimo non avrebbe bastato a farci
prestar fede a quello che siam per narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche
traccia di questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia alcun dubbio.
Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano etc., scrittore di quel tempo, che per
le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di
osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti racconta di questa
infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie
ch'egli ci ha lasciate per render più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose però,
quantunque rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al filo del
nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto il racconto, se non
avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale mutamento d'animo nella Signora, che non
solo tempera e raddolcisce l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma
deve creare una impressione d'opposto genere, e consolante. Avremmo, dico, lasciato di pubblicare
tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il rimettere nella memoria degli uomini
certe colpe già pubbliche, ma dimenticate, quando non sieno terminate con un grande esempio, o
con un gran pentimento, sembra uno scandalo inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il
valore di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava altro che di
sopprimere un libro.
Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di cader sempre in
digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo ad ogni tratto, egli obbligherebbe
chi scrive a fare un'altra digressione, e a rispondergli così: - Il manoscritto unico, in cui è registrata
questa bella storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna lasciarmela
contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla, se il modo con cui è raccontata
vi annojasse, giacché dagli uomini si può aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi
benedica.
Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco
signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia
dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico
giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il
risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della
famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i
danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del
suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano
stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali
circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva
naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire. Tale fu il
destino della Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora
Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor Marchese: «è una
femmina»; il signor marchese rispose mentalmente: - è una monaca -. Si pose quindi a frugare il
Leggendario per cercarvi alla sua figlia un nome che fosse stato portato da una santa la quale avesse
sortito natali nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser volgare
richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di Geltrude gli parve fatto apposta per
la sua neonata. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e
il padre, facendola saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura
ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che prometteva una
avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso tempo ne' suoi modi e nelle sue
parole si manifestava molta vivacità, una grande avversione all'obbedienza, e una grande
inclinazione al comando, un vivo trasporto pei piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il
padre favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo considerava
come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua figlia come era superbo di tutto ciò
che gli apparteneva, e lodava in essa gli alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che
manifestavano un'anima nata a governare qualunque monastero. Della bellezza né egli, né la madre,
né un fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la Signora ne fu
informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente. Benché la condizione alla quale il
padre l'aveva destinata fosse conosciuta da tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse
però mai: - tu devi esser monaca -. Era questa come una idea innata; e quando veniva il caso di
parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per sottintesa. Accadde per esempio che
alcuno della casa correggendola di qualche aria d'impero troppo oltracotante, gli diceva: «tu sei una
ragazzina, questi modi non ti convengono; quando sarai la madre badessa, allora comanderai, farai
alto e basso». Talvolta il padre le diceva: «tu non sarai una monaca come le altre: perché il sangue
si porta da per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali la Signora apprendeva implicitamente
ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra, che per esser monaca
era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa tanto certa non era però fatta, e che il
farla o non farla sarebbe dipenduto da una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti
si acconciavano nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star tranquillo che
dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità. A sei anni fu posta in
un monistero e per educazione, e per istradamento alla carriera che le era prefissa. Quale coltura
d'ingegno potesse riceversi a quei tempi in un monastero, è facile argomentarlo dalla coltura
universale, e questa si può argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora basti il dire
che nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un libro, non dico
insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché dalla ignoranza universale si può
francamente supporre che alle giovani di quel tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è
di più chiaro, di più certo, di meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia romana. Ma quello
che più importa di dire nel caso nostro si è che quella parte di educazione che i fanciulli riuniti in
comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora un effetto contrario direttamente alla
intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano
alcune destinate a splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie loro. Geltrudina
nutrita nelle idee della sua superiorità , parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, e a
quello splendido che la fantasia dei fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano
loro, la sua fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più, perché le era stato detto tante
volte: - tu non sarai una monaca come le altre -. Ma ella s'accorse con maraviglia, e non senza
confusione, che alcune delle sue compagne non sentivano punto d'invidia di questo suo avvenire; e
alle immagini circoscritte e scarse che può somministrare anche ad una fantasia adolescente il
primato in un monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di sposo, di palagi, di conviti,
di villeggiature, di veglie, di tornei, di abiti, di carrozze, di livree, di braccieri, di paggi.
Queste immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel ronzio, quel bollore
che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti, collocato davanti ad un'arnia. Sulle prime
ella volle competere con le compagne, e sostenere la superiorità della condizione, che le era
destinata; ma quanto più ella cercava di magnificare le sue dignità future, tanto più le esponeva ad
un terribile genere di offesa, il ridicolo; sentimento che quelle spavalducce applicavano più
naturalmente e più saporitamente alle dignità che vantava Geltrude, appunto perché le vedevano
esercitate dalle loro superiore; sorta di persone per le quali la puerizia prova così facilmente
l'ammirazione, come lo scherno. E quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi
contro le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose delle quali si ride in
questo mondo: si ride bensì di chi le desidera senza poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente;
e questo ridere mostra l'alta estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le
stimano, non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se non che, ella pure
avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio, essere strascinata, servita, corteggiata, che lo
avrebbe potuto, se lo avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea
che le stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario perch'ella fosse
monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse allora, e divenne perspicua e
predominante. Con questo pensiero ella si teneva bastantemente sicura, ma non senza covare un
sentimento d'invidia e di rancore contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e
ch'ella avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un confronto
doloroso. Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si dilettava naturalmente
nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto
ciò che poteva essere ad esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto di
avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto impunemente sfogarlo.
In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a quella età così critica, che separa l'adolescenza
dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell'animo, solleva, ingrandisce,
adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova. Assoluta
innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione ragionata; occupazioni utili e interessanti,
esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori,
sono i mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare una mente
tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita. Ma le circostanze della
povera Geltrude erano ben diverse: tutto tendeva per essa a realizzare ogni pericolo di quella età e a
renderla turbolenta, e funesta per l'avvenire. Pochissimi lavori, e lo studio del canto sopra parole
d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero impadronirsi della mente di Geltrude, e
trattenerla dal vagare in un mondo ideale. Gli esercizj corporali consistevano in un giro quotidiano
dell'orto claustrale. La confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi con persone
le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua scelta, ma a fissarlo in una scelta
già destinata.
E, quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle
passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono
arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non
conosciuti, non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto
era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione. Non vogliamo qui parlare di alcuni
pregiudizj, che a quei tempi principalmente si ritenevano per verità sacrosante, e s'insegnavano
insieme con le verità, pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj
dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della Religione quella della
credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni onesto deve desiderare e promovere la
distruzione; ma pregiudizj che in gran parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare con un
sentimento di pietà profonda e sincera, e con una vita non solo innocente, ma operosa nel bene, e
sagrificata all'utile altrui, del che tanti esempj hanno lasciati i tempi trascorsi, e ne offrono
fors'anche i presenti.
Ma, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento
cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il
padre principalmente, che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe
stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa obbiezione, che forse
Geltrude non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era
d'uopo premunirsi. Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto
rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della
semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che poteva lasciar qualche dispiacere
nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma
semplicemente ch'ella fosse monaca. Il Marchese Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di
disegni aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di
pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come
sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non
si determina a nulla in questo mondo. Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva offrire a
Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio
claustrale. Egli aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il quale
desse il fuoco alla casa di un nimico posta a canto alla sua, con la intenzione che quella sola dovesse
andare in fumo ed in faville. Ma il fuoco appiccato ch'ei sia non si lascia guidare dalle intenzioni
dell'incendiario, va dove il vento lo spinge, e si trattiene a divorare dove trova materia combustibile;
e le passioni svegliate una volta non ricevono più la legge di chi le ha ispirate, ma si volgono agli
oggetti che la mente apprende come più desiderabili. L'orgoglio di giovane vagheggiata, adorata,
supplicata con umili sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a
paggi ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello tutta s'immerse la
fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far castelli in aria, a figurarsi un giovane ai
piedi, a levarsi spaventata, e fuggire dicendo: - come ha ella ardito di venir qui? - e non ricordava
più che il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla. Ma quella fuga e
quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il giovane non perdeva coraggio;
nascevano nuovi casi, e tutto finiva col matrimonio, come la più parte delle commedie. Richiamava
alla memoria quel poco che aveva veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi
indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e rifaceva tutto per suo
uso, ma in un modo più splendido. Questi pensieri l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio,
nell'orto, nel coro; ella confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si
confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si aspettava da lei.
Le monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di nascondere
affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione, Geltrudina rifuggiva con tremito
dall'idea di manifestarla al padre di sua bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte:
poiché in quel caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre; operazione
passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare quelle parole: «non voglio». La poverina
faceva come colui che avendo da dire qualche cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e
gli manda le sue idee in un bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano
celati alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza che la faccia dei
giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa li nascondeva con quella
dissimulazione profonda che è data a quella età, e che forse non ritorna più in nessuna altra epoca
della vita, e che appena appena potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si
dice, gli uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri. Con le
compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo osservare, dalle materie
più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo al quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola
stizza se non altro nella quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa
dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è una parte di stranio,
di fantastico, di individuale che non si confida, né s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per qualche tempo
nella casa e nel mondo. Il passo era spiacevole assai pel Marchese Matteo, ma inevitabile, perché
una ragazza allevata in un monastero non poteva far la domanda di esservi ammessa ai voti se non
dopo esserne stata fuori per qualche tempo. Era questa una formalità destinata ad assicurare alle
figlie la libera scelta dello stato; giacché ognun vede che sarebbe stato troppo facile di fare
abbracciare il monastico ad una giovane, che rinchiusa nel chiostro dall'infanzia non avesse mai
avuta idea di altro modo di vivere.
Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare la validità di un atto
qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri che quell'atto deve avere per essere un atto
daddovero. Invenzione che mostra affè molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la
più parte delle quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per decidere se una cosa sia fatta
o non fatta. Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano partecipando della sua debolezza non sono
senza qualche inconveniente: e le formalità ne hanno due. Accade talvolta che dove gli uomini
hanno deciso che una cosa non può esser realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si fa
realmente in modi tutti diversi e che non erano stati preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi
non è fatta. E non andate a farvi compatire da un sapiente col volergli dimostrare che la è fatta; egli
lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più, vede nella cosa stessa una distinzione profonda; vede, e
vi insegna che la cosa materialmente è fatta, legalmente non è.
Dall'altra parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto, deciso, statuito che, dove
si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei
primi (cosa che pare impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri
senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare la cosa come fatta; e darebbe
segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere, o di semplicità rustica affatto colui che,
ostinandosi ad esaminare il merito, volesse dimostrare che la cosa non è. Guaj se si desse retta a
queste chiacchere, non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine che si
ammira in questo mondo. Ma questi caratteri, se non infallibili, sono almeno stati scelti dopo
accurate osservazioni, senza passioni, né secondi fini, in tempi nei quali gli uomini fossero
abbastanza esercitati nel riflettere su quello che vedevano per circostanziare i fatti che dovevano
essere dopo di loro? Ah! qui è la quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe
fare la storia del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non l'abbiamo tutta sulle
dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella di Geltrude, in quanto ella è necessaria a
conoscere la storia ancor più vasta degli sposi promessi.
Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era prescritto che ella ne
stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che in questo tempo ella dovesse esser
condotta a vedere spettacoli, ad assaggiare divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva
rinunziare per farsi monaca. E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico, il
quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se ella non si faceva
illusione, se il suo proposito era insomma libero e ragionato. Queste formalità però avevano
certamente il secondo inconveniente di cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e la
giovinetta infelice chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva accadere in molti modi: ch'ella sia
talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e troppo vero: chi volesse ostinatamente negarlo, abbia
almeno la discrezione di non affermar mai di quelle verità che sono contrastate, perché la sua
affermazione diverrebbe un argomento di più contro di esse.
Benché Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il giorno della
uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei. Oltrepassare quelle mura, trovarsi in carrozza,
veder l'aperta campagna, e quel ch'è più entrare nella città, furono sensazioni più forti che non fosse
il pensiero dei contrasti che aveva a sopportare. Per uscirne vittoriosa aveva la poveretta composto
un piano nella sua mente. - O vorranno ottenere il loro intento colle buone, diceva ella tra sè, o mi
parleranno brusco. Nel primo caso io sarò più buona di essi, pregherò, li moverò a compassione:
finalmente non domando altro che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il
«sì» lo debbo dire io, e non lo dirò.
- Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una né l'altra cosa
ch'ella aveva pensata. I parenti avvertiti dalle monache delle disposizioni di Geltrude, furono serj,
tristi, burberi; e non le fecero per qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con
minacce. Solo dal contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche
parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già di ricusarsi al chiostro,
delitto che non poteva nemmeno venire in capo ad alcuno della famiglia, ma di non avviarvisi con
buona grazia. Così ella non trovava mai un varco per venire alla dichiarazione che era pure
indispensabile; e i modi secchi, laconici, altieri che si usavano con lei non le davano nemmeno il
campo di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole il quale di passo in passo la
conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di farsi intendere. Che
s'ella sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava pure a volere famigliarizzarsi con
alcuno della famiglia, se senza lamentarsi implorava velatamente un po' di amore, se si
abbandonava ad espressioni confidenziali, e affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più
diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che l'amore della famiglia
non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei dipendeva l'esser trattata come una figlia di
predilezione. Allora ella era costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto
ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto. Si accorava e si andava sempre più perdendo
d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva a qual altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il
non veder mai un volto amico, ma le immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata
la rendevano sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido che ognuno, e i
giovani particolarmente, si formano nella fantasia, per fuggire dalla considerazione di oggetti che
attristano. Ritornava ella dunque più che mai a quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi
giocondi coi quali conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata
quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti doveva venir dopo quella domanda ch'ella
non aveva fatta e che era risoluta di non fare. Rinchiusa per una gran parte del giorno con le
donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre
case, come avrebb'ella mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che, senza
contare tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore, anzi l'unico suo
difetto, giacché del resto, bellezza, grazia, ricchezza, nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra
tutto appassionatezza, nulla gli mancava. V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere
l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la bontà che aveva per lui,
al primo ente reale che non fosse troppo diverso da questo immaginato da rendere impossibile lo
scambio.
L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i particolari di questo
sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio
della Marchesa, cadde in mano di questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il
trambusto in casa fu, come era da aspettarsi, strepitoso.
Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che aveva idee molto
larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della sua famiglia, intimando di sua bocca la partenza
al ragazzaccio, per non aumentare il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se egli
si fosse in alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude, la sua
vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non vi sarebbe stato asilo per lui. Queste
minacce erano a quei tempi molto frequenti, e facevano pure colpo assai, perché ognuno era
avvezzo a vederne molte ridotte ad effetto. Ciò non di meno per esser più certo della segretezza del
paggio il Marchese Matteo nel forte del rabbuffo gli appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a
ragione che il paggio sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la quale per una parte
poteva lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito con un incidente doloroso e umiliante. Alla
donna di casa che aveva intercettato il corpo del delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo
una prescrizione di segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le fecero
comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per lei.
Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di Geltrude. Il
Marchese Matteo dopo d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese con tanto più di tremore, quanto
si sentiva veramente colpevole, le annunziò una prigione indeterminata nella sua stanza, e per sopra
più le parlò d'un castigo proporzionato alla colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla
stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata dolorosa anche alla
coscienza più illibata, si trovava anche la memoria del fallo, che basta a rattristare la situazione la
più gioconda, e l'animo suo fu prostrato. Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe
finita, si aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere come
sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo l'idea di rivedere il padre,
o di vedere la madre, il fratello la prima volta dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento. In
questa agitazione continua si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un sentimento nativo in tutti, ma
più forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della vergogna:
sentimento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però che come tutti gli altri può
diventare passione violenta e perniciosa quando non sia diretto dalla ragione, ma nutrito di
orgoglio. La sola idea del pericolo che la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una
persona meccanica, fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da
un congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più odiosa, della prigione, dell'ira dei
parenti, del fallo stesso.
Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener da lei quello che si
fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto fosse peggiorata la sua condizione per la scelta
dello stato: giacché il primo requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe
dovuto essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua ritiratezza angosciosa.
Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la
odiava. E la donna non amava la fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco
dissimile da quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La
conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco. Non restava a Geltrude
la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi della fantasia: perché questi sogni erano tanto in
opposizione col suo stato reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto
legate con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con incredula avversione, e ricadeva come un
peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali.
Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita che menava prima del
suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare la prima soave, a rammaricarsi di non
averla saputa conoscere. L'immagine di colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era
abbandonato un momento gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni
forza sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo, bisogna un poco di
buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli spennacchiano le ali, e gli spezzano i
dardi, se ci si permette una frase, invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade
realmente nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva preso gran
piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di peggio, e dal pensare che al fine il
castigo era meritato, il pentimento di Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo.
Pensò ella al perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva poteva
essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi tutta ad una divozione la quale
in parte era un sentimento intimo e retto dell'animo, in parte un fervore della fantasia. Le tornava
allora alla mente il chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di monaca, e
quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere la più nobile del monastero,
ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di
prigionia, di disprezzo nel quale si trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione
le risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e le combatteva. In
questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di rivederlo con una faccia diversa da quella
di cui le rimaneva una immagine terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa
nella famiglia.
Dopo molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena di entusiasmo e di
abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli
lasciava intravedere ch'egli rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una risoluzione,
ma non poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente che in quel
colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio.
<B>CAPITOLO III</B>
V'ha dei momenti in cui l'animo massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto
ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una
apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbocciato, che s'abbandona sul
suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto
d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a
formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo, che ciò che gli era
sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti
che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in
modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremare e
vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono
quelli appunto, che la speculazione fredda o ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per
legare una volontà che non si guarda, e per venire ai vili suoi fini.
Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a fantasticare nella sua
mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche profitto per vincere la risoluzione di
Geltrude, e che non era mai ristato dal ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera
che la figlia gli dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro mentre
ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire nella sua stanza, ov'egli si
trovava solo. Geltrude v'andò di corsa, che innanzi o indietro è il passo della paura, giunse senza
alzar gli occhi dinanzi al Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire:
«perdono». Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non bastava
desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il castigo, che bisognava insomma
meritarlo. Geltrude in tanto più turbata ed atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di tosto
ottenerlo, chiese che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese non
rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude e del torto ch'ella s'era
posta in pericolo di fare alla famiglia. Questo discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di
una mano ruvida sur una piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di
collocare la sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile, perché egli
avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia a chi l'avesse richiesta, non
essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il
tuono della voce, e le parole, disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e
che ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo, che le dava ad intendere che la
vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei, e che non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah! sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal ravvedimento, e da
una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua fantasia. Il Marchese, - ci ripugna dargli in
questo momento il titolo di padre - la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si
congratulò con lei del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe menata,
e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perché lasciano indovinare a quali improperj
esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava stordita fra i diversi affetti che si succedevano
nel suo cuore, non sapeva che dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo
avanzata, o d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero era però
dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato perfettamente, manifestarlo,
accennarlo, dire una parola che contraddicesse all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato uno
sforzo quasi impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per metterli, diceva egli, a parte
della sua consolazione, per riporre Geltrude nella stima e nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro
accorsero immediatamente. La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra volontà che
quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva combattuto, e ne era uscita vittoriosa.
Questa condiscendenza non veniva già da un sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese,
ma dall'aver veduto chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi
muricciuoli. S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava il governo della
famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli che abbiamo accennati. Del resto i
disegni del Marchese sul collocamento di Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava
interesse della famiglia, e alle mire avare e ambiziose in allora tanto universali, che quel poco di
opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli. L'affezione materna
però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di buona voglia, come una buona madre
che abbia una figlia tanto scrignuta e contraffatta da non poter esser chiesta da nessuno, desidera
ch'ella preferisca il celibato al matrimonio. Al giovane Marchesino era stato detto fino dall'infanzia
che le entrate della casa erano appena appena proporzionate alla nobiltà, e che detrarne anche una
picciola parte sarebbe stato un decadere se non nella sostanza almeno nell'esterno; egli riguardava
quindi assolutamente come un dovere in Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più
economico di collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una docilità poco
costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con volto lieto alla madre e al fratello.
«Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco»
aggiunse «la consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente quello
che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli.
È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento e la preghiera al Padre,
come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè francamente: «ha promesso di prendere
il velo». Le lodi e gli abbracciamenti furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con
lagrime che furono credute di consolazione. Il Marchese Matteo si diffuse allora a magnificare le
disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per rendere lieta e splendida la sorte della sua figlia.
Parlò delle distinzioni ch'essa avrebbe avute nel monastero, e del desiderio che le madri avevano di
possederla, e di osservarla come la prima, la principessa donna del monastero, dal momento in cui
vi avrebbe riposto il piede. La madre e il fratello applaudivano: Geltrude era come posseduta da un
sogno.
«Oh!» s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si dimentica il principale:
bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle monache, altrimenti non si conclude nulla».
Detto questo fece chiamare tosto il Segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva
comportare la fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di stendere la
supplica. Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per pigliar tempo a studiare un
complimento di congratulazione: ma il Marchese lo interruppe dicendo: «Presto, presto, scrivete
alla buona, senza concetti; già conosciamo la vostra abilità». Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato
a Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò il Marchese. Il
quale preso il foglio, e consegnatolo al Segretario perché lo portasse addirittura cui era indiritto;
comandò che si preparasse per Geltrude il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era
guarita dalla sua indisposizione - era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza continua -, e
che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi. Quindi rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese
quando ella sarebbe stata disposta a fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser
ricevuta. «Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi stesso?
Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il primo passo sia fatto».
«Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa. «La giornata è bellissima». «Vado a dar gli ordini»,
disse il Marchesino e stava per partire. «Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare. «Piano,
piano, cervellino», ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca, e vuole aspettare
fino a domani. Volete voi che andiamo domani?» domandò a Geltrude con uno sguardo che nello
stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale. «Domani», rispose con debole voce
Geltrude, alla quale non parve vero di aver qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola
si sovvenne che finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora darne uno
indietro. «Domani», disse solennemente il Marchese: «domani, è il giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante commozioni, rendersi conto
di quello che aveva fatto, di quello che era da farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il
modo di rallentare un po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere
almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la conduceva ad un
pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano dietro senza interruzione, e la mente di
Geltrude era come il lavorio d'una povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un
giorno di faccende chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla. Mentre s'apparecchiava il
quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della Marchesa, per essere
acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito; operazione che in quel giorno le recò una noja
intollerabile. La Marchesa presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte
consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il tempo di raccozzar due
idee. Del resto a misura che l'opera procedeva verso la sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un
po' d'affetto, e vi occupò quel poco di pensiero che le rimaneva. L'acconciatura era appena finita
che venne l'ora del pranzo. I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di
congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato supporre che essi
sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di Geltrude. A tavola Geltrude fu la regina:
servita la prima, trattenuta, corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni
sforzo per riuscirvi. Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del ristabilimento
della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si sparsero, e come la famiglia del Marchese
spandeva un lustro grande su tutta la parentela, comparvero dopo il pranzo visite di
congratulazione. I complimenti erano per la sposina - così si chiamavano le giovani che erano per
farsi monache - e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta era una
conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa una maglia di più
alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se quella era una rete, fare altrimenti le pareva
impossibile: poiché come mai in presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da
lei, ed annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le visite Geltrude
entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa per tanto tempo: e si andò a fare la
solenne trottata. Lo spettacolo e il romore delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del
padre, della madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude, si
contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione vi apparivano
istantaneamente come lampi in un povero cielo. Rientrato il cocchio, in casa, e fermato sotto le
volte rimbombanti dell'atrio, i servi che scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran
parte della conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di sala in sala si giunse a
quella della conversazione. La sposina ne fu il soggetto, l'idolo, e la vittima. Chi si faceva prometter
da lei, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua
conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero. Se alcuno non potendo
avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a ciarlare in un crocchio, non le
aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una
offesa, e studiava il momento di farle il suo complimento. Finalmente la brigata si sciolse, tutti
partirono senza rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con la famiglia, dalla quale
ebbe altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti. «Ho finalmente», disse il Marchese
Matteo «avuta la consolazione di veder mia figlia trattata e distinta da sua pari. Domani mattina»,
soggiunse, «converrà esser presti di buon ora per andare a Monza come ha stabilito Geltrude».
Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata vi rimase con una
donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in vece di quella che aveva fatto presso di
lei il tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel giorno il padre così
disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu tentata di profittare dell'auge in cui si
trovava per soddisfare almeno una delle passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella
vedeva di mal occhio la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un ricambio
continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di divozione le aveva perdonato, ma cento
perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi in quel giorno trattata con tanta importanza quasi con
tanto rispetto da tutta la famiglia, le dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con
queste lusinghe le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza: mentre il
suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei modi rozzi, famigliari,
insolenti che quella donna le aveva usati nella sua prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa,
se ne lamentò al padre. Questi ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella
pure avesse trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e fissò
immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa. Era questa la vecchia governante del
Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel cambio. La vecchia alla quale il Marchesino era
stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui
aveva poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese ella era stata
la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d'entrata al
Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le
congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali era un personaggio d'importanza; e parlava con molta
bontà della signorina che aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli della vecchia che
spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie, e di sue prozie, le quali s'eran fatte
monache per non intaccare il patrimonio della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i
monasteri dove s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver dame di
quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e che esse dal loro parlatorio
avevano ottenuto ciò che era stato invano domandato dalle prime dame nella loro gran sala di
ricevimento, parlò degli affari d'onore imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite di
grandi personaggi forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato. «Ma»,
soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui intrometteva qualche consiglio sulla condotta
da tenersi a Monza. Prediceva gli onori che Geltrude avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite.
Verrebbe poi il Signor Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e
allora non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento. Geltrude ascoltava con una
noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e
stordita non diceva: «finitela», per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una
storia mal pensata e male scritta. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude, quando
Geltrude era già coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva. Le cure di rado tolgono il sonno
alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde era oppressa Geltrude. Il suo sonno fu
affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia che
venne di buon mattino a riscuoterla perché si preparasse al viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita, rivestita, in pronto, ci vorrà
anche un'ora almeno. La Signora Marchesa si sta alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del
solito. Il Marchesino è già disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che
sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino: io posso ben dirlo che
l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma quando è all'ordine non bisogna farlo aspettare, perché
quantunque sia della miglior pasta del mondo, allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta
avrebbe anche un po' di ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei. Guarda in quei
momenti: non ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha
sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli. Poveretto! con due
paroline però s'acqueta subito. Lesta, lesta, signorina, perché mi sta guardando così come incantata?
a quest'ora ella dovrebb'esser fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad un punto dalle memorie
del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva fare in quello che cominciava, e dal
cinguettio della governante, stava cogli occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era
per la sua mente come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento
nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più attentamente il sole
stesso appare come un disco bianco e leggiero sospeso dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un tasto del quale essa
stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del Marchesino aveva già fermata l'attenzione di
Geltrude, ma quando dalle parole della governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella
mente di Geltrude, tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo di
passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la voglia di sbrigarsi, e di
schivare quella collera. Geltrude, bisogna confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi
aspri, sprezzanti, e imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente
aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le distinzioni dei parenti sopra di lui, la
tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante. Lo temeva essa però, ma fino ad un certo
tempo non quanto egli avrebbe voluto: e come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui,
di quando in quando ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione. Era
quindi fra loro come un continuo stato di guerra. Ma quando dopo la sua prigionia Geltrude
comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un perdono, alzando timidamente gli occhi sulla
faccia del fratello, vi scorse una superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar
mai; si sentì soggiogata per sempre. Ed ora il solo pensare che il fratello in un momento
d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col suo fallo, per gittarle un
motto, un rimprovero che alludesse a quello, la faceva tremare. Si pose ella quindi a sedere in fretta,
e pure in fretta cominciò a vestirsi. Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era
troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal sagrificio era ben lontano
dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine per grossolano e sventato ch'egli fosse, non
avrebbe scherzato così di leggieri con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino;
ma un effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala dov'era radunata la
famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale corsero dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo,
senza dar segno d'impazienza: la Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava
nell'aspetto quel misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e dal
dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo. Il Marchese con lieto viso si fece incontro a
Geltrude, e le disse. «Avete scelto una bella giornata: buon augurio». «Buon auguriripeterono la
Marchesa e il Marchesino. Era preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò
amorevolmente a Geltrude che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in forse: «qui, qui»,
diss'egli, «certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta: siete come
un di noi». Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le presentò rispettosamente una tazza
di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che presso ai romani
assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano piccioli fili, che legavano sempre più la
povera Geltrude. Essa non confermava con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni
supponevano: non diceva nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei, la
poneva in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua risoluzione, il
fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di stranezza scandalosa. Preso il fatal
ciocolatte, il Marchese si alzò, pigliò Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le
disse. «Orsù figlia mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo». E qui le diede le istruzioni su
quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda. «Benissimo, a
meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi aspettano a braccia aperte; e non
sanno nulla, nulla... Non mi date in fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente,
guardatevi da un contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che sangue
uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia; il vostro fallo è cancellato e
dimenticato». Quand'anche Geltrude avesse avuto il coraggio, che non aveva, di porre qualche
ostacolo, questo discorso, che le faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe
immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella arrossò, non rispose nulla, chinò
il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto risolutamente dal Marchese e l'apparire
d'un servo che annunziava che il cocchio era pronto, la costrinsero a farsi forza, e a ricomporsi.
Nello scender le scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in cocchio, e si partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani
di sangue nobilissimo furono il tema del discorso durante il tragitto. All'entrare nel borgo, al vedere
la porta del chiostro, Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di
lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena di curiosi; e lo studio
di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto, ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero.
Attraversando il cortile si vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima
fila alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle che erano
immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra, altre dietro ritte sulla punta dei
piedi; e per non tacer nulla, le converse in ultimo sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure qua e
là luccicare più basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire qua e
là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose delle educande che serpendo
tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in
verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai parenti, e si fermò
nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È inutile dire che questa era stata dal Marchese avvertita
per un messo straordinario della visita che avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu accolta dalla
badessa e da tutte le suore con acclamazioni. Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui si fa
per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che cosa ella desiderava in
quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva manifestare con
certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel suo cuore, nel momento in cui le sue parole
dovevano decidere quasi irrevocabilmente del suo destino, il combattimento interno fu sì forte
ch'ella non potè proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa, e la folla che
la circondava. Così guatando ella vide distintamente alcune delle sue compagne, e sulla parte che
appariva di quelle faccette e più negli occhi un'espressione mista di malizia e di compassione, che
diceva chiaramente: «Ah! c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta
l'avversione al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti un lampo di
coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa da quella che si aspettava da lei, cosa
troppo difficile a trovarsi in quella circostanza. Alzò un momento gli occhi verso il padre che le
stava di fianco, per indovinare che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per
esperimentare le proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa,
che tutto il suo coraggio svanì. Pensò che la resistenza, che il ritardo, l'avrebbero resa innanzi a tanti
occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al
paggio; si consolò riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per
tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo approfittarne; e il partito il più
facile, il più sicuro, il meno terribile in quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a
domandare d'essere ammessa a vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a
finir la sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di Geltrude furono
seguite da una acclamazione generale. Chetato il tumulto, la badessa tutta sorridente, porse a
memoria questa risposta che le era stata data in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto
che aveva letti i celebri romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io
accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che ci proibiscono di
dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di averne ottenuta la licenza. Bensì senza
riguardi, accuseremo il tempo che coi suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta
desiderosa non meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno potrete
intanto, dai segni esterni farvi indovina della decisione che potete aspettarvi da tutte le nostre suore;
e da me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a torto perché la gloria
del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che la folla poteva essere
incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor Eusebia, date un po', una voce alla fattora,
perché faccia sparire tutto quel minuto popolo, e chiuda la porta di strada». L'ordine fu dato ed
eseguito: e il minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione. Geltrude passava intanto
dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le faceva un complimento, il
quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: - l'avevam sempre detto che sareste nostra -.
Passato quel primo impeto, la badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio. A
questa preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa con alcune delle
anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro, mentre la famiglia milanese vi andava pel di
fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare ad un tratto nel
precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese: in questo secondo caso, ogni fermata è
una specie di riposo; e l'intervallo che passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla
speranza. Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta comunque ne fosse uscita,
e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima di fare un altro passo meditar ben bene se le
conveniva o no di progredire, e di non lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con questo pensiero
ella fu condotta nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di aggradire
alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la quale dette il moto alla ruota, e
ne rivolse la bocca verso il parlatorio esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo di potere ormai
senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi, offerse agli sguardi, ed alle mani degli
ospiti un gran bacile di dolci squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini
ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale esercizio. È da credersi che
questi ordini non ottenessero un più grande effetto in progresso di tempo, giacché questa
fabbricazione durò fino ai nostri giorni; il che non si accenna qui per censurare con indiscreta
severità tutte le monache che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi a dir
vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha mangiato egli stesso i dolci
squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto averne. Si parla soltanto di questo fatto, perché può
dar luogo ad una osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser trattati in cerimonia,
il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti che esprimevano l'ammirazione, somme lodi
furon date con sentimento molto, e rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie riflessioni che
può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di rispondere come poteva ai
complimenti che altre suore le facevano, la madre badessa chiamò in disparte il Marchese ad
un'altra grata.
«Signor Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità... debbo dirle... che ogni
volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la Superiora, quale io sono indegnamente... tiene
obbligo di avvertire i parenti che se mai essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella
scomunica... Mi scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza. Ma già ella non può
dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio dovere; ma
s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa». Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori si separarono in
fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e andarono a mescersi ognuno alla sua
brigata. Dopo alcuni altri complimenti, il Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni
della badessa, con le istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più
incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un anello di più alla sua
catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o prestava fede intera alle
parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei? Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece
a raccontare lunghissimamente dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe
del monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore una figlia di
famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.
<B>CAPITOLO IV</B>
Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano fare in risposta alle riverenze delle suore
che stavano sulla soglia a veder partire i signori, e la nuova sorella, appena messo in moto il
cigolante carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era portata, sul
suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache, sul giubilo di queste per
l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro
compagnia. Ma tutti gli elogi non furono per Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con
ammirazione della badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che
contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa». Il discorso sarebbe durato fino
all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era nojato non l'avesse troncato per parlare dei
divertimenti che Geltrude doveva godere nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui come
conoscitore espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi, egli ne
anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte sposine ch'egli aveva incontrate
nelle brigate, senza risparmiare la storia di qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva
molto dato da ridere. Il Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli
aveva più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di discorso, lo toglieva
da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi che una carrozza di quei tempi dava in
una strada di quei tempi, ella dormiva saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa
vuol dire essere svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi della carozza.
Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla figlia che prima del pranzo dovessero
porsi in assetto per andar subito dopo a restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera
antecedente. Detto e fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione; e la
solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena il Marchese pose in campo il discorso dei
divertimenti che si dovevano dare a Geltrude, e delle conversazioni dove ella aveva ad esser
presentata come sposina. «Bisognerà pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per
Geltrude una madrina degna della nostra casa». La madrina, mio giovane lettore, era una dama
incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di presentarla, e di vegliare
sovr'essa. Siccome il Marchese proferendo quelle ultime parole s'era voltato verso la Marchesa
come invitandola a proporre la dama che le fosse paruta più a proposito (atto per parentesi che il
Marchese faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi sarebbe...» «No no», interruppe il
Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a genio della sposina; e benché l'uso
universale e ragionevole dia questa scelta ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che
si faccia una eccezione per lei». E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa una grazia singolare,
continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di quelle che si sono trovate
questa sera alla conversazione, ha le condizioni necessarie per esser madrina d'una figlia della
nostra casa, e ognuna si terrà onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano fare sulla via del
chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide
che il rifiuto sarebbe stato preso per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel
qualunque vantaggio che le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che in quel giorno le
era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata
più d'ogni altra, che nell'accoglierla e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto
quell'aggradimento, quella famigliarità, quell'affetto che alle volte in una prima conoscenza imita i
modi d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto assegnamento
sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben
scelto», disse il Marchese: «e Lei», proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda
alla dama; e si ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che son certo che la dama
aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui fu condotta o
strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti dell'animo suo in queste spedizioni;
poiché dovremmo ripetere tante volte la stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i
pentimenti, i sì e i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non esprime alcuna idea, e
ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che appare negli uomini radunati per divertirsi,
e per dir tutto le qualità auree di qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le
comunicava una certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire ogni
cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro. Talvolta lo stordimento, la fatica,
la seccaggine dell'udire e la contenzione del rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella
pace. Si destava talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al
passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: - Oh che sproposito! - si sentiva un coraggio a
tutta prova, e prometteva di tornare indietro. La presenza del padre, o del Marchesino, una cosa
qualunque da farsi raffreddavano quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in
un pieno abbattimento. Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che se anche
resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi il viver lieto del quale allora si
gustava una parte: perché si era in colpa, perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da
un perdono, e il perdono dalla risoluzione di pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se la
risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come cominciare? da che? Geltrude
ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le
pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a chi l'avesse scelto
volontariamente, e in quelli cercava di riposare. Quando dopo questi momenti ella si trovava con la
famiglia, o con altri, diceva spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far
credere che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta in una circostanza nella
quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo attestato di questa sua scelta, ella faceva
e diceva ciò che lo poteva far credere, ciò che la impegnava sempre più. Benché alcune volte in
quelle circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio, quantunque
ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva più e più difficile il retrocedere,
pure il dire o fare il contrario l'avrebbe posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così
difficile, ch'ella non poteva né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur un ripido
pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un luogo di riposo, e
volgendosi indietro per guardare alla via che bisognerebbe fare per risalire vedesse il principio
d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa. E la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma
siccome chi nuoce a se stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol
mai confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto, e ad ogni male che
si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche Geltrude aveva trovato nella via che le restava
da percorrere un momento di più forte speranza. Questo momento era quello dell'esame che un
ecclesiastico deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua vocazione; esame nel quale
ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che qualche occasione si sarebbe
offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella stessa
più chiaramente il suo animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di
quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi pensieri troppo agitati,
troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo affrettava con
istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e sapeva che a volere che un affare
sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a
Geltrude che in quel giorno il Signor... ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe
ad esaminare la sua vocazione. Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e
Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che fosse necessario
aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una impressione nell'animo della figlia,
e le servisse di compagnia e di guardia nell'assenza forzata d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si tratta di coronar l'opera.
Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da esso dipende l'onore di vostro padre, della
famiglia, il vostro, e il vostro destino di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di
vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi fosse nato qualche
pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora, voi ben vedete che non è più
tempo di far ragazzate. Io mi sono impegnato, in faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi
mi avete dato motivo di credere, di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una
smentita. Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi porrebbe
nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare alla mia riputazione, lasciando
credere che io ho presa leggermente una leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte
tante pubblicità senza riflessione... che so io... che ho preteso far violenza alla vostra vocazione... o
di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro pentimento. Il primo partito
non può assolutamente stare con ciò che debbo a me e alla casa. Astretto di appigliarmi al secondo,
dovrei anche poi trattarvi come una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con
un'altra gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo discorso aveva già messa
in apprensione Geltrude: e nella angoscia dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi,
ravvolti come le foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e
crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè sciogliere in uno
scoppio di pianto. «Via via... che è stato?» disse avvedendosene il Marchese, il quale era in quella
faccenda tanto occupato delle conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella
potesse toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato? io ho parlato in una supposizione impossibile...
pure doveva pensare anche ad un tal caso... per quanto giudizio abbiate, io doveva mettervi in
avviso sull'importanza delle risposte che oggi siete per dare. Il Signor... vi domanderà se la vostra
risoluzione è libera, se i parenti non vi hanno comandato, consigliato... che so io?... ed io doveva
avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi nella necessità, di farne
un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi farete il vostro dovere da brava, come avete fatto
finora; e non si parlerà tra di noi che di consolazioni. Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio
sola: rasserenatevi, non fate che il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare dei sospetti... mi fido
di voi». Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad
una giovane del suo carattere in quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle
meditare su quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di incertezze, e
d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di
estraneo, e di aspettare il consiglio dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual si fosse il partito al
quale ella dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna a
presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e risolvette di avere un
aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo tempo. Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo
riescano molto meglio a dominare l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in
questa parte riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano di
preferenza uomini. Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e l'altro, non saranno mai
messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini soli ne tratteranno ex professo negli scritti:
giacché essi peccano tutti verso le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con
questa osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde che sono
state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni infinite e bellissime su questo
argomento che sono sparse in tante altre opere; ma per quanto una materia sia stata egregiamente
trattata, è sempre lecito di desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e agitata, facendogli le
accoglienze che usano le persone vergognose e agitate. Il Marchese lo accompagnava, e dato uno
sguardo a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella stanza vicina: la porta di comunicazione aperta
in modo che ella potesse da quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di vederli operare, di
sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la lettura d'una storia è molte volte più chiara e
meno difficoltosa che la condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio noi diremo
qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più naturale del mondo:
siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue azioni, egli ne supponeva sempre nelle
intenzioni e nelle azioni degli altri: nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire con questo
ch'egli avrebbe dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a
quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa una volta sola -: ohibò: questo è un
eccesso più comune, e peggiore. Avrebbe dovuto lasciar di giudicare nelle cose che non lo
toccavano; e in quelle nelle quali il suo giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto
sospenderlo fino a tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma con
quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama ragione umana. Il caso
di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar bene prima di pensare. Il Marchese
parlandogli della figlia ch'egli aveva ad esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il
desiderio di conservarsi nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto con gioja al
primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale si trattava di decidere se la
vocazione era vera o falsa colla prevenzione dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava
di avere a sentire l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una buona
risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione esisteva. - Oh! - dirà
taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe dovuto supporre così di primo slancio che
Geltrude era una finta, o il Marchese un tiranno impostore. E doveva egli pensar così senza alcun
fondamento? - Ohibò, di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per
non averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere una
cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo. Il Signor... pregò Geltrude di riporsi
a sedere, sedette, e vedendo in essa quella leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso,
pensò di rincorarla con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me
ne maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo ora mettere in
dubbio quella risoluzione che a lei forse pare certa, ferma, irrevocabile; io debbo ora farle guardare
attentamente il rovescio della medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo
interrogarla minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione per ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del buon uomo, «io ho
desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende la scelta della mia vita e io spero
che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più
chiaramente quale sia la mia vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor... «così mi piace. Quelle proteste
veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia.
Per decidere bisogna dubitare, o fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per
quanto ella credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si tratta di risolvere
ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia di rispondermi con semplicità e con
riflessione. Come le è venuta questa risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e di confondere
Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più opportuna di questa: ma egli era ben
lontano dal supporre l'effetto ch'ella doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore,
e per adempire alle regole del suo uficio, che la prescrivevano. Geltrude rimase come colpita: che
rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del paggio?... Dio liberi!
Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo. Ma tacendola, come spiegare la sua domanda di
farsi monaca, e tutti i passi conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma
non ne avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude era disposta a farne
una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto d'impaccio, e che non sarebbe
stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe certamente cagionata una spiegazione, che
sarebbe tutta tornata in disonore di Geltrude. Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al
desiderio di compiacere ai parenti, ai loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione diventava
pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva intese poco prima dal padre, le
ripassarono in processione nella memoria. Le parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel
gineprajo fosse di dare una risposta che piacesse all'interrogante, e al padre, che non lasciasse
oscurità né punti da discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta bisognava mostrare
che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze, ma ci si risolse. Avvezza com'era a
trarsi dalle circostanze difficili con ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a
consumare per dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette all'abitudine, e
alla difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia vocazione: fino dai miei primi anni io mi
sono sentita inclinata a servir Dio nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del mondo». Queste
parole furon porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva posto al
rispondere, parve al Signor... un segno una prova di riflessione posata. E in quel momento furon
contenti ambedue: egli di vedere una così buona disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come
che fosse. Da quel momento Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e
edificò il Signor... oltre ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non avessero usate
minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta dello stato religioso... «No no»;
rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno
lasciata libera, mi hanno lasciata libera». Il Signor... si scusò di averle fatta una simile
interrogazione. «Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno! s'immagini s'io posso
pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio dovere, per quanto strano mi paresse in questa
circostanza». L'esame finì con le giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi
la coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio proponimento, le disse
tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per confermarla in quello; e partì con la persuasione
di non aver mai trovata un'anima così ben disposta. Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica
colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo del buon uomo. Coi
tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa doveva avere a un di presso quell'esito,
qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato, che dal pensiero
dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre. Questi era in uno stato di aspettazione inquieta:
ma Geltrude tutta commossa (le commozioni si scambiano facilmente non solo da chi le osserva,
ma da chi le prova) gli raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese respirò. Le
fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse; tutto questo con una eloquenza di tenerezza
sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di avere ottenuto il suo fine; ma le parole di
Geltrude sembravano di chi ha liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza
per chi fa quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni rimorso, è una
virtù concessa a tutto il genere umano.
Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una interiore, ed era di
persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua scelta, di fermarsi quanto più poteva su le
immaginazioni che potevano renderle gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un
po' nel pensiero delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o mondane, tutto purché
fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare quanto più si poteva tutte le operazioni
preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada
al tornare addietro, per non sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: - potrei forse ancora -.
Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non cercasse ogni via di
soddisfarlo; e in fatti egli sollecitò a tempo e a contrattempo tutte le dispense per far presto.
Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto. Diremo dunque che
Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito; che scorso il tempo del noviziato nel
quale la sua risoluzione parve sempre più spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che
poteva farlo credere, e divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario,
trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa straordinaria, e quale si
conveniva alla casa. Il sacrificio fu consumato, il dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della
terra; la mano che ve lo aveva posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo
non discese sovr'esso.
È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque
circostanza dare all'uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell'animo. Quegli
stesso, che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa può ad ogni
momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la via ch'egli ha intrapresa è iniqua, la religione
glielo fa conoscere, gli dà l'idea chiara ed assoluta del dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di
farlo, che che ne possa conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza
adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e
dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa.
Disapprovando i motivi che l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un
altro nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma irrevocabile,
tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della vocazione. Con quest'ajuto Geltrude a
malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d'ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca
santa, e contenta: e il secolo stesso anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è
conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la forza, e dopo d'essersi
per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace; una
pace quale si trova di rado negli stati eletti più liberamente. Che dico? Geltrude stessa fu uno di
questi esempj, e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi delitti, dopo
sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato. Ma per non precorrere ora agli eventi col
racconto, diremo che Geltrude dopo la sua professione, continuava ad opporre nel suo cuore un
ostacolo ai rimedj e alle consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e
questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e particolarmente nelle cose
che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude era molto potente, e che
questa era la cagione principale per cui ella era stata tanto desiderata nel monastero. In fatti il
monastero aveva acquistato nel marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai
come parte del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma questo vantaggio le
suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo pagavano in tanti sgarbi, in tanti scherni, in
tante fantasticaggini che avevano a sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo
delle arti usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in tempo ella non si poteva
patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano cantato per farla venire nella loro
gabbia. E queste beccatelle le suore le toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto
del loro acquisto. Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle altre
provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi vantaggi, e nell'esercitare in tal
modo la sua superiorità. Una superiorità d'un altro genere era pure per essa una occasione continua
di cercare consolazioni nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per amor
del cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le monete ch'egli aveva
trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato. Anzi non pari, perché quel solitario le
gettò in disparte con disprezzo, dopo d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi
pensò più; ma la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi
affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero che ella si andava
paragonando con le altre, e si trovava più bella, ch'ella rideva di tratto in tratto, e si sarebbe creduto
ch'ella ridesse di voglia, degli occhi sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato della
madre celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il dolce in bocca. Spendeva
una parte del suo tempo nell'adornarsi come poteva, e così ingannava alcun poco la sua noja;
cercava di ridurre l'abbigliamento monastico alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo
volto, e a dir vero questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva dato un volto che per poco
che gli si lavorasse attorno stava bene. Per far questo aveva Geltrude trovato un mezzo molto
ingegnoso. Gli specchj come ognun sa erano proibiti nei chiostri come i lumi nelle polveriere, e
Geltrude nei primi tempi non osava ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le regole; ma la
infelice scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto ch'ella teneva appeso nella sua camera una
lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella
aveva conchiuso che anche in quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella se lo udiva
ripetere dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne rimaneva
tutt'altro che soddisfatto. E quando poi il suo cuore le rinfacciava anche quella poca parte di piacere
così mescolato e corrotto ch'ella aveva gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento. Così la
meschina si precludeva l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era ancora capace, perché
per giungere a quelle la prima condizione è di non curare il resto; come il naufrago, che vuole
afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il
pugno e abbandonare le alghe e gli sterpi nuotanti che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per magra che fosse, era pure
anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma oltre le distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella
godeva per la condiscendenza delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più
elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra delle educande. E per
una distinzione singolare le erano state assegnate due giovani suore converse, le quali erano come ai
suoi servizj, quasi damigelle. Quel posto era per Geltrude una occasione continua di esercitare le
passioni più pericolose ch'ella covava. Fra le educande che le erano state affidate si trovavano
ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così vicina ad esse di età non aveva
ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con
tutta la forza che le dava la sua autorità. Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di
pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore contra quelle giovanette
destinate per la più parte ad una vita libera e splendida che non era più per lei; le risguardava come
nemiche, le spiaceva di vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto
per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la pazza ingiustizia di questa
sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei momenti, poverette quelle educande! Talvolta dopo
d'aver lasciato tornare indietro il suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare
per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò ch'ella aveva pensato, e
allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente, l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e
d'una staccatezza indiscreta e antisociale. Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore al
chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte quelle cose in mezzo delle
quali ella si trovava per forza, e allora non solo ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue
allieve, ma la animava; si mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi,
e gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati.
In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con ogni cosa circostante ella
passò i primi anni del chiostro, non senza qualche ritorno di divozione, e di regolarità temporaria,
dal quale ricadeva ben presto nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era
tanto penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava disposta ad abbracciare
qualunque distrazione, qualunque cangiamento di sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le
grate, le regole, la facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto
vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere impunemente, o con lusinga
d'impunità una simile licenza alle sue azioni. Finalmente la sventura di Geltrude volle che
l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò in quella come era da temersi, e come diremo nel
seguente capitolo.
<B>CAPITOLO V</B>
Il quartiere dove abitavano le educande e con esse Geltrude e le sue damigelle, era annesso al
monastero, ma appartato, e comunicava con esso per mezzo d'un corridojo. Era un cortiletto
quadrato, ricinto a terreno da un porticato continuo, sul quale per tutti e quattro i lati girava un
basso ed unico piano di abitazione. Il lato appoggiato a quella parte del chiostro ove dimoravano le
suore, era un lungo stanzone, che serviva alla scuola ed alla ricreazione delle educande; un altro lato
era occupato pure da un lungo stanzone che serviva di dormitorio: il terzo diviso in varie camere
era l'appartamento della Signora e delle sue damigelle; il quarto finalmente più stretto degli altri era
tenuto dal corridojo che conduceva nell'interno del chiostro, il quale abbracciava il cortiletto da tre
lati. L'altro, e appunto quello occupato dall'appartamento di Geltrude, era contiguo ad una casa
privata e signorile, o per meglio dire ad una parte rustica e non finita di quella casa. Era dessa
elevata al di sopra del quartiere delle educande, ma quello che se ne poteva vedere da quindi pareva
piuttosto una catapecchia, un casolaraccio, che una parte di casa civile: erano tetti e tettucci
diseguali di altezza e di forma soprapposti l'uno all'altro come a caso. Ma in uno di quei tetti v'era
un pertugio, un abbaino, che dava luce ad un solajo, e adito a passare su quei tetti, e dal quale si
poteva guardare nel cortiletto delle educande.
Era severamente prescritto alle monache dagli ordini ecclesiastici, che dovessero togliere ai vicini
ogni vista nel loro chiostro; ma o fosse che, per essere quella parte di casa disabitata, le monache
non avessero mai badato a quel pertugio, o fosse che la spesa per liberarsi da quella servitù
eccedesse la possibilità del monastero, o che non si potesse venirne a capo senza quistioni, il fatto è
che da quel pertugio si guardava nel cortiletto delle educande; e un altro fatto assai tristo si è che il
padrone di quella casa era un giovane scellerato: e questa parola applicata ad un uomo di quei tempi
ha un senso molto più forte di quello che generalmente vi s'intende nei nostri; perché a quei tempi
tante cagioni favorivano la scelleratezza, che in coloro i quali vi si distinguevano, ella giungeva ad
un segno del quale grazie a Dio, non si può avere una idea dalla esperienza comune del vivere
presente. I mezzi d'impunità erano allora varj ed infiniti; la frequenza dei delitti ne aveva diminuito
il ribrezzo e la vergogna: gli animi erano avvezzi ed allevati per dir così nel sangue: da questi fatti
era nato un pervertimento quasi generale nelle idee, e allo stesso tempo la perversità delle idee
rendeva quei fatti più comuni, e più tollerati. La vendetta, per esempio, era comunemente stimata
non solo lecita, ma onorevole, ma comandata in alcuni casi; e benché i ministri della religione non
l'avessero mai fatta piegare nelle istruzioni pubbliche a questa massima perversa, benché non
avessero anzi cessato giammai di inveire contra la vendetta e contra le massime che la
autorizzavano, pure l'opinione quasi generale del mondo sussisteva col favore di una distinzione che
a malgrado della sua assurdità, o forse a cagione della sua assurdità non è ancora del tutto caduta in
disuso: si diceva che i preti facevano il loro dovere, che dicevano benissimo, che la vendetta
secondo la religione era viziosa, ma ch'ella era un dovere secondo le leggi dell'onore: così si diceva
e non dai più perversi, né dai più stolti. Ora queste leggi dell'onore erano in allora molto
draconiane; e domandavano sangue per molti casi; senza che questo onore così delicato si stimasse
poi offeso, se <I>per necessità</I>, il sangue si fosse dovuto versare a tradimento, o per mano di
sicarj. Ne veniva di conseguenza che gli omicidj erano molto frequenti, che uno commesso diveniva
causa di un altro, e così all'infinito, e che l'orrore al sangue si diminuiva con l'abitudine, anche negli
uomini che non erano sanguinari, e che si era formato come un sentimento universale che una certa
misura di animosità, di crudeltà e di delitti fosse una condizione necessaria inevitabile della società;
chi avesse detto che quello era un male temporario, e speciale sarebbe stato deriso come un
ottimista, un utopista, un sognatore metafisico: appena uno si sarebbe degnato di rispondergli: «gli
uomini sono sempre stati e saranno sempre così». Portate le idee comuni a questo punto di licenza
in molti, e di tolleranza e di rassegnazione in quasi tutti gli altri, egli è chiaro che gli uomini i quali
avevano una tendenza distinta alla perversità, per giungere al colmo di essa, pigliavano le mosse da
un punto ben più avanzato, ben più vicino al termine che non sieno le idee comuni dei nostri giorni;
trovavano meno ostacoli e più incitamenti che ai nostri giorni a giungervi, e vi giungevano.
L'omicida ai nostri giorni, quand'anche fosse impunito sarebbe un oggetto di orrore, oggetto forse di
più profondo orrore sarebbe chi senza commettere l'omicidio di propria mano ne avesse dato
l'ordine ed il prezzo; e tali rei, oltre le pene legali, dovrebbero temere di perdere tutte le dolcezze
della comune società. Quindi l'uomo, che in qualunque condizione, aspira a goderle, ha pure da
questo lato un freno potente. Ma allora v'erano molti casi in cui l'avere ucciso, o fatto uccidere non
toglieva alla riputazione d'un uomo: l'omicida volontario era ammesso a giustificarsi e a render
ragione dinanzi alla opinione pubblica: non si trattava che di provare che il caso richiedeva
l'omicidio, che il delitto era una azione tollerata, o prescritta dalle leggi della opinione stessa. La
speranza di poter fare questa giustificazione, dinanzi ad una opinione già tanto perversamente
indulgente, e di farla accettare col terrore doveva essere, ed era uno stimolo ai tristi potenti per
correre allegramente la loro via. Bastava quindi un leggero interesse, una picciola passione a
spingere anche i meno tristi fra i tristi ad attentati, ai quali ora si risolverebbero a fatica gli uomini i
più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto maggiore, da una passione
molto più violenta. Sarebbe un soggetto degno di curiosità, la ricerca delle cagioni per cui quelle
idee e quei costumi, dopo aver regnato per troppe età in quasi tutte le nazioni d'Europa, sieno poi
stati da migliaia di scrittori, e da milioni di parlanti attribuite poi esclusivamente agli Italiani. Ma
noi invece di avviarci in una nuova digressione, ne abbiamo ora una, e anzi lunghetta che no, da
farci perdonare: torniamo quindi alla storia.
Il padrone della casa contigua al quartiere delle educande, era dunque un giovane scellerato: e si
chiamava il signor Egidio: perché di cognomi, come abbiam detto, l'autor nostro è molto
sparagnatore. Suo padre, uomo dovizioso bastantemente non aveva avuta altra mira nell'educarlo,
che di renderlo somigliante a se stesso: ora egli era un solenne accattabrighe: Egidio non aveva
quindi sentito dall'infanzia a parlar d'altro che di soddisfazioni e di fare stare, non aveva veduto
quasi altro che schioppi e pugnali; e dalle braccia della nutrice era passato in quelle degli scherani.
La madre, ch'era di un carattere mansueto e pio, avrebbe potuto forse temperare in parte questa
educazione ma ella era morta lasciando Egidio nella infanzia, dopo una lenta malattia cagionata dai
continui spaventi. Il padre fu ucciso dopo una brevissima quistione da un suo emolo membro di una
famiglia emola della sua da generazioni; ed Egidio restò solo e padrone nella giovinezza. La prima
sua impresa fu di risarcire l'onore della famiglia, con una schioppettata nelle spalle dell'uccisore di
suo padre. Questa impresa però lo pose da quel momento in un continuo pericolo; e per assicurarsi,
egli dovette crescere il numero de' suoi bravi, e non camminar mai che in mezzo ad un drappello.
Suo padre aveva non solo nel paese, ma altrove amici assai, e conformi a lui di massime e di
condotta: Egidio gli ereditò tutti, e gli coltivò, tanto più che aveva bisogno della loro assistenza. Ma
i garbugli e il macello non piacevano a lui, come al padre, per se medesimi: l'educazione lo aveva
addestrato a non temerli, e a corrervi anzi ogni volta che un qualche fine ve lo spingesse: ma non
erano un fine, un divertimento, un bisogno per lui. La sua passione predominante era l'amoreggiare;
a questa si abbandonava con quelle precauzioni però che esigeva lo stato di guerra in cui egli si
trovava, e per questa egli veniva ai garbugli ed al macello, quando non si poteva fare altrimenti.
L'abbaino che guardava nel cortiletto del chiostro non era frequentato da nessuno tanto che visse il
padre, il quale non si curava di spiare i fatti delle educande. Soltanto egli vi aveva condotto una
volta Egidio adolescente, per fargli osservare che quello era un dominio sul chiostro; e quivi
stendendo la mano sui tetti sotto posti, come Amilcare sull'ara, aveva fatto promettere a quel
picciolo Annibale che mai in nessun tempo egli non avrebbe sofferto che le monache si togliessero
quella servitù. Egidio divenuto padrone, si risovvenne dell'abbaino, e gli parve un dominio assai più
importante che suo padre non lo aveva creduto.
Un consorzio di donzellette, le quali non eran tutte bambine, parve a colui uno spettacolo da non
trasandarsi quando lo aveva così a portata; e la santità del luogo, il riserbo con cui eran tenute,
l'innocenza loro, tutto ciò che avrebbe dovuto essere freno, fu incentivo alla sua sfacciata curiosità,
la quale non aveva disegni già determinati, ma era pronta a cogliere e a far nascere tutte le
occasioni. Si affacciava egli dunque all'abbaino con quella frequenza e con quella libertà, che non
bastasse a farlo scoprire da chi non avrebbe voluto. Nelle ore in cui Geltrude non faceva guardia
alle educande, e queste ore tornavano sovente, gettò egli gli occhi sopra una delle più adulte, e
trovato il terreno dolce, si diede a chiaccherellare con essa: ma pochi giorni trascorsero, che quella,
fidanzata dai suoi parenti ad un tale, fu tolta dal monastero, e così la tresca finì, senza che nessuno
l'avesse avvertita. Egidio animato da quel primo successo, ed allettato più che atterrito dalla empietà
del secondo pensiero, ardì di rivolgere e di fermare gli occhi e i disegni sopra la Signora; e si diede
ad agguatarla. Un giorno mentre le educande erano tutte congregate nella stanza del lavoro con le
due suore addette ai servigi della Signora, passeggiava essa sola innanzi e indietro nel cortiletto
lontana le mille miglia da ogni sospetto d'insidie, come il pettirosso sbadato saltella di ramo in ramo
senza pure immaginarsi che in quella macchia vi sia dei panioni, e nascosto dietro a quella il
cacciatore che gli ha disposti. Tutt'ad un tratto sentì ella venire dai tetti come un romore di voce non
articolata la quale voleva farsi e non farsi intendere, e macchinalmente levò la faccia verso quella
parte; e mentre andava errando con l'occhio per quegli alti e bassi, quasi cercando il punto preciso
donde il romore era partito, un secondo romore simile al primo, e che manifestamente le apparve
una chiamata misteriosa e cauta, le colpì l'orecchio, e la fece avvertire il punto ch'ella cercava.
Guardò ella allora più fissamente per conoscere che fosse; e i cenni che vide non le lasciarono
dubbio sulla intenzione di quella chiamata. Bisogna qui render giustizia a quella infelice: qual che
fosse fin'allora stata la licenza dei suoi pensieri, il sentimento ch'ella provò in quel punto fu un
terrore schietto e forte: chinò tosto lo sguardo, fece un cipiglio severo e sprezzante, e corse come a
rifuggirsi sotto quel lato del porticato che toccava la casa del vicino, e dove per conseguenza ella
era riparata dall'occhio temerario di quello: quivi tirando lunghesso il muro, rannicchiata e ristretta
come se fosse inseguita, si avviò all'angolo dov'era una scaletta che conduceva alle sue stanze, vi
salse, e vi si chiuse, quasi per porsi in sicuro. Posta a sedere tutta ansante, fu assalita da una folla di
pensieri: cominciò prima di tutto a ripensare se mai ella avesse dato ansa in alcun modo alla
arditezza di colui, e trovatasi innocente, si rallegrò: quindi detestando ancora sinceramente ciò che
aveva veduto, se lo andava raffigurando e rimettendo nella immaginazione per venire più
chiaramente a comprendere come, perché ciò fosse avvenuto. Forse era equivoco? forse l'aveva egli
presa in iscambio? Forse aveva voluto accennare qualche cosa d'indifferente? Ma più ella
esaminava, più le pareva di non avere errato alla prima, e questo esame aumentando la sua certezza,
la andava famigliarizzando con quella immagine, e diminuiva quel primo orrore e quella prima
sorpresa. Cosa strana e trista! il sentimento stesso della sua innocenza le dava un certa sicurtà a
tornare su quelle immagini: ella compiaceva liberamente ad una curiosità di cui non conosceva
ancora tutta l'estensione, e guardava senza rimorso e senza precauzione una colpa che non era la
sua. Finalmente dopo lunga pezza ella si levò come stanca di tanti pensieri che finivano in uno, e
desiderò di trovarsi con le sue educande, con le suore, di non esser sola. Esitò alquanto su la strada
che doveva fare: ripassando pel cortiletto, ella avrebbe potuto lanciare un guardo alla sfuggita dietro
le spalle su quei tetti per vedere se colui era tanto ardito da trattenervisi, e così saper meglio come
regolarsi..., ma s'accorse tosto ella stessa che questo era un sofisma della curiosità, o di qualche
cosa di peggio, e senza più esitare, s'avviò pel dormitorio alla stanza dove erano le educande: qui, o
fosse caso o un resto di quella esitazione ella si affacciò ad una finestra che aveva dirimpetto
appunto quei tetti, vi guardò, vide il temerario che non si era mosso, partì tosto dalla finestra, la
chiuse, e uscì da quella stanza dicendo in fretta alle educande con voce commossa: «lavorate da
brave»; e se ne andò difilato a passeggiare nel giardino del chiostro. L'atto repentino, e la
commozione della voce non diedero nulla da pensare né alle educande né alle suore, avvezze le une
e le altre agli sbalzi frequenti dell'umore della Signora. Ma ella stava peggio nel giardino che già
non fosse nelle sue stanze. Le venne un pensiero, che avrebbe dovuto avvertire dell'accaduto chi
poteva opporsi a tanta temerità. - Ma; e se mi fossi ingannata? - Questo dubbio non le veniva che
allor quando la manifestazione di ciò che aveva veduto le si presentava alla mente come un dovere.
- Prima di parlare - diceva fra sè - voglio esser certa; troverò il modo di farlo con prudenza. E
finalmente - concluse fra sè in un accesso di passioni diverse - finalmente che colpa ci ho io? questo
monastero non l'ho piantato io qui vicino a questa casa. Così non foss'egli stato piantato in nessun
angolo della terra! Dovevano pensarvi quelle che sono venute a chiudervisi di loro voglia. Vada
come sa andare. Io non voglio pensarci.
Queste parole volevano dire, forse senza che Geltrude stessa lo scorgesse ben chiaro, che d'allora in
poi ella non avrebbe pensato ad altro. Il nostro manoscritto, segue qui con lunghi particolari il
progresso dei falli di Geltrude; noi saltiamo tutti questi particolari, e diremo soltanto ciò che è
necessario a fare intendere in che abisso ella fosse caduta, e a motivare gli orribili eccessi d'un altro
genere, ai quali la strascinò la sua caduta. L'assedio dello scellerato Egidio non si rallentò, e
Geltrude cominciò a mettersi sovente nella occasione di mostrargli ch'ella disapprovava le sue
istanze, quindi passando gradatamente dalle dimostrazioni della disapprovazione a quelle della non
curanza, da questa alla tolleranza, finalmente dopo un doloroso combattimento si diede per vinta in
cuor suo, e con quei mezzi che lo scellerato aveva saputi trovare e additarle lo fece certo della sua
infame vittoria. Cessato il combattimento, la sventurata provò per un istante una falsa gioja. Alla
noja, alla svogliatezza, al rancore continuo, succedeva tutt'ad un tratto nel suo animo una
occupazione forte, gradita, continua, una vita potente si trasfondeva nel vuoto dei suoi affetti;
Geltrude ne fu come inebbriata; ma era la coppa ristorante che la crudeltà ingegnosa degli antichi
porgeva al condannato per invigorirlo a sostenere il martirio. L'avvenire gli apparì come pieno e
delizioso. Alcuni momenti della giornata spesi a quel modo, e il resto impiegato a pensare a quelli,
ad aspettarli, a prepararli gli sembrò una esistenza beata, che, non lascerebbe né cure, né desiderj;
ma le consolazioni della mala coscienza, dice il manoscritto, profittano altrui come al figliuolo di
famiglia le somme ch'egli tocca dall'usurajo. L'accecamento di Geltrude e le insidie di Egidio
s'avanzavano di pari passo, e giunsero al punto che il muro divisorio non lo fu più che di nome.
Già prima di arrivare a questo estremo, nel carattere di Geltrude era accaduto un gran cangiamento,
tutte le inclinazioni viziose che vi erano come addormentate si risvegliarono più forti e più adulte, e
a tutte queste si aggiunse l'ipocrisia. Cominciò ella nei primi momenti a divenire più attenta
nell'esteriore, più regolare, più tranquilla; cessò dagli scherni, e dal rammarichio; di modo che le
suore si congratulavano a vicenda della mutazione felice. Ma quando all'effetto naturale del fallo si
aggiunse la scuola viva e diretta dello scellerato giovane, ognuno può immaginarsi quali
diventassero le idee di Geltrude. Tutto ciò che era dovere, pietà, morigeratezza era già da gran
tempo associato nella sua mente alla violenza ed alla perfidia, ed aveva un lato odioso e sospetto: i
ragionamenti che tendevano a mostrare che tutto ciò era una invenzione dell'astuzia, un'arte per
godere a spese altrui, accolti dal cuore e presentati all'intelletto, furono ricevuti in esso come amici
savj e sinceri. Vi ha nelle teorie del vizio qualche cosa di più pensato, di più profondo, di più
verosimile che non appaja nelle massime del dovere espresse in un modo volgare e talvolta inesatto:
di modo che il pervertimento può parere facilmente un progresso di ragione. Ben è vero che al di là
di quelle teorie ve n'ha una più profonda e vera che mostra la loro fallacia; ma questa non è dato
trovarla se non ad una meditazione potente, o ad un sentimento retto; ma Geltrude non aveva né
l'uno né l'altro di questi ajuti. Ella fu dunque una docile e cieca discepola, e conobbe e ricevè tutte
quelle idee generali di perversità a cui l'ignoranza e la irriflessione di quei tempi permetteva di
arrivare.
Ma non andò molto che il maestro ebbe a domandarle, o ad imporle nuovi passi nella carriera
ch'ella aveva intrapresa. Geltrude aveva a poco a poco trasandate quelle cure di apparente regolarità
che si era prescritte; la licenza a cui si era abbandonata le rendeva più insopportabile ogni contegno;
e così si rilasciò tanto che negli atti e nei discorsi divenne più libera e più irregolare di prima.
Insieme a quelle cure cominciò senza avvedersene a trascurare anche le precauzioni che aveva da
prima messe in opera per nascondere quello che tanto le importava di nascondere; e le trascurò
tanto che ella s'accorse chiaramente un giorno che le due damigelle, che le stavano più vicine
avevano qualche sospetto. Tutta atterrita ella comunicò la sua scoperta a colui che era il suo solo
consigliere. Questi ne fu pure atterrito, ma a mille miglia meno di Geltrude, e per la diversità delle
circostanze, e perché tanto era minore il suo pericolo che non quello della donna, e per la diversità
dell'animo: perché quello di Egidio era duro e grossolano; e in Geltrude il timore della vergogna era
una passione furiosa come si è veduto dalla sua condotta anteriore. Pensò egli quindi più
freddamente al modo di scansare il pericolo, e ne trovò uno che era per lui una nuova occasione di
soddisfare alle sue passioni. Per riuscirvi, egli coltivò il terrore di quella poveretta, le fece tanta
paura del male, che nessun rimedio le paresse troppo doloroso: e finalmente propose l'infame
rimedio che fu di render partecipi del segreto e di associare alla colpa le due che la sospettavano. Lo
scellerato pose in opera tutta la sua astuzia, si valse di tutto il predominio che aveva sull'animo di
Geltrude, adoperò tutte le dottrine che le aveva insegnate e ch'ella aveva ricevute. L'albero della
scienza aveva maturato un frutto amaro e schifoso, ma Geltrude aveva la passione nell'animo e il
serpente al fianco; e lo colse. Con la direzione del serpente, ella trasfuse prudentemente a gradi a
gradi nelle menti delle due suore il pervertimento che era necessario per renderle sue complici, e
consumò il proprio avvilimento nella loro colpa. Venuta in questo fondo, la sventurata perdette con
ogni dignità ogni ritegno, e agguerrita contra ogni pudore si trovò disposta ad agguerrirsi ad ogni
attentato; e l'occasione non tardò a presentarsi.
Una delle due suore addette alla Signora quando cominciò ad avere qualche sospetto, lo confidò ad
un'altra suora sua amica, facendosi promettere il segreto: promessa che le fu tenuta perché la
Signora era troppo potente, e il segreto troppo pericoloso; e la voglia di ciarlare fu vinta dalla paura.
Non era che un sospetto, e gli indizj eran deboli e potevano anche essere interpretati altrimenti; ma
la curiosità della suora fu risvegliata, e non lasciava mai di tempestare quella che le aveva fatta la
confidenza, per vederne, come si dice, l'acqua chiara. Quando però la suora che aveva ciarlato
divenne complice, si studiò non solo di eludere le inchieste della curiosa, ma di disdirsi, e di farle
credere che il sospetto era ingiurioso e stolto, e ch'ella stessa si era pienamente disingannata. Ciò
non ostante la curiosa ritenne sempre quel sospetto, e non lasciava sfuggire occasione di gettar gli
occhi nel quartiere delle educande, e di origliare, per venire a qualche certezza.
Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la trattò con tali termini
di villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella
sapeva qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva. La Signora non ebbe più
pace.
Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di
imporre silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito
dalle altre con difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza delle
altre, protestò più volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta
scelleratezza, ma finalmente vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo
terrore, venne ad una transazione con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men
rea: pattuì ella dunque che non si sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu
scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi
sospetti, in modo da crescerle la curiosità. E la curiosità era stimolata in essa dal desiderio di
vendicarsi della Signora; ma per farlo con sicurezza, aveva essa stessa bisogno di esser sicura. La
traditrice, mostrando che non le convenisse di stare più a lungo assente dalla Signora per darle
sospetto, lasciò la suora nel forte della curiosità, e nella speranza di scoprire qualche cosa; e come
questa insisteva per trattenerla, le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta
nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa. La meschina
cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro
chetamente, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per
partirsi, promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura,
raccomandandole di non muoversi finch'ella non la chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto
all'altra suora e allo scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile
coraggio che le abbisognava, entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna. Nella
cella non v'era lume, ma quello che ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una
dubbia luce. La scellerata parlando con la compagna, perché la nascosta non si muovesse, e
parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di rimandare la sua compagna come importuna,
andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le
si avventò, e prima che quella potesse né difendersi né gettare un grido né quasi avvedersi, con un
colpo la lasciò senza vita.
<B>CAPITOLO VI</B>
Accorse al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le colpevoli che
fuggivano spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal loro grado si fossero trovate
presenti ad un misfatto. Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta. «Vedete»,
rispose tremando l'omicida. «Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare il resto»; e
dava tranquillamente gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del
delitto. Avvezze, come elle erano, ad ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su
gli animi loro, a colui che faceva loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate, e
come illuse dall'aria naturale con la quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di una
faccenda ordinaria; raccomandando ora la prestezza, ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro
comandato. «E la Signora, perché non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi,
e più». «Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche un pretesto per
allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era
insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore
del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e fuggì ella
pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del
misfatto, e il terrore che non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto ciò
ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci». «No no, per amor
del cielo», rispose Geltrude. «Che c'entra il cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò
Geltrude. «Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai
ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...»
Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida
non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: -
non è nulla -. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto
essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una dappoca». «Non importa», rispose Egidio;
«non farebbe altro che impacciare; ecco tutto è finito senza di lei». «Resta ancora...» volle
cominciare l'omicida, ma non potè continuare. «Ebbene» disse Egidio, «questa è mia cura; datemi
tosto mano, e poi lasciate fare a me». Le donne obbedirono: Egidio carico del terribile peso ascese
per una scaletta al solajo: e l'omicidio uscì per la porta che era stata aperta al sacrilegio. Quando lo
scellerato fu nelle sue case, cioè in quella parte disabitata che toccava il monastero, discese per
bugigattoli e per andirivieni dei quali egli era pratico, ad una cantina abbandonata, o che non aveva
forse mai servito; quivi in una buca scavata da lui, il giorno antecedente, depose il testimonio del
delitto; lo ricoperse, e pigliati da un mucchio che ivi era, cocci, mattoni e rottami, ve li gettò sopra
per ricoprirlo, proponendosi di trasportare poco a poco su quel sito tutto il mucchio, un monte se
avesse potuto. Le due donne rimaste sole, esaminarono in silenzio, se tutto era nello stato di prima;
e poi... che avevano a dirsi? L'omicida, ruppe il silenzio, dicendo: «andiamo a cercare la Signora»;
l'altra le tenne dietro senza rispondere.
Bussarono sommessamente alla porta di Geltrude, la quale vi stava in agguato, e disse
macchinalmente: «chi è«Chi potrebb'essere?» rispose l'omicida: «siam noi, apri e vieni, e vedrai
che le cose sono tutte come jeri». Geltrude aprì, e venne con loro nella più orrenda stanza di
quell'orrendo quartiere: volse in giro entrando un'occhiata sospettosa, e disse: «che faremo qui?»
«Quel che faremmo altrove», rispose l'omicida. «Perché non andiamo nella mia stanza?» replicò
Geltrude. «È vero», disse quella che non aveva mai parlato; «è vero; andiamo nella stanza della
Signora». Ognuna delle tre sciagurate sentiva nella sua agitazione come il bisogno di far qualche
cosa, di appigliarsi ad un partito che avesse qualche cosa di opportuno; e nessuna sapeva pensare
quello che fosse da farsi: quando una faceva una proposta, le altre vi si arrendevano, come ad una
risoluzione. Geltrude si avviò, le altre le tennero dietro, e tutte e tre sedettero nella stanza di
Geltrude.
«Accendete un altro lume», disse questa.
«No, no», rispose questa volta l'omicida: «ve n'è anche troppo: abbiamo ristoppate le finestre, è
vero, ma se qualche educanda vegliasse...»
«Santissima...!» proruppe con un moto involontario di spavento, Geltrude, e non terminò
l'esclamazione, spaventata in un altro modo del nome puro e soave che stava per uscirle dalle
labbra.
«E perché dunque», continuò rimessa alquanto, «perché avete lasciato il lume nell'altra stanza?»
«Perché...» rispose l'omicida: «non si ha testa da far tutto».
«Andate a prenderlo».
«Andate, andate... andiamo insieme».
Le due serventi partirono, Geltrude le seguì fino alla porta aspettando che tornassero col lume. Lo
deposero sur una tavola, lo spensero, e sedettero di nuovo intorno a quello che ardeva da prima.
Stavano così tacite, guardandosi furtivamente di tratto in tratto; quando gli sguardi s'incontravano
ognuna abbassava gli occhi come se temesse un giudice, e avesse ribrezzo d'un colpevole. Ma
l'omicida più agitata, e agitata in modo diverso dalle altre, cercava ad ogni momento di cominciare
un discorso, voleva parlare del fatto e del da farsi come di cosa comune, parlava sempre in plurale,
come per tenere afferrate le compagne nella colpa, per essere nulla più che una loro pari.
Concertarono finalmente la condotta da tenersi quel primo giorno, perché nei concerti presi
antecedentemente non avevano preveduti che i pericoli materiali: non avevano pensato che al modo
di commettere il delitto segretamente, e di cancellarne ogni traccia esterna; ma il delitto aveva loro
appresa un'altra cosa; che il sangue si sarebbe rivelato nei loro atti, nel loro contegno, nel loro volto.
Stabilirono dunque che Geltrude si direbbe indisposta, che avrebbe un forte dolor di capo, che
starebbe chiusa all'oscuro nella sua stanza, e le altre si rimarrebbero ad assisterla. Ma in questo
concerto stesso, quante difficoltà, quanti dibattimenti! Il punto più terribile era di decidere a quale
delle due serventi sarebbe toccato di avvertire le suore della indisposizione di Geltrude, per evitare
che, non vedendola comparire, o la badessa, o qualche suora non venisse nel quartiere a chiederne
novella. Ognuna voleva rigettare su l'altra questo incarico. L'omicida aveva una buona ragione per
esimersi; ma questa ragione, poteva ella parlarne? Dire: - io sarò più confusa, più tremante,
perché... - Cercava ella dunque pretesti come l'altra, ma li sosteneva con più furore. Geltrude
indovinò, anzi sentì quella ragione, e persuase l'altra ad assumersi l'incarico, dicendole che sarebbe
stato facile e spedito annunziare la sua indisposizione dalla finestra ad una delle suore che
governavano le educande, pregando nello stesso tempo che non si facesse romore per non
disturbarla.
Egidio intanto eseguiva gli altri concerti che erano stati presi, o per dir meglio ch'egli aveva
proposti; giacché il disegno era tutto suo. Occultata la vittima, egli uscì di notte fitta, accompagnato
da alcuni suoi scherani, come soleva non di rado per qualche spedizione. Gli dispose in un luogo
distante da quello a cui aveva disegnato di portarsi, e gli lasciò come a guardia, lasciando loro
credere che andasse ad una delle sue solite avventure. Quindi per lunghi circuiti si condusse ad un
campo disabitato col quale confinava l'orto del monastero, e ne era diviso dal muro. Ivi, dopo d'aver
ben guardato intorno se nessuno vi fosse, si trasse di sotto il mantello gli stromenti da smurare che
aveva portati nascosti con le armi; e pian piano in una parte del muro già intaccata dal tempo, e
ch'egli aveva fissata di giorno, aperse un pertugio, tanto che una persona potesse passarvi. Riprese i
suoi ferri, si ravvolse nel mantello, e camminando non senza terrore minacciato com'era da più d'un
nemico, raggiunse i suoi scherani; si mostrò ad essi lieto, s'avviò con essi, gittò per via qualche
motto misterioso di altre avventure, e tornò alla sua casa. Il mattino vegnente una suora mancò; si
corse alla sua cella; non v'era; le monache si sparpagliarono a ricercarla; ed una che andava per
frugare nell'orto, vide da lontano... - Possibile? un pertugio nel muro. - Chiamò le compagne a tutta
voce: si corse al pertugio; «è fuggita; è fuggita». La badessa venne al romore: lo spavento fu
grande; la cosa non poteva nascondersi; la badessa ordinò tosto che il pertugio fosse guardato
dall'ortolano, che si mandasse per muratori, onde chiuderlo, e che si spedisse gente per raggiungere
la sfuggita. Il lettore sa che pur troppo ogni ricerca doveva riuscire inutile. L'occupazione che
questo affare diede a tutte le monache fece che le tre che erano la trista cagione di tutto, fossero
lasciate in pace, o per meglio dire, sole.
È facile supporre che da quel giorno in poi il carattere di Geltrude (giacché di essa sola esige la
nostra storia che ci occupiamo) fu sempre più stravolto. Combattuta continuamente tra il rimorso e
la perversità, tra il terrore d'essere scoverta, e un certo bisogno di lasciare uno sfogo alle sue tante
passioni, e tutte tumultuose, dominata più che mai da colui che ella risguardava come l'origine dei
suoi più gravi, più veri e più terribili mali, e nello stesso tempo come il suo solo soccorso, l'infelice
era nel suo interno ben più conturbata, e confusa che non apparisse nel suo discorso, per quanto
poco ordinato egli fosse. Una immagine la assediava perpetuamente, e non è mestieri dire quale.
Tentava ella di rappresentarsi alla fantasia la sventurata suora, quale l'aveva veduta infocata di
collera e con la minaccia sul labbro quell'ultimo giorno. Ma l'immagine s'impallidiva sempre nella
sua mente, invano ella cercava di raffigurarla con la testa alta, con l'occhio acceso, con una mano
sul fianco; la vedeva indebolirsi, non poter reggere, abbandonarsi, cadere, se la sentiva pesare
addosso. Per togliere ogni sospetto, e nello stesso tempo per dare un altro corso alle sue idee,
procurava ella di toccar materie liete o indifferenti di discorso; ma ora il rimorso, ora la collera
contra tutti quelli che le erano stata occasione di cadere in tanto profondo, ora una, ora un'altra
memoria si gettavano a traverso alle sue idee, le scompaginavano, e lasciavano nelle sue parole un
indizio del disordine che regnava nella sua mente. E quella regola nei discorsi, quel contegno nei
modi ch'ella non poteva avere naturalmente, e per ispirazione dalla pace dell'animo, non aveva i
mezzi per trovarlo nella esperienza e per comandarselo. La sua esperienza non era altro che del
chiostro, di quel poco che aveva veduto nel tempo burrascoso passato nella casa paterna, e di ciò
che aveva imparato dall'infame suo maestro; le sue idee erano un guazzabuglio composto di questi
elementi, ed ella non aveva potuto attingere d'altronde cognizioni per fare almeno una scelta in
questi elementi. Le sue parole e il suo contegno sarebbero state uno scandalo insopportabile in un
secolo meno bestiale di quello; ma allora la stranezza universale non lasciava spiccare la sua al
punto da farne un oggetto di maraviglia singolare.
Due anni erano già trascorsi da quel giorno funesto al tempo in cui la nostra Lucia le fu
raccomandata dal padre cappuccino, il quale, come pure ogni altro del monastero, e di fuori,
conosceva bene la Signora per un cervellino, ma era lontano dal sospettare quale in tutto ella fosse.
Siamo stati più volte in dubbio se non convenisse stralciare dalla nostra storia queste turpi ed atroci
avventure; ma esaminando l'impressione che ce n'era rimasta, leggendola dal manoscritto, abbiamo
trovato che era una impressione d'orrore; e ci è sembrato che la cognizione del male quando ne
produce l'orrore sia non solo innocua ma utile.
Abbiamo lasciata, se il lettore se ne ricorda, Lucia sola nel parlatorio con la Signora. Il dialogo fra
quelle due così dissimili creature continuò a questo modo:
«Ora», disse la Signora, «parlate con libertà. Qui non c'è né madre né padre; e ditemi il vero, perché
le bugie che mi potreste dire, le ravviserei tosto come una antica conoscenza: non temete di nulla:
qualunque sia il vostro caso, io vi proteggerò, purché siate sincera con me». Lucia pose la picciola
destra sul cuore, e con quell'accento che toglie ogni dubbio, rispose: «Signora, la verità è quello che
ha detto mia madre, e che ha scritto il padre Cristoforo: io non ho mai giurato finora, ma se Ella,
reverenda signora vuole ch'io giuri in questa occasione, io son pronta a farlo».
«Non dite più, che vi credo», rispose la Signora. «Ma contatemi dunque tutta questa storia». E qui
cominciò ad affogare Lucia d'inchieste, volendo sapere tutti i particolari della persecuzione di Don
Rodrigo, e delle relazioni di Lucia con Fermo.
Questa curiosità era come ognuno può figurarselo assai molesta alla povera Lucia. All'istinto del
pudore ed alla ripugnanza naturale di parlare di se stessa su questa materia, si aggiungeva il timore
anche di dire qualche cosa di sconvenevole in presenza della reverenda madre. Lucia che aveva
parlato con un uomo, e che gli aveva dato promessa di sposarlo, che aveva tentato un matrimonio
clandestino si riguardava come una donna esperta e più forse che non conveniva, nelle cose del
mondo, come una scaltritaccia al paragone di una monaca, velata, rinchiusa, separata dal consorzio
degli uomini, e pigliava le inchieste della Signora a un di presso come si fa a quelle talvolta
indiscretissime dei ragazzi, dalle quali uno si sbriga alla meglio, cercando di non rispondere
direttamente e di mandare in pace l'interrogante.
E quanto le domande erano più avanzate, Lucia le attribuiva ancor più ad una pura e santa
ignoranza. Rispose dunque sopra Fermo, che quel giovane l'aveva chiesta a sua madre e che
essendo a lei dalla madre proposto il partito, ella lo aveva accettato volentieri, e che tanto bastava
per conchiudere un matrimonio. Ma per ciò che risguardava Don Rodrigo, per quanto Lucia
ponesse cura a schermirsi, le fu pur forza entrare in qualche particolare, per ispiegare alla Signora
la persecuzione ch'ella aveva sofferta, e contra la quale cercava un ricovero.
«Egli pativa dunque davvero per voi», domandò la Signora.
«Io non so di patire», rispose Lucia, «so bene che avrebbe fatto meglio per l'anima e per il corpo a
lasciarmi attendere ai fatti miei, senza curarsi d'una tapinella che non si curava niente di lui».
«Poveretto!» sclamò la Signora, con una certa aria di compassione, nella quale pareva tralucesse
quasi un rimprovero a Lucia.
«Poveretto?» riprese questa, «Poveretto? Oh Madonna del Carmine! Ella lo compatisce,
illustrissima!»
«Sì, poveretto», rispose la Signora. «Convien dire che voi non abbiate mai avuto chi vi volesse
male, giacché sentite tanto orrore per chi vi ha voluto bene. Birbone, cattivo, tiranno! Che parolone,
figliuola, per una quietina, come parete! E la carità del prossimo?... Se gli aveste provati i tiranni
davvero...! Vorrei un po' che mi ripeteste le ingiurie che vi diceva, per vedere quanta ragione avete
di chiamarlo con questi nomi».
«Le ingiurie dei signori», rispose Lucia con quella sicurezza che non manca mai a chi comincia un
discorso con una persuasione viva ed intima, «le ingiurie dei signori, sono tremende pei poverelli;
ma se gli era pur destino che quel signore dovesse aver qualche cosa a dirmi, sa il cielo, che io sarei
ben contenta che m'avesse detto ogni sorta d'ingiurie piuttosto che quello che mi è toccato sentire da
lui. Io non avrei risposto, le avrei sofferte, è il destino di noi poverelli; e quando egli si fosse stato
stanco, l'avrebbe finita; ed ora io non sarei qui lontana dalla mia patria, come una sbandata, a
domandare un ricovero per amor di Dio; sarei... pensi, Signora, s'io posso dir bene di lui. Non ch'io
gli desideri del male, no grazie a Dio, ma quanto al bene ch'egli mi poteva volere... Santissima
Vergine, che razza di bene! Io non vorrei dir cose da non dirsi in sua presenza, signora madre, e, so
ben io quel che dico; ella sa molto di cose alte, di quelle che si trovano sui libri, ma le cose del
mondo non è obbligata a conoscerle, e certe cose che potrei contare sarà meglio tacerle».
«Vi ho detto di parlare con sincerità: dite pur tutto»; rispose la Signora ridendo, e senza
quell'imbarazzo che le aveva cagionata una proposizione somigliante nella bocca del padre
guardiano.
«Spero dunque di poter parlare con prudenza», riprese Lucia, «ma di poterle far toccare con mano
che cosa poteva essere il bene di quel Signore. Sappia che io non sono stata la prima, a cui per mala
sorte egli abbia badato. Eh!... le cose si sanno purtroppo: e d'una poveretta in particolare, io non ho
potuto a meno di non saperlo, perché eravamo amiche, e me ne piange il cuore tuttavia. Questa
poveretta - non la nomino - diede retta al bene di quel signore; e sa ella che ne avvenne? Cominciò
a disubbidire ai suoi parenti; quando fu ammonita si rivoltò; la casa le venne in odio, non ebbe più
amiche, disprezzava tutti, e diceva - puh villani! - come avrebbe potuto fare una gran dama. Quando
i parenti s'avvidero di qualche cosa, sulle prime negò, e poi, rispose in modo da fargli tacere per
paura. Comparve con un vestito troppo bello per una ricca sposa, e credeva la poveretta che tutti
avrebbero fatte le maraviglie, e l'avrebbero inchinata, e tutti la sfuggivano: i ragazzi le facevano
dietro mille visacci. Un fior di giovane, mi compatisca se parlo male, che voleva ricercarla in
matrimonio, non la guardò più; nessuno le parlava, nessuno voglio dire della gente come si deve,
perché i cattivi se le avvicinavano per la via con una famigliarità come se le fossero sempre stati
amici, e fino, a parlare con poca riverenza, i birri, la salutavano ridendo, e le gittavano parole da
non dire. Poveretta! di tratto in tratto pareva più lieta che non fosse mai stata, ma le lagrime che
spargeva in segreto! e quante volte la vedevamo da lontano piangente, e si nascondeva da noi: e io
mi ricordava di quando ell'era allegra come un pesce, di quando ridevamo insieme alla filanda.
Basta: la disgraziata non potè più vivere nel suo paese, e un bel mattino, fece un fagottello, e finì a
girare il mondo».
«Girare!» interruppe la Signora, «non è poi la peggior disgrazia».
«E tutto questo», continuò Lucia, «senza parlare dal tetto in su; perché all'altro mondo, Dio sa come
andranno le cose. Ma povera la mia Bettina! oh poveretta me, ho detto il nome... spero che Dio le
farà misericordia; perché poi finalmente è stata tradita. Ma per me dico davvero, che se per andare
in paradiso bisognasse fare la vita di quella povera figlia, la mi parrebbe ancora molto dura».
«Ma quel signore», riprese la monaca, «era egli di stucco? non la sapeva far rispettare? lasciava la
briglia sul collo a quei tangheri?»
«Fortunata lei», rispose Lucia, «che non sa come vanno queste cose. Il signore dopo qualche tempo
non si curò più di quella meschina; e si venne a sapere che un giorno ch'ella si lagnava con lui
d'essere disprezzata, egli le rispose: - si provino un po' a farvi qualche sgarbo in mia presenza, e
vedranno -. Tutto quello che la poverina doveva patire fuori della sua presenza, non era niente. Ma
tutto questo non bastava a disingannarla: soffriva, ma non sapeva staccarsi da colui. Finalmente
bisognò che fossi tormentata io per farle conoscere il suo stato. Quando costui, sfacciato!...
cominciò a pormi gli occhi addosso, allora...»
«È un vile birbante», interruppe la signora, «avete ragione: avete fatto bene a voltargli le spalle, e io
vi proteggerò».
«Dio gliene renda il merito. Le diceva ben io che se avesse saputo...»
«Sì sì, è un birbante: son tutti così costoro. Date loro retta sul principio: voi, voi sola siete la loro
vita: che cosa sono le altre? nulla; voi siete la sola donna di questo mondo, e poi;... Fortunata voi
che potete sbrigarvene. Vi avrebbe voluta vedere amica di Bettina... amica! e sprezzarvi tutte e due;
e vi so dire io come vi avrebbe trattate; peggio che da serve. Se aveste fatto il primo passo...»
Lucia teneva gli occhi sbarrati addosso alla signora, come stupefatta ch'ella ne sapesse tanto
addentro. Geltrude rinvenne e s'avvide che questo suo modo di disapprovare il seduttore non era più
conveniente alla sua condizione di quello che fosse stato quel primo compatimento, e che invece di
togliere il sospetto o almeno lo stupore che quello poteva aver fatto nascere, lo avrebbe accresciuto,
e si ripigliò dicendo:
«Del resto, son cose che io non posso conoscere; ma già l'avrete inteso anche dai predicatori che
quelli che seducono le povere figliuole sono i primi a sprezzarle. E se da principio, io ho mostrato
qualche dispiacere per colui, è perché non vi eravate bene espressa; io credeva che alla fine egli
avesse intenzione di sposarvi».
«Sposarmi! sposarlo!» esclamò Lucia, maravigliata di questo pensiero che supponeva l'accordo di
due volontà, d'una delle quali ella sentiva, e dell'altra sapeva che ne erano le mille miglia lontane.
Geltrude credette che Lucia non alludesse ad altro ostacolo che alla differenza delle condizioni. «E
perché no?» rispose, e abbandonandosi alla intemperanza della sua fantasia continuò: «Perché no,
sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo. Sareste la Signora Donna Lucia: che maraviglia! non
sareste la donna più stranamente nominata di questo mondo. Avete sentito come mi chiamava quel
buon uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? - Reverenda madre.- Io, vedete, sono la sua
reverenda madre. Bel bambino davvero ch'io ho». E a questa idea si pose a ridere
sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a passeggiare nel parlatorio... «madre!...»
continuò... «avrei dovuto sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato:...
<B>CAPITOLO VII</B>
Come una troppa di segugi dopo aver tracciata invano una lepre, ritorna sbaldanzita con le code
pendenti, verso il padrone; paventosa di lui, ma pronta ad abbajare e a ringhiare per dispetto contra
ogni altro in cui si abbatta per via; così in quella notte romorosa tornavano gli scherani con gli
artigli vuoti al castello di Don Rodrigo; dove convien tornare a noi pure, messa in salvo alla meglio
la bella fera che quel birbone inseguiva. Don Rodrigo passeggiava inquieto aspettando il ritorno de'
suoi bravi, aprendo di tempo in tempo la finestra, e guardando al lume della luna e tendendo
l'orecchio. Fremeva d'impazienza, che la spedizione tornasse, ma in questa impazienza misto al
desiderio v'era anche un po' di terrore; perché questa era la più grossa che Don Rodrigo avesse fatta
fino allora. Se allo sparire di Lucia, il rapitore fosse stato conosciuto, se la fama ne fosse giunta a
Milano, l'affare poteva esser serio: il governatore avrebbe potuto pubblicare un bando contra il
rapitore, come accadeva talvolta in simili casi, promettendo un premio a chi lo desse vivo o morto
nelle mani della giustizia. Veramente Don Rodrigo aveva veduto passeggiare sicuramente più d'uno
colpito da un tal bando; e sapeva d'aver egli pure i mezzi di questa sicurezza, perché cinto da
scherani, e temuto com'era, nessuno avrebbe voluto per un premio torsi un'impresa come quella di
attaccarlo, e porre la vita a certissimo pericolo: pure un bando era almeno una seccatura forte.
Dall'altra parte pensava egli che essendo gli offesi povera gente, nessuno si sarebbe curato di
prendere impegno per essi... Ma c'era di mezzo quel benedetto frate (Don Rodrigo non diceva
veramente benedetto) quel frate che era un brigante, un ficcanaso, uno che si dilettava d'impacciarsi
nei fatti altrui, e che avrebbe potuto trovare appoggi, far comparire le cose... Ma anche pel frate
v'erano rimedj, e si poteva combatterlo con le stesse sue armi d'impegni, e di brighe. - Quel che
importa per ora, - continuava Don Rodrigo, - è che il Griso faccia il suo dovere, e che questa
smorfiosetta non mi faccia uno scandalo che levi a romore il paese. Diavolo! Ho avuto un pensiero
molto ardito; ma quel che è fatto è fatto, e non mi voglio ora ritirare per bacco! Non voglio? non
posso: coraggio coraggio Don Rodrigo! bisogna ammansarla con le buone; la madre?... eh quando
vedrà dei bei danari lampanti: e poi osi un po' far chiasso: vorrei vedere!... Il parroco non fiaterà...
ha già avuta una bella paura, ed ora sarebbe anch'egli in colpa... eh già colui è un birbone che
farebbe di tutto per salvar la pelle... Non vengono costoro?... Sta a vedere che si saranno
ubbriacati... No no il Griso non è un ragazzo, e avrà condotte le cose con giudizio: non è mica una
bagattella... non vorrei che me la malmenasse: non è avvezzo a spedizioni di questa sorte: ha
sempre avuto che fare con uomini... basta gli ho fatta una buona ammonizione. Stà... per bacco, è la
mia gente... - Così pensando corse alla finestra, e vide i segugj venir quatti quatti, col Griso alla
testa: tese l'occhio, per distinguere fra essi la lepre, ma la lepre non v'era.
- Diavolo!... diavolo! diavolo! Il Griso me ne darà conto.
Aperta ai bravi la porta dal loro compagno che vi stava a guardia, ed entrati e andati a riposare
com'era giusto, perché il riposo è dovuto alla fatica tollerata, non all'effetto ottenuto, il Griso come
portava la sua carica, che in quel momento nessuno degli altri gl'invidiava, salì in fretta a render
conto a Don Rodrigo.
«Ebbene?» disse tosto questi dispettoso: «ebbene? signor bravo, signor capitano, signor
spaccone...»
«È dura», rispose il Griso con rispetto, ma non senza rancore, «è dura di sentir rimproveri dopo
aver faticato fedelmente, e cercato di fare il suo dovere...»
«Ma dunque?...»
Il Griso si fece da capo, e raccontò tutti i preparativi, come la spedizione era ben condotta, e come
la casa fu trovata vuota, e come sonò a stormo senza ch'egli potesse ben saperne il perché, e come si
era tornati senza aver fatto nulla, ma senza aver lasciato traccia.
«Mancomale» rispose Don Rodrigo; e si posero a far congetture senza potersi fermare ad una che li
accontentasse. «Basta», conchiuse Don Rodrigo: «domani piglia informazioni; sarà meglio che
mandi uno dei contadini fidati, nella bettola più vicina alla casa di Lucia, tanto che domani io vegga
la cosa chiara». Così congedò il Griso che se ne andò anch'egli a dormire.
Dormi, povero Griso, dormi che tu devi averne bisogno. Povero Griso! Correre qua e là tutto il
giorno, stare all'agguato, dirigere una mano di zotici mal disciplinati, pigliar sopra di te tutto il
pensiero, e tanta parte della fatica; porti a rischio di aver qualche nuovo disparere con la giustizia, e
di veder questa volta messo a prezzo il tuo capo, per <I>rapto di donna honesta</I>; stare al caldo e
al gelo; e poi, e poi raccoglier rimbrotti. Ma tu non cominci oggi a vivere, e devi sapere che il
mondo è tristo, che gli uomini sono ingrati. Va a riposarti, povero Griso: un giorno poi, quando ti
porrai a letto per morire, se a letto morrai; forse questa giornata ti verrà in mente; forse il pensiero
di non aver potuto oggi farti onore, e di essere stato sgridato per ricompensa, sarà quello che ti darà
meno di gravezza. Ma non pensare ora a questo, perché forse non dormiresti.
All'aurora il Griso fu in campo, tutto desideroso di venire in chiaro di ciò che fosse avvenuto di
Lucia, per soddisfare alla curiosità del padrone e alla sua propria, e per avvisare i mezzi di riparare
alla mala riuscita del giorno antecedente. Non era la sola vanità né il dispetto che stimolavano il
Griso; ma v'entrava la riconoscenza per Don Rodrigo che lo aveva posto, e lo teneva sotto le sue ali
in salvo dalla giustizia, e che gli dava facoltà di camminare francamente, e di farsi temere; da
questa riconoscenza era nato nel suo cuore un affetto, un attaccamento per Don Rodrigo, che i
rimproveri, e le asprezze di questo potevano affliggere, ma non distruggere; né rendere inoperoso.
Scelse adunque il Griso gli uomini più opportuni a raccogliere notizie, e gli spedì attorno, ed egli
stesso andò, per ispiare schiarimenti sui fatti misteriosi della notte trascorsa.
Ma gli abitanti del villaggio che s'erano trovati in quel trambusto, non ne sapevano essi stessi la
cagione, e quello che avevano veduto non era per essi che una sorgente di curiosità, o al più un
motivo di congetture e di fandonie. Quando il mattino rivelò la fuga di Lucia e di sua madre e di
Fermo, i sospetti divennero ancor più complicati, e la curiosità più animata: ognuno domandava a
tutti quelli in cui si abbatteva, e se ne formarono come accade molte storie, perché s'ignorava la
vera. Quei pochi che la sapevano o tutta o in parte, e che avrebbero potuto soddisfare o almeno
metter sulla via la curiosità degli altri, quei pochi se ne stavano zitti, e si facevano più nuovi degli
altri. Toni fece un severo precetto a Gervaso e alle sue donne di non parlare, e fu egli stesso molto
fedele a questo suo precetto di cui sentiva l'importanza; appena uno sperimentato osservatore
avrebbe potuto arguire ch'egli sapeva qualche cosa più degli altri dal poco chiedere ch'egli faceva, e
dal suo ristringersi nelle spalle protestando di non saper nulla quando altri ne lo chiedeva. «Io
attendo ai fatti miei», rispondeva Toni, «che volete ch'io sappia?» Don Abbondio era ricorso al suo
ripiego diplomatico di porsi a letto e di sviare così i curiosi. Se ne stava egli ora cheto cheto,
maladicendo la mala ventura, che negli ultimi suoi giorni gli faceva scontare quel poco di bene che
aveva goduto negli anni passati, e rendeva inutili tutte le cure della sua prudenza. Di tempo in
tempo rimbrottava Perpetua e accagionava della sua disgrazia la cervellinaggine di quella. Ma
Perpetua non penuriava di argomenti per provare al padrone che la colpa doveva ricadere tutta
sopra di lui; e il combattimento finiva per stanchezza d'ambe le parti. Questi piati però non uscivano
dalle mura di Don Abbondio, perché era interesse troppo evidente d'ambe le parti di sopire l'affare e
di stornare i sospetti dalla verità. Ma tra coloro che erano stati in parte testimonj ed attori di tutta
quella scena ve n'era uno a cui l'esperienza non aveva potuto ancora dare le profonde idee di
prudenza che il tempo e i casi avevano apprese a Toni e a Don Abbondio. Sa il cielo se il lettore si
ricorda di quel garzoncello spedito da Agnese al Padre Cristoforo, e mandato da questo ad avvertire
Lucia del pericolo che le soprastava, di quel picciolo Menico che era stato nelle tenebre guida dei
fuggitivi. Menico il quale era pur dolente della fuga delle sue parenti, ma che almeno in questa
sventura aveva avuta la felice occasione di far qualche cosa, non ebbe pace finché non confidò
quello che aveva fatto a dei ragazzi suoi coetanei, i quali venivano a contargli le congetture che
avevano intese, e ai quali egli aveva da raccontare qualche cosa di più fondato. I ragazzi corsero a
casa, e si seppe tosto che Lucia, Agnese e Fermo erano andati la notte al convento. Le congetture
divennero allora un po' più uniformi e più fondate, giacché tutti avevano qualche sentore della turpe
caccia che Don Rodrigo dava a Lucia.
Gli spioni del Griso riseppero tosto con gli altri queste particolarità; e il Griso gli spedì tosto a
Pescarenico per cavare più sicure notizie.
I barcajuoli avevano detto qualche cosa. Povera gente! avevano cooperato ad un'opera buona, e
l'assoluto silenzio era un peso troppo difficile da portarsi. Si riseppe dunque che i fuggitivi avevano
attraversato il lago, e che avevano continuato il loro viaggio per terra. Queste cose vennero pure
agli orecchi del Griso, il quale potè annunziare a Don Rodrigo che poco mancava a sapere su che
albero l'uccello fosse andato a posarsi.
Don Rodrigo era uscito quella mattina col conte Attilio e col solito seguito di bravi, e s'erano
aggirati pei campi e per le ville con l'apparenza d'andare a caccia ma con l'intenzione di scoprire
quello che si facesse, e di stornare i sospetti mostrandosi, o almeno di ostentare sicurezza, e
d'incutere spavento. I sospetti erano già molto sparsi, e Don Rodrigo sotto l'apparente rispetto, e sui
visi inchinati dei contadini in cui si abbatteva, potè scorgere qualche cosa di misterioso che
annunziava un pensiero celato di cognizione, e una gioja compressa per la trista riuscita del suo
infame tentativo. Don Rodrigo faceva osservare quelle facce al suo compagno, e si rodeva; ma non
ardiva né poteva fare alcun risentimento perché all'oscurarsi del suo sguardo gl'inchini diventavano
più umili, e gli aspetti più sommessi, e non ci sarebbe stato verso di appiccare una lite senza troppo
scoprirsi.
Giunti a casa i due cacciatori leggiadri trovarono il Griso che gli aspettava con le notizie.
Quand'egli ebbe fatta la sua relazione, Don Rodrigo si volse al cugino, come per chiedergli
consiglio. Il Conte Attilio era uno sventato, ma l'affare era tanto serio ch'egli stesso lo era divenuto,
e disse: «Se mi aveste chiesto parere quando avete cominciato a divagarvi con questa smorfiosa, da
buon amico vi avrei detto di levarne il pensiero, perché era cosa da cavarne poco costrutto; ma ora
l'impegno è contratto, c'entra il vostro onore, e quello della parentela: ora si direbbe che vi siete
lasciato metter paura, e che non l'avete saputa spuntare. Dal modo con cui vi conterrete in questa
occasione dipenderà la vostra riputazione e il rispetto che vi si porterà nell'avvenire».
«Avete ragione».
«E», continuò il Conte Attilio; «fate pur conto sopra di me come sopra un buon parente ed amico:
non si tratta ora più di scommesse e di scherzi».
«Avete ragione. Griso, che cosa dicono questi villani?»
«Il signor padrone può ben credere che in faccia mia nessuno avrebbe osato proferire una parola
poco rispettosa; ma so che parlano, e si mostrano contenti».
«Ah! contenti» rispose Don Rodrigo, «vedranno, vedranno. Il Podestà è tutto mio... ma
nulladimeno... che ne dite cugino?... sarà bene di prevenirlo favorevolmente».
«Certo», rispose il Conte Attilio, «non bisogna tralasciare nessuna precauzione».
«E poi», continuò Don Rodrigo, «non bisogna metterlo in impaccio. Siccome si parlerà della fuga
di costoro, e la giustizia forse non potrà schivare di far qualche ricerca, bisognerebbe trovare una
storia che spiegasse la fuga, e che rivolgesse i sospetti in tutt'altra parte».
«Si potrebbe per esempio», disse il Conte Attilio, «sparger voce che quel villano ha rapita la
ragazza e fargli mettere un bando, in modo che non ardisse più di comparire in paese».
«Non va male», rispose Don Rodrigo, «ma...»
«Se mi permettono questi signori», disse umilmente il Griso, «avrei anch'io un debole parere».
«Sentiamo», dissero entrambi.
«Fermo», rispose il Griso, «è lavoratore di seta; e questa è una gran bella cosa».
«Come c'entra la seta?» domandò il Conte Attilio.
«I lavoratori di seta», continuò il Griso, «non possono abbandonare il paese, è un criminale grosso.
Ecco che il signor Podestà quando voglia, come è giusto, servire l'illustrissima casa, potrà fare un
ordine di cattura contra Fermo come lavoratore fuggitivo; poi si dirà che se Fermo ritorna, guai a
lui; e Fermo non sarà tanto gonzo da venire a giustificarsi in prigione».
«Ma bravo il mio Griso», proruppe Don Rodrigo, mentre lo stesso Conte Attilio faceva un sorriso
di approvazione.
«Ma bravo: va che ti voglio fare aiutante del dottor Duplica. Per bacco, ch'egli non l'avrebbe trovata
più a proposito».
«Eh Signore», rispose il Griso, con affettata modestia, «ho avuto tanto che fare con la giustizia, che
qualche cosa devo saperne».
«Del resto», continuò Don Rodrigo, «per quanto grande sia l'abilità legale del Griso, non voglio
ch'egli balzi di scanno il nostro dottore. Fa ch'egli venga oggi a pranzo da me e m'intenderò con lui.
Tu intanto abbi cura di vedere il bargello e di dirgli che questa volta venga più presto del solito a
ricever la mancia consueta, e che mi troverà di buon umore, e avrà un regalo di più... Così si potrà
andare innanzi a fare tutto quello che sarà necessario... Purché la cosa non si risappia a Milano...»
«Che diavolo di paura vi nasce ora», interruppe il Conte.
«Caro cugino, la cosa non è finita; costei la voglio...»
«Va bene».
«E non so dove bisognerà andare a cercarla, che passi bisognerà fare...»
«E bene, a Milano hanno altro da pensare che a questi pettegolezzi. C'è la carestia, c'è il passaggio
delle truppe, c'è mille diavoli. E poi quand'anche se ne parlasse a Milano, sarebbe la prima che
avremmo spuntata?»
«Va bene, ma quel frate, quel frate vedete, chi sa quali protezioni potrà avere; e vi assicuro che non
istarà quieto fin ché... Quel frate è il mio demonio, e... non posso farlo ammazzare».
«Il frate lo piglio sotto alla mia protezione», rispose sorridendo il Conte Attilio. «Non pensate a lui:
me ne incarico io».
«Eh se sapeste!...»
«Via, via, che ora non saprò fare stare un cappuccino. Vi dico che, se avete in me la più picciola
fede, non prendiate pensiero di lui, che non ve ne potrà dare. Domani a sera sono a Milano; e dopo
due o tre giorni udrete novelle del frate».
«Non mi state a fare un guajo che mi ponga in maggiore impiccio...»
«Quando vi dico di fidarvi di me, fidatevi; ma se volete vi dirò prima il modo semplicissimo che ho
pensato per torvelo d'attorno, modo tanto semplice che l'avreste immaginato anche voi se non foste
un po' conturbato».
Infatti Don Rodrigo combattuto, trainato da sentimenti diversi, e tutti rei, tutti vili, tutti faticosi, era
un oggetto di pietà senza stima agli occhi stessi del Griso e del Conte Attilio, e avrebbe eccitato
orrore e stomaco nell'animo di chiunque gli avesse meno somigliato che quei due signori. La
passione di Don Rodrigo per Lucia, nata per ozio, irritata e cresciuta da poi dalle ripulse e dal
disdegno, era diventata violenta quando conobbe un rivale. La fantasia ardente e feroce di Don
Rodrigo si andava allora raffigurando quella Lucia contegnosa, ingrugnata, severa, se l'andava
raffigurando umana, soave, affabile con un altro, egli immaginava gli atti e le parole, indovinava i
movimenti di quel cuore che non erano per lui, che erano per un villano; e la vanità, la stizza, la
gelosia aumentavano in lui quella passione che per qualche tempo riceve nuova forza da tutte le
passioni che non la distruggono, o ch'ella non distrugge, da tutte quelle che possono vivere con
essa. Tutte queste passioni lo avevano allora spinto ad impedire con minacce il matrimonio di
Lucia, senza ch'egli avesse risoluto quel che farebbe da poi, ma per impedirlo a buon conto, perché
ella non fosse d'un altro, per guadagnar tempo, per isfogare in qualche modo la rabbia e l'amore, se
amore si può dire quel suo. Quindi allorché egli riseppe dalla narrazione del Griso che Lucia e
Fermo erano partiti insieme, i dolori della gelosia e della rabbia lo colpirono più acutamente che
mai. Egli pensava qual prova Lucia aveva data di amore per Fermo e di orrore per lui,
abbandonando così timida, così inesperta la sua casa paterna, i luoghi conosciuti, andando forse alla
ventura; pensava che in quel momento essi erano in cerca d'un asilo per essere riuniti
tranquillamente, e risolveva di fare, di sagrificare ogni cosa per impedirlo. Dall'altra parte avvezzo
bensì a non rifiutarsi mai una soddisfazione quando non gli doveva costare altro che una
bricconeria, ma avvezzo a commetterne in un campo ristretto e conosciuto, si atterriva al pensiero
di uscirne, di dovere intraprendere una ricerca difficile e pericolosa per porsi poi ad una impresa chi
sa quanto vasta, chi sa quanto difficile e pericolosa. Tanta era l'agitazione di Don Rodrigo, ch'egli
pensava in quel momento non senza terrore alle Gride contra i Tiranni. (Così chiamavano le Gride
coloro che sopraffacevano come che fosse i deboli, quasi con questa espressione querula e paurosa
volessero confessare l'impotenza di contenere quelli e di difender questi.) Ben è vero che quelle
gride erano per lo più inoperose, e Don Rodrigo lo sapeva per esperienza, come noi lo sappiamo ora
dal trovare ad ogni nuova pubblicazione di esse la dichiarazione espressa che le antecedenti non
avevano prodotto alcun effetto. Ma però queste gride stesse potevano essere un'arme potente,
quando una mano potente le afferrasse contra chi le avesse violate; e v'era di mezzo un frate, un
personaggio cioè alla influenza ed alla attività del quale nessuno poteva anticipatamente prevedere
un limite: e questo frate pareva risoluto a proteggere ad ogni costo gli innocenti.
In questa tempesta di pensieri Don Rodrigo passeggiava per la stanza, facendo ad ogni momento
nuove interrogazioni al Griso, e affettando sicurezza dinanzi al Conte Attilio; finalmente conchiuse
col dire: «Per ora non c'è altro da fare che di sapere precisamente dove sono andati: tocca a te
Griso; e poi, e poi... non son chi sono se... non è vero cugino?»
«Senza dubbio», rispose il Conte, al quale alla fine non premeva realmente in tutta questa faccenda
che di far pensare che nello stesso caso egli avrebbe saputo giungere ai suoi fini senza esitazione e
senza fallo. Così fu sciolta la conferenza, e il Griso partì.
Don Rodrigo pensò che in quel giorno sarebbe stata cosa molto utile l'avere il podestà a pranzo, per
mostrare sicurezza, e per far vedere ai malevoli che la giustizia era per lui; e lo fece invitare,
pregando il Conte Attilio di non disgustargli quel brav'uomo con tante contraddizioni. Venne il
podestà, e il dottore; si stette allegri, si parlò ancora della marcia delle truppe, e della carestia: ma
degli affari del paese, della campana a martello, della fuga, né una parola. Soltanto Don Rodrigo
accennò indirettamente questa faccenda nel modo il più gentile ed ingegnoso, come si vedrà. Fece
egli in modo che il podestà lodasse particolarmente il vino della tavola: cosa non difficile ad
ottenersi, perché il vino era buono, e il podestà conoscitore. Allora Don Rodrigo: «Oh, signor
podestà, giacché ho la buona sorte di posseder cosa di suo aggradimento mi permetterà...»
«Non mai, non mai, Signor Don Rodrigo, se avessi saputo ch'ella sarebbe venuta a questi termini,
avrei dissimulata la mia ammirazione per questo incomparabile...»
«Bene bene, signor Podestà, ella non mi farà il torto...»
«Don Rodrigo conosce la stima...»
Il Conte Attilio interruppe la gara, la quale era già realmente composta: Don Rodrigo parlò
all'orecchio ad un servo, e il podestà tornando poi a casa, trovò sei tarchiati contadini che erano
venuti a deporre nella sua cantina le grazie di Don Rodrigo.
Dato l'ordine segreto, Don Rodrigo ritornò al discorso incominciato, benché sembrasse mutarlo
affatto, e passare dal vino all'economia politica; ma chi appena osservi la serie delle sue idee,
scorgerà il filo recondito che le tiene.
«Che dice», continuò adunque Don Rodrigo, «che dice il signor podestà di questo spatriare che
fanno i nostri operaj?»
«Che vuole ch'io le dica?» rispose il podestà: «è cosa da non potersi comprendere. Quanto più si
moltiplicano le gride per trattenerli, tanto più se ne vanno. Non si sa capire: è una pazzia che gli ha
presi: sono pecore, una va dietro all'altra».
«Eppure», continuò Don Rodrigo «pare che questa cosa stia molto a cuore di Sua Eccellenza».
«Capperi! veda con che sentimento ne parla nelle gride. Ma costoro, parte per ignoranza, parte per
malizia non danno retta, armano mille pretesti, ma la vera ragione si è la poca volontà di lavorare, e
il disprezzo temerario delle leggi divine ed umane».
«Ma per buona sorte», disse il dottor Duplica, a cui Don Rodrigo aveva detto non tutto ma quanto
bastava a fargli intendere come Don Rodrigo desiderava di esser servito, «per buona sorte abbiamo
un signor podestà che non si lascerà illudere da pretesti, e saprà tenere mano ferma...»
«Mano ferma, signor podestà», riprese Don Rodrigo: «mano ferma: il primo che c'incappa, farne un
esempio».
«Io so», disse con gravità misteriosa il Conte Attilio, «che Sua Eccellenza tiene gli occhi aperti su
questo sviamento degli artefici, e sulla esecuzione delle gride che lo proibiscono perché il Conte
mio zio del Consiglio segreto, qualche volta in confidenza si è spiegato con me... basta non voglio
ciarlare; ma son certo che quando tornato a Milano andrò a fare il mio dovere dal Conte mio zio,
egli non lascerà di farmi mille interrogazioni... In verità avere dei parenti in alto è un onore, ma un
onore un po' pesante. Non si può parlare con loro che non vogliano ricavare qualche notizia: non si
sa come sbrigarsene».
«Mi raccomando ai buoni uficj del signor Conte», disse umilmente il Podestà: «una buona parola
trasmessa da una bocca tanto garbata in orecchie tanto rispettabili...»
«È pura giustizia renduta al merito, Signor podestà: però se la parola ha da ottenere il suo effetto, da
far colpo, sarà bene che si vegga qualche dimostrazione esemplare dello zelo del Signor podestà in
questa materia».
«È mio dovere, e starò sull'avviso».
«Oh le occasioni non mancheranno», disse il dottore; «perché come diceva sapientemente il signor
podestà, è una pazzia universale in costoro». Quindi prendendo l'aria grave e pensosa di chi passa
dai fatti ad una idea generale, continuò: «Vedano un po' le signorie loro come son fatti gli uomini, e
particolarmente la gente meccanica che non sa riflettere. Comincia a mettersi fra gli artefici questa
smania di sviarsi, di cambiar cielo. La sapienza di chi governa vede il male, e tosto applica il
rimedio della proibizione e delle pene. Si può far di più? eppure costoro, presa una volta quella
dirittura di andarsene a processione, proseguono ad andarsene come se nessuno avesse parlato.
Come si spiega questo? Col dire che sono pazzi. Ma coi pazzi come bisogna fare? Castigarli».
È facile supporre che con questi ragionamenti il signor podestà si trovò disposto a credere poi, o a
fingere di credere alle insinuazioni incessanti del dottor Duplica, e alle deposizioni degli onorevoli
suoi ministri, che Fermo si era spatriato in contravvenzione alle gride. Il signor podestà non si
lasciò scappare una occasione, che gli si era tanto raccomandato di afferrare, e nel giorno
susseguente fatte fare ricerche di Fermo, le quali riuscirono inutili, lo notò come fuggitivo, gli fece
intimare alla casa l'ordine di ritornare, e nello stesso tempo rilasciò l'ordine di catturarlo s'egli
ritornava. Non importa di accordare quei due ordini: basta che con questi si ottenesse l'effetto
desiderato, che era di toglier la volontà a Fermo di ritornare.
Intanto il Griso non ommetteva cura per iscoprire il covo dei fuggitivi; ed ecco come vi riuscì.
Mandava egli esploratori qua e là per le piazze e per le taverne per raccogliere i discorsi che
potevano dar qualche lume su questo avvenimento. Colui che aveva condotto il baroccio dei
profughi, non tacque, e di confidenza in confidenza, il Griso venne a risapere, e potè riferire a Don
Rodrigo: che i fuggitivi erano andati a Monza, che Fermo aveva proseguito il viaggio fino a Milano,
che Lucia ed Agnese erano state raccomandate al guardiano dei cappuccini.
Parve a Don Rodrigo che la matassa non fosse tanto imbrogliata com'egli aveva temuto, e che il
bandolo si potrebbe ravviare senza troppa difficoltà. Monza non era più lontana che venti miglia;
Fermo era separato dalle donne; quando si prendessero buoni alleati, senza dei quali Don Rodrigo
sentiva di non poter far nulla a quattro miglia del suo castellotto, l'impresa non era disperata. V'era
però ancora di mezzo un cappuccino; ma si sarebbe veduto fino a che segno egli era da temersi.
«Ora mio bravo e fedel Griso», disse Don Rodrigo, «non bisogna metter tempo in mezzo. Ho
bisogno di sapere al più presto presso a chi, in qual parte di Monza costei è andata a posarsi; e tu
devi andare sul luogo a pigliarne informazioni sicure».
«Signore...»
«Che è, Griso? non ho io parlato chiaro?»
«Signore illustrissimo,... io son pronto a dar la vita pel mio padrone, ma so anche ch'ella non vuole
arrischiar troppo i suoi sudditi»
«Ebbene, non sei tu sotto la mia protezione?»
«Qui sono sicuro, qui Vossignoria illustrissima è conosciuta, e tutti mi portano rispetto; ma in
Monza, s'io fossi riconosciuto... Sa Vostra signoria che, non dico per vantarmi; ma sa che chi mi
potesse consegnare alla giustizia, crederebbe di aver fatto un gran colpo?»
Don Rodrigo stette un momento sopra pensiero. È una certa consolazione per chi considera lo stato
insopportabile di angoscia e di terrore in cui a quei tempi gli uomini arditi e perversi tenevano i
deboli, il vedere che i perversi pure erano in continua angoscia, e dovevano starsi sempre come si
dice con l'olio santo in saccoccia. Ma Don Rodrigo dopo un breve silenzio, fece con buone ragioni
vergognar il Griso della sua pusillanimità.
«Che diavolo!» disse Don Rodrigo, «tu mi riesci ora un can da pagliajo, che non sa che abbajare
sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non ardisce di allontanarsi
quattro passi? Ebbene, piglia con te un pajo di compagni... il Pelato, e... il Saltafossi... e va. Io non
ho nimicizia con nessuno in Monza: chi dunque ti vorrebbe toccare? La faccia di bravo non ti
manca, e cospetto non incontrerai nessuno che non sia contento di lasciarti passare. Quanto alla
giustizia, dovresti vergognarti di avervi pensato un momento. Bisognerebbe che i birri di Monza
fossero bene stanchi di vivere per azzuffarsi con tre malandrini che vanno tranquillamente pei fatti
loro».
«Sia per non detto, illustrissimo signore: io parto immediatamente».
«Bravo: hai amici in Monza?»
«Eh Signore io ho amici e nemici per tutto il mondo. Sono stato in prigione con uno che sta per
bravo dal Signor Egidio... e abbiamo fatta una amicizia da spartire colle pertiche, conosco...»
«Bene tu avrai da questi informazioni, e ajuti al caso. Una mano lava l'altra, e le due il viso.
Coraggio, e prudenza: comprare e non vendere; andare e tornare».
«Vado e torno; e se osassi...»
«Che?»
«Pregar Vossignoria illustrissima di non dire ad alcuno che il Griso ha dubitato un momento. Vede
bene, ognuno nel suo mestiere ha a cuore la sua riputazione».
«Va, va, balocco che sei: credi tu che io abbia bisogno di essere pregato per tenere in credito la mia
gente?»
Il Griso partì coi due compagni, spiò, e raccolse che Lucia era nel monastero, sotto la protezione
della Signora, che però la Signora l'aveva ricevuta per compiacere al padre guardiano, che nessuno
pensava che altrimenti ella si sarebbe pigliata a petto questa faccenda giacché Lucia non le
apparteneva per nulla, che Lucia abitava nel monastero, ma fuori del chiostro, che si lasciava poco
vedere, e sempre di chiaro giorno: che la madre aveva disegnato di tornarsene a casa lasciando
Lucia così bene appoggiata. Tutte queste cose riferì il Griso a Don Rodrigo, il quale lodatolo, e
ricompensatolo, si pose seriamente a pensare quale risoluzione fosse da prendersi.
Tentare un ratto a forza aperta, in Monza, su un terreno che egli non conosceva bene, in un
monastero, a rischio di tirarsi addosso la signora, e tutto il suo parentado, del quale Don Rodrigo
conosceva molto bene la potenza, e la ferocia in sostenere le protezioni una volta abbracciate, era
impresa da non porvi nemmeno il pensiero. Pure Lucia fra pochi giorni sarebbe rimasta sola senza
la madre, e a chi avesse avuta pratica del paese, aderenze, notizie per conoscere le occasioni e per
approfittarsene, per evitare i pericoli, l'impresa poteva forse essere agevole non che possibile.
Bisognava dunque ricorrere ad un alleato potente e destro, ad un uomo avvezzo a condurre a
termine spedizioni di questo genere; e Don Rodrigo si determinò in un pensiero, che gli era passato
più volte per la mente, che non aveva mai abbandonato, il pensiero di raccomandare i suoi affari al
Conte del Sagrato.
Le ricerche che abbiamo fatte per trovare il vero nome di costui giacché quello che abbiamo
trascritto era un soprannome, sono state infruttuose. Al prudentissimo nostro autore è sembrato di
avere ecceduto in libertà e in coraggio col solo indicare con un soprannome quest'uomo. Due
scrittori contemporanei, degnissimi di fede, il Rivola e il Ripamonti, biografi entrambi del
Cardinale Federigo Borromeo, fanno menzione di quel personaggio misterioso, ma lo dipingono
succintamente come uno dei più sicuri e imperturbabili scellerati che la terra abbia portato, ma non
ne danno il nome, e né meno il soprannome che noi abbiamo ricavato dal nostro manoscritto
insieme con la narrazione del fatto che glielo fece acquistare, e che basterà a dare una idea del
carattere di quest'uomo. Abitava egli in un castello posto al confine degli stati veneti, sur un monte;
e quivi menava una vita sciolta da ogni riguardo di legge, comandando a tutti gli abitatori del
contorno, non riconoscendo superiore a sè, arbitro violento dei negozj altrui come di quelli nei quali
era parte, raccettatore di tutti i banditi, di tutti i fuggitivi per delitti quando fossero abili a
commetterne di nuovi, appaltatore di delitti per professione. «La sua casa» per servirci della
descrizione che ne fa il Ripamonti «era come una officina di commessioni d'ammazzamento: servì
condannati nella testa, e troncatori di teste: né cuoco né guattero dispensati dall'omicidio; le mani
dei valletti insanguinate».
E la confidenza di costui, nutrita dal sentimento della forza e da una lunga esperienza d'impunità era
venuta a tanto, che dovendo egli un giorno passar vicino a Milano, vi entrò senza rispetto, benché
capitalmente bandito, cavalcò per la città coi suoi cani, e a suon di tromba, passò sulla porta del
palazzo ove abitava il governatore, e lasciò alle guardie una imbasciata di villanie da essergli
riferita in suo nome.
Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si presentò un
debitore svogliato di pagare, e si richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore,
raccontando il negozio a modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al
mondo altra speranza che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore, un benestante
d'un paese vicino, non era sul calendario del Conte, perché senza provocarlo giammai, né usargli il
menomo atto di disprezzo, pure mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui,
come chi vive pei fatti suoi e non ha bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita
l'opportunità di dare una scuola a questo signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese
nella sua protezione, chiamò un servo, e gli disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor
tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi più molestia alcuna per quel debito preteso, perché io
ho riconosciuto che costui non gli deve nulla: ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla quale
ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai tosto a riferirmela». Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal
creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata, mentre la volpe stava tutta modesta a sentire. Il
creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel
procedere, animato dal sentimento della sua buona ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora
allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor
Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe partirono senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita
al Conte, il quale udendola disse: «benissimo». Il primo giorno di festa la chiesa del paese dove
abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che assisteva agli uficj divini, che il Conte si
trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi. Terminati gli uficj, i più vicini alla porta
uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro quell'esercito e quel generale, e
ognun d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse avere si rivolsero tutti dalla
parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza darla a gambe. Il Conte, al primo apparire
di persone sulla porta si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le due mani in
apparecchio di spianarlo. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti archibugj
secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non osavano
entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita.
Tanta era la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si curarono di
pigliare le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto
dinanzi a un pericolo oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in
difesa. I sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che
gli era più comodo per uscire, ma alla vista di quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e
la folla usciva come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da
un canto dell'apertura. Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte
al vederlo gli spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo
agli altri di far largo. Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla
non meno, ma l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato. Quegli che gli
erano più lontani s'avvidero che quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da
cento bocche. Allora nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da
quell'amore della vita, da quell'orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli
animi non lascia luogo ad alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella
folla, e la folla lo sfuggiva pur troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava
solo di qua di là, in un picciolo spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo
prese di mira in questo spazio, lo colse, e lo stese a terra. Tutto questo fu l'affare di un momento. La
folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e il Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col
suo accompagnamento.
Se quel fatto crescesse in tutto il contorno il terrore che già ognuno aveva del Conte, non è da
domandare; e l'impressione comune di stupore, e di sgomento fu tale che nessuno poteva pensare al
Conte senza che il fatto non gli ricorresse al pensiero; e così fu associata al nome quella idea, che
tutti avevano associata alla persona. Il Conte sapeva che lo disegnavano con questo soprannome,
ma lo sofferiva tranquillamente, non gli spiacendo che ognuno, avendo a parlare di lui si ricordasse
di quello ch'egli sapeva fare; o forse che avendo in qualche romanzo di quei tempi veduta qualche
menzione di Scipione l'Africano, o di Metello il Numidico, amasse di aver com'essi il nome dal
luogo illustrato da una grande impresa.
Teneva egli dispersi o appostati assai bravi nello Stato milanese e nel veneto, e dal suo castello
posto a cavaliere ai due confini dirigeva gli uni e gli altri, facendo ajutare o perseguitare quegli che
si rifuggivano da uno Stato nell'altro, secondo l'occorrenza, tramutandone alcuno talvolta, quando
qualche operazione lo domandasse, o anche quando alcuno avesse in uno stato commessa qualche
iniquità tanto clamorosa che la giustizia per averlo nelle mani facesse sforzi straordinarj, che
esigessero sforzi straordinarj per difenderlo. Allora la fuga del reo era una buona scusa ai ministri
della giustizia del non far nulla contra di lui, e la cosa finiva quietamente, tanto che dopo qualche
tempo non se ne parlava più, né meno sommessamente, e il reo ricompariva con faccia più tosta che
mai. Questo maneggio serviva non poco ad agevolare tutte le operazioni del Conte, perché le si
compivano tutte senza molto impaccio dei ministri della giustizia, i quali potevano sempre allegare
l'impossibilità di porvi un riparo. Quanto alle operazioni che il Conte eseguiva di propria mano, la
giustizia non se ne mostrava accorta; ed era regola ricevuta di prudenza, che erano di quelle cose in
cui ogni dimostrazione avrebbe prodotti più inconvenienti che non il dissimularle.
Le sue corrispondenze erano varie, estese, sempre crescenti. Pochi erano i tiranni della città, e di
una gran parte dello stato che non avessero qualche volta fatto capo a lui per condurre a termine
qualche vendetta o qualche soperchieria rematica, massimamente se la persona da colpirsi, o il fatto
da eseguirsi era nelle sue vicinanze. E non basta, fino ad alcuni principi stranieri tenevano
comunicazione con lui, e a lui avevano ricorso tal volta per qualche uccisione d'importanza, e
quando il caso lo richiedesse gli mandavano rinforzi: fatto attestato dal Ripamonti, e strano
certamente per chi misura la probabilità degli avvenimenti e dei costumi dalla sola esperienza dei
suoi tempi; ma fatto che cammina benissimo con tutto l'andamento di quel secolo. Nella sua
professione d'intraprenditore di scelleratezze, era egli pieno di affabilità nel contrattare, e
nell'eseguire metteva, ed esigeva una somma puntualità. Accoglieva con molta riserva certamente
per non incorrere nel pericolo al quale era sempre esposto, ma con molta piacevolezza, quelli che
venivano a domandare l'opera sua, deponeva con essi il sopracciglio, stipulava con parole spicce,
ma pacate, non andava in furia contra chi non avesse voluto stare alle sue condizioni, ma rompeva
pacificamente il trattato, non volendo né disgustare alcuno senza utilità, né atterrire coloro, i quali
avevano per la scelleragine più inclinazione nella volontà, che determinazione di coraggio. Ma
stretti i patti, colui che non gli avesse ben fedelmente serbati con lui, doveva esser bene in alto per
tenersi sicuro dalla sua vendetta.
Don Rodrigo conosceva il Conte non solo di fama (chi non lo conosceva di fama?) ma di persona,
per essersi talvolta avvenuto in lui. In tutti questi incontri Don Rodrigo sentendo la sua inferiorità,
aveva deposto ogni orgoglio e aveva cercato con molte espressioni di rispetto di porsi in grazia al
Conte; non ch'egli pensasse allora che un giorno avrebbe cercato il suo ajuto, ma soltanto per non
farsi un tale nemico.
Confermato nel suo perverso proposto di attingere la innocente Lucia, e convinto che le sue mani
non erano abbastanza lunghe, si risolvette Don Rodrigo di andare in cerca di chi volesse prestargli
le sue; fatta questa risoluzione, non v'era da titubare sulla scelta del personaggio, perché il Conte
era appunto per lui <I>quel che il diavolo fece</I>.
<B>CAPITOLO VIII</B>
Il mattino vegnente, senza por tempo in mezzo, Don Rodrigo a cavallo, in abito da caccia, col fedel
Griso che camminava a fianco del palafreno, e con una quadriglia di bravi, si mosse verso il castello
del Conte, come altre volte Giunone verso la caverna di Eolo; se non che la Dea pagava in Ninfe
l'opera buona del re dei venti, e Don Rodrigo sapeva bene che avrebbe dovuto recarla a Doppie. La
via era di cinque miglia all'incirca; e Don Rodrigo la faceva lentamente, e per dare agio alla scorta
pedestre di seguirlo; e perché il cammino quasi tutto montuoso e disuguale e sassoso anche dov'era
piano obbligava il ronzino ad andare di passo, e a cercare il luogo dove posare la zampa con
sicurezza. I villani che si abbattevano su quella via, al vedere spuntare il convoglio, si ritiravano
dall'un canto verso il muro, per dare a Don Rodrigo il comodo d'un libero passaggio; e quando
erano giunti al medesimo punto della strada, si ristringevano ancor più al muro, con aria quasi di
chiedere scusa a Don Rodrigo d'essersi trovati sul suo cammino. Don Rodrigo che già cominciava a
godere nella sua mente un'anticipazione della potenza che gli avrebbe data l'alleanza che andava a
contrarre, gli guarda con un volto fosco e sprezzante, come se dicesse: - vi siete rallegrati troppo
presto a mie spese; lo so; ma vedrete chi sono -. Giunto dinanzi al convento che si trovava su la sua
strada, Don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se
mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v'era nessuno: la porta della chiesa era aperta,
e si sentivano i frati cantare l'uficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle
promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi gli aveva comunicati sul modo di liberarlo da
quei frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera alla
compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un «ah! ah!» il cui senso non fu chiaramente
compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare la sua sagacità, e per far vedere ai compagni
ch'egli era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e facendo
col volto un cenno che voleva dire: - a quest'ora il frate sarà servito -.
Pochi passi dopo il convento giunse la brigata ad uno di quei tanti torrenti che si gettano nel lago,
dai monti che lo ricingono. Questo si chiamava e si chiama tuttavia il Bione, nome che non si
troverà in alcun dizionario geografico; e a dir vero colui che lo porta non merita per nessun verso di
esser memorato. Scappa fuori da un monte che è quasi poggiato nel lago, e per un brevissimo e
larghissimo letto manda per lo più qualche filo d'acqua, e dopo le grandi piogge, e allo scioglimento
delle nevi, mena un largo fiume d'acqua che in un momento si perde, e un flagello di ciottoloni, che
rimangono. In quel momento non vi scorrevano che due o tre rigagnoli sparsi in un deserto di sassi:
noi avremmo voluto che la nostra storia registrasse a questo passaggio qualche incontro, qualche
avvenimento inaspettato, per poterne illustrare quel torrente, e togliere il suo nome dalla oscurità,
ma la storia non ne registra: e noi solleciti della verità più che d'ogni altra cosa non possiamo dire
altro se non che il cavallo di Don Rodrigo attraversò il letto in retta linea, tenuto pel freno dal Griso
il quale dovette porre i piedi nel guazzo, scontando così com'era giusto un poco l'onore di star più
vicino al signore; mentre gli altri bravi passarono un po' più in giù sur un ponticello stretto a piedi
asciutti.
Varcato il Bione, andarono per un miglio circa sulla via pubblica che conduce al luogo dove allora
era il confine dello stato veneto; e quindi presero un viottolo ripido a sinistra che conduceva al
castello del Conte. Appiedi della ultima salita che dava al castello v'era una rozza e picciola
taverna; e sulla porta della taverna un impiccatello di forse dodici anni, il quale al veder gente
armata entrò tosto a darne avviso; ed ecco uscirne tre scheranacci nerboruti ed arcigni i quali
deposte sul tavolo le carte sudice e ravvolte come tegole con le quali stavano giucando; stettero a
guardare con sospetto chi veniva. Don Rodrigo aveva già tirata la briglia del suo ronzino per
rivolgerlo sulla salita, quando uno dei tre, facendogli cenno di ristare gli chiese molto
famigliarmente: «dove si va signor mio, con questa bella compagnia?» In altro luogo ed in altra
occasione Don Rodrigo che aveva la superiorità del numero, e che non era avvezzo a sentirsi così
interrogare da paltonieri, avrebbe risposto chi sa come; ma egli sapeva di essere negli stati del
Conte, e s'avvedeva che parlava con dipendenti da quello, onde fingendo di non trovare nulla di
strano in quel modo, rispose umanamente: «Vado ad inchinare il signor Conte».
«E chi è Vossignoria?» replicò l'altro con tuono più amichevole ma non meno risoluto.
«Sono il signor Don Rodrigo...»
«Bene; ma sappia che su per quell'erta non camminano altri armati che quelli del signor Conte; e
s'ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata con me».
Don Rodrigo intese che bisognava anche scendere da cavallo, e ricordandosi di quel proverbio:
<I>si Romae fueris, romano vivito more</I>, non si fece pregare, e disse: «avrò molto piacere di
far questi pochi passi a piede: e voi intanto», disse rivolto alla sua scorta, «starete qui aspettandomi
a refiziarvi, e a godere della compagnia di questa brava gente». Mentre quivi si parlamentava,
scendevano per l'erta a varie distanze uomini del Conte che dall'altura avevan veduti armati a
fermarsi; ma colui che s'era offerto di accompagnare Don Rodrigo, accennò loro che erano amici, e
quegli ritornarono. Don Rodrigo sceso, e date le briglie in mano al Griso cominciò a salire con la
sua guida; la quale non volendo forse avere offeso un uomo che poteva esser più amico del Conte
che non si sapesse, fece una qualche scusa a Don Rodrigo di averlo fatto scendere. «Se il Signor
Conte», disse colui, «fosse stato avvertito della sua visita, avrebbe dato ordine perch'ella fosse
accolta con le debite cerimonie; perché ella deve sapere quanto il mio padrone sia cortese coi
gentiluomini che sanno il vivere del mondo; ma Vossignoria non è aspettata, e noi abbiamo dovuto
fare il nostro dovere che è di non lasciar passare a cavallo che gli amici vecchi del signor Conte».
«Certo, certo», rispose Don Rodrigo: «io sono buon servitore del signor Conte, e non pretendo che
egli abbia a far complimenti con me».
- Questi è un signore davvero, - pensava tra sè continuando la sua salita Don Rodrigo. - Vedete un
po', come sa farsi rispettare, ed esser padrone in casa sua. S'io volessi fare una legge simile, non so
se vi potrei riuscire: ma è poi anche vero che fa una vita da romito. A voler godere un po' il mondo
non bisogna star tanto in sulle sue, né metter tanta carne a fuoco. - Così Don Rodrigo si
racconsolava della sua inferiorità; e nel resto del cammino andava rimasticando i discorsi ch'egli
aveva preparati pel Conte. Giunti al castello, la guida v'entrò con Don Rodrigo, e lo fece aspettare
in una sala, dove stavano sempre servi armati, pronti agli ordini del Conte. Dopo pochi momenti, la
guida tornò invitando Don Rodrigo ad entrare dal padrone; e di sala in sala sempre incontrando
scherani, lo condusse a quella dove stava il Conte del Sagrato.
Don Rodrigo s'inchinò profondamente con quell'aria equivoca che può egualmente parere bassezza
o affettazione, e il Conte che in mezzo a tanti affari non aveva potuto conservare le abitudini
cerimoniose di quel tempo, gli corrispose con una leggiera e rapida inclinazione del capo; e gli fece
cenno di sedersi sur una seggiola la quale era posta in luogo che dall'altra stanza si potesse scorgere
ogni moto di colui che vi era seduto. Dopo molte cerimonie, alle quali il Conte badò poco, Don
Rodrigo sedette; e il Conte pure a qualche distanza.
Era il Conte del Sagrato un uomo di cinquant'anni, alto, gagliardo, calvo, con una faccia adusta e
rugosa. Si sforzava fino ad un certo segno d'esser garbato, ma da quegli sforzi stessi traspariva una
rusticità feroce e indisciplinata.
«Dovrei scusarmi», cominciò Don Rodrigo, «di venir così a dare <I>infado</I> a Vossignoria
Illustrissima».
«Lasci queste cerimoniacce spagnuole, e mi dica in che posso servirla».
«Non so se il Signor Conte si ricordi della mia persona, ma io ho presente di essere stato qualche
volta fortunato...»
«Mi ricordo benissimo, e la prego di venire al fatto».
«A dir vero», riprese Don Rodrigo «io mi trovo impegnato in un affare d'onore, in un puntiglio, e
sapendo quanto valga un parere di un uomo tanto esperimentato quanto illustre, come è il Signor
Conte, mi sono fatto animo a venir a chiederle consiglio, e per dir tutto anche a domandare il suo
<I>amparo</I>».
«Al diavolo anche l'<I>amparo</I>», rispose con impazienza il Conte. «Tenga queste parolacce per
adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori
che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E
qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e
continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che
posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era
impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il
Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento. «Non
intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a
spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi
leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero... la Signora
che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè. Il Conte
diceva nella sua mente: - l'avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d'<I>infado</I> e
d'<I>amparo</I> -; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento
doppie. - Diavolo! questo capriccio mi vuol costare! Che Ebreo! Vediamo... le ho: ma ho promesso
al mercante... via lo farò tacere. Eh! ma con costui non si scherza: se prometto, bisognerà pagare. E
pagherò:... frate indiavolato, te le farò tornare in gola... Lucia la voglio... Si è parlato troppo... non
son chi sono... - Fatta così la risoluzione, si rivolse al Conte e disse: «Dugento doppie, signor
Conte, l'accordo è fatto».
«Cinque e cinque, dieci», rispose il conte. E questa, se mai per caso la nostra storia capitasse alle
mani di un lettore ignaro del linguaggio milanese, è una formola comune, che accennando il
numero delle dita di due mani congiunte, significa l'impalmarsi per conchiudere un accordo. E
nell'atto di proferire la formola, il Conte stese la mano, e Don Rodrigo la strinse.
«Le darò», disse Don Rodrigo, «uno dei miei uomini, che conosce benissimo la persona, e starà agli
ordini di Vossignoria...»
«Non fa bisogno», rispose il Conte del Sagrato: «mi basta il nome», e qui cavò una vacchetta sulla
quale sa il cielo che memorie erano registrate, e fattosi dire un'altra volta il nome e il cognome della
nostra poveretta, lo scrisse, e notò pure il monastero.
«Ma non vorrei che nascessero abbagli».
«So quel che posso promettere», rispose il Conte, il quale coglieva ogni destro di dare una idea
inaspettata del suo potere e della certezza dei suoi mezzi.
«Certo», replicò Don Rodrigo, «pel Signor Conte non v'è cosa impossibile».
«Ad un mio avviso, ella mandi persone fidate con le dugento doppie, e la persona sarà consegnata».
«Così farò; e mi raccomando... vede bene... non vorrei che... il Signor Conte darà ordini precisi, e
impiegherà persone di giudizio».
«Al corpo di mille diavoli! Ella non sa dunque come io son servito: tutti i miei uomini sono ben
persuasi che colui il quale in una simile circostanza pigliasse la più picciola libertà, sarebbe punito
con le mie mani».
«Non ne dubito», rispose Don Rodrigo.
«Segreto, e fedeltà ai patti!» disse il Conte.
«Son uomo d'onore», rispose Don Rodrigo, e si accomiatò. Uscì del castello, scese alla taverna,
trovò la sua scorta, pagò largamente lo scotto, e si avviò verso casa.
Non aveva egli ancora oltrepassata la soglia del castello del Conte, che questi aveva già dato
principio all'impresa, prendendo la penna, e scrivendo una lettera a quell'Egidio di Monza, che il
lettore conosce, per invitarlo a venire al Castello per un negozio di somma premura.
È d'uopo sapere che il Conte era uno di quei vecchi amici del padre di Egidio coi quali questi aveva
mantenuta corrispondenza; anzi era di tutti il più intrinseco e il più riverito. Il giovane Egidio
appena rimasto solo aveva implorata l'assistenza del Conte per adempire la vendetta del padre, e il
Conte che nel giovanetto aveva già intravedute disposizioni non ordinarie, e che aveva pensato di
farne uno degli agenti che teneva in varie parti del paese, lo aveva in quella occasione soccorso di
denari e d'uomini, e sempre in seguito gli si era mostrato pronto ad ajutarlo dove fosse stato di
mestieri.
Si formò quindi fra loro l'intelligenza di darsi mano a vicenda in ogni occorrenza; nel che Egidio
faceva le sue parti con molto zelo, e con una certa sommessione verso il Conte, per la sua età , per la
sua fama, e per gli obblighi che Egidio gli aveva, e perché in ogni frangente contava d'avere in lui
un difensore invincibile. Per ciò il Conte, quando Don Rodrigo gli parlò di Monza, corse tosto col
pensiero ad Egidio, e conoscendo per esperienza la devozione, e risolutezza di lui, sapendo che la
sua casa era contigua al monastero, fece ragione che la impresa era come compiuta, e promise a
Don Rodrigo con quella asseveranza che abbiamo veduta, e che gli diede una maraviglia non affatto
sgombra di diffidenza.
Il messo partì; e il giorno susseguente Egidio si mosse di buon mattino, e verso il mezzogiorno salì
in trionfo fino al castello del Conte con due cavalieri, e con quattro pedoni che l'accompagnavano,
distinzione riserbata a quegli che erano non solo amici, ma alleati e la gente dei quali era impiegata
al bisogno, ad eseguire i disegni del Conte. In fatti gli uomini di Egidio e quelli del Conte s'erano
trovati insieme in più d'una impresa, ed erano per lo più antiche conoscenze, e avvezzi in ogni caso
a far conto su uno scambievole ajuto. Quindi a misura che Egidio avvicinandosi al castello,
incontrava di quei bravi che vi soggiornavano, questi dopo d'aver umilmente inchinato l'amico del
padrone, facevano festa pur camminando, al suo corteggio, ed era una ripetuta stretta di mani, e un
dare e rendere di saluti a cui si appiccavano i più bisbetici e scomunicati nomi del mondo.
«Benvenuto il Tanabuso!» «Bentrovato il Montanaruolo!» «Oh addio, Strozzato!» «Buon giorno
Biondino bello!» «Bravo, Nibbione, mi consolo di vederti bene in gamba!» «Eh! Spettinato, grazie
al cielo, in gamba, sano e salvo agli statuti di Milano, fin che viene la mia ora!» «Bravo un'altra
volta! Ehi! e quel tale che ti faceva l'amore dietro tutte le siepi?» «Mandato a dormire senza cena»,
rispose il Nibbione, stendendo il braccio sinistro e appoggiando orizzontalmente la mano destra alla
guancia. «Bene», rispose lo Spettinato: «così va fatto: meglio pagare che riscuotere». «Così m'ha
insegnato mio padre», replicò il Nibbione. Con questi bei ragionamenti giunse la trista brigata alla
vista del castello; quivi si trovò il Conte che avendo veduto salire l'amico gli si faceva incontro.
Quando Egidio lo scorse, balzò da cavallo, gittò la briglia a uno de' suoi uomini, e corse a lui: si
abbracciarono, entrarono insieme nel castello: gli scherani dell'uno e dell'altro seguitarono
riverentemente in silenzio, ed entrati pure in frotta, andarono tutti insieme a gozzovigliare secondo
gli ordini dati dal Conte.
Quando i due amici furono soli nella stanza appartata, dove il Conte trattava gli affari più reconditi,
scoperse ad Egidio il motivo della chiamata in questo modo.
«Mio caro Egidio, e posso dir figlio. Ho un affare a Monza, pel quale m'è d'uopo un amico fidato, e
un uomo destro e valente; e ho posti gli occhi sopra di te».
«Vorrei vedere», rispose Egidio, «chi sarebbe in Monza colui che ardisse vantarsi di esservi più
amico di me».
«La mentita gliela darei io», replicò il Conte.
«Ora mettetemi alla prova».
«Ho bisogno di avere in mano una persona», disse il Conte.
«Viva, o morta?» domandò Egidio.
«Viva, viva», rispose il Conte, «è un affare allegro».
«Bene», disse Egidio, «purché non sia il Castellano né alcuno di sua famiglia, né il feudatario, né il
podestà, né un ufiziale spagnuolo...»
«Ih! ih!» disse il Conte, «che vorresti tu ch'io facessi di questa gente? Quando io gli avessi tutti in
questo castello, farei aprire tutte le porte per lasciarli andare. Non sono buoni da nulla né vivi né
morti».
«Che so io?» riprese Egidio: «Bene, purché non sia ancora, né l'arciprete, né tampoco un prete, né
un frate, né una monaca, perché non vorrei aver che fare col Cardinale, che sarebbe uomo da
mettere a soqquadro tutta Roma e tutta Madrid, finché non ne avesse veduta l'acqua chiara: purché
non sia nessuno di questi, vi prometto, umanamente parlando, che siete servito».
«Ebbene», disse il Conte «quello ch'io vorrei che tu prendessi non è nessuno di questi uccellacci
che hai nominati: è il più picciolo reatino che tu possa immaginare. Solamente, è rimpiattato in una
certa fratta che ci vorrà destrezza assai a cavarnelo».
«Vediamo», rispose confidentemente Egidio.
Il Conte cavò la sua vacchetta, e dopo aver rivolta qualche carta, lesse: Lucia Mondella, e continuò:
«è una contadina di questi contorni che si trova in Monza nel monastero contiguo alla tua casa,
sotto la protezione della Signora; protezione molto fredda però; e raccomandata al guardiano dei
cappuccini».
«Ne ho inteso parlare»; rispose Egidio, il quale ne sapeva sul conto di Lucia molto più del Conte,
ma non voleva mostrarsene più inteso, perché i suoi rapporti con la Signora erano un segreto al
quale non ammetteva nemmeno gli amici più intrinseci.
«Prendi tu l'impegno?» domandò il Conte.
«Senza dubbio», rispose Egidio.
«E la Signora?»
«La Signora, come vi hanno detto benissimo non si piglia molto a cuore questa donna; così almeno
ho inteso dire da quelli di casa mia che bazzicano con l'ortolano, o con qualche altro mascalzone del
monastero. E poi, faremo la cosa in modo che né la Signora né altri possa sospettare donde il colpo
venga».
«Sai tu ch'ella si allontani dal monastero qualche volta? Hai mezzo per farla uscire?»
«M'impegno di trovarlo. E non vi posso promettere né pel tal giorno, né per la tale settimana; ma
piglierò il tempo, e sarete servito; e non andrà molto».
«Bravo! e hai tu bisogno d'uomini in ajuto?»
«Ho bisogno certo d'uomini, non tanto per compire l'opera, come per distornare i sospetti. Quando
io vi darò avviso, voi mi manderete dei vostri uomini forestieri, dei più destri e determinati; costoro
si lasceranno vedere qualche tempo prima; si parlerà in paese di loro: quando la donna sarà
scomparsa...»
«Va bene, si dirà che è stata rapita da forastieri, sconosciuti, da Bergamaschi».
«Rapita, o fuggita con essi: quel che si vorrà: o anche l'uno e l'altro perché ho veduto in più d'un
caso che il raccontare una storia in diverse maniere serve molto a confondere le teste, e a tener
lontani i sospetti dalla verità del fatto».
«Tu parli come un vecchio, e sai operare da giovane», rispose il Conte. «Io ti manderò gli uomini
che mi richiederai: e non avranno altro ordine che di ubbidire ai tuoi».
Così fu conchiuso l'orribile accordo: Egidio annunziò al Conte che l'indomani ripartirebbe di buon
mattino, e che appena giunto a casa, avviserebbe ai mezzi di condurre a buon fine l'impresa.
La sicurezza però di Egidio diede al Conte una maraviglia non molto dissimile da quella che Don
Rodrigo aveva presa della sua. Si aspettava bene il Conte che Egidio avrebbe abbracciata l'impresa,
e trovato il modo di compierla, ma ch'ella dovesse parergli così agevole, non lo avrebbe
immaginato. Si preparava anzi a fargli animo, e a suggerirgli i mezzi per vincere gli ostacoli che
Egidio gli avrebbe opposti; e fra questi il primo gli pareva che dovesse essere la Signora: ma il
lettore sa che questo che al Conte sembrava ostacolo dovette tosto affacciarsi alla mente di Egidio
come un mezzo validissimo. Ed è questo uno dei molti vantaggi dei lettori di storie: il sapere certe
cose ignorate dai personaggi più importanti di esse; il veder chiaro dove i più accorti ed oculati
personaggi camminano all'oscuro: vantaggio che dovrebbe ispirare ad ogni lettore bennato molta
riconoscenza a coloro che glielo procurano, che alla fin fine sono gli scrittori di quelle storie.
Nel resto di quel giorno il Conte trattenne in festa l'amico, in quella festa però che poteva essere in
quel luogo e fra quei due. All'indomani, dopo molti affettuosi congedi, Egidio partì, promettendo
che ben presto manderebbe al Conte buone novelle dell'affare; discese al lago, entrò nel battello del
Conte, traghettato all'altra riva dell'Adda coi suoi, si ripose a cavallo, e prese la via di Monza.
In quel tempo di provocazioni, di vendette, di agguati, di tradimenti, l'uomo che si allontanava
quattro passi da casa sua, camminava sempre con sospetto a guisa d'un esploratore in vicinanza del
nemico; e più d'ogni altro i facinorosi e soverchiatori di mestiere, quelli che avevano in ogni parte
conti accesi di offese o di minacce, com'era Egidio. Benché mandasse alcuni passi innanzi a
battergli la via uno de' suoi cavalieri, il quale spiava se ci fossero insidie, o se giungessero nemici,
pure andava egli stesso guardandosi a destra e a sinistra, cercando di penetrare con lo sguardo ogni
siepe, alzandosi di tempo in tempo su le staffe per veder dietro i muri dei campi, piegandosi per
vedere dietro ogni cappelletta, volgendosi di tempo in tempo a vedere dietro le spalle, e affisando
da lontano chiunque veniva, perché poteva essere un nemico, o il sicario nascosto di un nemico.
Alla metà circa della via, incontrò egli una caravana di carretti e di pedoni, e li riconobbe da
lontano per quelli che erano veramente cioè pescivendoli che tornavano da Milano dopo avere
smaltita la loro merce, e che camminavano di conserva per assicurarsi dai masnadieri. Esaminando
però attentamente ogni persona della caravana, a misura che gli passava dinanzi, gli parve di
riconoscere una donna, che si stava accosciata sur un carretto, coperta il capo d'un fazzoletto
rannodato sotto il mento, la quale veggendo venire armati guatava con una curiosità mezzo
spaventata. Egidio la mirò più fisamente, s'avvide che s'era apposto, che era dessa, e si rallegrò
pensando che a Monza troverebbe un impiccio di meno nell'esecuzione del suo mandato.
Era la nostra povera Agnese che avendo in vano aspettato le lettere o almeno imbasciate promesse
dal Padre Cristoforo, impaziente di venire in chiaro del come andassero le cose, qual partito si
dovesse finalmente pigliare; tornava al paese, per saperne qualche cosa, per dare nello stesso tempo
una occhiata alla casa ed alle masserizie. Lucia alla quale i pericoli passati, la fuga, il trovarsi come
smarrita lungi dalla sua casa fra gente nuova, il timore continuo di peggio avevan restituita quasi
tutta la timidezza della infanzia, aveva più volte afferrata la gonna della madre per non lasciarla
partire, aveva pianto, e pregato, ma, finalmente stanca essa pure della incertezza, e più ansiosa di
saper qualche cosa di quello che non ne confessasse, rassicurata dal trovarsi in un asilo così
guardato, e così santo, s'acquetò, e lasciò che la madre ne andasse; e Agnese se n'era venuta, senza
cruccio della figlia che le pareva d'aver lasciata, come si dice, su l'altare. Noi torneremo indietro
con la buona donna verso le nostre montagne, lasciando andare lo sciagurato Egidio al suo viaggio.
Quando Agnese si trovò al punto dove la strada che conduceva al suo tugurio si divideva da quella
che dovevan fare i pescivendoli per giungere a casa loro, cioè quando ebbe passato il ponte
dell'Adda, scese di carretto, e preso il suo fardello cominciò a piedi le due miglia che le restavano di
viaggio, camminando non senza sospetto. Si confortava però pensando che Don Rodrigo non
l'avrebbe voluta far rapire, e che non sarebbe nemmeno stato tanto scellerato da farle far male
alcuno, senza suo profitto. Giunta vicino a casa, v'andò quanto più celatamente potè per viottoli, e
infatti non fu scorta da veruno; picchiò, le fu aperto da quella sua cognata che stava a guardare la
casa, trovò le cose in ordine; chiese novelle del Padre Cristoforo alla cognata che non potè
rispondergli se non che da quel primo giorno non lo aveva più veduto comparire; e dopo d'avere
esitato qualche momento, si fece animo, e prese la via del convento. Tutta ansiosa si fece alla porta,
e tirò il campanello, al suono del quale, ecco venire un occhio ad una picciola grata della porta a
spiare chi sia arrivato, si alza un saliscendo, si apre mezza la porta, e al luogo dell'apertura un
lungo, vecchio, e magro frate portinajo con la barba bianca sul petto che dice:
«Chi cercate buona donna?»
«Il padre Cristoforo».
«Non c'è».
«Starà molto a tornare?»
«Mah!»
«Dov'è andato?»
«A Palermo».
«A...?»
«A Palermo», ripetè posatamente il frate portinajo.
«Dov'è questo luogo?» domandò di nuovo Agnese.
«Eh! hee!» rispose il portinajo, stendendo il braccio e la mano destra e trinciando l'aria
verticalmente per significare una lunga distanza.
«Oh diavolo!» sclamò Agnese.
«Ohibò, buona donna», disse pacatamente il frate: «che c'entra colui? non chiamatelo qui fra di noi,
che poniamo ogni cura per tenerlo lontano».
«Ha ragione, Padre, ma io sto fresca».
«Bisogna aver pazienza», rispose il frate ritirandosi per richiudere la porta.
«Ma», disse Agnese in fretta, ritenendolo, «che cosa è andato a fare in quel paese?»
«A predicare», rispose il cappuccino.
«Ma perché è andato via così all'improvviso senza dirmi niente?»
«Gli è venuta l'obbedienza dal padre provinciale».
«E perché l'hanno mandato lui che aveva da far qui, e non un altro?»
«Se i superiori dovessero render ragione degli ordini che danno, non vi sarebbe obbedienza».
«Va benissimo; ma questa è la mia ruina».
«Ci vuol pazienza, buona donna. Pensate al contento che proveranno quei di Palermo a sentirlo
predicare: perché, vedete il padre Cristoforo è cima di predicatori; è un santo padre in pulpito».
«Oh il bel sollievo per me!»
«Vedete se v'è qualche altro nostro padre che possa tenervi luogo di lui, rendervi qualche servizio,
nominatelo, e lo andrò a chiamare».
«Oh Santa Maria!» rispose Agnese con quella riconoscenza mista di stizza che fa nascere una
offerta dove si trovi più di buona volontà che di convenienza: «chi ho da far chiamare, se non
conosco nessuno: quegli sapeva tutti i fatti miei, mi dava tutti i pareri, aveva amore per noi
poveretti».
«Dunque abbiate pazienza», rispose di nuovo il frate, disponendosi ancora a partire.
«...Ma, ma...» domandò ancora Agnese, «quando sarà di ritorno?... così a un dipresso?»
«Mah!» rispose il frate. «Quando avrà terminato il quaresimale, cioè a Pasqua, aspetterà un'altra
obbedienza per sapere se deve restar là dove è andato, o tornar qui, o portarsi ad un altro luogo
dove comanderanno i superiori: perché, vedete, noi abbiamo conventi in tutte le quattro parti del
mondo».
«Oh la bella storia!» sclamò Agnese.
«Questo è quello che vi posso dire», rispose il frate, chiudendo questa volta la porta sul volto ad
Agnese, la quale dopo esser rimasta ivi un qualche tempo come smemorata, riprese tristamente la
via della sua casa, pensando come potrebbe riparare una tanta perdita e arzigogolando i motivi di
una sì subitanea disparizione, senza poter mai venire ad una congettura un po' soddisfacente.
Non così il lettore, il quale quando voglia continuare la sua lettura, troverà qui tosto la spiegazione
di tutto il mistero. Il Conte Attilio, tornato a Milano, s'era tosto portato ad inchinare il conte suo Zio
del consiglio segreto. Era questi un vecchio ambizioso, geloso della parte di potere che gli era
venuto fatto di afferrare, e geloso non meno dell'onore della sua famiglia e di tutto il parentado, al
modo che s'intendeva l'onore a quei tempi.
Era egli per due sorelle, zio dei due cugini, e quindi chiese tosto ad Attilio novelle dell'altro nipote
Don Rodrigo.
«Che fa quello sventato? Ma non serve ch'io ne chiegga a te che sei uno sventato come lui, e devi
sempre trovarlo irreprensibile».
«Mi ha imposto di baciare umilmente la mano all'Eccellenza del signor zio, alla quale è sempre
devotissimo».
«Sì sì... mantiene bravi tuttavia?»
«Oh Signor zio, bravi... non si può veramente chiamarli bravi: tiene un corteggio di servitori
conveniente alla sua nascita, e al decoro della parentela».
«Sì sì... ma Sua Eccellenza il signor Governatore non vuole i corteggi a questo modo, e si lascia
qualche volta intendere che toccherebbe ai Ministri, e ai loro parenti dare l'esempio».
«Ma vede bene signor zio, il mondo diventa peggiore di giorno in giorno...»
«Oh questo sì; ma non tocca a te il dirlo».
«Ad ogni modo, il mondo è pieno di gente che non porta rispetto né alla nascita né al nome, se uno
non lo sa far rispettare».
«Anche questo è vero; ma quando si ha uno Zio nel consiglio segreto e all'orecchio di Sua
Eccellenza non si deve temere di soperchiatori».
«Certo, che con l'<I>amparo</I> del signor Zio noi potremmo aver soddisfazione di qualunque
offesa: ma intanto gl'impegni nascerebbero, e il Signor Zio che ha tanta bontà di cuore, avrebbe
disturbi ad ogni momento per causa nostra. Così i temerarj si contengono col solo timore».
«Temerarj, temerari: io so molto bene che Don Rodrigo non è molestato da nessuno, se non cerca
egli di molestare altrui».
«Eh! signor Zio ella sa quanti si trovano che presumono di essere superiori ad ogni autorità, e si
fanno arditi contra chicchessia. C'è per esempio un frate nel convento di Pescarenico, eh! signor
Zio, non si può immaginare che superbia abbia costui».
«Che c'entra questo frate con Rodrigo?»
«Ci vuole entrare per forza, signor Zio. Costui è pieno di premura, probabilmente spirituale, per una
foresotta di quei contorni, e la guarda con un sospetto... guai se alcuno le si avvicina. Che cosa va a
mettersi in capo questo frate? Che Rodrigo gli voglia rapire l'affetto di questa sua colomba. E tutto
questo, perché forse Rodrigo l'avrà guardata qualche volta passando: ma come le dico, la carità di
questo frate è molto permalosa. Ora non può credere le cose che ha dette costui di Rodrigo, i visacci
che gli ha fatti, il tuono di minaccia con cui lo guarda, come se fosse un ragazzo plebeo».
«E questo frate sa che Don Rodrigo è mio nipote?»
«E come lo sa! Si figuri, che non faccio per censurare mio cugino, ma è il suo debole, lo dice ad
ogni occasione, e lo compatisco; quando si ha un onore di questa sorte, non si vorrebbe tenerlo
celato».
«E non ci è nessuno che faccia ricordare a questo frate che Don Rodrigo è mio nipote?»
«Eh pensi! tutte le persone di giudizio glielo fanno ricordare».
«E che dice egli?»
«Dice... dice che il cordone di San Francesco non ha paura nemmeno degli scettri della terra».
«Come si chiama questo frate?»
«Fra Cristoforo da Cremona. Fa il Santo, ma è conosciuto per un uomo torbido; ha sempre voluto
cozzare con la gente bennata; in gioventù ha avuti incontri con cavalieri; ha un bell'omicidio su la
coscienza e si è fatto frate per salvare la pelle: un cervello caldo».
Il Conte Zio prese la penna, e anche il nome di Fra Cristoforo fu registrato sur una terribile
vacchetta, con due righe di commento.
«Sicuramente», borbottava poi il Conte riponendo la sua vacchetta; «il cordone di San Francesco!
Lo so anch'io, ma t'insegnerò io, frate, che per adoperarlo a proposito, non fa bisogno d'averlo
ravvolto intorno alla pancia».
«Per uscirne con poco impegno, e con tutto il decoro della parentela», disse il Conte Attilio, «il mio
sottomesso parere sarebbe che V.E. con la sua consumata politica trovasse il modo di fargli cambiar
aria, e di sopire il negozio, senza entrare in esami, in discorsi, in relazioni; perché io conosco questo
frate, e son certo che al caso non ci metterebbe su né sale né aceto a dare una mentita a un cavaliere;
è un uomo, Signor Zio, da dare uno schiaffo con forza, e da riceverne uno con umiltà: questi
cervelli alla lunga possono impacciare chi che sia, e mettere in impegni...»
«Chi domanda pareri a Vossignoria?...» interruppe il Conte Zio annuvolando la fronte. Il nipote che
lo conosceva, perché avendo spesso bisogno di lui lo aveva esaminato con l'occhio acuto
dell'adulatore, aveva benissimo preveduto che quel personaggio si sarebbe offeso della intenzione
di consigliarlo; ma sapeva nello stesso tempo che il consiglio gli sarebbe rimasto nella memoria,
che sarebbe stato seguito perché era conforme alle idee del personaggio; e quanto all'offesa sapeva
per esperienza che una umile parola di adulazione bastava a farla dimenticare.
«Ah! ah!» sclamò egli, come ridendo della sua propria dappocaggine, «È vero, è vero; sono pure
uno sventato; ma: i paperi vogliono menare a ber l'oche». Il Conte Zio fu contentissimo della
riparazione; e disse: «Bene, bene, i pareri tu gli hai da sentire: e l'ordine che io ti dò ora è di non far
parola con alcuno di questo impegno». Il nipote promise l'obbedienza, e si congedò certo e lieto
della riuscita.
Il Conte Zio rimasto solo, pensò tosto al modo di sciogliere il nodo prima che si ravviluppasse a
segno che fosse mestieri di tagliarlo. Il grande scopo di questo signore era di ottenere un po' di
potere, il più che fosse possibile: e uno dei mezzi più validi per ottenerne era di far credere che ne
avesse molto. Egli conosceva per lunga esperienza l'efficacia di questo mezzo, e in certi momenti in
cui il prurito di far mostra della sua profondità nella politica, superava nel suo animo la
circospezione che gli consigliava a nasconderla (il qual prurito quasi invincibile, per parentesi, è
cagione a molti furbi di scoprirsi da sè, e di rovinare così i loro affari; che è un peccato) in quei
momenti dico, egli era solito di fare intendere la sua teoria con una frase di Virgilio che gli era
rimasta in mente dalla scuola, e che egli interpretava a suo modo: <I>possunt quia posse
videntur</I>. - Chi aveva intese queste parole dalla sua bocca poteva esser certo di essere ai primi
posti della confidenza del Consigliere segreto. Questa dottrina poi, come accade, era in lui divenuta
abito, e passione. In questo frangente si trattava di non permettere che un cappuccino affrontasse e
facesse stare un parente del Signor consigliere, d'impedirlo senza tirarsi addosso i cappuccini, e di
far credere a chi era informato della inimicizia, e ai cappuccini stessi, che il frate era stato vinto, e
aveva dovuto ritirarsi. - Giovanastri senza giudizio, - pensava egli fra sè - la darò io ad intendere a
quel Rodrigo. - Ma intanto bisognava andare al riparo, e tutto pesato il Conte Zio fece pregare con
quei rispetti e con quei pretesti di cerimonia che si usavano, il Padre Provinciale di passare alla sua
casa. Il Padre Provinciale non si fece aspettare.
Due potenze, due dignità, due vecchiezze, due esperienze consumate, si trovavano a fronte. Il Padre
provinciale che non sapeva che cosa il Consigliere segreto volesse fare di lui né in nome di chi, per
quali interessi avesse a parlargli, stava in guardia; e il Consigliere si proponeva di farlo fare a modo
suo, e di farlo partire contento di aver servito un così potente signore.
Dopo le prime accoglienze che furono al solito sviscerate, e dignitosamente umili, poi che il
Cappuccino ebbe espressa magnificamente la sua stima pei Consiglieri, e il Consigliere pei
Cappuccini, il Conte entrò in materia, cercando pure al solito di tasteggiare il suo interlocutore, e di
procedere per via d'interrogazioni che obbligassero ad una risposta, e di eludere nello stesso tempo
le interrogazioni dell'altro, il tutto con l'apparenza della più schietta cordialità.
«Mi sono presa questa sicurtà d'incomodare Vostra Paternità reverendissima», diss'egli, «per un
affare che deve conchiudersi a comune soddisfazione. E senza più, le dirò sinceramente di che si
tratta, senza raggiri, col cuore in mano, come uso con tutti e specialmente con le persone che venero
particolarmente. Ecco il fatto. Nel loro convento di Pescarenico presso Lecco, v'è un certo padre
Cristoforo da Cremona?»
«Vostra Eccellenza è bene informata», rispose il Provinciale.
«Mi dica un po' schiettamente in amicizia, Padre Molto Reverendo, che informazioni tiene di questo
soggetto?» riprese il Consigliere segreto aspettando la risposta. Ma il Padre Provinciale non era uso
di rispondere alla prima chiamata, e molto meno in un caso simile. S'accorse egli che il Conte
voleva cavare da lui tutte le notizie possibili prima di fargli conoscere il suo disegno, e propose di
condurre per quanto potesse il discorso nel modo opposto. - Perché - pensava il Padre - chi sa per
qual cagione questo signore vuol essere informato del Padre Cristoforo. Potrebbe forse avergli
posto addosso gli occhi per servirsene in qualche maneggio, e allora non mi converrebbe
screditarlo; potrebbe volergliene per qualche puntiglio, e allora non mi converrebbe pigliar le parti
di fra Cristoforo prima di saper bene di che si tratta, e fino a che punto lo potrò sostenere. In ogni
caso prima di farmi cantare, dovrà cantare egli più chiaro.
- Fatte rapidamente queste riflessioni, il Padre rispose: «Se V.E. vuol compiacersi di dirmi più
chiaramente perché le preme il Padre Cristoforo, spero di poterle dare tutte le cognizioni che posso
averne io medesimo».
- Sempre politico il Padre Provinciale, - disse in suo cuore, il Conte. - Eh già gli sanno cavare dal
mazzo. - E tosto rispose ad alta voce:
«Ecco il fatto, Padre molto reverendo. Questo padre Cristoforo non le ha dato più volte da pensare
per cavarlo da impegni in cui s'era posto per poca prudenza, e per voglia di accattar brighe? Dica
liberamente, non è un cervello un po' caldo?»
- Ho inteso, - disse fra sè, il Padre - è un impegno: Benedetto Cristoforo! ma bisognerà sostenerlo. -
E rivolgendosi al Conte rispose, indirettamente al solito:
«Liberamente, com'Ella desidera le dirò che il nostro Padre Cristoforo, l'ho sempre conosciuto per
buon religioso, esemplare, zelante, e nei suoi doveri di cappuccino irreprensibile».
- Ah! Ah! - disse ancora fra sè il Conte - bisogna dunque tirarti con gli argani! - E con le labbra
disse al Padre: «Ella sa pure che siamo amici, e fra noi non si deve parlare politicamente. Io sono
informato molto bene che questo religioso è un po' inquieto, ama di comprarsi le quistioni, e di
cozzare con le persone di qualità. Cose che non vanno bene, non vanno bene, Padre molto
reverendo: Ella conosce il mondo, e m'insegnerà che queste cose non vanno bene».
- È tutta mia colpa, - disse sempre in soliloquio il Padre; - doveva pensare che quel benedetto
Cristoforo con quel suo fuoco mi avrebbe strascinato in qualche impiccio: lo sapeva che era un
uomo da far girare di pulpito in pulpito, e da non lasciar mai quieto per tre mesi in un convento
vicino a case di signori. Ma vediamo in che stato è la cosa, e come si può rimediare. - E per pigliar
tempo, rispose al Conte:
«Se Vostra Eccellenza è informata di qualche mancamento di questo padre, Le sarò grato di
farmene partecipe, acciò ch'io possa mettervi rimedio».
«Pensieri degni della sua prudenza, padre molto reverendo: <I>principiis obsta</I>. Ecco il fatto,
senza andirivieni. Questo religioso ha preso a cozzare con mio nipote, e la cosa potrebbe farsi più
seria. Senza parlare di me, che ho troppa venerazione per Vostra paternità e per tutta la compagnia,
per fare nulla senza sua intelligenza in questo proposito; mio nipote ha molte aderenze.
Quand'anche io non me ne volessi impacciare, i parenti di padre e di madre... sono persone... sono
famiglie...»
«Cospicue» disse il padre.
«E accreditate», continuò il Conte: «e mio nipote ha il sangue caldo. Io le parlo da buon amico. Mio
nipote è giovane, e questo religioso, da quel che sento» e qui cavò la sua vacchetta, l'aperse, vi
diede un'occhiata per lasciar supporre al padre che vi erano notate di gran cose, e continuò con
un'aria misteriosa: «questo religioso ha ancora tutte le inclinazioni della gioventù. I giovani non
hanno giudizio, e tocca a noi che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh?...»
«Eh! pur troppo», disse il padre.
Chi fosse stato presente a quel dialogo avrebbe potuto scorgere in quel momento una mutazione
curiosa nel volto dei due personaggi, che per la prima volta prendeva l'espressione d'un sentimento
sincero: qui non avea luogo la politica, e il cuore parlava.
«Ella è così, padre», continuò il Conte. «Tocca dunque a noi il rappezzare gli sdruciti che i giovani
fanno».
«Tra me e lei (così disse il signor Conte) tra me e lei si potrà sopir l'affare».
Queste parole furono molto gradite al Provinciale. È vero, ed ognuno lo sa, che a quei tempi i
membri d'una congregazione religiosa erano affatto indipendenti da ogni podestà secolare, e non
avevano quindi nulla a temere da essa. E quando questa si trovava in collisione con alcuno di loro, e
voleva prescrivere qualche cosa, la più forte, la sola minaccia che usasse e che potesse usare si era
che avrebbe richiesto al papa che i renitenti, quelli che avessero contrafatto agli ordini fossono
mandati fuori dello stato come diffidenti di S.M.; il che si può vedere nelle gride contra gli omicidi,
banditi, i bravi, dove questa minaccia è fatta ai regolari che gli ricoveravano, e ponendoli così in
luogo d'asilo gli involavano dalle mani della forza secolare. In un'epoca posteriore fu pensato al
modo di render più forte questa minaccia, e di estendere la pena; e questo sforzo merita d'esser
ricordato e come un attestato insigne della impotenza della forza civile a raggiungere gli
ecclesiastici, e come un esempio notabile di stolta e feroce iniquità. L'onore di questo trovato
appartiene al Signor Don Luigi de Revavides, Marchese di Fromista e Caracena Conte di Pinto.
Estese egli questa minaccia d'esser trattati come diffidenti di S.M. anche ai parenti più prossimi di
quegli ecclesiastici, che avessero raccettati nei luoghi sacri ed immuni certi banditi. 23 Agosto
1651, ed altre. Ma i modi di nuocere non erano quegli soli che le grida prescrivevano, e la
inimicizia di un uomo, e di una famiglia potente era un semenzaio di pericoli, d'incertezze, e di
disturbi. Il Provinciale si trovò dunque d'accordo col Conte nel desiderio di sopir l'affare; non si
trattava più che del modo di farlo, con la convenienza delle due parti. E siccome la cosa non aveva
fatto grande scandalo, e si trattava più d'antivenire che di riparare, così la cosa non era difficile.
Dopo che i due sorboni ebbero ancora molto interrogato, poco risposto, mercanteggiato, e giuocato
di scherma, il Padre Provinciale disse al Conte che per considerazione della persona di Lui, per
amor della pace egli trasmuterebbe il Padre Cristoforo di quel convento in un altro lontano, con la
condizione che nessuno si vantasse di questo come d'una vittoria: e il Conte lo promise; l'affare fu
conchiuso, e i due contraenti si separarono contenti l'uno dell'altro, e ognun d'essi di se medesimo.
Gran cura ponevano quei vecchj pensatori in un negozio, di gran parole spendevano, ci pensavano
assai, andavano per le lunghe, v'impiegavano il tempo conveniente; ma bisogna anche confessare
che facevano poi cose grandi. In fatti questo abboccamento produsse l'effetto di fare trottare il
nostro povero Padre Cristoforo da Pescarenico a Palermo, che è un bel passeggio.
Fu dunque spedita al Guardiano l'obbedienza da intimarsi al Padre Cristoforo, e con l'obbedienza
l'ordine di farlo tosto partire, la direzione della strada da farsi per non toccare Milano, e l'avviso di
dargli un compagno nella missione, che nello stesso tempo osservasse tutte le sue azioni. Mentre il
nostro povero Frate pensava ai mezzi di soccorrere i suoi protetti, il guardiano lo chiamò a sè, e con
molta consolazione gl'intimò l'obbedienza, gli comandò di prendere il suo bordone, gli presentò il
compagno che era già avvertito, e gli disse «vade in pace». Cristoforo non pensò nemmeno a
domandare un rispitto che era certo di non ottenere: pensò alla povera Lucia, e si accorava; ma tosto
si accusò di aver mancato di fiducia in Dio, e di essersi creduto necessario a qualche cosa; alzò gli
occhi e il cuore al cielo, si abbandonò alla provvidenza; salutò umilmente il guardiano, prese la sua
sporta, si cinse le reni con una correggia di pelle come usavano i cappuccini viaggiatori, disse una
parola cortese al padre compagno, uscì del convento, e si pose su la via che gli era stata prescritta.
<B>CAPITOLO IX</B>
Quando Egidio si avvenne nella nostra povera Agnese, andava appunto fantasticando sul modo di
soddisfare al più presto ai desiderj del suo degno amico, e di dargli con la prontezza del servizio
una prova di audacia e di destrezza singolare; e nei varj disegni che ruminava il pensiero, questa
Agnese gli si gettava sempre a traverso come il maggiore impedimento. Come staccare da essa
Lucia che le stava sempre appiccata alla gonnella? Rapire Lucia quando fosse in compagnia della
madre era esporsi ad un vero scandalo: la resistenza che la madre avrebbe tentato di opporre poteva
render necessaria qualche violenza che avrebbe renduto l'affare più serio, o almeno avrebbe fatto
perder tempo, forse sfuggire l'opportunità; le sue grida potevano attirare dei guastamestieri, o
almeno dei testimonj; e ad ogni modo essa rimanendo in Monza avrebbe sclamato, ricorso, parlato e
fatto parlare. Al contrario quando Lucia non avesse in paese persona a cui calesse di lei
particolarmente, i discorsi sarebbero stati d'un giorno, ed era molto più agevole dare all'avventura
quella spiegazione che fosse convenuta e che nessuno avrebbe potuto smentire. Si andava dunque
Egidio risolvendo ad aspettare che Agnese si fosse allontanata da Monza, ma non sapendo quando
ciò fosse per accadere, si rodeva di dover rimettere ad un tempo non ben determinato l'impresa e
l'onore dell'impresa. Ma alla vista di Agnese che tornava a casa, Egidio si sentì libero d'una grande
incertezza, risolvette di por mano al disegno appena sarebbe giunto a Monza, e continuò a maturare
il suo disegno: i suoi pensieri camminavano più spediti, e per mettere del paro ad essi il suo cavallo
gli diede una voce ed un colpo di sprone, dicendo ai seguaci a piedi che erano obbligati di trottare
un po' affannosamente: «animo figliuoli, che la giornata è bella». Giunto a Monza, entrato in casa,
scavalcato, deposte le armi più gravi e più lunghe, egli corse tosto per la via da lui solo conosciuta
alla porta abominevole che egli aveva aperta nel solajo, entrò con le solite precauzioni nel solajo
dell'abitazione vicina, fece i soliti segni, la signora che stava sull'avviso, intese, avvertì le sue
complici; le quali andarono a chiudere le porte del quartiere che comunicavano col chiostro, e la
sciagurata corse incontro ad Egidio tutta ansiosa.
«Sia lodato il cielo» diss'ella «che vi riveggo! Oh che giorni ho passati! e che notti! Che paura ho
avuta questa volta!» e mentre ella parlava una specie di consolazione angosciosa, e di rincoramento
agitato dipingevano sulle sue guance come due pezze di rossore che contrastavano tristamente col
pallore di tutta la faccia.
«Le solite sciocchezze?» disse Egidio con impazienza.
«Oh! sciocchezze! So io quel che soffro; e fossero anche sciocchezze, a chi tocca aver compassione
di me? Mai mai, non avete voluto compiacermi. Se provaste un'ora quello ch'io sento tutto il
giorno! tutta la notte! Non posso più, non posso più vivere con colei così vicina. Qua giù, qua sotto,
a pochi passi, nella vostra cantina: e quando voi non ci siete...! l'ho veduta sempre, sempre: l'ho
veduta smuovere a poco a poco il mucchio di sassi, e poi metter fuori il capo, e poi venir su... avrei
gridato se non avessi temuto di far correre tutto il monastero... e poi entrare qua dentro per questo
pertugio, senza mai volersi fermare, e poi sedersi qui... quello sgabello son ben sicura d'averlo
bruciato: e pure quando colei arriva, si trova sempre a quel posto, ed ella vi si adagia, e non vuol
partire. Mi pare che se fosse lontana dove io non sapessi, non potrebbe venire così a tormentarmi».
«Donne indiavolate, vive o morte», disse lo scellerato: «ecco le accoglienze gioconde che mi fate».
«Non andate in collera», disse Geltrude, «perché chi altri ho io? a chi mi posso confidare?» e
continuò con voce più sommessa, «quelle altre non mi consoleranno, vedete, se racconterò loro che
siete in collera con me, state in pace, e fatemi questo piacere una volta. Voi sapete far tante cose!
Non sarete più contento, quando mi vedrete tranquilla?»
«Ma sono queste cose da pensare, e da dire?» rispose Egidio. «È un affare finito, che non dà più
impaccio, e volerne andare a cercare uno di questa sorta? perché? per una pazzia? Che volete ch'io
faccia? Ch'io desti il cane addormentato? Senza una ragione al mondo? come l'ho da portare?
dove?»
«Scendete una notte solo», disse Geltrude, «già voi non avete paura, - fortunati gli uomini! -
prendetela portatela al fiume, gittatela in un pozzo abbandonato...»
«Bel divertimento! bella festa invero!» disse Egidio con un sorriso di rabbia e di scherno «bella
commissione che mi date! Pazzie! E tutto per tirar fuori quello che è ben nascosto! Savio disegno!
Sapete voi dirmi un luogo dove possa star più nascosta che ora non è
«È vero», disse Geltrude, «gran cosa che non si sappia che fare d'un morto!»
«Che farne?» rispose Egidio, «niente: sta bene dov'è. Dimenticatela, pensate quello che pensano
tutte le vostre suore: è andata alle Indie su una nave olandese, e pensa a vivere allegramente; lo
credono tutti...»
«Ma non è vero», rispose Geltrude.
«Che fa questo?» disse bruscamente Egidio.
«Fa tutto», replicò tristamente Geltrude; e proseguì: «anch'io prima... credeva che purché lo
sapessimo noi soli, la cosa sarebbe come se non fosse avvenuta, ma ora...»
«Ora è tempo di finirla», interruppe sempre aspramente Egidio.
«Oh ecco come son trattata!» disse con accoramento Geltrude; «mi strapazzate perché patisco; siete
voi quello che mi strapazzate, voi... Che colpa ho io se sono una poveretta? Vorrei anch'io non
curarmi di nulla, esser come voi... voi siete un uomo, voi mi date animo... ma no no... voi avete
troppo coraggio, troppa presenza di spirito... mi fate quasi... paura... penso... penso che se... mi
odiaste... ah i morti non vi danno travaglio!»
«Che pazzie! che pazzie!» disse Egidio con istizza sempre crescente.
«Ebbene», disse Geltrude in tuono supplichevole, «compiacetemi, levatemi questa spina del cuore,
allontanate colei da questa abitazione; voi vedete ch'io non posso allontanarmi io».
«Via», rispose Egidio, fingendo di acconsentire alla domanda «vi compiacerò; è un impiccio, è un
fastidio, è un pericolo, ma per voi lo farò».
«Oh davvero!» disse Geltrude, «non lo dite per acquetarmi, come avete fatto altre volte... vi
ricordate?... promettetelo da vero».
«Possa essere...!»
«Non giurate, per amor del Cielo», interruppe Geltrude come spaventata; «non fate imprecazioni,
perché noi siamo in uno stato che una picciola parola può bastare... potrebb'essere intesa ed esaudita
in quel momento che la proferiamo».
«Via ve lo prometto da uomo onorato», rispose Egidio, affettando tranquillità: «ve lo prometto; e
non se ne parli più. Ho bisogno anch'io che voi mi compiacciate in un affare d'importanza; e non mi
si deve dire di no, non si deve opporre nemmeno un dubbio».
«Che posso fare?» chiese con istanza e non senza inquietudine Geltrude.
«Quella villanotta che v'è stata data in guardia», rispose Egidio, «quella Lucia...»
«Ebbene?...»
«Ho promesso di consegnarla ad un amico al quale non voglio né posso rifiutar nulla; e voi dovete
darmi ajuto a liberarmi dalla mia parola».
A questa proposta, Geltrude incrocicchiò le mani con forza, le presse al petto, si strinse tutta, levò al
cielo uno sguardo nel quale brillava momentaneamente un raggio dell'antica innocenza, e con voce
supplichevole e commossa disse: «Ah no: non ne facciamo più, non ne facciamo più per pietà. Chi
sa che quel che abbiamo fatto non possa ancora essere perdonato? V'era, una scusa, ma qui non ve
n'è. Perché fare ancora delle cose, che si vorranno dimenticare e non si potrà? Non ne abbiamo
abbastanza?»
«Ah! ah!» rispose Egidio, «così siete disposta a compiacermi? Adesso vi nascono gli scrupoli eh!
Più conto fate d'una villana, che conoscete appena da otto o dieci giorni che di me. Questa è quella
che voi amate».
«Io amarla!» rispose Geltrude, «io colei! non la posso soffrire, è una superba, non fa che parlare
della sua innocenza, e quando ne parla mi guarda con certi occhi come se sapesse qualche cosa, e
fingendo rispetto volesse insultarmi. L'ho accolta, sapete, perché bisogna nel nostro stato farsi più
amici che si può: no ch'io non l'amo: ma lasciatemela per carità, questa lasciatemela, mi diventerà
cara, e quando un altro pensiero verrà a tormentarmi, riposerò i miei occhi sopra di lei, e dirò fra di
me: - ecco, anche questa l'avrei dovuta sagrificare; ed è qui».
«Pazzie, pazzie», disse Egidio: «parlate come una bambina sciocca. Lasciate che sul principio si
lamenti e un giorno poi riderà dei suoi terrori, e sarà contenta».
«No, non sarà contenta», rispose Geltrude con la rapida risoluzione di chi ha il vivo sentimento che
le parole che ha udite sono menzogne.
«Va bene, va bene», disse Egidio con uno sdegno in parte vero, in parte diabolicamente affettato:
«non ne facciamo più: e già vedo che non possiamo andar d'accordo: è tempo perduto con voi:
siamo troppo differenti nel pensare: ma a tutto si può rimediare; i mattoni son lì tutti come contati; e
ad ogni volta mi dò la briga di riporli al loro posto antico: basta che io porti un po' di calce, il muro
sta come prima, tutto è finito».
«No, no, no...» riprese affannosamente Geltrude: «...dite, che volete ch'io faccia?»
«È vero», continuò l'uomo abbominevole, come se persistesse nel suo proposito, «è vero che vi
sono anche quelle altre...»
«Zitto, zitto per pietà» disse Geltrude, «che non sentano: volete farmi diventare il ludibrio di
quelle...»
«Quelle, quelle» riprese Egidio «saranno certamente più pronte a rendermi un servizio».
«Dite, dite, che volete ch'io faccia?»
«Chiamatele», rispose imperiosamente Egidio, «e troveremo insieme il mezzo di condurre a capo
questa grande impresa».
«Dite...»
«Chiamatele, dico», riprese Egidio, e Geltrude strascinata ancora una volta un passo più innanzi
nella via della perversità, avvezza ad ubbidire, ubbidì e andò a chiamare le sue complici. Egidio
sapeva quello che aveva detto; e quelle due sciagurate erano in fatti più tranquillamente e più
risolutamente perverse di Geltrude. Geltrude dei loro discorsi, del loro contegno sentiva talvolta
orrore, disprezzo, ne riceveva una specie di scandalo; ma questi sentimenti ricadevano terribilmente
su la sua coscienza, perché ad ogni volta Geltrude era costretta a ricordarsi che dessa era quella, che
aveva fatti far loro i primi passi nel cammino dove ora la precorrevano. Non parlo che di questi
sentimenti, perché gli altri tutti orribili e tutti fastidiosi che dovevano nascere in quegli animi in
quella situazione non sono da descriversi: basti dire che con tante cagioni di vicendevole
ripugnanza una sola cosa le teneva unite, la partecipazione d'un sangue, l'avere una sola coscienza:
vivevano insieme come lo sbigottimento e l'audacia, il desiderio di rimpiattarsi e il desiderio di
assalire, il rimorso e il delitto vivono insieme nell'anima d'un masnadiero.
Rivisitate accuratamente le porte, tentati i chiavistelli per accertarsi che fossero ben chiusi, le tre
sciagurate s'avviarono insieme verso il luogo più rimoto del quartiere dove Egidio le stava
aspettando. L'orrendo concilio fu ragunato: le sciagurate aspettavano ansiose di udire ciò che Egidio
avesse a propor loro, e nello stesso tempo stavano col capo levato all'indietro origliando se un
qualche romore si sentisse, se qualche suora venisse a bussare, per accorrer tosto, per intrattenerla
con qualche pretesto prima di aprire, e dar così tempo ad Egidio di sparire senza lasciare alcun
sospetto. Egidio espose loro in due parole il suo desiderio: ch'egli aveva bisogno di tenere Lucia per
servire un suo caro amico, che esse dovevano dargli ajuto, che la cosa doveva esser fatta presto e in
modo che il sospetto non cadesse né sovra di esse né sovra di lui.
In una brigata di onesti che deliberi qualche risoluzione da prendersi, ognuno diventa più onesto, il
sentimento comune rinforza quello d'ogni individuo che parli, le parole d'ognuno divengono più
rigide, più degne, più scrupolose, suppongono sempre un convincimento profondo della persuasione
della virtù; e così pur troppo, in una brigata di tristi, ognuno diventa più tristo, perché chi ragiona
dinanzi ad un uditorio per picciolo ch'e' sia, generalmente parlando, non teme nulla più che di
stonare dagli altri. Geltrude che alla prima proposta di quel fatto, ne aveva conceputo tanto orrore,
risoluta ora di obbedire allo spirito infernale che la possedeva, non avrebbe voluto che altri
mostrasse più ardore, più prontezza, più sagacità nel farlo; Geltrude avvezza ad essere strascinata, e
a far sempre qualche cosa di più di ciò che sul principio aveva ricusato di fare, rispose tosto che
pigliava essa l'impegno, che ne aveva i mezzi più di chicchessia. Le altre triste protestarono tosto
che esse erano pronte a secondarla in tutto. Egidio le chiese se essa avrebbe saputo far andare Lucia
sola in una strada solitaria. «Domani», rispose Geltrude. «Domani è troppo presto», disse Egidio;
«la rete non potrà esser tesa che dopo domani». «Dopo domani», rispose ancora Geltrude. La
congrega si sciolse, ed Egidio corse tosto a spedire un messo al Conte del Sagrato, per chiedergli i
bravi dei quali avevano convenuto. Il messo partì nella notte stessa, giunse all'alba al castello; il
Conte diede tosto gli ordini ai bravi che dovevano andare all'impresa: impose loro di obbedire ad
Egidio, e di non nominarlo, di aspettare i suoi comandi, e di non andare a casa sua né di cercarlo in
alcun luogo, e i bravi scesero all'Adda, e s'imbarcarono. Nello stesso tempo spedì egli una carrozza
leggiera da viaggio con un cocchiere quale conveniva a tal signore; gli ordinò di farsi tragittare su
un altro punto del fiume, di non mostrare di avere alcuna relazione con quegli altri amici che
partivano, di appostarsi vicino a Monza nel luogo che era indicato nella lettera di Egidio, e di
aspettare pure gli ordini di questo.
Quanto alle ciarle da spargersi per via e alle fermate, onde far stornare dal vero le congetture dei
curiosi, il Conte ne lasciò l'invenzione alla prudenza, ed alla sagacità dei suoi uomini; perché gli
aveva scelti tra i più provati, e più destri, e tali che sapessero conformare la condotta e i discorsi alle
circostanze che egli non poteva prevedere. Contemporaneamente, a paro per un'altra via il messo di
Egidio tornò al suo padrone, e gli portò la risposta nella quale il Conte, con un gergo da loro soli
inteso lo avvertiva di ciò ch'egli aveva ordinato. Egidio, lasciato riposare il messo, lo rispedì alle
poste dov'erano giunti gli uomini del Conte, e li fece istruire di ciò che avevano a fare. Tutta quella
giornata fu spesa in preparativi. Il giorno appresso (la nostra storia lo registra, ed era il ventuno di
novembre) Egidio diede avviso a Geltrude che tutto era in pronto, e ch'ella dovesse mantenere la
sua parola, operar tosto secondo le istruzioni ch'egli le aveva date.
Geltrude scese nel suo parlatorio appartato, e fece chiamare Lucia. La nostra poveretta innocente
corse volonterosa alla chiamata. Dopo la partenza della madre, rimasta come smarrita, senza
consiglio, senz'altro appoggio che quello della Signora, non si sentiva mai tanto sicura come presso
di lei. Ben è vero che quel non so che d'inusitato e di strano ch'ella aveva trovato nei discorsi e nel
contegno di essa gli aveva lasciata una impressione d'incertezza e quasi di timore, ma ella era tanto
lontana dal sospettar pure le vere cagioni di quell'inusitato, che le prime riflessioni della madre
l'avevano rassicurata; e Lucia non ne aveva cavata altra conseguenza se non che i signori erano
molto differenti dai poverelli. Si presentò ella dunque a Geltrude con quell'aria di fiducia affettuosa,
con quella gioja riconoscente, che il debole sente alla presenza del forte che è per lui; le andò
incontro, come la pecora va incontro al pastore che le si avvicina, che allontana le altre e stende la
mano per accarezzarla; e non sa la poveretta che egli ha lasciato fuori del pecorile il beccajo a cui
l'ha venduta in quel momento.
La festa ingenua di Lucia, e la sua aria fiduciale era un rimprovero e una distrazione terribile per la
Signora, la quale tosto interruppe alcune semplici parole di affetto e di riconoscenza che l'innocente
tutta peritosa aveva incominciate, protestò di non voler ringraziamenti, e postasi in aria di premura
e di mistero le annunziò che l'aveva fatta chiamare per comunicarle cose molto importanti. Lucia si
fece tutta attenta, e Geltrude ripetendo la lezione del suo infernale maestro cominciò ad
impastocchiarla con una storia misteriosa, di pericoli, e di speranze, di mezzi posti in opera da lei,
di ostacoli, di ajuti, tutto per liberare Lucia dalla persecuzione di Don Rodrigo, e per farla essere
tranquillamente sposa di Fermo: accennando molto di più che non dicesse, e allegando motivi di
prudenza per non dir tutto, ripetendo ad ogni momento che un po' di coraggio e molta precauzione
poteva tutto salvare, e una picciola indiscrezione perder tutto; che l'occasione era pronta, e per
coglierla non bisognava perder tempo; e terminò con dire che le bisognava in quel momento un
uomo da cui potesse aspettarsi un consiglio fidato, e un ajuto operoso, che il solo uomo del mondo
che fosse da ciò era quel padre guardiano dal quale Lucia era stata scorta al monastero; che ella
aveva bisogno di parlare con lui ma che le mancava il mezzo di farlo avvertire con sicurezza,
giacché dopo d'aver riandate tutte le persone, tutti i modi per questa spedizione, trovava in tutti il
pericolo di farsi scorgere, di sventare il segreto, di metter sull'avviso quelli a cui importava il più di
tener tutto nascosto, e di perdere così l'opportunità, anzi di avvicinare i pericoli: che insomma per
condurre bene a fine questa faccenda, era necessario che Lucia prendesse un po' di risoluzione, si
snighittisse, e facesse tosto, e segretamente e sola questa commissione. Lucia a questa proposta
rimase sopra di sè, poiché allontanarsi dal monastero, andarsene soletta per un paese che era per lei
come l'America, era un gran pensiero: fece adunque come si fa ordinariamente quando non si
vorrebbe aderire ad una proposta: si mise a discuterla, per poter conchiudere che non era la sola
cosa da potersi fare: disse che la Signora avrebbe potuto trovare altre persone fidate e discrete,
domandò schiarimenti, volle sapere più addentro come la commissione fosse necessaria, e come
essa fosse la sola che la potesse eseguire. Ma la Signora memore sempre della scuola di Egidio,
mostrò prima di offendersi, rispose ancor più misteriosamente alle domande, lagnandosi di Lucia
che pretendesse farle rivelare ciò ch'ella non poteva, e che non volesse fidarsi di chi senza un
interesse, per pura pietà si prendeva tanta cura di lei; e conchiuse finalmente col dire: «Sono ben io
la buona donna a pigliarmi di questi travagli: si tratta di voi, finalmente; io me ne lavo le mani: ho
fatto ancora più ch'io non dovessi». Lucia commossa in un punto di vergogna e di timore, stava per
piangere; e la signora vedendola arrivata a quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più
amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le sarebbe mai mancata se ella
avesse avuta fede in lei; e infervorata com'era nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo
scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un
giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e
rovinata se stessa, la madre, e l'uomo a cui ella s'era promessa. Lucia non seppe più resistere, si
accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando quello che le
era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto». Geltrude l'accomiatò, lodandola,
facendole animo, e ripetendo le più liete promesse e indicandole la via per andare al convento.
Lucia ritenendo a forza il pianto chiese scusa alla Signora della sua poca fede, e della sua
ingratitudine. «Sono una poveretta senza pratica», diss'ella; «ma già ella tutte queste brighe non se
le deve pigliar per me, ma per Quello di lassù, che gliele rimeriterà tutte», e abbandonandosi alla
grata, colle braccia tese, continuò: «se non fossero questi ferri, mi pare che le getterei le braccia al
collo, ed ella non se lo avrebbe a male, perché è tanto buona, ed io lo faccio per cuore».
«Sì sì, Lucia, addio, addio», disse Geltrude.
«Dio la benedica» rispose Lucia, e staccatasi dalla grata, si volse, e si avviò verso la porta del
parlatorio.
- Che orrenda parola! - disse in suo cuore Geltrude: <I>Dio gliele rimeriterà tutte</I>, e alzando gli
occhi vide Lucia, che stava per passare la soglia. Finché Lucia aveva litigato contra le persuasioni
di Geltrude, questa, impegnata ad ottenere l'intento di Egidio, animata dalla disputa stessa non
aveva pensato ad altro che a giungere al suo fine, ma quando vide il cangiamento di Lucia, quando
vide la sua fede sicura, intera, amorosa, e pensò che la tradiva, quando vide la vittima andare così
senza sospetto all'orribile sagrificio, un sentimento improvviso, indistinto, irresistibile le fece
pronunziare quasi macchinalmente queste parole: «Sentite Lucia». Lucia ristette, si rivolse, ritornò
alla grata. Ma, nel momento che Lucia spese a fare quei pochi passi, l'immaginazione di Geltrude
aveva già veduto Egidio furibondo per essere stato ingannato, aveva già udite le sue imprecazioni,
le sue minacce, s'era già pentita del suo pentimento, e quando Lucia ristette alla grata per intendere
ciò che Geltrude avesse di nuovo a dirle; Geltrude confermata nella iniquità: «senti Lucia», le disse,
«ricordati bene di tutte le avvertenze che ti ho date; procura di tirarti in mente la strada che tu hai
fatta venendo qui; se fossi in dubbio, domanda con indifferenza e con franchezza a qualche buona
donna che passi per via; va in modo di non dar sospetto: fatti animo, ché già non è il viaggio di
Madrid: va e torna presto».
«Oh», disse Lucia, «Dio mi accompagnerà»; e si volse di nuovo, s'avviò verso la porta, e passò la
soglia. Geltrude corse a chiudersi nella sua stanza. Quivi l'abbandona il nostro autore; né in tutto il
resto del manoscritto ne fa più menzione. Noi però, trovando descritti dal Ripamonti gli ultimi casi
di questa sventurata, stimiamo che monti il pregio d'interrompere un momento la narrazione
principale, per accennarli. Ci sembra anzi una specie di dovere per noi, quando abbiamo raccontati i
delitti, di non tacere il pentimento, di non tacere che l'orrore a noi così facilmente ispirato da quelli,
la religione ha potuto ispirarlo ancor più forte e più profondo all'anima stessa, che gli aveva
acconsentiti e commessi. Riferiremo quei casi in compendio; chi volesse conoscerli più in
particolare, li troverà esposti in bel latino nella <I>Storia patria</I> del Ripamonti, al libro sesto
della quinta decade. Siccome egli non vi pone alcuna data, così non possiam dire di quanto sieno
posteriori alle cose già da noi narrate.
La condotta, il linguaggio, l'aspetto abituale delle tre sciagurate suore, le loro stesse precauzioni,
per distornare i sospetti, ne fecero, com'era naturale, nascere dei nuovi, che dopo d'aver serpeggiato
nel monastero, si diffusero al di fuori. Due vicini di quello che ebbero la sciagura di ricevere
qualche prima confidenza di quei sospetti, un fabbro ed uno speziale, accennarono copertamente in
qualche discorso, che in un monastero del paese accadevano cose orrende e turpi: l'uno e l'altro
furono trovati uccisi. Un terrore misterioso invase tutti gli animi nel monastero e fuori; ai susurri
che già cominciavano a farsi sentire nelle brigate, successe un silenzio cupo e significante, e nelle
relazioni più intime, gli sguardi, i cenni, le parole sospese esprimevano o accennavano un sospetto e
uno spavento comune. Questi romori così vaghi e generali com'erano, furono riferiti al cardinale
Federigo Borromeo arcivescovo di Milano. Egli dolente e turbato d'essere così tardi avvertito, si
portò a Monza sotto colore d'una visita generale, e venne a colloquio colla Signora, per esplorare
dalle sue parole lo stato dell'animo suo; e ne uscì con più grave e più fondato sospetto. D'allora in
poi, la Signora, irritata dai sospetti che vedeva starle sopra, agitata dalle certezze della coscienza;
esaltata per così dire dal suo stesso turbamento, perdè tutta la prudenza della colpa, le sue azioni
divennero affatto indisciplinate, i suoi discorsi strani, furiosi, inverecondi. La giurisdizione
criminale su le persone addette allo stato religioso era allora esercitata dai vescovi. Il cardinale fece
torre la Signora da quel monastero, e trasportarla in un convento di convertite nella città. Ivi
l'infelice infuriò per qualche tempo: tentò di fuggire, tentò di uccidersi, ricusò il cibo, diede del
capo nelle muraglie; urlava tutto il giorno, bestemmiava più di tutto il cardinale: contra il quale tale
era l'odio di lei, ch'ella ebbe a dir poscia che tutte le inimicizie che gli uomini chiamano mortali,
erano un giuoco appo di quella ch'ella sentiva per lui.
Intanto lo scellerato vicino ripose il piede nel monastero, e parte colla persuasione, parte colle
minacce astrinse le altre due sue vittime a seguirlo, e di notte con esse fuggì. Ma, o fosse disegno
premeditato di quell'animo atroce, o ebbrezza di scelleraggine, poco distante dal paese, in riva al
Lambro, una dopo l'altra le trafisse con un pugnale, gittando l'una nel Lambro, e l'altra in un pozzo
rasciutto ed abbandonato nei campi. Ma le ferite non furono mortali, ed entrambe le donne furono
salve per diversi eventi e rinvenute, e riposte a guarire in un altro monastero del borgo.
La Signora all'annunzio di tali atrocità, tutta, tutto ad un tratto si mutò; rivolse in orrore di se stessa,
in pentimento, in dolore ineffabile, in lagrime inesauste tutto quell'impeto di furore; e da quel
momento fino al suo ultimo respiro non si stancò mai di espiare almeno ciò che non poteva più
riparare. Il Cardinale ch'ella chiamò poi il suo liberatore, dovette porre un freno ai rigori ch'ella
esercitava contra se stessa; la visitò da poi e la consolò sovente. Pagò egli poi sempre le spese del
suo mantenimento, perché i parenti, come se col rifiutare quella sventurata avessero potuto
scuotersi da dosso la colpa che avevano nella sua rovina, non vollero più udirne parlare. Le due
compagne la imitarono nella penitenza. Ma il miserabile pervertitore di tutte, bandito nella testa,
dopo d'avere errato qua e là, cangiato più volte d'abiti, e di nome, chiese asilo in città ad un amico,
che lo accolse; ma come amico d'un tale uomo, o per timore, o per ottener grazia di qualche altro
delitto, lo fece uccidere in un sotterraneo della casa, e presentò la sua testa al giudice, come era
prescritto dagli ordini di quel tempo, i quali nel caso dei banditi costituivano carnefice ogni
cittadino, e offerivano o danari, o impunità per altri delitti in mercede all'assassinio.
---------
Lucia uscì nella via, e s'incamminò con grande attenzione, con gran riserbo, con un gran battito al
cuore, tutta raccolta in sè, studiando la strada, con le indicazioni che aveva avute, e con la memoria
che le restava della strada già fatta. Giunse così all'uscita del borgo (perché il convento dov'ella
s'avviava era al di fuori in picciola distanza): riconobbe la porta per dov'era entrata la prima volta, e
prese a sinistra la via che l'era stata insegnata.
Tutte le strade del Milanese erano a quel tempo anguste tortuose, e nel pian paese profonde e come
quivi si dice invallate, a guisa di un letto di fiume, fra due rive di campi alte non di rado un uomo, e
orlate di piante che intrecciate al pedale di rovi, di biancospini, e di pruni riunivano in alto i rami
loro in volta dall'una all'altra parte: e tali sono ancora in gran parte le strade comunali. Quando
Lucia si trovò soletta in una strada simile, si pentì quasi di essersi tanto rischiata, e studiò il passo
per giunger presto, proponendo fermamente di non ritornar dal convento a casa senza una qualche
scorta. Ma voltato uno di quei tanti andirivieni, vide una carrozza da viaggio ferma nel mezzo della
via, e fuori della carrozza innanzi allo sportello che era aperto due uomini che guardavano su e giù
per la via come incerti del cammino: e per quella presunzione comune che coloro i quali vanno in
carrozza sieno galantuomini, Lucia si sentì tutta rincorata, e le parve d'aver trovata una salvaguardia
alla metà appunto del cammino, nel luogo più lontano dall'abitato, e dove il bisogno era più grande.
Continuò adunque più animosamente a camminare; e quando fu presso alla carrozza tanto che si
potessero distinguer le parole, intese uno di quelli che stavano al di fuori dire con una pronunzia e
con un linguaggio che lo fece conoscere a Lucia per bergamasco: «Ecco una buona donna che
c'insegnerà la strada». Giunta a paro della carrozza, quel medesimo le si volse con un atto più
cortese che non fosse la sua faccia, e le disse: «buona giovane sapreste voi insegnarci la strada di
Monza?» Mentre costui parlava, l'altro s'era posto dinanzi a Lucia in modo da sbarrarle la via, ma
come un uomo che sta per udire: «Loro signori», rispose Lucia, «sono voltati a rovescio: Monza è
per di qua» (alzando la mano e stendendo il pollice al disopra della spalla): «girino la carrozza, e
vadano per questa strada, e saranno a Monza in poco più d'un <I>miserere</I>». Così detto, voleva
continuare il suo cammino, e s'avvicinava alla riva per passare senza urtare quel forastiero che stava
lì ritto come un termine, e senza dirgli che facesse largo, cosa che alla nostra povera forese sarebbe
sembrata troppo famigliare. «Un momento», disse colui che le aveva già parlato, ritenendola
dolcemente: «noi siamo ben impacciati in queste strade dell'altro mondo: non potreste voi farci la
cortesia di salire in carrozza con noi, e d'insegnarci la strada fino a Monza?»
«Signori miei», disse Lucia arrossando, e maravigliandosi della proposta, «io ho fretta d'andare pei
fatti miei; vadano per di qua, e non possono fallire». «Voi siete bene schifa», rispose il malandrino,
e mentre egli proferiva queste poche parole, l'altro che era nella via, afferrò d'improvviso Lucia pei
fianchi, la sollevò, e con l'ajuto del compagno la pose a forza nella carrozza, dove fu tosto presa,
ritenuta, posta a sedere da due che vi erano: il malandrino che aveva parlato la seguì, l'altro chiuse
lo sportello, e il cocchiere sferzò i cavalli, e la carrozza partì di galoppo. Lucia al sentirsi presa levò
un grido, lo raddoppiò quando si sentì alzata e ficcata nella carrozza, ma quando vi fu, una
manaccia villana le cacciò un fazzoletto sulla bocca, e le soffocò il grido nella gola: Lucia si
divincolava ma era tenuta da tutte le parti, faceva forza per pingersi verso lo sportello, per farsi
vedere alla strada, ai campi, ma due braccia nerborute la tenevano per di dietro come conficcata al
fondo della carrozza, due braccia nerborute ve la rispingevano per dinanzi, mentre tre bocche
d'inferno dicevano con la voce più dolce che era lor concesso di formare: «Zitto, zitto, non abbiate
paura, non vogliamo farvi male; non è niente, non è niente». Lucia tra per la sorpresa, tra per lo
terrore che andava sempre crescendo, tra pei pensieri tutti oscuri, e tutti orrendi che le passavano in
furia per la mente, tra per lo sforzo che faceva e quello che pativa, sentì mancare gli spiriti: le sue
idee si abbujarono, cominciò a veder come confusi fra di loro quegli orridi visacci che le stavano
dinanzi, un sudore freddo le coperse il volto, allentò le braccia, lasciò cadere indietro la testa,
abbandonò la persona al fondo della carrozza, e svenne.
«Coraggio, coraggio» dicevano gli scherani, ma Lucia non intendeva più nulla.
«Diavolo!» disse uno dei malandrini; «par morta».
«Niente, niente», disse un altro, «ci vorrebbe un po' d'aceto da mettergli sotto il naso».
«È lì covato l'aceto...» disse il terzo: «se potesse servire quel fiasco di vino che è riposto lì sotto il
sedile».
«Che vino?» riprese il secondo, «aceto vorebb'essere».
«Vedete che mala ventura», disse ancora il terzo; «se giungessi arso di sete in una osteria disabitata,
a cercar vino, troverei aceto, e qui che aceto ci vorrebbe...»
«Taci gaglioffo, che non è tempo da sciocchezze», interruppe il secondo.
«Ohe!» disse il primo, «non dà segno di vita: se fosse morta davvero avremmo fatta una bella
spedizione».
«Noi abbiamo eseguiti gli ordini puntualmente», rispose il secondo; «se fosse accaduta una
disgrazia non è nostra colpa».
«Che morta?» disse il terzo: «è un picciolo fastidio che le è venuto: eh! le donne ne hanno per meno
d'assai: or ora tornerà in sè».
Mentre quegli sciagurati tenevano questo consiglio, ed esprimevano la loro inquietudine in uno stile
degno del loro animo, la carrozza era uscita dalla via più battuta, aveva imboccata una stradella di
traverso pei campi, e continuava rapidamente il suo cammino.
Intanto colui che aveva afferrata Lucia, ed era un bravo di Egidio rimasto nella strada quando la
carrozza partì, si guardò intorno, e certo che nessuno lo aveva scorto spiccò un salto sul pendio
d'una riva, abbrancò un ramo della siepe, con un altro salto fu sull'alto della riva, e si appiattò in un
polloneto di castagni che conservavano ancora tanto delle lor foglie da nascondere un birbone. Il
primo grido di Lucia era stato inteso nei campi di qua e di là da pochi lavoratori che v'erano, e
questi accorsero alla riva per guardare nella strada che fosse, ma cercando di adocchiare nascosti
dalla siepe per non entrare in qualche impiccio, per non toccarne, per non essere citati come
testimonj, per non arrischiarsi in somma, che è il pensiero il più comune nei tempi in cui i violenti
fanno la legge. Mettevano la faccia ai fori della siepe e guatavano: altri vide una carrozza che si
allontanava di galoppo, e stette lì qualche tempo a seguirla col guardo a bocca aperta; altri non vide
nulla e si fermò pure qualche tempo, altri che era accorso ad un punto della via per cui la carrozza
non era ancora passata, la vide venire, trascorrere, vide una bocca d'arcobugio che usciva dallo
sportello, e si ritirò tosto, fingendo di non aver nemmeno badato. Tornati poi a casa, raccontarono
quello che avevano veduto, e si sparse la voce che qualche cosa era accaduta. Il bravo d'Egidio
quando sentì tutto quieto intorno al suo nascondiglio, ne uscì per una parte che dava su una via
diversa, e con l'aria d'un uomo che non ha intesa una novità se ne andò a render conto al padrone
dell'esito felice della spedizione. Egidio lo ricompensò di quattrini e di lodi, e lo mandò tosto
attorno per raccontare la novella nel modo che ad entrambi e ai loro amici conveniva che fosse
creduta, o almeno per confondere il giudizio pubblico e stornarlo dalle congetture che potevano
condurlo alla verità. Il bravo tolse con sè, senza saperlo, quella dea che ha tanti occhi quante penne,
e tante lingue quanti occhi, (e debb'essere una bella dea) e si avviò. Il campo più opportuno ad un
tal uomo e ad un tale ufficio, la taverna, era allora deserto a cagione della carestia che di giorno in
giorno cresceva e si diffondeva in tutte le parti del Milanese: mangiare e bere non era più per
nessuno un oggetto di divertimento; era divenuto per tutti un bisogno difficile da soddisfare. Andò
dunque in su la piazza, luogo sempre popolato di oziosi, ma più che mai in quell'anno calamitoso, in
cui erano forzati all'ozio anche i più operosi. Quella piazza di Monza come tutte le piazze, tutte le
vie, tutti i campi della Lombardia presentava il più tristo spettacolo. Poveri di professione che dopo
d'avere invano domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila l'uno
appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di tempo in tempo nelle spalle,
aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le
costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento che si
poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole. Qua e là
crocchj di artigiani senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma
che in quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti, scorati: i più rubesti,
i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a
cui servivano, e ai quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto
pagamento. I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione: vociferazioni contra i
fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni mormorate sommessamente contro i potenti, contra
i magistrati, racconti di grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti in
altre terre dello stato. Pochi giorni prima una gran parte del popolo si era sollevata in Milano; e
dopo quel sollevamento estinto con le promesse, e seppellito coi supplizj, si erano pubblicate leggi
quali il popolo le desiderava. Questo fatto era stato in tutta la Lombardia ed era ancora il soggetto
dei discorsi; e il fatto come le conseguenze era narrato diversamente, come suole accadere: ognuno
arrecava qualche nuova circostanza che dava luogo a qualche nuova riflessione. Ma in quel
momento in Monza l'avvenimento locale occupava tutti i pensieri, e tutte le bocche: in tutti i crocchj
si parlava di Lucia. Il bravo si avvicinò ad uno di quelli, come uno sfaccendato, e stette ascoltando.
«Erano due carrozze di signori bergamaschi» diceva un barbassoro, «accompagnate da uomini a
cavallo: la giovane si mise a fuggire pel campo di Martino Stoppa, ma fu raggiunta, e portata via di
peso». E continuò con voce più sommessa in aria misteriosa: «debb'essere qualche gran tiranno
bergamasco». «Io ho inteso da chi l'ha inteso da uno che v'era», disse un altro, «che le carrozze
erano tre, e che la gente le fece fermare; ma quei signori misero fuora gli archibugi, e allora, mi
capite, i galantuomini hanno dovuto dar luogo». «Poh!» disse il bravo, «vedete un po' come le cose
si contano. A me ha detto uno là (accennando un crocchio lontano) che la giovane era daccordo, che
si era trovata lì per andarsene, e che quegli che l'ha portata via era un suo innamorato». «Oh», disse
uno, «se la cosa fosse così, se ne sarebbe andata senza schiammazzo». «No», rispose il bravo,
«perché aveva promesso ad un altro per far piacere ai suoi parenti; e voleva far credere di esser
rapita. Così dicono quelli che pretendono d'essere informati». «Ohe!» disse un altro barbassoro,
«che la fosse una mostra per ingannare i merlotti!» Questa opinione dopo un breve dibattimento
prevalse; perché essendo quella che supponeva nel fatto una malizia più raffinata, veniva a supporre
più fino accorgimento in chi la teneva: e chi l'avesse rifiutata poteva passare per un semplicione da
lasciarsi ingannare alle più grossolane apparenze di virtù.
Quando il degno servitore di Egidio vide che la sementa non era gittata in terreno sterile e che
avrebbe fruttato, si spiccò da quel crocchio dicendo: «Oh avete il buon tempo voi altri: per me
m'accontenterei che sparissero tutte le giovani purché venissero pagnotte abbastanza». Quegli altri
ad uno ad uno se n'andarono chi qua chi là a riferire la storia; si disputò assai; le opinioni rimasero
divise, ma la più preponderante fu quella che dava occasione di ragionare profondamente sulle
astuzie delle donne che fanno la semplice, sulla dabbennaggine della Signora, che aveva raccolta
quella mozzina. Il tiro della povera Lucia fu raccontato con mille particolari; si riferirono di lei
mille altre astuzie. Il romore giunse ben presto al monastero: già la fattora tornata a casa, non
trovando Lucia, sulle prime pensò ch'ella fosse andata alla Chiesa del monastero; non vedendola poi
ricomparire, stava per andarne in cerca, quando s'intese che Lucia era stata rapita, o si era fatta
rapire. Il monastero fu sottosopra. La Signora (quando ci siamo rallegrati di non aver più a parlarne
ci era uscito di mente che avremmo dovuto far qui menzione di essa: ma ce ne sbrigheremo in due
parole) la Signora a tutto addottrinata fece le maraviglie, mandò gente in cerca, non volle credere
che Lucia le avesse fatto un tiro di questa sorta, disse che era pronta a metter la mano nel fuoco per
quella ragazza. Mandò finalmente a chiamare il padre guardiano che gliel'aveva raccomandata. Ma
il padre guardiano al quale pure erano giunti i diversi romori del fatto era in istrada, per udire dalla
Signora come la faccenda fosse. La Signora si mostrò con lui come con gli altri tutta maravigliata:
disse che sperava ancora che Lucia verrebbe, che sarebbe una di quelle tante ciarle che mettono
attorno gli scioperati. «Se m'avesse ingannato...» aggiunse; «ma non lo posso credere di quella
ragazza. Ad ogni modo io sono tanto più afflitta di questo tristo accidente, in quanto io aveva
pensato seriamente ad ajutare questa povera giovane, e credeva di aver trovato ajuti nelle mie
aderenze per metterla al sicuro dal suo persecutore. Aveva anzi molto desiderio di sentire il parere
del padre guardiano, ma ora questi disegni non servono più a nulla».
È chiaro che la Signora gittò queste poche parole, per potere in caso spiegare la commissione da lei
data a Lucia, se mai questa potesse un giorno rivelarla; per potere allora far vedere che non era stato
un pretesto per allontanarla, e darla in mano ai rapitori. Ma della commissione la Signora non ne
parlò al guardiano; probabilmente perché non voleva che si dicesse che Lucia si era posta su quella
strada per suo ordine, e ne nascesse qualche sospetto. Se questa fosse una storia inventata, non
mancherebbe certamente qualche lettore il quale troverebbe un gran difetto di previdenza nella
perfidia ordita da Egidio e dalla Signora, poiché se Lucia avesse un giorno potuto parlare, se si
fosse risaputo che quando fu presa ella andava per ordine di Geltrude, quanto maggior sospetto non
sarebbe caduto sopra di questa, per avere essa taciuta al guardiano una circostanza tanto importante,
della quale doveva così ben ricordarsi, che non avrebbe certo dissimulata se avesse operato
schiettamente. Quei lettori i quali vorrebbero che in una storia anche le insidie fossero fatte
perfettamente, se la prenderebbero coll'inventore: ma questa critica non può aver luogo perché noi
raccontiamo una storia quale è avvenuta. Del resto questo stesso difetto ci dà il campo di porre qui
una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo racconto: che è un disegno sapientissimo della
Provvidenza regolatrice del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai tanto
bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre qualche traccia della mano che le ha
ordite. L'uomo che intraprende una buona azione, quando sia un po' avvezzo a riflettere prevede
sovente che non sarà senza inconvenienti: i birbanti avrebbero una parte troppo buona nelle cose di
questo mondo se dovessero nelle loro birberie essere esenti da ogni perplessità.
<B>CAPITOLO X</B>
La carrozza correva tuttavia velocemente, gl'indegni guardiani di Lucia, consultavano non senza
sollecitudine su lo stato di essa, guardandola fisamente, cercando nel suo volto pallido e immobile
le apparenze della vita, aspettando ansiosamente ch'ella ne desse alcun segno; quando la poveretta
cominciò a rinvenire come da un sonno profondo, diede un sospiro, e aperse gli occhi. Penò qualche
tempo a distinguere i luridi oggetti che la circondavano, e a raccappezzare le idee già confuse, e
incerte che avevano preceduto il suo deliquio, a confrontarle con le prime, che si affacciavano alla
sua mente ritornata: finalmente a poco a poco riprendendo le forze riprese tutto il pensiero, e
comprese la sua orribile situazione. I bravi, senza ardire di porle le mani addosso, e guardandola
con un certo rispetto le andavano facendo animo, e ripetendo: «coraggio, non è niente, non
vogliamo farvi male: siamo galantuomini». Il primo uso che fece Lucia della vita fu di gittarsi con
forza verso lo sportello per vedere dove fosse, se gente passasse, se potesse lanciarsi al di fuori ad
ogni pericolo: ma appena potè scorgere che il luogo ch'ella attraversava rapidamente era un bosco,
che anima vivente non v'era: che le braccia villane che l'avevano già conficcata la prima volta al
fondo della carrozza, ve la conficcarono di nuovo. Levò ella allora un altro grido, ma la stessa
manaccia tornò in furia con lo stesso fazzoletto, e il padrone di quella manaccia disse nello stesso
momento: «Facciamo i nostri patti: noi non vi faremo male, non vi toccheremo, ma voi non
cercherete né di fuggire né di gridare: già è inutile, ma pure se voleste tentarlo, noi siamo qui, amici
o nemici, come vorrete».
«Lasciatemi andare», disse Lucia con voce soffocata dallo sdegno e dallo spavento: «lasciatemi
andare subito, subito: io non son vostra, lasciatemi andare».
«Non possiamo», rispose il malandrino.
«Dove mi conducete? dove sono? voglio andare al convento dei cappuccini».
«Ohibò ohibò», disse sogghignando colui, «che le ragazze non istanno bene coi cappuccini. Venite
con noi di buona voglia».
«No no», rispose Lucia alzando la voce; ma il fazzoletto fu alzato.
«Lasciatemi andare per amor di Dio», ripigliò ella con voce più fioca. «Dove mi conducete?»
«In casa di galantuomini, vicino a casa vostra», rispose il malandrino.
«No no», disse ancora Lucia: «lasciatemi andare».
«Ma se questo è contra i nostri ordini», rispose un altro.
«Chi vi può dare questi ordini?» domandò Lucia: «ricordatevi della giustizia, ricordatevi
dell'inferno, ricordatevi della morte».
«Pensieri tristi», replicò quello dal fazzoletto: «voi ci volete far malinconia, e noi vi conduciamo a
stare allegra».
«Santissima Vergine ajuto!» gridò Lucia, ma il malandrino con volto iracondo le protestò che s'ella
gridava un'altra volta, il fazzoletto sarebbe rimasto sulla sua bocca fino a ch'ella fosse giunta al
luogo destinato. E sforzandosi d'esser garbato aggiunse: «già siamo vicini: parlerete con chi può
comandare: noi siamo servitori che facciamo il nostro dovere: è inutile che ci diciate le vostre
ragioni».
«Oh per amore di Dio, della Madonna», riprese Lucia in tuono supplichevole, con voce interrotta da
singulti, e senza pur pensare ad asciugare le lagrime, che le rigavano tutta la faccia: «per amore di
Dio, lasciatemi andare: io sono una povera creatura, che non vi ha mai fatto male: vi perdono quello
che mi avete fatto, e pregherò Dio per voi: se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre,
qualche persona cara a questo mondo, pensate quello che patirebbero se fossero in questo stato:
pensate all'anima vostra; fate una buona opera che vi può salvare: fatemi questa carità, acciocché
Dio vi usi misericordia, lasciatemi qui».
«Non possiamo» risposero tutti e tre; commossi alquanto da quel lamento. «Non possiamo», ripetè
il capo; «ma non abbiate paura, fatevi animo; già non vi conduciamo in un deserto: state tranquilla:
se volete parlare noi vi risponderemo; se volete tacere, noi non parleremo: non temete, nessuno vi
toccherà»; e così dicendo si ristringeva contra la carrozza lasciando più spazio a Lucia perché stesse
meno disagiata, perché non fosse oppressa da una vicinanza ch'egli stesso sentiva in quel momento
quanto dovesse essere incomoda e ributtante. Gli altri due, si andavano pure ristringendo dal loro
lato, facendo luogo a Lucia, e tenendosi come in distanza, stornando gli occhi da quel volto
accorato, ma fermi nel loro atroce proposito di eseguire la commissione: come il villanello che a
fatica si è arrampicato all'albero per togliere un uccelletto dal nido, e lo tiene nelle mani, e lo sente
dibattersi e tremare, e sente il cuore della povera bestiola battere affannosamente contra la palma
che lo stringe; prova pure qualche pietà: allenta le dita alquanto per non affogare la povera bestiola,
per non farle male; ma aprire il pugno, lasciarla tornare al suo nido: oh no! il figlio del padrone gli
ha chiesto l'uccelletto, gli ha promessa una bella moneta s'egli sapeva snidarlo e portarglielo vivo.
Lucia dopo avere ancora indarno pregato; «ditemi dove mi conducete», richiese di nuovo.
«In casa di galantuomini, e non vi possiamo dire altro», rispose quegli che le stava vicino. Lucia
vedendo che le preghiere riuscivano inutili come la resistenza, e stanca dell'ambascia, e dello stento,
incrocicchiò le braccia sul petto, si strinse nell'angolo della carrozza, in silenzio: e perduta ogni
speranza di soccorso umano, si rivolse a Dio da cui tutto sperava; e pregò fervidamente da prima
col cuore; indi cavato di tasca il rosario che teneva sempre con sè, cominciò a recitarlo con voce
sommessa. I bravi tacevano, guardando di tratto in tratto quello ch'ella faceva, e sospirando tutti il
fine di quella spedizione: e Lucia di tempo in tempo fermandosi nella sua preghiera a Dio, per
voltarsi a coloro in forza dei quali ella si trovava, e ricominciava a supplicarli: ma non udiva
rispondersi altro che: «non possiamo». La sua preghiera era esaudita, ma il momento non era
venuto.
Erano già due ore che la carrozza correva, sempre per istrade deserte, attraversando boscaglie, e
campi abbandonati alla felce ed alla scopa (una gran parte del territorio milanese era allora ridotta a
quello stato dalle guerre, dalle gravezze insopportabili, dall'ignoranza, dalla specie di barbarie
insomma in cui erano gli abitanti, e i legislatori). Il sole declinava verso l'orizzonte quando Lucia
sentì un romore continuo sempre crescente, come di un'acqua rapidamente corrente. Era l'Adda
infatti a cui la carrozza si avvicinava: il bravo che stava sulla serpe accanto al cocchiere urtò col
gomito chiamando quelli di dentro; uno di essi pose la testa fuori dello sportello, e l'altro gli disse:
«il battello c'è». «Ah! bravo» dissero tutti e tre quei di dentro. Lucia, vedendo che si stava per fare
qualche cosa da cui doveva decidersi il suo destino, ricominciò le sue preghiere, ma il vicino lieto
di essere alla fine della sua incombenza, e di non aver più a combattere con le istanze di quella
infelice, le impose silenzio dicendo: «Zitto zitto; abbiamo altro in capo che di darvi retta ora: siamo
occupati». La carrozza si fermò presso la riva, quel della serpe fece un segno a cui fu risposto dal
battello, e tosto ne uscirono tre bravi con una vecchia, e si avviarono verso la carrozza. Lucia
strillava, i bravi le comandavano di tacere replicando: «non abbiate paura, e già tutto è inutile; son
tutti nostri amici». Lucia allora si rannicchiò tutta alla carrozza invocando la Vergine nel cuore, e
proponendo di lasciarsi piuttosto uccidere che di uscire volontariamente da quel luogo, il quale per
quanto orrendo le fosse le pareva un asilo poiché vi aveva passate due ore, e non sapeva dove, a che
sarebbe strascinata quando ne fosse fuori. Mentre si stava così tutta rannicchiata, udì chiamarsi da
una voce femminile, aperse gli occhi e vide allo sportello la vecchia rivolta verso di lei. Una donna
parve in quel momento a Lucia un angiolo del paradiso: si sollevò, e con volto supplichevole, e con
una certa fiducia le disse: «Oh brava donna, che fate voi qui? ajutatemi, se questi sono vostri amici
pregateli che mi lascino venire con voi; salvatemi, salvatemi».
«Scendete e venite con me», rispose la vecchia; indi rivolta ai bravi raggrinzando la fronte e
scontorcendo la bocca: «Maladetti», disse, «le avete fatto paura?»
«Ma la vedete sana e salva...?» rispondeva il capo; quando Lucia, chinandosi e sporgendosi dalla
carrozza a prendere con le mani le braccia della vecchia: «non dite niente», interruppe, «quel che è
stato è stato, purché mi lascino venire con voi».
«Scendete, venite», disse la vecchia.
«Ma con voi sola», rispose Lucia.
«Andiamo andiamo», disse ancora la vecchia, e presa Lucia la strascinava, mentre i bravi della
carrozza l'ajutavano a scendere quasi portandola.
«No no», disse Lucia.
«Zitto, zitto», disse la vecchia, «venite colle buone».
«Ma voi siete d'accordo con questi scellerati», gridava Lucia.
«Zitto zitto», continuava a dire la vecchia, e così Lucia fu portata al battello.
Guardò intorno e non vide altro che la boscaglia la riva e il fiume e il battello; alzò gli occhi, e vide
al di sopra delle cime dei monti la cima tagliata a sega del <I>Resegone</I>, alle falde del quale era
la sua casa, dov'era sua madre, dove aveva passati i primi suoi anni nella pace; e l'accoramento le
tolse anco la forza di gridare; tutta grondante di lagrime, affannata, quasi fuor di sè, fu posta a
sedere nel battello sotto la tenda: la vecchia le si pose accanto: il capo di quelli che erano venuti in
carrozza saltò pure nel battello, stette al di fuori coi bravi venuti per acqua; i quali tosto puntati i
remi alla riva ne fecero allontanare il battello, pigliarono l'alto del fiume, diedero dei remi
nell'acqua, e il battello partì. Appena Lucia ebbe ripreso un po' di fiato, si pose ginocchioni dinanzi
la vecchia, domandandole dov'era condotta, pregandola di farla deporre su qualche riva, pregandola
pei nomi i più temuti ed amati dai cristiani; ma la vecchia inflessibile, immobile, non rispose altro
che «zitto, zitto». Lucia ricominciò a pregare Colui che ode anche quando non risponde, si
abbandonò alla sua provvidenza. Dopo forse due altre ore di viaggio, il battello approdò: la notte
precipitava, e Lucia sbigottita, tremante, non sapeva più in che mondo si fosse: fu tolta in questo
stato dal battello, posta in una lettiga, e portata al castello del Conte del Sagrato.
La vecchia accompagnava la lettiga, entrò insieme in casa, la fece deporre in una stanza, dove
rimase sola con Lucia, dicendo a coloro che l'avevano portata, che andassero ad avvertire il Signor
Conte. Ma il Signor Conte aveva già intesa dal Tanabuso la relazione del rapimento, del viaggio e
dell'arrivo. «Ebbene», aveva egli detto al Tanabuso, «fatto?»
«Fatto», rispose Tanabuso.
«A dovere?»
«A dovere».
«Non c'è stato bisogno di spiegar le unghie?»
«Tutto è andato quietamente»; e qui fece il Tanabuso la sua narrazione. E aggiunse: «Tutto è corso
a verso, com'ella vede, signor padrone; ma una sola cosa ci ha dato un po' di disturbo».
«Che è?» chiese il Conte.
«Quella ragazza», rispose il Tanabuso... «quella povera ragazza... un tal guaire, un tal piangere, un
tal pregare... restar lì come morta..., guardarci un po' come diavoli, un po' con gli occhi pietosi...
che... che...»
«Che?» disse il Conte; «sentiamo un po' questa che vuol essere nuova, ribaldonaccio».
«Che mi ha fatto compassione».
«Ohe!» disse il Conte, «bisognerà che ti dia doppia mancia per quello che ha patito il tuo povero
cuore».
«Possa io diventare un birro se non è così», rispose il Tanabuso; «mi ha fatto compassione. Dico la
verità Signor padrone, avrei avuto più caro che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata, alla
lontana, prima di sentirla discorrere».
«Ora», riprese il Conte, «lascia da parte la compassione, cacciati la via tra le gambe, vanne diritto al
castello di quel Don Rodrigo... Sai dov'è posto?». Il Tanabuso accennò di sì: «fagli dire che sei
mandato da me, dagli questo segno nelle mani, e torna a casa. La giornata è stata faticosa, ma tu sai
che il tuo padrone vuole esser servito ma sa anche pagare...»
«Oh illustrissimo!...»
«Taci, e vanne tosto... ma no, aspetta: dimmi un poco come ha fatto costei per moverti a
compassione. Che abbia un patto col demonio?»
«Niente, niente, signor padrone, era proprio il crepacuore che aveva quella povera ragazza. Se non
avessi avuto un comando del mio padrone...»
«Ebbene?...»
«L'avrei lasciata andare».
«Oh! andiamo a vederla costei; e tu aspetta, partirai domattina... dopo aver ricevuto i miei ordini...
tanto fa che quello inspagnolato aspetti qualche ora di più... Domattina sii all'erta per tempo».
Il Tanabuso partì, facendo un inchino, e il Conte s'avviò alla stanza dove Lucia stava in guardia
della vecchia.
Bussò, disse: «son io», e tosto il chiavistello di dentro corse romoreggiando negli anelli, e la porta
fu spalancata. Lucia si stava seduta sul pavimento, acquattata, accosciata nell'angolo della stanza il
più lontano dalla porta, nel luogo che entrando le era sembrato il più nascosto, si stava quivi
aggomitolata, con la faccia occultata, e compressa nelle palme, tutta tremante di spavento, e quasi
fuor di sè: al romore che fece la porta, alla pedata del Conte che entrava trasalì, ma non levò la
faccia, non mosse membro, anzi fece uno sforzo per ristringersi ancor più tutta insieme; e stette con
un battito sempre crescente aspettando e paventando quello che avvenisse.
«Dov'è questa ragazza?» disse il Conte alla vecchia.
«Eccola», rispose umilmente la malnata.
«Come?» disse il Conte, «l'avete gettata là come un sacco di cenci».
«Oh s'è posta dove ha voluto».
«Ehi! quella giovane», disse il Conte avvicinandosi a Lucia: «dove diavolo vi siete posta a sedere?
alzatevi; non voglio farvi male... lasciatevi vedere».
Lucia non si mosse.
«Peggio per voi», disse il Conte; «se volete fare il bell'umore. Ah! ah! non sapete dove siete.
Pretendereste voi di resistermi? Abbassate subito quelle mani ch'io voglio vedervi».
Queste parole furono dette con un tuono così minaccioso, che le mani di Lucia obbedirono quasi
senza il comando della volontà: e Lucia lasciò vedere la sua faccia spaventata e dolente. Alzò ella
allora gli occhi al volto del Conte che la stava guardando attentamente; e dopo un momento, gli
disse con una voce, in cui al tremito dello sgomento era mista la sicurezza d'una indignazione
disperata: «Che male gli ho fatto io?»
«E che male voglio io fare a voi, scioccherella?» rispose il Conte, con voce più mite. «Credete forse
d'essere condotta al macello? Verrà un giorno che riderete di tutto questo vostro spavento, e riderete
forse anche di me, che vi rispondo ora così sul serio».
«Ridere! oh Dio!» rispose Lucia «ridere!» e guardando un momento come smemorata, diede in un
nuovo scoppio di pianto.
«Sì sì, tutte voi altre fate così», replicò il Conte.
«Ma perché», riprese Lucia, «mi fa ella patire le pene dell'inferno? Mi dica che cosa le ho fatto? Oh
non mi faccia più patire così: Dio glielo potrebbe rendere un giorno...»
«Dio: Dio: sempre Dio coloro, che non hanno niente altro: sempre rinfacciar questo Dio, come se
gli avessero parlato. Dov'è questo vostro Dio?»
«È da per tutto, è qui», rispose Lucia: «è qui a vedere s'ella si muove a pietà di me, per usarle pietà
in ricambio un giorno. Oh abbia misericordia d'una poveretta, mi lasci andare, lasci ch'io mi
ricoveri in qualche Chiesa, su le montagne, in un bosco. Oh lo vedo; tutto dipende da lei: con una
parola ella mi può salvare: dica questa parola. Non so dove sono, ma troverò la strada per andare da
mia madre. Oh Dio! non è forse lontana: ho visto i miei monti: oh s'ella sentisse quel ch'io patisco!
non conviene ad un uomo che ha da morire, far tanto patire una creatura innocente: mi lasci andare;
oh se pregherò Dio per lei! la benedirò sempre». E animata nel suo discorso si levò da sedere, si
pose in ginocchio, giunse le mani al petto, e continuò: «Che cosa le costa dire una parola? Non
iscacci una buona ispirazione, un sentimento di pietà. Oh Dio perdona tante cose per un'opera di
misericordia!»
- Che pazza curiosità ho avuto di venirla a vedere - pensava tra sè il Conte. - Dugento doppie! ne ho
bisogno. Costoro vogliono esser ben pagati; eh! hanno ragione: espongono la loro vita: ma vorrei
piuttosto toglierne cinquanta a quattro usuraj, e farli scannare tutti e quattro.
«Non mi dica di no», continuava Lucia, sempre singhiozzando, «sono una povera figlia. S'ella
provasse a pregare, a pregare, a cercar misericordia senza poterla ottenere! E se le accadesse una
disgrazia!... ma no, no io pregherò per lei il Signore e la Vergine... mi lasci andare...»
«State di buon animo», rispose il Conte, senza intenzione di nulla promettere, senza sapere egli
stesso che senso avessero le sue parole, ma spinto da un bisogno di far cessare quell'angoscia e quel
lamento, di consolare quella creatura.
«Oh», disse Lucia, «Dio la benedica, ella mi lascia andare».
«State di buon animo», ripetè il Conte, «cercate di riposare... domani... parleremo...»
«E voi», rivolto alla vecchia, «voi», disse, «fate ch'ella non abbia da lagnarsi pure di una parola
torta. Ora vi si allestirà la cena... ristoratevi, e dormite tranquilla».
«No, no», rispose Lucia, «mi lasci andar subito...»
«Domani... domani ci parleremo», replicò il Conte, e con un rapido movimento andò verso la porta,
ed uscì.
Lucia, tutta piena della speranza di ottenere la sua liberazione si alzò, e volle correr dietro al Conte,
ma quando si trovò sull'uscio non ardì movere un passo più in là, né chiamare: tornò indietro come
spaventata, e si raccosciò di nuovo nel suo angolo.
«Volete dunque cenare?» le disse la vecchia.
«No no; badate bene a non partire di qua» rispose Lucia, «ricordatevi di quello che vi ha detto il
vostro padrone: chiudete la porta». La vecchia obbedì, e tornata: «mettetevi a letto e dormite
dunque», disse.
«No: io non mi voglio movere di qui» replicò Lucia.
«Che pazzie?...»
«Non voglio», replicò di nuovo Lucia, risolutamente: quel coraggio di disperazione ch'ella si
sentiva da quando a quando era stato accresciuto e corroborato da quella compassione ch'ella aveva
veduta nel Conte, dalle parole di speranza che egli le aveva date, e dagli ordini ch'egli aveva lasciati
con impero alla vecchia.
- Ih! ih! che fummo ha costei, - disse tra sè la mala vecchia. - Maladette le giovani che hanno
sempre ragione e quando sono svergognate e quando fanno le smorfiose.
«Badate a non ispegnere quella lucerna», disse Lucia.
«Sì sì», rispose la vecchia, e senza più rivolger la parola a Lucia si coricò brontolando.
Lucia rimase nel suo angolo. Era questo per lei, in quella orrenda giornata il primo momento di
riposo; ma quale riposo. I pensieri che l'avevano assalita tumultuosamente, ad intervalli nel giorno,
tornarono tutti in una volta ad assediare la povera sua mente. Le memorie così recenti, così vive,
così atroci di quelle ore, di quel viaggio, di quell'arrivo, si affollavano alla sua fantasia; l'avrebbero
oppressa se fossero state memorie d'un pericolo trascorso: e che dovevano fare, nel mezzo del
pericolo stesso, nella durata, nella orribile incertezza dell'avvenimento! Qual passato! e qual
presente! quel silenzio, quella compagnia, quel luogo. Qual notte! e per giungere a qual domani!
L'infelice intravedeva ben qualche cosa della orditura spaventosa del laccio dove era stata tirata, ma
rifuggiva dal pensiero di scoprirne più in là. Di quando in quando le parole di speranza del Conte la
rincoravano: le andava ripetendo fra sè, s'immaginava di essere l'indomani fuori di quell'antro con
sua madre, ma un altro avvenire possibile rispingeva questa immaginazione, e a tutta forza veniva a
collocarsi nella sua mente. Tremava, si faceva animo, sperava, disperava, pregava: le forze del
corpo finalmente cedettero ad un tale combattimento dell'animo, e Lucia fu presa da una febbre
violenta. Le sue idee divennero più vive, più forti, ma più interrotte, più mescolate, più varie, si
urtarono più rapidamente, e la confusione togliendole una parte della coscienza, rese sofferibile una
angoscia che altrimenti ella non avrebbe potuto sofferire e vivere. Nel calore della febbre, le parve
ad un tratto che la preghiera sarebbe stata più accetta, certamente esaudita, se con la preghiera ella
avesse offerte in sagrificio quelle che altre volte erano state le sue più liete speranze. L'unica
speranza di quel momento, quella di uscire da quel pericolo, le parve con questo divenire più
fondata, più ferma: aperse gli occhj, li girò con sospetto e con ansietà nel barlume di quella stanza;
tese l'orecchio, e non udì altro che il russare della vecchia; si levò chetamente, stette ginocchioni; e
votò alla Vergine di viver casta, senza nozze terrene, s'ella poteva uscire intatta da quel pericolo.
Proferito il voto, o, quello che a Lucia parve tale, ella si sentì come racconsolata; si raccosciò nel
suo angolo, e passò il resto della notte in un letargo febbrile, interrotto da sussulti, e da
vaneggiamenti.
Il Conte partito da quella stanza andò secondo il suo costume a visitare i posti del suo castello, a
vedere se le guardie erano poste ai luoghi stabiliti, se tutto era in ordine, e si chiuse nella sua stanza.
Ma l'immagine di Lucia non l'aveva mai abbandonato nel suo giro; ma quando egli si trovò solo
nella sua stanza, senza più nulla da fare che d'ascoltare i suoi pensieri, e di dormire se avesse
potuto, quella immagine più viva, più potente si pose a sedere nella sua mente, e vi stette.
- Che sciocca curiosità da femminetta, m'è venuta, - andava egli pensando, - di andare a vedere
questa giovane? Ho dovuto sentire dalla sua bocca di quelle cose che nessun uomo vivente avrebbe
ardito dirmi sul volto. Le ho sentite, e mi seccano. Perché non è figlia d'uno spagnuolo? o di
qualcuno di quei sozzi birbanti che m'hanno bandito: che avrei goduto di sentirla guaire, di vederla
tremante ai miei piedi. Ma costei non mi ha mai fatto male... Ecco, lo andava ripetendo... pareva
sapesse che questa era la corda da toccare per farmi compassione... Compassione!... ma certo io ho
avuto compassione: la sento ancora... e qualche cosa di peggio... Che diavolo ho io addosso questa
notte?... Ha fatto compassione perfino al Tanabuso! Oh aveva ragione quella bestia, quando disse
che sarebbe stato men male averle data una schiopettata... Poveretta! una schiopettata... no credo
che mi avrebbe fatto compassione anche morta. Eh sciocchezza! i morti almeno non si stanno a
guardare, non si sentono, non vi si mettono ginocchioni davanti... è un conto saldato. Dicono mo' i
preti che un giorno hanno a risuscitar tutti quanti! Poh! imposture! imposture, non è vero, non è
vero. Vorrebb'essere una bella processione.
E qui cominciarono a schierarsi dinanzi alla sua memoria tutti quelli ch'egli aveva cacciati o fatti
cacciare dal mondo, dal primo, ch'egli essendo ancor giovanetto aveva passato con una stoccata per
una rivalità d'amore, fino all'ultimo che aveva fatto scannare per servire alla vendetta di un suo
corrispondente; tutti coi loro volti, nell'atto del morire, e quelli che egli non aveva veduti, ma uccisi
soltanto col comando, la sua fantasia dava loro i volti e gli atti.
- Via, via, sciocchezze, - diceva: - sono io diventato un ragazzo? domani a giorno chiaro riderò di
me. E se domani a sera costoro mi tornassero in mente? che dovessi passar sempre la notte così?
Diavolo! comincio ad invecchiare: vorrebb'essere un tristo vivere, e un tristo... morire. Che cosa
m'ha detto quella poveretta? «Oh Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia...» Che sa mai
quella contadina? L'ha inteso dire dal curato e lo ha creduto. Imposture. Ho sempre detto imposture,
e quando aveva proferita questa parola, bastava... ma adesso non serve... tornano sempre quei
pensieri. Sono io quello? Sono stato tanto tempo un uomo, non ci ho pensato; ho avuto l'animo di
farne tante, tante... Ebbene! ne ho fatte troppe... se non le avessi fatte... in verità sarebbe meglio. A
buon conto l'opera di misericordia sono in tempo di farla. Poniamo che appena fatto il giorno io
entri nella sua stanza: la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito, subito: «vi lascio in libertà, vi
farò condurre a casa». Oh come si cangerà in volto! che cose mi dirà! mi darà delle benedizioni che
mi faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi dirà. e ricordarmene per pensarvi la notte.
Oh! sono fanciullaggini... ma a buon conto io non posso dormire. Ma quando verrà giorno! Che
notte eterna! Mi pare quella notte ch'io passai ad agguatare dietro un angolo quel temerario di
Vercellino che doveva tornare dal festino di corte... Ecco, io stava lì cheto, cheto; quando sentiva
una pesta, guardava fiso, fiso; non era egli, ed io ritto e cheto nel mio angolo: sento una pedata che
mi par quella, sporgo il capo, guardo, è colui: fuori, addosso col mio stocco: mandò un gemito, e mi
cadde sulle gambe, gli diedi una spinta, e me ne andai... Oh che coraggio aveva allora! era un
uomo! e in un momento sono diventato... che cosa son diventato? che è accaduto? non son sempre
quello? Ecco anche quel Vercellino vorrei non averlo ammazzato. Se doveva pensare così un
giorno, era meglio che avessi pensato così sempre. Vieni o luce maledetta, ch'io possa uscire da
questo covaccio di triboli, e andare a vedere quella ragazza. Ma devo lasciarla andare? Vedremo:
vedremo come mi sentirò. Se potessi dormire almeno un'ora, forse mi sveglierei coll'animo di
questa mattina!
In questi e simili pensieri passò il Conte del Sagrato quasi tutta la notte; finalmente, non essendo il
giorno lontano, la stanchezza lo vinse, e si assopì. Ma i pensieri che avevano riempiuta la sua
veglia, trasmutati ora alquanto e rivestiti di forme più strane e più terribili lo accompagnarono nel
sonno. Era già levato il sole, e il Conte stava affannoso sotto il giogo di quei sogni rammentatori,
quando a poco a poco egli cominciò a risentirsi scosso come e quasi chiamato da un romore
monotono, continuo, insolito: stette alquanto tra il sonno e la veglia, e finalmente tutto desto, e
gettato un gran sospiro, riconobbe un suono festoso di campane, e pensò che potesse essere, né gli
sovvenne di cosa che potesse essere allora cagione di festa. Si alzò, si vestì rapidamente, e prima
d'andare alla stanza di Lucia (che la risoluzione gliene era rimasta) si fece alla finestra della sua
stanza che dominava il pendio, prima rapido, poi più lento e quasi piano fino al lago; e qua e là
villaggi sparsi, e case solitarie. Guardò intorno, e vide contadini e contadine in abito da festa per
tutti i viottoli avviarsi verso la strada che conduceva al Milanese; altri uscire dalle porte, e parlarsi
quelli che s'incontravano in aria di premura e di festa. - Che diavolo hanno in corpo costoro? -
diss'egli fra sè, e tosto chiamato uno de' suoi fidati, domandò la cagione di quel movimento e di
quel concorso; e intese che s'era risaputo la sera antecedente che il Cardinale Federigo Borromeo
arcivescovo di Milano era giunto improvvisamente a Lecco per visitare le parrocchie di quei
contorni; che quella mattina doveva trovarsi ad una chiesa (che nominò, ed era alla metà della via,
distante circa due miglia dal castello) e che tutti accorrevano a vedere quell'uomo il quale dovunque
si portasse attraeva sempre folla.
Il Conte congedò con un cenno del capo il fidato, e rimase ancora un momento alla finestra a
guardare, dicendo fra sè: - Come sono contenti costoro! E perché? Perché è arrivato un uomo che si
porrà un bell'abito, e darà loro delle parole, e alzerà le mani tagliando l'aria in croce. Oh! come
saltano: sembrano cavriuoli: eh! avranno forse..., certo, dormito meglio di me! Tanto contenta
questa canaglia... ed io... Voglio andare anch'io; voglio veder quest'uomo, che li fa esser tanto
vogliosi, tanto contenti. Andrò, andrò. Voglio parlargli; voglio un po' sentire se ha qualche cosa
anche per me! vedere quel volto, sentire queste sue parole che fanno sparire le afflizioni. Voglio
vedere se ha ancora quegli occhj che hanno fatto abbassare i miei... cospetto... cinquant'anni sono.
Era uno strano giovanetto! E ora che sarà? ne dicono tante cose! Oh sarà peggio d'allora
certamente! Ma che ho io paura di brutti musi? Io andare da lui: a che fare? che dirgli? Certo mi
mostrerà due occhj più arrovellati di quel giorno... Non importa: voglio andare a sentire che parole
ha costui, per render la gente così allegra.
L'occhiata che aveva fatta tanta impressione e lasciato un così profondo marchio di rimembranza
nella mente del Conte era stata data nella occasione che ricorderemo brevemente. Federigo
Borromeo, giovanetto allora di 15 anni si trovava nella chiesa di Giovanni in Conca nel giorno
solenne di quel santo; e aveva pregato e invitato poscia dai frati s'era posto a sedere nel presbitero e
quivi assisteva pensoso e riverente al rito che si celebrava. Quando una brigata di giovanetti, di
adolescenti delle principali famiglie della città, entrata a turba nella Chiesa per curiosità, e visto in
quel luogo il giovane Federigo, che sempre con l'esempio, e talvolta con le parole gli faceva
vergognare del loro vivere superbo scioperato molle e violento, s'accordarono di fargli fare una
trista figura, di vendicarsi, e di divertirsi un momento a sue spese. Rotta la folla s'avvicinarono
all'altare, e appostatisi in faccia a Federigo, si diedero a fare i più strani e beffardi atti del mondo,
storcer le bocche, torcere il collo come chi irride un ipocrita, cacciare un palmo di lingua,
sghignazzare. Il Conte che fu poi del Sagrato era tra essi, anzi queglino erano con lui; perché egli
non era mai stato secondo in nessun luogo, e in nessun fatto. Federigo, contristato e mosso a pietà
ed a sdegno nello stesso tempo, ma non confuso, girò su quella turba un'occhiata che esprimeva tutti
questi affetti con una gravità tranquilla, ma più potente dell'impeto indisciplinato di quei
provocatori; quindi piegate le ginocchia dinanzi all'altare, pregò per essi, i quali partirono col
miserabile contegno di chi è stato vinto in una impresa in cui il vincere stesso sarebbe vergognoso.
Torniamo al Conte vecchio: il quale stette in fra due, se doveva prima andare alla stanza di Lucia.
Dopo aver pensato qualche tempo: - no - diss'egli fra sè -: non la vedrò: non voglio obbligarmi a
nulla; voglio venirne all'acqua chiara con questo Federigo. Potrei lasciarla andare, e pentirmi. Se
comincio a fuggire da uno spauracchio, a desistere da un'impresa, è finita, non son più un uomo.
Parlato che avrò con costui, mi convincerò che sono sciocchezze, e sarò più forte di prima... o se...
costui... mi facesse... cangiare... son sempre a tempo. Andiamo, sarà quel che sarà.
Chiamò un'altra donna alla quale in presenza del Tanabuso impose che si portasse sola alla stanza di
Lucia, che vedesse che nulla le mancasse, e che sopratutto ordinasse alla vecchia guardiana di
trattarla con dolcezza e con rispetto: e che nessun uomo ardisse avvicinarsi a quella stanza.
Dato quest'ordine, pensò se dovesse pigliar seco una scorta; e - oh! via, - disse, - per dei preti e per
dei contadini? Vergogna! Se vi sarà alcuno che non mi conosca non avrà nulla da dirmi: per quelli
che mi conoscono...!
Così il Conte solo, ma tutto armato uscì dal castello, scese l'erta e giunse nella via pubblica, la quale
brulicava di viandanti: la turba cresceva ad ogni istante: a misura che la fama del Cardinale arrivato
si diffondeva di terra in terra, tutti accorrevano. Ma in quella via affollata il Conte camminava solo:
quegli che se lo vedevano arrivare al fianco, s'inchinavano umilmente, e si scostavano come per
rispetto, e allentavano il passo per restargli addietro: taluno di quelli che lo precedevano,
rivolgendosi a caso a guardarsi dietro le spalle, lo scorgeva, lo annunziava sotto voce ai compagni,
e tutti studiavano il passo, per non trovarglisi in paro. Giunto al villaggio, sulla piazzetta dov'era la
Chiesa, e la casa del Parroco, trovò il Conte una turba dei già arrivati, che aspettavano il momento
in cui il Cardinale entrasse nella Chiesa per celebrare gli uficj divini. E qui pure tutti quelli a cui si
avvicinava, svignavano pian piano. Il Conte affrontò uno di questi prudenti, in modo che non gli
potesse sfuggire e gli chiese bruscamente come annojato che era di quel troppo rispetto, dove fosse
il Cardinale Borromeo. «È lì nella casa del curato», rispose riverentemente l'interrogato. Il Conte si
avviò alla casa fra la turba, che si divideva come le acque del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei,
ed entrò sicuramente nella casa. Quivi un bisbiglio, una curiosità timida, un'ansia, un non saper
come accoglierlo. Egli, rivolto ad un prete gli disse che voleva parlare col Cardinale, e chiedeva di
essergli tosto annunziato. Il prete che era del paese, fu contento d'avere una commissione del Conte
per allontanarsi da lui, e riferì l'imbasciata ad un altro prete del seguito del Cardinale. Quegli si
ritirò a consultare coi suoi compagni; e finalmente di mala voglia entrò per dire a Federigo quale
visita si presentava.
<B>CAPITOLO XI</B>
Giunti a questo punto della nostra storia noi ci fermiamo per qualche momento con gioja, come il
viaggiatore del deserto s'indugia a diletto alla frescura ristoratrice d'una oasis ombrosa, dov'egli
abbia trovata una sorgente di acqua viva. Poiché ci siamo avvenuti in un personaggio, la memoria
del quale apporta una placida commozione di riverenza, una nuova giocondità anche alla mente che
già stia contemplando, e scorrendo fra gli uomini i più eletti che abbiano lasciato ricordo di sè sulla
terra: or quanto più un po' di riposo nella considerazione di lui debb'essere giocondo a noi che da
tanto tempo siamo condotti da questa storia per mezzo ad una rude, stolida, schifosa perversità,
dalla quale certamente avremmo da lungo tempo ritirato lo sguardo, se il desiderio del vero non ve
lo avesse tenuto a forza intento!
Federigo Borromeo fu uno degli uomini rarissimi in qualunque tempo, i quali adoperarono una
lunga vita, un ingegno eccellente, un animo insistente nella ricerca «di ciò che è pudico, di ciò che è
giusto, di ciò che è santo, di ciò che è amabile, di ciò che dà buon nome, di ciò che ha seco virtù, e
lode di disciplina». Nato coi più bei doni dell'animo, il primo uso che egli fece della sua ragione fu
di coltivarli con ardore e con costanza, di custodirli con una attenzione sospettosa, come se fino
d'allora egli ponesse cura a conservare tutta bella, tutta irreprensibile una vita, che in progresso di
tempo avrebbe avute età così splendide: e infatti la vita di lui è come un ruscello che esce limpido
dalla roccia, e limpido va a sboccare nel fiume: tutto ciò che si sa di lui è gentilezza, e sapienza: e
gli errori stessi che la prepotenza dell'universale consenso aveva imposti alla sua mente, sono
sempre accompagnati e quasi scusati da una intenzione pura, e l'applicazione di esse alle cose della
vita è stata per lui un esercizio di tutte le virtù. Fanciullo grave e sobrio, giovane pensoso e pudico,
uomo operoso quant'altri mai fosse, senza mai nulla intraprendere, né maneggiare, né condurre a
fine per un interesse privato di qualsivoglia genere, vecchio soave e candido, egli ebbe in ogni età le
virtù più difficili, gli ornamenti più rari, ma non in modo che escludessero i pregi più comuni in
quella età a tutti gli uomini. Nutrito tra le pompe e lo splendore delle ricchezze, fra quel basso
corteggio che coglie i fortunati del secolo alle prime porte della vita, per corromperli, per cattivarli,
per farli fruttare, egli scorse dai primi suoi giorni che l'umiltà, e la staccatezza sono verità, bellezza,
e le prescelse: posto sotto la disciplina del suo celeste cugino San Carlo, in presenza di quella virtù
severa, e malinconica, l'animo puerile di Federigo non fu disgustato dalla severità, e sentì
l'ammirazione e la docilità volonterosa per la virtù. Si diede ardentemente allo studio dalla
fanciullezza: ma i metodi stolti d'insegnamento, ma la confusione e la stoltezza delle cose insegnate,
il sopracciglio comicamente grave dei maestri lo svogliarono dall'apprendere; e fu questo, o doveva
essere il primo segno della eccellenza del suo ingegno. Stomacato dei libri e delle lezioni si diede
tutto all'armi e ai cavalli; ma durò in quegli esercizj sol tanto quanto bastasse a mostrarlo disposto
ad ogni esercizio che domandi una prontezza di qualunque genere. Il fanciullo voleva sapere, e
andava interrogando tutti quegli che egli credeva sapienti; e da tutti gli veniva risposto, che i libri e
la scuola soltanto potevano condurlo alla scienza. Sospinto da questa uniformità di consenso, egli
tornò voglioso ai libri ed ai maestri; e finì a stare con quelli perseverantemente, vincendo con la
volontà le ripugnanze delle quali egli non poteva allora comprendere la ragione profonda.
Giovanetto fra i giovanetti nello studio di Pavia, egli trovò quivi stabilite consuetudini, massime,
opinioni che distribuivano lode e biasimo alla differente condotta; e non ne fece alcun conto: regolò
la sua condotta coi suoi principj, come avrebbe fatto in un eremo, senza esitazione, senza braveria;
e solo da prima, opposto quasi in tutto al tipo prescritto dall'opinione, rifiutando tutte le cose che
davano la gloria, facendo quelle che rendevano ludibrio, fu in poco tempo oggetto della venerazione
dei suoi condiscepoli. Uomo fatto poi, cardinale, arcivescovo, sempre continuò in quella disciplina,
di meditare ciò che fosse il comandato, e il meglio, e di eseguirlo, non riguardando nei giudizj degli
uomini se non ciò che potesse essere una vera ed utile correzione per lui, o il segno di una
irritazione e di una resistenza dannosa ai resistenti, e che potesse essere impedimento al bene ch'egli
intendeva di operare. Fu quindi moderato ed umile tra il favore e gli applausi, placido e fermo tra i
contrasti, non avendo di mira che la cosa da farsi, e il perché, e l'effetto. Veduta la bellezza, l'utilità,
e la possibilità d'un disegno, egli lo intraprendeva, ne curava attentamente il complesso e i minimi
particolari con quella unità di attenzione che non sorprende chi rifletta alla unità ch'egli aveva del
fine. Edificò dai fondamenti la biblioteca a cui volle dare il nome di Ambrosiana, la dotò di libri, di
manoscritti, di macchine, di monumenti d'arte, vi raccolse professori, e nello stesso tempo poneva
cura che le reliquie della sua mensa piuttosto povera che frugale fossero diligentemente raccolte, e
date ai poverelli; tutto era per lui benevolenza, e cura degli altri. Così egli chiamò da lontano
professori di lingue orientali per introdurre se avesse potuto, ogni coltura in quella rozza, ostinata, e
presuntuosa barbarie nella quale egli sentiva di vivere; spedì uomini dotti quanto allora si poteva
per l'Italia, per la Francia, per la Germania, per la Spagna, per la Grecia, nella Siria, a fare incetta di
libri, di manoscritti, di ogni cosa che potesse essere stromento di studio e di coltura: e diede ad essi
istruzioni, avviamenti, consigli: e per la medesima accuratezza di ben fare, in questa stessa carestia
di cui abbiamo già toccato qualche cosa in questa storia, egli oltre i soccorsi che distribuiva, alla sua
casa, alle case dei poverelli, pensò anche di mandare attorno sacerdoti, che raccogliessero i
poverelli che mancanti di soccorso cadevano sfiniti per le vie, e dessero loro i conforti della
religione: e insieme coi sacerdoti mandò facchini che portassero pane, vino, minestra, uova fresche,
brodi stillati, aceto, per nutrire, per confortare coloro che cadessero per inedia; e tutti questi
particolari erano meditati da lui, perché tutto quello che fosse utile era per lui importante, e l'idea
grande e generale della carità era dal suo cuore applicata tutta intera nei minimi suoi particolari.
Così amava egli oltre ogni compagnia quella dei dotti, e dei poveri, per vivere sempre nell'esercizio
delle sue più nobili facoltà. E da tanta operosità, da tante cure del suo ministero, da tanti impicci in
cui era tirato dalla confusione che in quelle cure stesse avevano introdotta la confusione delle idee,
e le passioni degli uomini, egli sapeva togliere ancora assai tempo per impiegarlo nello studio degli
scritti i più stimati di qualunque tempo e di qualunque nazione, e nel lavoro dei molti scritti ch'egli
ha lasciati.
Noi non vogliamo qui esaminare tutti i pregi di quest'uomo; basti il dire ch'egli ebbe principalmente
le virtù più difficili, cioè le più opposte ai vizj che signoreggiavano la generazione dei suoi
contemporanei. Già forse l'amore dell'argomento ci ha trasportati ad una prolissità nojosa; ma non
possiamo a meno di non avvertire una di queste virtù, perché è quella che non certo per la sua
importanza ma per la rarità ci sembra degna di osservazione; ed è la tranquillità e il contegno
mirabile di Federigo. In un tempo in cui opinioni, fatti, discussioni, odj, amicizie, delitti, giudizj,
tutto era avventato e precipitoso, in cui le virtù stesse avevano qualche cosa per dir così di spiritato,
e di fantastico, Federigo fu temperato, aspettatore, ponderato, lento nel credere, nell'operare,
nell'affermare, tutto condì con una temperanza, che raddolcì in parte quell'impeto indisciplinato, e
fu se non altro ammirata da quegli stessi che ne erano incapaci.
È cosa degna di maraviglia e di osservazione che il nome di un tal uomo, già ai nostri tempi, in una
posterità così poco remota, sia non dirò dimenticato, ma certo non ripetuto così sovente come si fa
degli uomini più illustri, che a questo nome sia appena associata una idea languida d'un merito
incerto, d'una eccellenza indeterminata, che questo nome pronunziato fuori della patria di Federigo,
e della società di quelli che più particolarmente si applicano alle cose nelle quali egli fu attore, o
passi inavvertito, o riesca anche nuovo, e invece di risvegliare la memoria di una rara preminenza
faccia nascere la curiosità di sapere che abbia fatto colui che lo portava, e che l'elogio che noi vi
abbiamo unito abbia avuto bisogno di schiarimento e di prove. E forse ancor più stupore deve
nascere al pensare che un uomo dotato di nobilissimo ingegno, avido di cognizioni, e perseverante
nello studio, sommamente contemplativo, e nello stesso tempo versato nelle società più varie degli
uomini, e attore in affari importanti, abbia posta ogni cura nel comporre opere d'ingegno, ne abbia
lasciato un numero che lo ripone tra i più fecondi e i più laboriosi; e che queste opere d'un uomo
che aveva tutti i doni per farne d'immortali, non sieno ora quasi conosciute che dai loro titoli, nei
cataloghi di quegli scrittori che tengono memoria di tutto ciò che è stato scritto in un tempo, in un
paese. Ma la spiegazione di questo fenomeno si può forse trovare nella condizione dei tempi in cui
scrisse Federigo. A produrre quelle parole o quei fatti che rimangono presso ai posteri oggetto di
una ammirazione popolare non basta la potenza di un ingegno né la costanza di una volontà: è
duopo che queste facoltà possano esercitarsi sopra una materia la quale abbia da sè qualche cosa di
splendido, di memorabile: gli uomini di tutte le età rimasti insigni giunsero a quel grado di fama, o
accompagnati da una folla d'uomini non insigni com'essi, ma pure partecipi dei loro studj, curiosi
delle stesse cognizioni, ornati in parte della stessa coltura: o almeno combattendo contra errori,
abitudini, idee, che avessero qualche cosa d'importante, di problematico, in quelle dottrine che sono
un esercizio perpetuo dell'intelletto umano, trovarono in somma una massa di notizie e di opinioni,
un complesso di coltura, sul quale fondarsi, dal quale progredire, al quale applicare gli aumenti e le
correzioni per cui la memoria del genio rimane.
Che se pure è viva tuttavia la fama e le opere di uomini vissuti in tempi rozzissimi, lo è perché quei
tempi erano sommamente originali, e quelle opere ne conservano il carattere, e mostrano ai posteri
un ritratto osservabile d'una età che nessun'altra cosa potrebbe rappresentarci. Ma Federigo
Borromeo visse in tempi di somma, universale ignoranza, e di falsa e volgare scienza ad un tratto,
fra una brutalità selvaggia ed una pedanteria scolastica, in tempi nei quali l'ingegno che per darsi
alle lettere, a qualunque studio di scienza morale, cominciava (ed è questa la sola via) ad informarsi
di ciò che era creduto, insegnato, disputato, a porsi a livello della scienza corrente, si trovava
ingolfato, confuso in un mare tempestoso di assiomi assurdi, di teorie sofistiche, di questioni alle
quali mancava per prima cosa il punto logico, di dubbj frivoli e sciocchi come erano le certezze.
Non v'è ingegno esente dal giogo delle opinioni universali, e già una parte di queste miserie
diventava il fondamento della scienza degli uomini i più pensatori. Che se anche i più acuti,
profondi fra essi, avessero veduta e detestata tutta la falsità e la cognizione, di quel sapere, avessero
potuto sostituirgli il vero, giungere al punto dove si trovano le idee e le formole potenti, solenni,
perpetue; a chi avrebbero eglino parlato? E chi parla lungamente senza ascoltatori? Il genio è
verecondo, delicato, e se è lecito così dire, permaloso: le beffe, il clamore, l'indifferenza lo
contristano: egli si rinchiude in sè , e tace. O per dir meglio prima di parlare, prima di sentire in sè le
alte cose da rivelarsi, egli ha bisogno di misurare l'intelligenza di quelli a cui saranno rivelate, di
trovare un campo dove sia tosto raccolta la sementa delle idee ch'egli vorrebbe far germogliare: la
sua fiducia, il suo ardimento, la sua fecondità nasce in gran parte dalla certezza di un assenso, o
almeno di una comprensione, o almeno di una resistenza ragionata. Veggansi per esempio le opere
di eloquenza di due sommi ingegni, vissuti in circostanze ben diverse nella età posteriore a quella di
Federigo, Segneri e Bossuet. Veggasi quali idee, quale abitudine di linguaggio, quali pregiudizj
anche suppongano le orazioni funebri di questo negli ascoltatori di quelle; veggasi dalle prediche
del Segneri che opinioni egli doveva distruggere, in che sfera d'idee egli doveva attignere i suoi
mezzi, le sue prove per persuadere quegli ingegni, a quali costumanze egli doveva alludere; nella
differenza dei due popoli ascoltanti è certamente in gran parte la spiegazione della somma distanza
fra le opere di due ingegni ognuno dei quali era grande. Prima che un popolo il quale si trova in
questo grado d'ignoranza possa produrre uomini per sempre distinti, è d'uopo che molti sorgano a
poco a poco da quella universale abiezione, che riportino su gli errori, su la inerzia comune molte
vittorie d'ingegno difficili, e che saranno dimenticate; che attirino con grandi sforzi le menti a
riconoscere verità che sembrano dover essere volgari, che preparino agli intelletti venturi una
congerie d'idee delle quali o contra le quali si possano fare lavori degni di osservazione; e che
finalmente col progresso, con la esattezza, con la fermezza e perspicuità delle idee migliorino a
poco a poco il linguaggio comune, dimodoché i sommi ingegni possano avere uno stromento che
renderanno perfetto, ma che pure hanno trovato adoperevole, possano per quell'istinto d'analogia
che ad essi soli è concesso, arrivare a quelle formole inusitate, ma chiare, ardite, ma sommamente
ragionevoli, nelle quali sole possono vivere i grandi pensieri. Questo fa d'uopo; ovvero che la
coltura più matura, più perfezionata d'un altro popolo venga ad educare quello di cui abbiamo
parlato. Allora gl'ingegni singolari attirati dalla luce del vero da qual parte ella si mostri, si levano
dalla moltitudine dei loro concittadini, e tendono al punto che essi scorgono il più alto. Cominciano
allora le ire di molti, e i lamenti di altri contra l'invasione delle idee barbare, contra la dimenticanza
delle cose patrie, contra la servilità agli stranieri, contra il pervertimento del linguaggio e del gusto;
e non si può negare che queste ire e questi lamenti non atterriscano alcuni, e non gli contristino a
segno di far loro abbandonare la via di studio intrapresa; giacché fargli ritornare al falso conosciuto
è cosa impossibile. Ma v'ha pure di quegli ingegni ai quali è per così dire comandato di fare; e
questi tenendosi in comunicazione con un'altra età o con un'altra società d'uomini, dicono ai loro
contemporanei cose che questi ascoltano da prima con disprezzo e con indifferenza, quindi in parte
pure con qualche curiosità quando la fama viene dallo straniero ad avvertirli che fra loro v'è uno
scrittore, imparano un poco mal loro grado, e sono poi quasi tutti concordi sul merito dello scrittore
quand'egli ha dato l'ultimo sospiro.
Così, un secolo forse dopo Federigo, cominciò a rinascere in Italia un po' di coltura, e fra quella a
sovrastare alcuni scrittori dei quali vivono le opere e la memoria; ma i principj di quel risorgimento
non furono un progresso, un perfezionamento delle idee allora dominanti; fu una nuova coltura
introdotta in opposizione alle idee predominanti; sul che tutti concordano. Ma intorno alla sorgente
di questa nuova coltura v'ha due opinioni estremamente disparate. Alcuni, anzi moltissimi, hanno
creduto, e detto che dal fondo della ricchezza letteraria del secolo decimosesto e dai pochi sommi
scrittori più antichi sieno state tolte le idee le quali hanno rinovellato lo spirito della letteratura, e
ricondotto il colto pubblico al senso comune; e che principalmente dai canzonieri del Petrarca e del
Costanzo sia stata tolta la luce che dissipò le tenebre del seicento. Infatti i primi riformatori, si
posero, come alla faccenda più premurosa, ad imitare quelle rime che l'immortale Costanzo vergò,
per placare, se fosse stato possibile, quell'empia tigre in volto umano, su la quale è così diviso e
combattuto il sentimento della posterità. Poiché , quando si pensa ai dolori intimi, incessanti, cocenti
che quella tigre fece tollerare a quel celebre sventurato, non si può a meno di non sentire per essa,
voglio dire per la tigre, un certo orrore, un rancore vendicativo. Ma quando poi si venga a riflettere
che senza quei dolori non sarebbero stati partoriti quei sonetti e quelle canzoni, che senza quei
sonetti e senza quelle canzoni, l'Italia si rimarrebbe forse forse tuttavia nell'abisso del gusto
perverso, allora si prova una certa non solo indulgenza, ma riconoscenza per colei che con la sua
crudeltà fu occasione, fu causa d'un tanto utile e glorioso effetto, si vede allora quanto sia vero che
le grandi cognizioni non vengono all'intelletto degli uomini che per mezzo di grandi dolori. Questo
è detto nell'ipotesi di coloro i quali tengono che la rivoluzione nelle lettere, il ritorno ad un certo
qual senso comune, che ebbe luogo nel principio del secolo decimottavo, abbia cominciato dalla
poesia, e sia venuto nella poesia dallo studio ripreso dei cinquecentisti, e del Costanzo in ispecie.
Ma non si deve dissimulare che v'ha alcuni altri (pochissimi invero) i quali tengono invece che la
lettura degli insigni scrittori francesi, che fiorirono appunto nel tempo in cui le lettere in Italia erano
più stolide e più vuote, cominciò a risvegliare alcuni italiani, a dar loro idea d'una letteratura nutrita
di ricerche importanti, di ragionamenti serj, di discussioni sincere, d'invenzioni che somigliassero a
qualche cosa di umano, e di reale, diretta a far passare nell'ingegno dei lettori una persuasione
ragionata di chi scriveva, a condurre i molti ad un punto più elevato di scienza, di sentimento a cui
erano giunti alcuni con una meditazione particolare. Scorgono costoro che questi italiani
cominciarono ad imparare dalla lettura di quei libri, e furono dal confronto nauseati degli scritti, dei
giudizj, degli intenti, dei metodi, delle riputazioni, di tutta insomma la letteratura italiana di quel
tempo; e cominciarono a porre essi nei loro scritti una cura più esatta a cercare un vero importante,
e lo fecero con una mente più disciplinata, più addestrata a questa ricerca, e diffusero a poco a poco
nei cervelli dei loro concittadini il buon senso che avevano attinto. Questa tengono essi che fosse
non la sola cagione, ma la principale, la prossima della rivoluzione generale e osservabile nel gusto
letterario degli italiani. I pochi i quali tengono questa opinione, si trovano in un bell'impiccio;
perché mettendola fuori, sono certi di acquistarsi il titolo di cattivi cittadini; e fanno compassione;
perché è doloroso il trovarsi tra la necessità o di negare la verità conosciuta, o di acquistarsi un
titolo brutto e odioso. E in verità noi vorremmo avere qualche autorità, qualche appicco, qualche
entratura coi loro avversari, per poterli pregare di provare soltanto con ragioni di fatto che quella
opinione è falsa, e di lasciare da banda quel titolo affatto estraneo alla questione, e fuori di
proposito. E infatti, se fosse a proposito, dovrebbe applicarsi a tutti gli uomini di qualunque nazione
sieno, i quali riconoscano che la loro possa essere stata coltivata con gli studj d'un'altra: ora noi non
applichiamo generalmente questa misura; poiché quando troviamo negli scritti d'un francese quella
opinione che la Francia barbara, incolta, abbia ricevuta la luce delle lettere per mezzo dei grandi
scrittori d'Italia; noi non chiamiamo quella opinione una ingiuria fatta da quegli scrittori alla loro
patria, ma una generosa confessione del vero; non gli chiamiamo cattivi cittadini, ma uomini
veggenti, candidi, imparziali. Ricordiamoci adunque che l'adoprar peso e peso, misura e misura, è
cosa abbominevole; e siamo coi nostri così giusti e indulgenti come siamo con gli stranieri; senza
pregiudizio però, giova ripeterlo, delle buone ragioni, che si potranno dire quando a Dio piaccia, per
provare a questi nostri che pigliano un granchio.
Per vedere una volta quale di queste due opinioni sia la più ragionevole, bisogna esaminare due
gran fatti, o due serie di fatti. La prima; in che consistesse principalmente la corruttela delle lettere
nel seicento, se questa corruttela sia stata una deviazione forzata dalla via tenuta nel cinquecento,
quali idee si siano perdute, quali pervertite da un secolo all'altro; giacché la corruttela delle lettere
non può essere altro che smarrimento, o pervertimento d'idee, a meno che non si voglia ammettere
una letteratura che non sia composta d'idee. L'altra; quali, dopo quella abbominazione del seicento
siano state le idee introdotte negli scritti italiani, le quali hanno riprodotta una letteratura
ragionevole e splendida, hanno avvertita l'Europa che le lettere in Italia non erano più come lo
erano state per un secolo, una buffoneria, un mestiere guastato, l'hanno costretta a rivolgersi con
attenzione a questa parte per udire con la speranza di una istruzione, d'un diletto razionale, quali
siano le idee uscite dall'Italia e ricevute in parte del patrimonio comune della coltura Europea.
Raccolti i sommi capi di queste idee della letteratura italiana risorta, bisognerà ancora cercarne la
sorgente; vedere se sieno state riprese, svolte dagli scritti del cinquecento, o da che altra parte sieno
venute a fare impeto nella letteratura italiana. Quanto alla prima questione... ma qui una buona
ispirazione ci avverte che siamo fuori di strada; che musando così in ciarle di discussione mentre si
tratta di raccontare, noi corriamo rischio di perdere, abbiamo forse già perduti i tre quarti dei nostri
lettori; cioè almeno una trentina; tanto più che questa fatale digressione è venuta appunto a gettarsi
nella storia nel momento il più critico, sulla fine d'un volume, dove il ritrovarsi ad una stazione è un
pretesto, una tentazione fortissima al lettore di non andar più innanzi, dove è mestieri di una nuova
risoluzione, d'un generoso proposito per riprendere e quasi ricominciare il penoso mestiere del
leggere. Noi tronchiamo dunque subitamente questa digressione, pregando quei pochi i quali
l'avessero letta fin qui a fare le nostre scuse a quelli che per noja avranno gettato il libro a mezzo di
questo capitolo, pregandoli anche di assicurarli che saltando tutto il capitolo avrebbero la
continuazione della storia, e di prometter loro in nostro nome, che noi vi ci getteremo in mezzo a
piè pari al principio del prossimo volume, che la continueremo senza interruzione, seguendo
fedelmente il manoscritto, e mescolandovi del nostro il meno che sarà possibile.
<B>TOMO TERZO</B>
<B>CAPITOLO I</B>
Il Cardinale Federigo, secondo il suo costume in tutte le visite, stavasi in quell'ora ritirato in una
stanza, dove dopo aver recitate le ore mattutine, impiegava quei momenti di ritaglio a studiare,
aspettando che il popolo fosse ragunato nella Chiesa, per uscir poi a celebrarvi gli uficj divini, e le
altre funzioni del suo ministero. Entrò con un passo concitato ed inquieto il cappellano crocifero, e
con una espressione di volto tra l'atterrito e il misterioso, disse al Cardinale: «Una strana visita,
Monsignore illustrissimo».
«Quale?» richiese il Cardinale con la sua solita placida compostezza. «Quel famoso bandito,
quell'uomo senza paura e che fa paura a tutti... il Conte del Sagrato... è qui... qui fuori, e chiede con
istanza d'essere ammesso».
«Egli!» rispose il Cardinale: «è il benvenuto, fatelo tosto entrare».
«Ma...» replicò il cappellano, «Vostra Signoria Illustrissima, lo debbe conoscere per fama; è un
uomo carico di scelleratezze...»
«E non è egli una buona ventura», disse il Cardinale, «che ad un tal uomo venga voglia di
presentarsi ad un vescovo?»
«È un uomo capace di qualunque cosa», replicò il cappellano.
«E anche di mutar vita», disse il Cardinale.
«Monsignore illustrissimo», insistette il cappellano «lo zelo fa dei nemici, sono arrivate più volte
fino al nostro orecchio le minacce di alcuni che si sono vantati...»
«E che hanno fatto?» interruppe Federigo.
«Ma se costui, costui che tiene corrispondenza coi più determinati ribaldi, costui che non si
spaventa di nulla, venisse ora... fosse mandato, Dio sa da chi per fare quello che gli altri...»
«Oh! che disciplina è questa», interruppe ancora sorridendo serenamente il vecchio, «che un
officiale raccomandi al suo generale di aver paura? Non sapete voi che la paura, come le altre
passioni, ad ogni volta che le si concede qualche cosa, domanda qualche cosa di più? e che a questo
modo, di cautela in cautela, bisognerebbe ridursi a non far più nulla dei doveri d'un vescovo?»
«Ma questo è un caso straordinario», continuò il cappellano caparbio per premura: «Vostra Signoria
non può così esporre la sua vita. Costui è un disperato, Monsignore illustrissimo; lo rimandi;
troveremo qualche onesta scusa...»
«Ch'io lo rimandi?» rispose con una certa maraviglia severa il Cardinale. «Per farmene un
rimprovero per tutta la vita, e renderne poi conto a Dio? Via via. Già egli ha troppo aspettato. Fatelo
entrar tosto, e lasciatemi solo con lui».
Il cappellano non ebbe più coraggio di replicare, e fatto un inchino partì per obbedire, dicendo in
cuor suo: - non c'è rimedio: tutti i santi sono ostinati -, epiteto che nel senso in cui l'adoperiamo il
più sovente significa uno che non vuol fare a modo nostro.
Uscito nella stanza dov'era il Conte, qui pure solo in un canto, mentre tutti gli altri presenti si
stavano raggruppati in un altro, a guardarlo e a parlare sommessamente, il cappellano gli si accostò,
e gli disse che Monsignore lo aspettava; facendo nello istesso tempo, in modo da non essere veduto
dal Conte, un cenno delle spalle e del volto agli altri, che voleva dire: - Quell'uomo benedetto;
accoglierebbe Satanasso in persona.
Il Conte allora prese tosto una cintura con la quale teneva appeso l'archibugio, e facendolosi passare
sul capo se lo tolse dalla spalla, si cavò dalla cintura dei fianchi due pistole, si staccò uno spadone, e
fatto un fascio di tutto, si accostò ad uno dei preti che si trovavano nella stanza, gli consegnò quel
fascio dicendo: «sotto la vostra custodia». «Signor sì», disse il prete, e, non senza impaccio,
allargando ben bene le mani, e ponendo cura che nulla ne sfuggisse, lo prese con delicatezza come
avrebbe fatto d'un bambino da portarsi al Fonte. Restava ancora un pugnale, di cui il manico
d'avorio intarsiato d'oro sporgeva tra il farsetto e la veste: e gli occhi erano rivolti sul Conte, per
osservare se egli compisse la buona opera di disarmarsi e desse anche questo al curato: ma il Conte
non n'ebbe pure l'immaginazione: togliersi il pugnale era un pensiero troppo strano per lui: gli
sarebbe sembrato di andar nudo.
Il cappellano aperse la portiera, ed introdusse il Conte; il Cardinale si alzò, gli si fece incontro, lo
accolse con un volto sereno, e accennò con gli occhi al cappellano che partisse; ed egli partì. Il
Conte s'inchinò bruscamente, e guardò il Cardinale, abbassò gli occhi, tornò ad alzargli in quel
venerabile aspetto. Federigo era stato vezzoso fanciullo, giovane avvenente, bell'uomo; gli anni
avevano fatto sparire dal suo volto quel genere di bellezza che al suono di questo nome si ricorda
primo al pensiero; e già gran tempo prima ch'egli toccasse la vecchiezza, le astinenze e lo studio,
avevano tramutate ed offuscate alquanto le forme di quel volto; ma le astinenze stesse e lo studio,
l'abitudine dei solenni e benevoli pensieri, il ritegno e la pace interna d'una lunga vita, il sentimento
continuo d'una speranza superiore a tutti i patimenti, avevano sostituita nel volto di Federigo a
quella antica bellezza, una per così dire bellezza senile, la quale spiccava ancor più in quella
semplicità sontuosa della porpora che nuda di ornamenti ambiziosi tutto ravvolgeva il vecchio.
Stava questi aspettando che il Conte parlasse, onde pigliare dalle prime parole di lui il tuono del
discorso; giacché Federigo benché non sentisse quel genere di paura che il suo buon cappellano
aveva voluto ispirargli, pure sapeva molto bene che bisbetico, ombroso e restio personaggio avesse
dinanzi; e avendo presa di questa venuta una speranza indeterminata di qualche bene, non avrebbe
voluto dire né far cosa che potesse guastare. Stava egli dunque tacito, ed invitava il Conte a parlare
con la serenità del volto, con un'aria di aspettazione amica, con quella espressione di benevolenza
che fa animo agli irresoluti, e sforza talvolta i dispettosi a dire cose diverse da quelle che avevano
pensate; ma il Conte stava sopra di sè, perché era venuto ivi spinto piuttosto da una smania, da una
inquietudine curiosa, che dal sentimento distinto di cose ch'egli volesse dire ed udire dal Cardinale.
Dopo qualche momento però, ruppe egli il silenzio con queste parole: «Monsignore illustrissimo...
dico bene? In verità sono da tanto tempo divezzato dai prelati che non so se io adoperi i titoli che si
convengono... che si usano».
«Voi non potete errate», rispose sorridendo gentilmente Federigo, «se mi chiamate un uomo pronto
a tutto fare, a tutto soffrire per esservi utile».
«Sì rispose il Conte, «davvero, Monsignore? Tale è il linguaggio comune... dei preti
principalmente, i quali dicono sempre che non vivono per altro che per servire altrui. Ma per voi...
tutti dicono che non è un semplice linguaggio di cerimonia. Ebbene, se fossi venuto per
accertarmene? per vedere se egli è vero che voi siete così dolce, così paziente, così inalterabilmente
umile? Se fossi venuto, per soddisfare ad una mia curiosità
«No, no», replicò, sempre sorridendo ma con una seria espressione di affetto il buon vescovo, «non
è curiosità in voi di vedere quest'uomiciattolo che mi procura la gioja inaspettata di vedervi: sento
che una cagione più importante vi conduce».
«Lo sentite, Monsignore? qual cagione di grazia? dicono tanti che voi sapete discernere i pensieri
degli uomini? discernetemi il mio, per... via mi fareste piacere: mostratemi che vedete nel mio
cuore più ch'io non vegga: parlate voi per me, che forse, forse, potreste indovinare».
«E che?» disse il Cardinale come affettuosamente rimproverando: «Voi avete una buona nuova da
darmi, e me la fate tanto sospirare?»
«Una buona nuova! io! una buona nuova! ho l'inferno in cuore, e vi darò una buona nuova! Ah! ah!
voi non vedete qua dentro. Voi non sapete che io son venuto qui strascinato senza sapere da chi, che
aveva il bisogno di vedervi, che vorrei parlarvi, e che in questo stesso momento io sento in me una
rabbia, una vergogna di essere dinanzi a voi... così, come una pinzochera... Oh ditemi un po'; quale
è questa buona nuova».
«Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol far di voi un altr'uomo»; rispose tranquillamente il
Cardinale.
«Dio? ci siamo», replicò il Conte. «Dio! quella parola che termina tutte le quistioni. Dov'è questo
Dio?»
«Voi me lo domandate», rispose Federigo, «voi? E chi l'ha più vicino di voi? Non lo sentite in
cuore, che vi tormenta, che vi opprime, che vi abbatte, che v'inquieta, che non vi lascia stare; e vi dà
nello stesso tempo una speranza ch'Egli vi acquieterà, vi consolerà, solo che lo riconosciate, che lo
confessiate?»
«Certo! certo!» rispose dolorosamente il Conte, «ho qualche cosa che mi tormenta, che mi divora!
Ma Dio! Che volete che Dio faccia di me? Foss'anche vero tutto quello che dicono, non ho altra
consolazione che di pensare che nemmeno il diavolo non mi vorrebbe».
Il Conte accompagnò queste parole con una faccia convulsa, e con gesti da spiritato, ma Federigo
con una calma solenne, che comandava il silenzio e l'attenzione, replicò: «Che può far Dio di voi?
Quello che d'altri non farebbe. Ricevere da voi una gloria che altri non gli potrebbe dare. Fare di voi
un gran testimonio della sua forza... e della sua bontà. Poiché finalmente, che vi accusino coloro ai
quali siete oggetto di terrore, è cosa naturale; è il terrore che parla, e si lamenta, è un giudizio facile,
poiché è sopra altrui, fors'anche in taluno sarà invidia; forse v'ha chi vi maledice, perché vorrebbe
far terrore anch'egli: ma quando voi accuserete voi stesso, quando il giudizio sarà una confessione,
allora Dio sarà glorificato. Questo può far Dio di voi; e salvarvi».
«No: Dio non vuol salvarmi», replicò il Conte, con un dolore disperato.
«Non vuole?» disse il Cardinale. «Io che sono un uomo miserabile, mi struggo del desiderio della
vostra salute: voi non ne avete dubbio; sento per voi una carità che mi divora; e Dio che me la
ispira, quel Dio che ci ha redento, non sarà grande abbastanza, per amarvi più ch'io non vi ami?»
La faccia del Conte fino allora stravolta dall'angoscia e dalla disperazione, si ricompose, si atteggiò
al dolore; e i suoi occhi che dall'infanzia non conoscevan le lagrime, si gonfiarono, e il Conte pianse
dirottamente.
«Dio grande e buono!» sclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: «che ho mai fatto io
servo inutile, pastore sonnolento, perché tu mi facessi degno di assistere ad un sì giocondo
prodigio?» Così dicendo, egli stese la mano per prendere quella del Conte. «No», gridò questi, «no:
lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete quanto
sangue è stato lavato da quella che volete stringere?»
«Lasciate», disse Federigo, afferrandogli la mano con amorevole violenza, «lasciate ch'io stringa
con tenerezza - e con rispetto - questa mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze,
che solleverà tanti poverelli, che si stenderà umile, disarmata, pacifica a tanti nemici».
«È troppo!» disse il Conte singhiozzando. «Lasciatemi, Monsignore... buon Federigo: un popolo
affollato vi aspetta... tanti innocenti, tante anime buone... tanti venuti da lontano per vedervi, per
udirvi; e voi vi trattenete... con chi!»
«Lasciamo le novantanove pecorelle», rispose Federigo amorevolmente; «sono in sicuro, sono sul
monte: io voglio ora stare con quella che era smarrita. Quella buona gente, sarà ora forse più
contenta che se avesse tosto veduto il suo vescovo. Chi sa che Dio il quale ha operato in voi il
prodigio della misericordia, non diffonda ora nei cuori loro una gioja di cui non conoscono ancora
la cagione? Son forse uniti a noi senza saperlo: forse lo Spirito pone nei loro cuori un ardore
indistinto di carità, una preghiera, ch'egli esaudisce per voi, un rendimento di grazie, di cui voi siete
l'oggetto non ancor conosciuto».
Al fine di queste parole stese egli le braccia al collo del Conte, il quale dopo aver tentato di
sottrarsi, dopo aver resistito un momento, cedette come strascinato da quell'impeto di carità,
abbracciò egli pure il Cardinale, e abbandonò il suo burbero volto su le spalle di lui. Le lagrime
ardenti del pentito cadevano sulla porpora immacolata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo
cingevano quelle membra, premevano quelle vesti su cui da gran tempo non avevano posato che le
armi della violenza e del tradimento.
Sciolti da quell'abbraccio, il Cardinale disse con un affetto ansioso al Conte: «parlate: parlate;
apritemi il vostro cuore: ditemi i pensieri che più vi tormentano; quello che hanno di più amaro si
perderà passando su le vostre labbra; il dolore che vi resterà sarà misto di giocondità, sarà una
giocondità esso medesimo: non vi lasceranno altra puntura che il desiderio di riparare al già fatto.
Dite: forse v'è qualche cosa a cui si può riparare ancora:...»
«Ah sì», interruppe il Conte; «v'è una cosa a cui si può riparare tosto: il fatto è turpe, è atroce, ma
non è compiuto. Lodato Dio, che non lo è. Per farvelo conoscere è d'uopo ch'io appaja dinanzi a voi,
per mia confessione, quello ch'io sono: uno scellerato... e un vile birbone; ma non importa: quello
che importa, è di cessare una crudele iniquità». Federigo stava ansioso attendendo, e il Conte narrò
dell'infame contratto di Lucia, del rapimento, dell'arrivo di essa al suo castello, delle sue suppliche,
e dei primi pensieri che a cagione di queste gli erano venuti. Il buon vescovo impallidì alla storia
dei patimenti e dei pericoli di quella poveretta; ma quando intese ch'ella si trovava ancora al
castello: «Ah!» disse «è salva, è intatta: togliamola tosto da quell'angoscia: ah voi sapete ora che
cosa sono le ore dell'angoscia! abbreviamole a questa innocente. Voi me la date...?»
«Dio!» sclamò il Conte; «che uomo son io, se mi si richiede come un dono ciò ch'io non ho in poter
mio che per la più vile prepotenza! se mi si chiede per misericordia di non essere più un infame!»
«Il male è fatto», rispose Federigo: «quello che è da farsi è il bene, e voi lo potete; voi lo volete;
Dio vi benedica. Dio vi ha benedetto. D'una iniquità, voi potete ancor fare un atto di virtù, e di
beneficenza. Sapete voi di che paese sia questa poveretta?»
Il Conte glielo disse; Federigo allora scosse il suo campanello; alla chiamata entrò con ansietà il
cappellano, il quale in tutto quel tempo era stato come sui triboli, e veduta la faccia tramutata,
umile, commossa del Conte, e su quella del Cardinale una commozione che pur traspariva da quella
sua tranquilla compostezza; restò colla bocca aperta, girando gli occhi dall'uno all'altro; ma il
Cardinale lo tolse tosto da quella contemplazione mezzo estatica e mezzo stordita dicendogli: «Fra i
parrochi qui radunati vi sarebbe mai quello di...?»
«V'è, Monsignore illustrissimo», rispose il cappellano.
«Lodato Dio!» disse il Cardinale: «chiamatelo, e con lui il curato di questa chiesa».
Il cappellano uscì nell'altra stanza, dove i preti congregati aspettavano il suo ritorno con la speranza
di saper qualche cosa d'un colloquio che gli teneva tutti sospesi. Tutti gli occhi furono rivolti sopra
di lui: egli alzò le mani, e movendole l'una contro l'altra con un gesto come involontario, tutto
trafelato come se avesse corso due miglia, disse: «Signori, signori: <I>haec mutatio dexterae
Excelsi</I>. Il signor curato della chiesa e il signor curato di... sono chiamati da Monsignore».
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù sola
bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in
tutte le sue opere: l'amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura
continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era: tutto il bene possibile: credeva egli
sempre adunque di rimanere indietro, ed era profondamente umile, senza sapere di esserlo; come
l'illibatezza, la carità operosa, lo zelo, la sofferenza, erano virtù ch'egli possedeva in un grado raro,
ma che egli si studiava sempre di acquistare. Se ogni uomo fosse nella propria condizione quale era
egli nella sua, la bellezza del consorzio umano oltrepasserebbe le immaginazioni degli utopisti più
confidenti. I suoi parrocchiani, gli abitatori del contorno lo ammiravano, lo celebravano; la sua
morte fu per essi un avvenimento solenne e doloroso; essi accorsero intorno al suo cadavere; pareva
a quei semplici che il mondo dovess'esser commosso, poiché un gran giusto ne era partito. Ma dieci
miglia lontano di là, il mondo non ne sapeva nulla, non lo sa, non lo saprà mai: e in questo
momento io sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter
dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: Prete Serafino Morazzone Curato di Chiuso.
All'udirsi chiamare, egli si spiccò da un cantuccio dove stava pregando tacitamente, e si mosse
senz'altra premura che di obbedire, senz'altra curiosità che di vedere se vi fosse per lui qualche
opera utile e pia da intraprendere.
L'altro chiamato era quel nostro Don Abbondio, il quale per togliersi d'impiccio era stato in gran
parte cagione di tutto questo guazzabuglio: egli non poteva sapere, né avrebbe mai pensato che
questa chiamata avesse la menoma relazione con quei tali promessi sposi, dei quali credeva di
essere sbrigato per sempre. Si avanzò anch'egli incerto e curioso, anche inquieto di dovere trovarsi
con quel famoso Conte: pure lo rassicurava la faccia ispirata del Cappellano, quelle sue parole che
annunziavano oscuramente cose grandi, e ciò che più stava a cuore di Don Abbondio, cose quiete.
Ambedue i curati furono tosto introdotti nella stanza dove il Conte stava col Cardinale. Don
Abbondio s'inchinò umilmente ad entrambi, e guardava l'uno e l'altro ma specialmente il Conte; e
aspettava che si dicesse qualche cosa per esser certo che non v'erano imbrogli. Il Cardinale, prese in
disparte il curato di Chiuso, e dettogli brevemente di che si trattava, gli espose la sua intenzione di
spedir tosto in lettiga una donna al castello a prender Lucia, affinché questa alla prima nuova della
liberazione si trovasse con una donna, il che sarebbe stato per quella poveretta una consolazione e
una sicurezza, non meno che decenza per la cosa; e lo pregò di sceglier tosto fra le sue parrocchiane
la donna più atta a questo uficio per saviezza, e la più pronta per carità ad assumerlo. «Ne corro in
cerca, Monsignore illustrissimo, e Dio compirà l'opera buona». Detto questo uscì; i radunati
nell'altra stanza lo guardarono curiosamente, ma nessuno lo fermò per interrogarlo, giacché si
sapeva ch'egli era così avaro delle parole inutili, come pronto a parlare senza rispetto quando il
dovere lo richiedesse.
Il Cardinale si volse allora a Don Abbondio, e con volto lieto gli disse: «Una buona nuova per voi,
Signor curato di... Una vostra pecorella che avrete pianta come perduta, vive, è trovata; e voi avrete
la consolazione di ricondurla al vostro ovile, o per ora in quell'asilo di che Dio la provvederà».
«Monsignore illustrissimo, non so niente»; rispose Don Abbondio, il primo pensiero del quale era
sempre di scolparsi a buon conto, e di lavarsene le mani.
«Come!» disse Federigo, «non conoscete Lucia Mondella, vostra parrocchiana, che era
scomparsa...?»
«Monsignore sì», rispose tosto il curato, che non voleva passare per un pastore spensierato.
«Or bene, rallegratevi», disse il cardinale, «che Dio ce la restituisce: e questo signore» continuò
(accennando il Conte) «è lo stromento di che Dio si serve per questa opera buona. In altro momento
voi mi informerete dei casi e delle qualità di questa giovane».
- Ahi! ahi! - pensava fra sè Don Abbondio. - Bell'impiccio a contare la storia! Questa donna è nata
per la mia disperazione.
«Per ora», proseguì Federigo, «quello che preme è di riaverla e di riporla nelle braccia di sua
madre, e in casa sua, se potrà esservi sicura. Andrete voi dunque con questo mio caro amico» (e
così dicendo prese la mano del Conte il quale lasciava dire e fare troppo contento che un tal uomo
lo governasse e parlasse per lui) «andrete al suo castello accompagnando una buona donna di
questo paese che ricondurrà quella giovane nella mia lettiga. Per far più presto, darò ordine tosto
che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete», continuò egli coll'accento di chi è
compreso di ciò che dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro
ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate, e servi inutili che noi siamo! pure ci
adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza
misericordiosa».
Le parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente perdute. Don
Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione; si trattava di ricondurre in trionfo,
alla presenza dell'arcivescovo quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po'
sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui
avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo non era ancora il
peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello senza saper
chiaramente a che fare: tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia,
della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione:
e metteva in moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non gli permetteva
di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne
sarebbe offeso. Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don
Abbondio stava guatando, come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente
un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone;
sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il
padrone e non osa contraddire per non offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il cane
e non gli si avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non si
avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi perché teme di porgli
addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte
che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero
Don Abbondio. Pure componendosi al meglio che potè, fece egli un inchino al Cardinale per
accennare che obbedirebbe, e un altro inchino al Conte accompagnato con un sorriso che voleva
dire: - sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: <I>parcere subjectis</I> -. Ma il Conte tutto
assorto nei suoi pensieri, sbalordito egli stesso di tanta mutazione, intento a raccogliersi, a
riconoscersi, per così dire, agitato dai rimorsi, dal pentimento, da una certa gioja tumultuosa,
corrispose appena macchinalmente con una piegatura di capo, e con un aspetto sul quale si
confondevano tutti questi sentimenti in una espressione oscura e misteriosa, che lasciò Don
Abbondio ancor più sopra pensiero di prima.
Il Cardinale, si trasse in un angolo della stanza col Conte che teneva per mano, e gli disse: «Vi par
egli, amico, che la cosa vada bene così? Siete contento di queste disposizioni?»
«E che?» rispose il Conte commosso e umiliato, «dopo aver tanto tempo fatto il male a modo mio,
dovrei ora dubitare di lasciarmi governare nel ripararlo? e da Federigo Borromeo?»
«Da Dio tutti e due», rispose questi, «perché siamo due poveretti. Andate», continuò poi con tuono
affettuoso e solenne; «andate, figliuol mio diletto a toglier di pene una creatura innocente, a gustare
i primi frutti della misericordia; io v'aspetto, voi tornerete tosto non è vero? noi passeremo insieme
tutte le ore d'ozio che mi saranno concesse in questa giornata?»
«Se io torneròrispose il Conte. «Ah! se voi mi rifiutaste, io mi rimarrei ostinato alla vostra porta
come il mendico. Ho bisogno di voi! Ho cose che non posso più tener chiuse in cuore, e che non
posso dire ad altri che a voi. Ho bisogno di sentir quelle parole che voi solo potete dirmi».
Federigo in risposta gli strinse la mano, si avvicinò ad un tavolino, scosse un'altra volta il
campanello; e tosto entrò un ajutante di camera; cui egli impose che facesse tosto apprestar la
lettiga la quale stesse agli ordini del curato di Chiuso, e facesse bardare due mule, che dovevano
servire di cavalcatura ai due presenti. Dato l'ordine, riprese la mano del Conte e s'avviò verso la
porta della stanza; ma veduto passando il nostro Don Abbondio che stava tutto pensieroso e come
ingrugnato, pensò il buon cardinale che quegli forse avesse avuto per male di vedere quel
facinoroso così accarezzato e distinto, e sè negletto in un canto. Si fermò tosto, e rivolto al curato
con un sorriso amorevole, e quasi di scusa, e con quel tratto cortese tanto raro a quei tempi, in cui i
modi comuni erano trascuratezza superba, o cortigianeria iperbolica, gli disse: «Figliuolo, voi siete
sempre con me nella casa del nostro Padre comune; ma questi, questi... <I>perierat et inventus
est</I>». Don Abbondio rispose con un sorriso forzato al quale voleva far dire: - certo è una gran
consolazione -: ma in cuor suo tra sè e sè, rispose con una frase proverbiale lombarda: - meglio
perderlo che trovarlo -.
Il Cardinale si avviò ancora verso la portiera; quando fu presso l'ajutante di camera spalancò le
imposte, e Federigo, traendo per mano il Conte che lo seguiva con gli occhi bassi e con la fronte
umiliata, uscì nell'altra stanza dove il clero che lo accompagnava nella visita, e quello raccolto dalle
parrocchie del contorno, stava ragunato aspettando. Tutti gli sguardi furono levati in un punto ai
volti di quella coppia mirabile, sui quali era dipinta una commozione diversa, ma egualmente
profonda: una gioja, una tenerezza, una estasi tranquilla sui tratti venerabili di Federigo, e su quelli
del Conte i vestigi d'una grande vittoria e d'un grande combattimento, il contrasto tra le feroci
passioni che partivano e le nuove virtù, un abbattimento che mostrava tuttavia il vigore di quella
selvaggia e risentita natura. A più d'uno dei riguardanti sovvenne allora di quelle parole d'Isaia:
<I>Il lupo e l'agnello pascoleranno insieme; il leone participerà alla profenda del bue</I>. Il
Cardinale s'arrestò un momento poco al di là della soglia, abbracciò ancora il Conte, il quale non
ebbe tempo di ritirarsi, e gli disse: «v'aspetto»; salutò della mano Don Abbondio, e mostrò di
volersi avviare alla sacristia: parte del clero lo precedette, altri lo circondarono, alcuni gli tennero
dietro, e la comitiva partì, giunse alla sacristia, dove il cardinale si vestì degli abiti solenni, ed uscì
nella chiesa affollata a celebrare gli uficj divini. Quando fu cantato il Vangelo, il Cardinale parlò
dall'altare al popolo, come era suo costume. In quel tempo in cui la carestia era l'idea la più
famigliare, e l'affare il più importante, si diffuse egli con eloquenza cordiale a parlare di pazienza e
di liberalità; a far sentire ai poverelli il bene che potevano cavare dai patimenti irrimediabili, agli
agiati il bene che potevano farsi col rimediare a quei patimenti che avessero potuto: e le parole
dell'uomo di Dio, produssero ivi come da per tutto il doppio effetto ch'egli cercava; perché quelle
parole erano rese ancor più potenti dal soccorso e dall'esempio. Le largizioni abituali di Federigo le
quali non avevano altro limite che il suo avere, gli avevano data una fama già antica di carità
singolare: ma le angustie di quel tempo avevano resa la sua carità ancor più attiva, e più ingegnosa;
e da per tutto si parlava del gran numero di poveri da lui nudriti quotidianamente nella città, e dei
mezzi da lui trovati per soccorrerli, per non perderne uno se fosse stato possibile. Peregrinando poi
nella diocesi per visitarla, egli non avrebbe avuto il cuore di vedere delle miserie senza sollevarle,
di esortare altrui alla pazienza, alla carità, con le mani chiuse: quindi i poverelli dei paesi dov'egli
arrivava erano certi di trovare un soccorso, di non patire per quel tempo che avrebbero avuto fra
loro il pastore. Nè questo solo esempio si contentava egli di dare: sobrio in ogni tempo, in quelli
della carestia egli si misurava ancor più scarsamente il cibo: voleva detrarre a sè tutto ciò che
poteva sollevare altrui; non gli pareva di compatire davvero ai suoi poveri se non pativa con essi;
voleva mostrare col fatto che i disagi del vitto erano pur tollerabili, che si poteva anche in mezzo a
quelli benedire il Signore, che si poteva non solo sostenerli con rassegnazione, ma eleggerli
volonterosamente. I quali sensi sono espressi in quelle sue belle parole: <I>Sarebbe cosa molto
disdicevole vedere grasso il pastore e macilenti le pecore</I>. Ma nel discorso, che Federigo tenne
in quel giorno uscivano di quando a quando come dall'abbondanza del suo cuore parole più
magnifiche, più tenere sulla misericordia, sulla conversione, sulla vita futura, le quali erano intese
da quelli che lo avevano veduto col Conte, e in parte anche dal popolo, nel quale s'era sparsa
confusamente la notizia della gran mutazione: e quelli che erano soliti di udirlo ebbero a dire che in
quel giorno v'era nel suo dire qualche cosa d'ispirato e di celeste oltre l'ordinario. Terminato il
discorso, compiuto il Sagrificio, attese egli alle altre funzioni del suo ministero per lunghissima ora,
con quell'ardore suo solito, con quella intensità volonterosa e continua, che non lasciava nemmeno
da sospettare che vi fosse nelle sue azioni uno sforzo da lodare, un tedio vinto, una tolleranza
virtuosa della fatica.
Intanto il Conte e il curato erano rimasti soli nella stanza: e la coppia era in un altro senso non meno
mirabile di quella di prima.
Don Abbondio nojato del presente e inquieto dell'avvenire, ruminava fra sè che cosa potesse dire a
colui, per assaggiarlo, per conoscere l'umore della bestia, giacché di voglia o di forza, doveva
trovarsi con quella, e accompagnarla nella sua caverna: ma il pover uomo non sapeva raccappezzare
un pensiero, una frase che stesse bene. - Potrei, - andava masticando fra sè, - potrei dire: mi
rallegro... buono! se mi domanda di che, come posso rispondere? mi rallegro vuol dire che finora
non c'era da rallegrarsi, vuol dire che egli era un gran birbone. Costui è un matto furioso. E se la
piglia per traverso? È meglio parlare di cose estranee. - E appena avuta questa ispirazione, Don
Abbondio stava per dire: la giornata è un po' rigida; ma non è da stupirsene; siamo tra le montagne
e ai ventidue di novembre. Ma si pentì tosto anche di questa risoluzione: perché diceva egli fra sè: -
non vedi come è accipigliato, meditabondo, turbato? Se gli fo motto di simili corbellerie, mi può
rispondere in furia, e togliermi il coraggio di andare... andare! bisogna andare. Oh che faccenda! oh
che impiccio! Oh quando potrò contarla a Perpetua, e dire: è andata bene!
Così si angariava il pover uomo, cercando nella sua mente qualche materia di discorso, e rigettando
questa perché troppo ardita, quella perché troppo volgare; come un povero scrittore che abbia a fare
con un pubblico difficile. Se il Conte avesse potuto sospettare che la mente di Don Abbondio era ad
una simile tortura, gli avrebbe tosto cercate le parole più atte a dare sicurezza anche ai pusillanimi;
avrebbe fatto in modo d'infondere ogni coraggio a Don Abbondio: poiché il timore ch'egli ispirava
sarebbe stato per lui in quel momento un rimprovero doloroso, un ricordo di tutto ciò che v'era stato
in lui di feroce e d'ingiusto, di ciò ch'egli allora detestava, e voleva riparare. Ma per disgrazia di
Don Abbondio, era il Conte talmente occupato dei suoi pensieri, talmente distratto da tutto ciò che
non era, egli, il cardinale, e Lucia, che non si avvedeva per nulla della tempesta che bolliva
nell'animo del suo compagno, e a dir vero non si ricordava quasi ch'egli fosse presente.
Giunse alla fine l'ajutante di camera, a dire che tutto erA in pronto. Don Abbondio guardò allora al
Conte, il quale alla prima parola intesa s'avviò; s'accorse allora di Don Abbondio, e lo riverì, come
si fa a persona che sopraggiunga; e quindi trovandosi già presso alla porta continuò il suo cammino
seguendo l'ajutante di camera. Don Abbondio che aspettava questo momento per vedere se il Conte
gli usasse un atto di cerimonia anzi di civiltà, e pigliarne buon augurio, fu contristato della poca
buona creanza del Conte; e gli tenne dietro con l'animo sempre più sconsolato. Ma il Conte, come
abbiam detto, era troppo sopra pensiero per ricordarsi del cerimoniale.
Scesi nel cortiletto della casa parrocchiale, trovarono la lettiga, con entro la donna istrutta dal buon
curato; e presso alla lettiga le due mule tenute per la briglia da due palafrenieri. Salirono entrambi
in silenzio; i lettighieri uscirono per porsi sulla via che conduceva al castello, e i due cavalieri su le
mule sempre guidate a mano dai due palafrenieri, la cui compagnia fu molto gradita a Don
Abbondio, seguirono posatamente la lettiga.
<B>CAPITOLO II</B>
La casipola del curato era, ed è tuttavia, attergata alla chiesicciuola di quel paesello: la cavalcata per
porsi in via doveva girare il fianco della chiesa, e passare davanti alla fronte sulla quale è voltato un
arco che appoggiandosi dall'altra parte sul muro della strada forma tetto sopra di questa. Già su la
porta del curato cominciava la folla di coloro che non potendo capire in Chiesa, né stare in luogo
dove si vedesse quello che vi si faceva, cercavano almeno di starvi più presso che si potesse. Quella
pompa singolare si affacciò alla turba, e i lettighieri che erano contadini del luogo domandarono il
passo ai primi che lo impedivano, con un certo garbo inusitato che era loro ispirato dal sentimento
indistinto che servivano a qualche cosa di santo e di gentile, dall'aver veduto il cardinale, dalla
commozione che appariva su tutti i volti. La folla faceva largo guardando ognuno quella comitiva
con maraviglia e con curiosità, e il Conte con un riserbo che non era più quel solito terrore. Così
pian piano la comitiva si avanzava, quando giunse sotto il portico, dove si dovette rallentare ancor
più la marcia per la folla di popolo chiusa fra i due muri; il Conte, guardando nella Chiesa dalla
porta che era spalancata, si trasse il suo cappello piumato, e inchinò la fronte fino su la chioma della
mula: atto che eccitò un mormorio di gioja e di stupore nel popolo che poteva vederlo, e si propagò
per tutta la folla, ognuno raccontandone il motivo ai suoi vicini. Don Abbondio si trasse pure il suo
gran cappello senza piume, s'inchinò, sentì i suoi confratelli che cantavano, e provò forse per la
prima volta un sentimento d'invidia in una tale occasione. - Oh quante volte, - diss'egli in cuor suo, -
queste funzioni mi son parute lunghe come la fame; e non vedeva l'ora d'andarmene in sagrestia a
piegare la mia cotta; e adesso torrei volontieri di star lì a cantar fino a sera; in quella santa pace; e
invece bisogna andare... Ma Dio benedetto! - sclamò egli internamente come l'uomo che è
vivamente penetrato dal sentimento che gli si fa torto, - giacché m'avete ficcato in questo impiccio,
almeno almeno, ajutatemi.
Superata tutta la folla, il corteggio seguì pianamente il suo cammino; ma siccome la disposizione
d'animo dei due personaggi a cavallo era sempre la stessa, anzi i pensieri dell'uno e dell'altro
diventavano sempre più intensi a misura che si avvicinava la meta, così il cammino si faceva in
silenzio, e noi non possiamo riferire che i soliloqui dell'uno e dell'altro.
- Gran cosa, (è il soliloquio di Don Abbondio) gran cosa, che a questo mondo vi debbano essere dei
ribaldi e dei santi, che gli uni e gli altri debbano avere l'argento vivo addosso, che quando hanno
una ribalderia, o un'opera santa da fare, debbano sempre tirare per forza in ballo gli altri, quelli che
vorrebbero attendere ai fatti loro; e che tanto gli uni quanto gli altri debbano venir tra i piedi a me,
pover'uomo, che non m'impaccio degli affari altrui, e che non cerco altro che di starmene quieto a
casa mia! Quel birbone di Don Rodrigo s'ha da ficcare in capo di sturbare un matrimonio, proprio
nella mia parrocchia, e m'ha da venire una intimazione di quella sorte! Un pazzo che ha nascita e
quattrini, casa ben piantata, e parenti in alto, e potrebbe godersi la sua vita tranquilla, signorilmente:
attendere a dare dei buoni pranzi, stare allegro, e fare degli allegri: signor no: ha da desiderare la
donna d'altri, tanto per venire a molestarmi. Oh questa ragazza benedetta vuol essere la mia morte!
Deve proprio capitare in mano di costui (e così dicendo guatava sottecchi il Conte quasi per vedere
se poteva arrischiarsi a strapazzarlo mentalmente); e costui che è sempre stato lontano dai vescovi
come il diavolo dall'acqua santa, ha da venir qui in persona, a cercare l'arcivescovo, senza che
nessuno ce lo abbia mandato per forza, proprio per metter me in impaccio: e questo arcivescovo,
benedett'uomo che vorrebbe dirizzar le gambe ai cani, a cui pare che il mondo rovini quando la
gente sta ferma, che deve sempre far qualche cosa egli, e far fare qualche cosa agli altri; subito,
subito, tutto va bene, gran consolazione, la pecora smarrita, credere tutto, darvi dentro, e far trottare
il curato. Che si abbiano concluso fra loro, Dio lo sa: ma, cospetto non bisogna andar così in furia a
questo mondo. La santità non basta, ci vuole un po' di prudenza, e sì che dovrebbe avere imparato:
ha avuto delle belle brighe, a forza di cercarne, e di voler fare andar le cose a modo suo: ma pare
che vi c'ingrassi: non ne lascia scappare una; la carità va bene; ma la prima carità dovrebb'essere
per un povero curato, che un vescovo, un vero vescovo di giudizio lo dovrebbe tener prezioso come
la pupilla degli occhj suoi. Chi sa costui che cosa gli ha contato? che fini ha? potrebb'essere una
trappola: ahi! ahi! ahi! Ma se anche, come spero, fosse convertito costui (e qui guardava il Conte)
dovrebbe sapere Monsignore illustrissimo che dei peccatori inveterati non è da fidarsi così subito,
bisogna provarli: i primi momenti sono bruschi; e la forza dell'abito fa ricadere uno quasi senza che
se ne avvegga, e intanto... chi è sotto è sotto: ahi! ahi! ahi! S'aveva mò a mandar così un povero
curato galantuomo sotto la bocca del cannone?
Don Abbondio era a questo punto della sua meditazione quando la cavalcata giunse alla taverna
dove cominciava la salita, e ne uscirono bravi secondo il solito, i quali videro con istupore il Conte
con un prete dietro una lettiga. Pensarono che potesse essere, non lo seppero indovinare, e non
fecero altro che inchinarsi al Conte, il quale con viso serio proseguì il suo cammino. Ma Don
Abbondio, continuava: - ci siamo. Oh che faccie! Questa è la porta dell'inferno! E costui vedete che
faccie stralunate fa anch'egli! Un po' pare Sant'Antonio nel deserto quando scacciava le tentazioni,
un po' pare Oloferne in persona! Dio m'ajuti; e lo deve per giustizia.
Infatti i pensieri che si affollavano nella mente del Conte passavano per dir così rapidamente sulla
sua faccia, come le nuvolette spinte dal vento passano in furia a traverso la faccia del sole;
alternando ad ogni momento una luce arrabbiata, e una fredda oscurità. Pensava a quello che
avrebbe detto e fatto, mettendo il piede nel suo castello, trovandosi con quegli dai quali in un punto
s'era fatto così diverso. Avrebbe voluto rendere gloria a Dio, confessare il cangiamento che era
accaduto nel suo animo, rinnegare la sua scellerata vita in faccia a quelli che ne erano stati i
testimonj, i complici, gli stromenti. - Ma... - diceva un altro pensiero, - guai se costoro, credono un
momento ch'io non sia più quello da stendere in terra colui che ardisse resistermi!
Così pensando egli pose macchinalmente la mano al luogo dov'era solito tenere una pistola, e si
ricordò di averle lasciate con le altre armi in casa del curato. - Ohe! - continuava fra sè - Perché mi
obbedirebbero costoro? e se veggiono che questo pane infame è finito per loro, chi sa che cosa la
rabbia può suggerire a costoro! E quello che importa è di non far parole, di non perder tempo, di
ricondurre Lucia tranquillamente: quella poveretta! il pegno del mio perdono! - Se in questa casa,
se in questa caverna, cessa un momento la disciplina, il terrore del padrone, diventa un inferno!
peggio di prima! Costoro saltano il confine, e sono in sicuro: eh gli ho avvezzi io così! - Ma che!
dovrò io dunque umiliarmi a fingere dinanzi a costoro! a questi scellerati! Scellerati? costoro? chi
sono costoro? i miei scolari, i miei amici, quelli che ho ammaestrati io! Facciamo il bene per l'unica
via che è aperta. Bisogna dissimulare; si dissimuli. - Così pensando egli si guardò attorno, e visto
che nessuno dei suoi era in vicinanza, alzò la voce, ordinò ai lettighieri di restare, scese da cavallo,
si avvicinò alla lettiga, e salutata la buona donna che v'era seduta le disse sottovoce: «L'opera di
carità che voi fate ora, vuol esser condotta con prudenza assai. Lasciatevi regolare da me in tutto; e
sopra ogni cosa non dite parola che a quella poveretta, e a chi ardisse interrogarvi, dite che parli con
me. Voi entrerete nella stanza dov'è quella giovane, le direte brevemente che siete venuta a
liberarla; non ne dubiterà, quando vedrà il suo curato: sarà spaventata, poveretta! vedete di
annunziarle la cosa in modo che la sorpresa non le faccia male; la lettiga verrà nella stanza, e
ripartiremo tosto». La buona donna rispose che farebbe come le era detto. Mentre il Conte le dava
questa istruzione Don Abbondio, il quale fino allora si era spaventato ad ogni bravo che
s'incontrava, e che per consolarsi guardava ai lettighieri e ai palafrenieri, stava tutto in incertezza
per questa fermata, e sospirava. Il Conte spiccatosi dalla lettiga si avvicinò alla mula di Don
Abbondio che aspettava quello che avvenisse con gli occhi sbarrati, e gli disse sotto voce: «Signor
Curato; ella non ha bisogno che io le insegni ad esser prudente; ma in questa casa, è necessaria una
prudenza che io solo pur troppo posso conoscere appieno. Se le sta a cuore la riuscita di questo pio
disegno, non dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, né di quello
che si vuol fare, né di quello ch'io penso. Perdoni, signor curato, se non le dico di più, se non le
faccio più scuse dell'incomodo ch'ella patisce per mia cagione, ma Ella ne spera la ricompensa dal
cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia riconoscenza».
La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto che è stato colto
dalla caduta d'una fabbrica, e vi si trova sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse
quella del Conte al povero nostro Don Abbondio.
«Ah! signor Conte», diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con quello che
provava realmente, «Ella mi dà la vita. Dio sia benedetto! queste sono grazie di lassù. Tocca a me
farle scusa se sono stato incivile...»
«Zitto, per amor del cielo», interruppe il Conte: «ad altro tempo le cerimonie: Ella non faccia vista
di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico... o d'un
tiranno». «Lasci fare, lasci fare a me»; rispose Don Abbondio. Il Conte salì di nuovo su la mula, e
volto ai lettighieri, e ai palafrenieri disse loro: «Silenzio, e obbedienza: non dite né rispondete una
parola in quel castello; non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma... e il primo di voi che
fiata... Ma no!» continuò, ravvedendosi, in tuono più dolce, «figliuoli non fiatate, perché potreste
far molto male a voi e ad altri. Andiamo». I lettighieri che deposta la lettiga avevano ascoltata a
bocca aperta questa arringa, ripresero le cinghie su le spalle, continuarono la loro strada, le mule
seguirono: e si giunse alla porta del castello.
Gli scherani del Conte che al suo avvicinarsi al castello s'incontravano sempre più frequenti, già
stupiti di quel suo uscir solo al mattino in un giorno di tanto movimento e di tanto concorso, lo
erano ancor più allora di vederlo tornare al seguito d'una lettiga chiusa, a paro d'un prete, con quelle
cavalcature sconosciute: ma quello che portava al sommo il loro stupore si era di vedere il loro
padrone senz'armi. Quella partenza aveva dato luogo a molte congetture, e fatta nascere una
aspettazione di qualche cosa di nuovo, ma il ritorno invece di soddisfare la curiosità la cresceva e la
impacciava davantaggio. Era una preda? Come l'aveva fatta il padrone solo? e perché il vincitore
tornava disarmato? O che diamine era? Chinandosi umilmente davanti al padrone che passava,
cercavano essi di spiare sul suo volto qualche indizio di questa faccenda, ma il volto del Conte era
impenetrabile: e gli scherani rimanevano a guardarsi l'un l'altro con la bocca aperta.
Alla porta, il Conte scese dalla mula, e fece cenno di fare altrettanto a Don Abbondio che lo
guardava attentamente, appunto per non perdere un cenno; e veduto questo si lasciò tosto
sdrucciolare dalla sua mula. Il Conte disse ai palafrenieri: «aspettate qui»; disse al curato di seguire
la lettiga; andò egli dinanzi, e disse ai lettighieri: «seguitemi». Tutto si fece com'egli aveva imposto:
il Conte entrò col suo seguito nel cortile, si avviò alla stanza dov'era Lucia, ed entrato in quella che
le era vicina; fece restare i lettighieri, si chiuse dentro, e comandò che la lettiga fosse posta a terra.
Aprì allora lo sportello, diede la mano alla buona donna, la fece uscire e disse sotto voce in modo
da non essere inteso che da quelli che lo vedevano: «In quella stanza è la giovane da condursi via: e
con lei una vecchia malandrina... una vecchia. Io la chiamerò fuori: voi entrate, e voi pure Signor
Curato. Annunziate a quella giovane che è libera, che deve partir tosto con voi, che la cosa deve
passare quietamente; non perdete tempo: quando ha inteso, quando è disposta, bussate, la lettiga
verrà nella stanza: fatela sedere in essa, ponetevi al suo fianco, tirate le cortine, e venite qui: io vi
aspetto: andrò innanzi, poi la lettiga, poi il signor curato; dritto alla porta; quivi saliremo sulle
nostre mule, e ripartiremo. E voi», disse rivolto ai lettighieri: «zitti». Così detto condusse la buona
donna e il curato sulla soglia della porta chiusa che dava alla stanza di Lucia, bussò: s'udì la voce
della vecchia che disse: «chi è egli?» «Io»: rispose il Conte: la vecchia aprì, e vide le due facce
inaspettate col padrone, restò come incantata. «Uscite» le disse il Conte; quella uscì tosto, e i due
salvatori entrarono. «Fermatevi qui» disse allora il Conte alla vecchia; e non disse altro: egli la
vecchia e i lettighieri stettero tutti immobili, egli a tender l'orecchio e a numerare i momenti, i
lettighieri ad aspettare, e la vecchia a smemorare.
Lucia aveva passata la notte in un letargo agitato da sogni tormentosi e da risvegliamenti più
tormentosi ancora. Al mattino la vecchia destandosi, aveva chiamata Lucia, e non udendo risposta,
s'era levata in fretta aveva aperte le finestre, e avvicinatasi alla captiva, chinatasi a guardarla, le
aveva chiesto se dormisse, se volesse togliersi da quel cantuccio, e ristorarsi di cibo che doveva
averne bisogno. «No, lasciatemi quieta, ricordatevi del vostro padrone», era stata la sola risposta di
Lucia. La vecchia brontolando s'era ritirata, e per far qualche cosa s'era posta a rifare il suo letto;
quindi era andata ad una tavola dov'erano le reliquie della cena, vi si era seduta, e s'era messa a
mangiare, accompagnando questa operazione con le parole e con gli atti ch'ella credeva più
opportuni ad eccitare l'emulazione di Lucia, e a vincere il suo proposito: poiché la vecchia non
poteva supporre che si resistesse a lungo ad una tentazione di questa fatta, principalmente dopo un
lungo digiuno come quello che aveva patito Lucia. Cominciò dunque a sclamare: «Ih! quanta roba!
ce n'è per quattro bravi! e che grazia di Dio!» Quindi stese un mantile e cominciò a trinciare un
pezzo di stufato, regolando ogni movimento in modo che il romore eccitasse nella mente di Lucia
una immagine chiara di quello ch'ella faceva. E questa sua cura era spinta al segno (la delicatezza
dei lettori ci perdoni se per seguire fedelmente il manoscritto in tutto ciò che può essere una
rappresentazione del costume, ripetiamo anche questa particolarità) che postasi a mangiare, ella
andava rimasticando nella sua bocca sdentata il boccone, producendo con affettazione quei suoni,
che a ragione proscrive Monsignor della Casa; perché ella s'immaginava che in quei suoni vi fosse
qualche cosa di appetitoso: la sua educazione, e le sue antiche abitudini avevano talmente elevata
sopra le sue idee l'idea di mangiare di quei bocconi che non sono concessi a tutti, che tutto ciò che
era associato a questa idea era per lei, importante, leggiadro, irresistibile. «Buono!» diceva di tratto
in tratto. «Buono! viva l'abbondanza! muoja la carestia! Bella cosa vivere in casa dei signori!» E
pure di tratto in tratto dava una occhiata alla sfuggita al cantuccio, ma vedendo Lucia insensibile, si
adirava dell'inutilità dei suoi artifici così reconditi; e mescolava alle esclamazioni di ammirazione e
di gioia, un brontolio sordo di «ehn! ehn! smorfia, smorfia, smorfia!» Venne finalmente all'ultima
prova e al più forte esperimento: prese con la sua destra rugosa e scarnata un fiasco che stava sulla
tavola, con la sinistra un bicchiere, e fattili prima cozzare un tratto e tintinnire, sollevò il fiasco, lo
inclinò sul bicchiere, lo riempì, se lo pose alla bocca, tracannò un sorso, ritirò il bicchiere, battè due
o tre volte un labbro contra l'altro, e sclamò: «Ah! questo risusciterebbe un morto! Bella felicità
averne dinanzi un buon fiasco! Al diavolo i rangoli, e i pensieri! Non mi duole più nemmeno d'esser
vecchia; ma se fossi giovane ih! come vorrei godermela!» Detto questo ripose il bicchiero alla
bocca, lo vuotò, e cheta cheta si volse al cantuccio, e rimase tra lo stupore e la stizza, vedendo che
anche l'incanto più forte non aveva prodotto alcun effetto.
«Non volete mangiare un boccone e bere un sorso?» diss'ella a Lucia. «No»: fu la risposta proferita
in modo da non lasciare alla vecchia la lusinga che la insistenza produrrebbe maggior effetto.
Finalmente la vecchia si levò dalla tavola, prese una scranna, la portò presso una finestra, e tolta la
sua rocca si pose a filare, pensando ai casi suoi ed aspettando la venuta del padrone con molta
inquietudine.
Per comprendere i pensieri stranamente molesti che ronzavano nella mente della vecchia filatrice è
necessario avere una idea di quella mente, e dei casi che l'avevano modificata.
Era costei nata (come dice il volgo di Lombardia) sotto le tegole del Conte, o per dir meglio del
padre del Conte, dieci anni prima di questo. Ciò ch'ella aveva inteso, ciò ch'ella aveva veduto dai
suoi primi anni le avevano dato un concetto grande, indeterminato, predominante del potere e del
lustro dei suoi padroni. La massima principale ch'ella aveva attinta dalle istruzioni, dagli esempj, da
tutto, era che bisognava obbedir loro: che ciò fosse per dovere, fosse per interesse, fosse per destino
erano questioni che non s'erano mai presentate al suo spirito: ella sapeva che bisognava obbedire.
Ebbe ella poi l'onore di sposare il custode del castello quando i padroni non facevano ivi che una
breve villeggiatura, abitando in Milano la maggior parte dell'anno. L'uficio del marito doveva
presentare cento occasioni che rinforzassero ed estendessero l'idea che la nostra allora giovane
donna aveva del potere della famiglia per lei sovrana; e le parti ch'ella doveva prendere nei servizj
del marito le furono occasione di applicare la sua obbedienza, di esercitarla, e di avvezzarla a tutto.
Quando il Conte divenne padrone, quel potere divenne ancor più grande e più attivo, in proporzione
dell'attività violenta dell'animo di lui; e coloro che erano ministri di questo potere dovettero
divenire ancor più obbedienti, e più soperchiatori, essere più spaventati e fare più spavento; pochi
servitori ai quali la coscienza disse che era troppo, si ritirarono; quegli che rimasero crebbero nella
perversità, come una pianta velenosa cresce di grandezza e di forza malefica quando si trova in un
terreno confacente. Il marito della nostra eroina episodica fu di quelli che rimasero.
Quando poi il Conte, carico già di delitti, e bandito capitalmente venne ad abitare stabilmente il
castello, che fu per lui un asilo ed un campo allo stesso tempo, per condurvi quella vita della quale
abbiamo dato un cenno, è facile immaginarsi quale dovesse essere allora l'attività e l'obbedienza di
coloro che stavano al suo servizio e presso a lui. La sciagurata fu madre di una figlia che a suo
tempo fu sposata ad uno scherano del Conte, e di due figli che furono scherani, e furono
soprannominati il Nato-in-casa e lo Spettinato. Alla morte del marito, ella rimase senza servizio
determinato, ma destinata a tutti quelli, che potevano essere prestati da una donna accostumata
com'ell'era. Tener disposto il pranzo pei bravi a qualunque ora tornassero da una spedizione,
medicare i feriti, accudire insomma ad essi, era la sua occupazione più ordinaria: quasi tutte le sue
idee erano ricavate dai loro colloquj; ma tutte erano dominate da una idea principale, quella di non
dispiacere al padrone. Le impressioni della infanzia l'avevano abituata ad una riverenza tremante
per lui, vissuta ai suoi servizj ella non poteva immaginare che fuori di lui vi potesse essere per essa
un asilo, un sostegno; e aveva tanto inteso dire, tanto aveva veduto degli effetti della collera di lui,
che il minimo grado di quella collera la metteva in un'angoscia mortale. In tutto ciò che ella aveva a
fare e a dire non aveva quindi da gran tempo altra cura che di accontentarlo, ogni altra regola taceva
dinanzi a questo unico interesse che era quasi divenuto un istinto: anzi ogni altra regola si era a
poco a poco quasi smarrita affatto dalle sue idee. Quei pochi pensieri e documenti di religione che
le erano stati dati confusamente nella infanzia erano obliterati dal disuso, dal non sentirli mai
rammemorare; e l'idea di giusto e d'ingiusto che pure è deposta come un germe nel cuore di tutti gli
uomini, svolta nel suo, fin dal principio insieme con le passioni del terrore e della cupidigia servile,
accomodata per abito ai principj che tuttogiorno sentiva predicare, ed alle azioni che vedeva
compiersi e alle quali ella partecipava, era divenuta una applicazione mostruosa di tutte queste idee
e di tutte quelle passioni. La volontà capricciosa, irregolare, violenta del Conte era per lei una
specie di giustizia fatale; spiacergli era colpa o sventura, male insomma. La ragione o il torto
stavano per essa nella approvazione o nel malcontento del terribile padrone: poiché quale altro
motivo di ragione comune poteva aver luogo in quella casa, e fra quelle persone? quale principio
generale di equità avrebbe potuto essere invocato da coloro che non li riconoscevano nei rapporti
con gli altri, che li violavano tutti? E come mai avrebbe potuto aver ragione una volta quella che
servendo alle soperchierie, e rallegrandosene rinunziava di fatto ad ogni principio di diritto, e nello
stesso tempo non aveva forza alcuna, non aveva una minaccia per sostenere un diritto quando il suo
interesse la portasse a sentirlo e ad ammetterlo? A tutte queste abitudini di servitù, e di annegazione
perversa, si aggiungeva un sentimento, in origine migliore, che li rinforzava; il sentimento della
riconoscenza. Avvezza costei a ricevere il suo sostentamento dal Conte, riconosceva la vita come
un dono della volontà di lui: come un beneficio della sua potenza. E avvezza pure a risguardarsi
dalla infanzia come cosa del suo signore provava un certo orgoglio di consenso per quella sua
potenza, pel terrore ch'egli incuteva, le pareva di essere qualche parte di un sistema molto
importante. La gioja orrenda ch'ella aveva provata tante volte nella sua vita pel buon successo delle
imprese del Conte, gioja che nasceva da tutti i sentimenti abituali che abbiamo descritti, l'avevano
resa non indifferente, ma propensa ai patimenti altrui, ed ella gli procurava con compiacenza ogni
volta che il timore del padrone le avesse permesso o consigliato di farlo. Bersaglio sovente degli
strapazzi e degli scherni dei bravi, ella aveva imparato a tollerare, rodendosi quando non poteva
ripetere; ma quelle poche volte che le era lecito di straziarli impunemente senza dispiacere del
padrone, le uscivano dalla bocca cose tanto argute, tanto profonde, tanto inaspettate, che il diavolo
vi avrebbe trovato da imparare.
Intendete ora perché la vecchia guardando Lucia, faceva saltare il fuso con istizza, e di tempo in
tempo lo lasciava oscillare penzolone per aria, tutta assorta nei pensieri del terrore? Dagli ordini che
il padrone le aveva dati partendo, e dal tuono con cui gli aveva proferiti, ella aveva compreso, che
al padrone premeva quella ragazza, ch'egli l'aveva fatta pigliare e la riteneva chi sa perché?, ma che
voleva ch'ella fosse contenta. Vedendo ora che tutti i suoi tentativi per raddolcirla erano inutili, che
la obbedienza, il garbo quasi servile, gl'inviti amichevoli non avevano servito a nulla, stava in
angoscia pensando a quello che avrebbe detto il padrone, quando tornando avrebbe trovata Lucia in
quello stato di abbattimento. Poter dire: - io non ci ho colpa - non era un pensiero che rassicurasse
la vecchia, perché ella era solita a vedere che il padrone misurava il suo tratto con gli uomini dalla
soddisfazione o dalla noja che sentiva, e non da altro. Che colpa avevano tanti ch'egli aveva
mandati all'altro mondo? e alla sorte dei quali ella stessa aveva applaudito? Tentava ella dunque di
tempo in tempo Lucia con qualche parola dolce, nella quale a dir vero ella stessa poneva poca
fiducia, dopo d'aver veduto Lucia resistere alla tentazione del mangiare: e in fatti non otteneva da
Lucia altra risposta che un «no» talvolta replicato, al quale ella ammutoliva: e si stava come abbiam
detto, aspettando con la venuta del padrone la rivelazione del destino.
Ma la povera Lucia, come nella notte non aveva mai fatto un sonno pieno, intero, e per dirla con un
calzante modo milanese non aveva mai potuto dormire serrato, così a giorno fatto, nella luce chiara,
non era desta perfettamente. Le memorie, i terrori, le speranze si agitavano e si succedevano nella
sua mente con quell'impeto volubile, con quel vigore incerto dei sogni, e il corpo sbattuto, estenuato
dai travagli, dal digiuno e dalla febbre non concedeva allo spirito il pieno esercizio della coscienza.
In questo stato era Lucia sempre rannicchiata, quando fu bussato dal Conte, la porta s'aperse, la
vecchia uscì, e la buona donna entrò con Don Abbondio. Tutto questo fu un istante; ma un istante di
nuovo batticuore per Lucia alla quale se lo stato presente era intollerabile, ogni mutazione era però
una contingenza di spavento. Fissò ella gli occhi nei sopravvegnenti, vide una donna e si rincorò,
vide un prete, e le sue speranze si accrebbero; guardò più attentamente: - è egli o non è? son'io
trasognata? È il mio curato! - La buona donna si avvicinò a Lucia che senza quasi pensarvi si alzò, e
salutatala con un volto di pietà cortese, si pose l'indice della destra su le labbra, e stesa la manca la
abbassava e la rialzava lentamente come si dipinge il Salvatore che acquieta i flutti del mare di
Tiberiade, e disse con voce sommessa, allegramente: «veniamo a liberarvi».
«È dunque la Madonna che vi manda?» disse Lucia con un giubilo ancora incerto, ma pur
vivissimo.
«Può essere», rispose la buona donna.
«Chi siete? come avete potuto...?» cominciò Lucia alla buona donna; indi tosto rapita da un'altra
brama di sapere, si rivolse al curato, e continuò: «e lei, signor curato: come...?»
«Ah! vedete?» rispose Don Abbondio: «son qui io, il vostro curato, a liberarvi, dal lago dei leoni,
senza riguardi per me, in una giornata fredda, a cavallo...»
«E mia madre?» domandò ancora Lucia, a cui le idee si succedevano in folla.
«La vedrete presto, oggi», rispose Don Abbondio: «ma prima dovete vedere ben altro
personaggio...»
«Chi? dove?» richiese Lucia.
«Monsignore illustrissimo, che ci aspetta, che vuol vedervi. Ma abbiate giudizio: badate a quel che
dite; voi non potete avere pratica di quello che va detto e taciuto ai signori grandi. Vi chiederà delle
vostre vicende: non istate a troppo ciarlare: vi può far del bene; ma bisogna guardarsi dal toccar
certe corde: non parlate del matrimonio, perché, vedete, se sapesse che avete voluto sorprendere il
curato, fare un matrimonio clandestino, guai, guai...!»
«Chi è Monsignore illustrissimo?» domandò Lucia.
«È il cardinale arcivescovo», rispose Don Abbondio, «un uomo di Dio, ma bisogna saperlo pigliare,
perché...»
«Andiamo tosto», disse la buona donna.
«È vero», disse Don Abbondio, «andiamo perché qui non è troppo sano stare: ma ricordatevi di
quello che v'ho detto».
«Come faremo ad uscire?» disse Lucia: «e se ci veggono?»
«Non temete», disse la buona donna: «il padrone del castello viene egli stesso a cavarvene: qui
fuori è la lettiga, voi entrerete con me, e partiremo col signor curato».
«Ho da vederlo ancora il padrone?» chiese ansiosamente Lucia, per la quale il Conte era ridivenuto
orrendo, da poich'ella aveva veduti due visi umani. E continuò: «ho paura di lui: ho paura».
«Che paura?» disse Don Abbondio, «siete con me, ed è mio amico. Risolvetevi».
«Non lo vedrete», disse la buona donna: «noi ci chiudiamo nella lettiga e si parte, e in un momento
siamo a Chiuso».
«Ah! Chiuso!» sclamò Lucia: «dov'è quel buon curato! andiamo, andiamo. Oh Madonna santissima,
vi ringrazio! Me lo sentiva in cuore che non mi avreste abbandonata!»
La buona donna aperse un filo della porta tanto da poter far un cenno, che fu tosto veduto dal
Conte, il quale comandò ai lettighieri di andare nell'altra stanza. Queglino vi portarono la lettiga,
Lucia vi entrò, e la buona donna dopo lei, si tirarono le cortine, i lettighieri uscirono, il curato
dietro: nell'altra stanza il Conte si accompagnò con lui, disse alla vecchia: «aspettatemi qui un'ora, e
se non torno andate a fare i fatti vostri». Nel cortile, alla porta del castello, il Conte e il curato a
cavallo, la lettiga davanti, giù per la discesa, e diritto a Chiuso. A misura che la caravana si
avanzava nel suo viaggio, tutti quelli che la componevano, respiravano più liberamente. Appena la
buona donna fu nella lettiga, al momento che i portatori la sollevavano per partire, ella raccomandò
a Lucia di non parlare finch'ella non gliene desse avviso. Ma poi che dallo scalpito delle mule che
seguivano s'accorse che era varcata la soglia, cominciò a guardare un po' fuori delle cortine, e vista
la strada libera, ruppe ella stessa il silenzio dicendo a Lucia: «Povera giovane! l'avete passata
brutta! Ma Dio ha pensato a voi, e tutto è finito».
Queste parole diedero campo a Lucia d'interrogare la buona donna; che cercava di soddisfare alle
sue domande, dicendo quel poco che sapeva, e come lo sapeva. Lucia a poco a poco vedeva un po'
più di lume nelle sue strane e terribili avventure: le risposte della buona donna la rimettevano sulla
via, e l'ajutavano a spiegare tanti misteri della sua sventura e della sua inaspettata salute; tanto che
in quel viaggio Lucia potè farsi una idea del suo stato, comprendere qualche cosa, ed uscire da
quella affannosa confusione d'idee nella quale lo strano, l'insolito, di quello che si vede e si soffre
non lascia riposare la mente in alcuna, non lascia altra certezza che quella di esistere, e questa stessa
diviene un tormento.
«Oh quando potrò vedere mia madre!» sclamò Lucia appena si sentì rassicurata, e potè discernere
quello che era reale, quello che era possibile. La buona donna le promise che appena suo marito
tornerebbe dalla Chiesa, ella lo determinerebbe ad andarne in cerca, ad informarla, a condurla
presso di lei.
Don Abbondio pigliava fiato ad ogni passo; la conferenza che il Cardinale avrebbe con Lucia, gli
dava un po' di briga per le cose che si dovevano rivangare di quel tale matrimonio: vedeva in
lontano dei pericoli per parte di Don Rodrigo; ma il sentimento predominante era allora la gioja di
uscire sano e salvo da quella spedizione. Pieno di questo sentimento, Don Abbondio aveva una
parlantina che nessuno gli avrebbe supposta vedendolo così silenzioso nella prima andata; e non
avrebbe rifinito di ciarlare col Conte, se questi avesse fatto tenore ai suoi inviti. Ma il Conte benché
lieto di ricondurre Lucia al Cardinale, era tuttavia troppo compreso da tanti sentimenti per prestarsi
alla garrulità di Don Abbondio. Ed oltre il resto era anche un po' umiliato internamente
dell'inquietudine che aveva provata nella spedizione, delle precauzioni che aveva prese in casa sua,
di una prudenza che gli pareva pusillanimità. Ma il Conte non si conosceva: s'era fatta nel suo
animo una rivoluzione della quale egli non s'era reso ben conto: v'eran nati dei sentimenti, vi
s'erano svolte delle disposizioni ch'egli non aveva ancora potuto ben raffigurare: e non s'avvedeva
che questa pusillanimità era una nuova sollecitudine pia e gentile per una debole innocente, una
delicatezza fin allora estrania all'animo suo, un timore che non si sarebbe presentato a quell'animo
se non si fosse trattato che d'un proprio pericolo.
Giunsero a Chiuso che il Cardinale, il clero e il popolo erano ancora nella Chiesa. La buona donna
fece andar la lettiga a casa sua, dove discese, e condusse Lucia già tutta rassicurata, e tosto le fece
animo a ristorarsi dopo un sì lungo digiuno. L'invito era ben altrimenti gradevole che non nella
bocca della vecchia del castello, e Lucia, che sentiva il bisogno di nutrimento, accondiscese con
riconoscenza. Intanto Don Abbondio e il Conte entrarono nella casa del curato, e quivi si stettero ad
aspettare il Cardinale.
Questi non tardò molto a venire, precedendo velocemente il clero che gli faceva codazzo, ed entrato
nella stanza, e veduti i due tornati, chiese tosto con ansietà: «È qui?»
«È qui», rispose il Conte.
«L'abbiamo condotta sanamente», rispose Don Abbondio.
«Dio sia lodato!» sclamò il cardinale: «e ve ne rimeriti entrambi». E preso in disparte il Conte,
mentre gli altri si ritiravano: «Non siete più contento ora?» gli chiese. «Vedete, se Dio ancor non sa
che fare di voi?» Quindi per quella gentile e minuta sollecitudine ch'egli metteva anche nelle cose
più gravi: «voi dovete essere affaticato», disse al Conte, «certo voi non mi abbandonerete oggi: e...
ma questa mattina voi non avete certo pensato a far colazione?»
«No davvero», rispose il Conte.
«Bene, bene», rispose il Cardinale, «io voglio cominciare a provare se posso farmi obbedire da
voi», e traendolo per la mano si avvicinò al buon curato di Chiuso, che se ne stava cheto fra gli altri,
e gli disse, con aria sorridente:
«Signor curato, voi siete tanto umile che sarebbe dabbenaggine il non far da padrone in casa vostra.
Io invito il signor Conte a pranzare con noi».
Il curato che non lasciava mai scappare l'occasione di rispondere con un testo della Bibbia, disse
levando le mani al cielo, e poi stendendole amorevolmente verso il Conte: «<I>Benedictus qui venit
in nomine Domini</I>».
Don Abbondio invitato anch'egli, si rifiutò dicendo di non volere abbandonare per lungo tempo il
suo ovile; uscì dalla casa del curato, entrò in quella dove era ricoverata Lucia, alla quale
raccomandò ancora fortemente di non parlare di matrimonio col cardinale, quindi, se ne andò a
casa. Intanto la refezione fu pronta, e il cardinale si sedette a mensa, tenendosi presso da un lato il
curato, dall'altro il Conte e poscia gli altri ecclesiastici del suo seguito in un ordine consueto. La
frugalità di Federigo era tanto al di qua della temperanza, che virtù in lui, sarebbe divenuta
indiscrezione se egli avesse voluto imporla agli altri: quindi nel suo palazzo la mensa dei famigliari
non si misurava dalla sua; anzi in paragone di questa si poteva dir lauta. Quando poi visitando la
diocesi egli era ospite dei parrochi, questi sapevano troppo bene che un trattamento fastoso non era
il mezzo di entrare in grazia a quell'uomo, e si regolavano in conseguenza. Il curato di Chiuso poi
aveva un modo di pensare molto singolare. Egli riteneva che trattare sontuosamente un uomo il
quale predicava a tutta possa la povertà e la modestia, sarebbe stato un dirgli coi fatti se non in
parole: - io vi credo un ipocrita -. Per altra parte, la borsa del curato era ordinariamente e tanto più
in quell'anno, fornita a un di presso come quella d'un figlio scialacquatore che abbia il padre
spilorcio: e l'aspetto poi della miseria universale era tanto terribile, e tanto presente ad ogni
momento che un trattamento fastoso avrebbe fatto ribrezzo anche a chi non avesse avuta la carità
delicata e profonda del Cardinale Federigo e del Curato di Chiuso. Da tutti questi fatti venne di
conseguenza che la tavola di quel giorno somigliò molto più alla tavola ordinaria del cardinale che a
quella dei suoi famigliari.
Ma quella conversazione, resa così singolare dalla presenza del Conte, fu gioconda. Il Cardinale,
benché atterrato dalle fatiche e angustiato dalle cure continue, e dalla vista continua dei mali, pure
aveva sentita in quel giorno una consolazione che traspariva nella sua faccia, e si diffondeva nei
suoi discorsi, e passava nei suoi commensali. Il Conte stesso, quantunque la sua vita intera pesasse
in quel giorno su la sua memoria, quantunque tanti fatti si presentassero alla sua mente, spogliati di
quella maschera con cui gli aveva veduti nel momento della esecuzione, e lasciassero ora vedere la
loro forma vera e spaventosa, pure sentiva una certa pace in quel nuovo consorzio fra quelle idee
che gli facevano intravedere una nuova vita di mente, un nuovo interesse, una serie di pensieri coi
quali si potesse vivere. Dopo la mensa usava il Cardinale nelle sue visite di prendere un breve
riposo, e poi di continuare le faccende pastorali per le quali era venuto. Ma in quel giorno non v'era
riposo per lui che nello stare più che poteva unito all'animo del Conte per uniformarlo al suo; e la
vigna di quel buon prete Morazzone era tanto ben coltivata che aveva poco bisogno della ispezione
di Federigo. Si levò egli dunque, e preso per mano il Conte che lo seguì volenteroso, si chiuse in
una stanza con lui. Del colloquio ivi tenutosi non v'è traccia nel nostro manoscritto, né a dir vero
noi ne facciamo carico all'autore, maravigliati come siamo ch'egli abbia potuto pescar qualche cosa
di quel primo abboccamento; quando il Ripamonti stesso, un famigliare del Cardinale, e biografo di
lui protesta che delle cose passate tra questo e il Conte nel secondo colloquio nulla ha trapelato.
Quel poco però che il Ripamonti dice degli effetti di questo secondo colloquio serve molto a dare
una idea della importanza della mutazione d'un uomo in quei tempi, e a dipinger meglio il Conte.
Noi crediamo far cosa opportuna traducendo quel poco dal bel latino di quello scrittore poco
conosciuto, e che meriterebbe certamente di esserlo più di tanti altri, e perché in tanta perversità di
idee, di cognizioni, di giudizj, e di stile, egli (che che ne dica molto leggiermente il Tiraboschi) fu
uno di quelli che più si avvicinarono a quella castigatezza e a quella semplicità che da se stessa si
attacca alle parole dove è espresso il vero; e perché in qualche parte delle sue storie, e
principalmente nella vita del Card. Borromeo, e nella Descrizione della peste di Milano, si trovano
osservazioni e pitture, di costume, che invano si cercherebbero altrove, e che possono arricchire la
storia tanto scarsa dell'animo umano. Ecco il passo del Ripamonti.
«Che sia stato detto in quel colloquio, non è a nostra notizia; perché, né fra noi v'era chi fosse ardito
d'inchiederne il Cardinale; né mai quell'altro ne fece motto con chicchessia. Certo dopo il colloquio,
tanta e sì repentina fu la mutazione d'animo e di costumi di quell'uomo, che nessuno dubitò di
attribuire il prodigio alla efficacia di quel colloquio; e tutta quella famiglia di scherani vide in quel
fatto la mano del Cardinale, e lo colse in odio come colui che le aveva tolto il suo guadagno. L'altra
famiglia pure che sparsa ed appostata nei due Stati viveva degli ordini sanguinolenti di costui,
s'accorse dal cessare delle orribili paghe della nuova mansuetudine di lui. Ad un tempo, molti dei
principali della città uniti con lui in occulta società di atroci consigli e di funeste faccende, poiché
videro le faccende già accordate e avviate rimanersi a mezzo abbandonate da lui, s'apposero tosto
ch'egli aveva cangiato vita, né poterono disconoscere l'autore d'un tanto cangiamento. E dovettero
pure avvertirlo alcuni principi stranieri che da lontano avevano adoperato quest'uomo a qualche
grande uccisione, e gli avevano più volte mandati ajuti, e ministri: ma sospesi andavano
fantasticando la cagione del cangiamento; fin che fu loro manifestata dalla fama. Io, siccome non
avrei voluto per ingrandire il fatto aggiungervi nulla del mio; così non debbo pure toglier fede a ciò
che è toccato con mano. Vidi io stesso poco dopo quell'uomo ancora in salda e rubesta vecchiezza;
non aveva dell'antica ferocia che i vestigj e le marche con che la natura manifesta le inclinazioni e
le pecche d'ognuno: ma queste marche stesse apparivano temperate e quasi coperte dalla recente
mansuetudine: e indicavano una natura disciplinata e vinta, come da una forza poderosa».
Le notizie, che si ricavano da questo passo, quantunque ravvolte in termini tanto generali, ci sono
sembrate adatte a supplire almeno in parte alla scarsezza del nostro autore, il quale dopo aver
eccitata tanta curiosità su quel personaggio e sulla sua conversione, non ne accenna altro effetto che
la liberazione di Lucia; forse perché gli altri gli sono paruti estranei al suo racconto, o fors'anche
perché a parlarne, gli conveniva rimescolare più maneggj, e toccare più persone che non
comportasse la sua squisita prudenza.
Riferisce egli però compendiosamente le prime disposizioni che il Conte diede in quel giorno stesso
al nuovo governo della sua famiglia; e noi le ripeteremo dietro la sua relazione. Staccatosi dal
Cardinale egli si avviò solo, a piede, e disarmato com'era al castello, e fece la strada e l'entrata con
quella sicurezza e fortezza d'animo che non aveva avuta nella spedizione del mattino: perché egli
non aveva ora una innocente da mettere in salvo: i pericoli se ve ne aveva, erano tutti per lui; e il
disprezzo dei pericoli fatto già in lui un sentimento abituale, acquistava allora una nuova forza, una
nuova ragione dai suoi nuovi pensieri. La sua condotta di tanti anni lo aveva posto in una situazione
tale che per assicurare la sua vita, egli aveva mestieri di molto più mezzi e riguardi che non
abbisognassero al comune degli uomini; e una delle prime riflessioni che gli erano occorse dopo il
suo proposito di nuova condotta si era che una gran parte di questi mezzi non poteva più conciliarsi
con questa sua nuova condotta. Ma egli aveva sentito con persuasione (e probabilmente fu questo
uno dei capi che egli discusse in quel colloquio col Cardinale), aveva sentito che le ingiustizie
passate non potevano rendergli necessarie nuove ingiustizie, che egli doveva assicurare la propria
vita solo perché questo era un dovere, e che era un dovere soltanto fin dove per adempirlo, non si
dovesse ricorrere che a mezzi leciti; che i pericoli che potevano nascere per lui nel suo nuovo
genere di vita inoffensiva ed espiatoria erano una conseguenza del male da lui fatto a man salva per
sì lungo tempo, una punizione ch'egli doveva subire. Quindi tutta la vigoria d'animo ch'egli
impiegava altre volte nell'offendere, s'era ora trasformata in una vigorosa disposizione a tollerare:
era un dissimile ma eguale anzi più forte coraggio: e continuò a produrre l'effetto solito di questo
dono, quello di far rispettare colui che ne è fornito.
Entrato il Conte nel castello, comandò che si ragunassero tutti i suoi... non sapeva trovare un nome
che tutti gli abbracciasse... «Tutti gli uomini» disse, dopo d'avere esitato un momento.
L'apparizione misteriosa del mattino, la ripartita e l'assenza avevano destata una grande curiosità:
erano già corsi fino al castello romori che annunziavano la conversione del Conte, e il tripudio di
tutti gli abitanti del vicinato, e di quelli che erano concorsi in quel giorno all'arrivo del Cardinale:
tutti i bravi, che si trovavano al castello, o nei primi dintorni, vennero alla chiamata con molta
ansietà. Congregati che furono, il Conte con viso fermo, con voce risoluta, e senza tergiversare,
dichiarò a tutti ch'egli aveva proposto di mutar vita, che si doleva e si vergognava della passata, che
a tutti chiedeva perdono degli orribili esempj, e degli incitamenti che aveva loro dati a mal fare, che
quanto era in lui egli gli avrebbe tutti ajutati con un nuovo esempio, e coi mezzi ch'erano in sua
facoltà ad operare diversamente: che quelli i quali fossero del suo parere, rimanendo con lui,
potevano esser certi ch'egli avrebbe avvisato tosto al modo d'impiegare la loro opera in un modo
utile ed onesto, e ad ogni modo avrebbe diviso con essi fino all'ultimo tozzo di pane; ma che
protezione per ribalderie non ne avrebbe più data ad alcuno: e che finalmente quelli ai quali non
piacesse di sottoporsi a questa nuova regola, dovessero partirsi dal suo servizio, ch'egli era dolente
di perdergli, ma risoluto.
La più studiata orazione di Demostene non produsse mai tanto varie e forti impressioni nel popolo
d'Atene, quanto il breve discorso del Conte in quel picciolo popolo selvaggio. Ma per quanto
diversi fossero i pensieri che sorbollivano in quei cervelli ad un tale annunzio, l'effetto esterno fu un
solo: un cupo silenzio. Molti di quei ragunati erano contadini del Conte, stabiliti sui suoi poderi,
avvezzi dall'infanzia ad obbedirgli, e taluni fra di essi erano divenuti scellerati per obbedienza, tutti
questi non vedevano un avvenire un po' sicuro che rimanendo con lui, e questi risolvettero di
sottomettersi alle nuove condizioni, e di rassegnarsi a divenire galantuomini. Altri fuorusciti di
mestiere, venuti da altri paesi, senza famiglia, né avviamento, bestemmiavano in cuor loro la
risoluzione del padrone, ma tanto era il predominio che il carattere di lui aveva preso sull'animo
loro, che non ardivano fare un motto di lamento. Questa idea di conversione era confusa nei loro
cervellacci, e non potevano nemmeno immaginarsi che in un uomo come il Conte potesse produrre
l'effetto di fargli sopportare una risposta arrogante: pensavano che una temerità usatagli
produrrebbe il solito effetto, con la sola differenza che il temerario morrebbe ora per le mani d'un
santo. Così incerti l'uno dell'altro, nessuno osava fiatare il primo; e la sommissione dei primi che si
manifestava sui loro volti e nel contegno, toglieva ancor più a quei secondi l'animo di poter dire o
far nulla che potesse spiacere al Conte. Quel tripudio poi, quel rincoramento che s'era manifestato
nella popolazione gli rendeva ancor più irresoluti, avrebbero potuto ridersi di questa gioja
impotente finché avevano il Conte per loro, alla lor testa, ma quando la folla era con lui, e sarebbe
stata contra loro, si trovavano come smarriti.
Dopo quel breve silenzio, il Conte si rivolse a quello che più gli era vicino, e gli chiese
risolutamente quale fosse il partito ch'egli sceglieva, e così di mano in mano con tutti. Dava lodi e
promesse a quelli che chiedevano di rimanere, ammoniva gli altri, e quando ripetevano di voler
partire, chiedeva loro quanta parte di salario fosse loro dovuta; vi aggiungeva una gratificazione,
scriveva la somma sur una cartolina che teneva nella mano sinistra, la dava a colui che voleva
partire, gli comandava di andare dall'intendente a farsi pagare, e di uscir tosto dal castello. Tutti
pigliavano la carta, e se ne andavano senza far motto. In tutti questi parlamenti il carattere del Conte
aveva fatto naturalmente, e senza che il Conte lo sapesse bene, ciò che fatto a disegno sarebbe stato
un miracolo di presenza di spirito e di artificiosa prudenza, e forse non avrebbe potuto così bene
riuscire. Nelle ammonizioni ch'egli dava a coloro, nelle esortazioni a meglio riflettere, nelle
preghiere stesse, fino nelle scuse non v'era mai un momento in cui il suo interlocutore potesse
sentire una superiorità, intravedere in lui punto di debolezza, d'irresoluzione, di abbassamento, che
invitasse nemmeno uno di quegli animi ad elevarsi e a cadergli addosso. Quale divenisse il castello
dopo la partenza di quei più facinorosi, il manoscritto non lo dice, né ci è venuto fatto di trovarne
notizia altrove. Il nostro autore dice che il Conte andò ogni giorno ad abboccarsi col Cardinale
finché durò la visita di esso in quei contorni: di un solo di questi abboccamenti egli riferisce le
particolarità, e il nome del Conte del Sagrato non ricompare poi più nel manoscritto.
<B>CAPITOLO III</B>
Quando il Cardinale, terminate le funzioni di quella mattina, si ritirò dalla Chiesa nella casa del
curato, tutto il popolo che era stivato nella chiesa, o ammucchiato al di fuori, si sciolse poco a poco,
e ognuno s'avviò a casa. Quando il marito della buona donna entrò nella sua, la donna gli corse
incontro, gli presentò la ospite inaspettata, e gliene fece in succinto la storia. Il marito fu molto lieto
che la sua donna fosse stata prescelta a quell'uficio, ed avesse una parte nella storia di quel giorno, e
fu anche tocco assai dalle sventure della nostra Lucia: di modo che quando la donna gli propose di
andare al paese di Lucia, ch'era discosto circa tre miglia, e di annunziare ad Agnese ciò ch'era
accaduto, e di condurla alla figlia, l'uomo accolse la proposta con giubilo: le funzioni, la predica del
Cardinale, la solennità e la pompa straordinaria avevano messo un certo entusiasmo nell'animo
d'ognuno degli spettatori: e questo sentimento, messo in comune in quel concorso di popolo,
ritornava con maggior forza sull'animo di tutti: non è quindi da farsi maraviglia, se Tommaso
Dalceppo, all'udirsi proporre una faccenda che era tanto in armonia con quel suo sentimento, non
pensò né alla fatica, né all'incomodo, ma gioì nella conformità di quello che sentiva e di quello che
doveva fare. Mangiò un boccone in piedi, tolse una mula che aveva in istalla, e partì di volo.
La buona donna (perché la bontà vera e abituale ispira tutti i pensieri della gentilezza, la quale non è
altro che l'espressione o la finzione della bontà) la buona donna pensò che Lucia dopo tante scosse
avrebbe gustata volentieri la solitudine e il riposo, e offerse di ritirarsi in un'altra stanza. Lucia
accettò l'invito al riposo con nuove parole di riconoscenza, e rimase soletta.
Ma quantunque per gli orrendi disagj del giorno e della notte antecedente il suo corpo avesse
bisogno di quiete, pure Lucia non dormì, né cercò di dormire, e il riposo non consistette in altro che
nella facoltà di trattenersi coi suoi pensieri senza quel battito continuo, senza sussulti, senza terrore,
non però con giocondità. V'ha dei mali e dei pericoli ai quali succede la gioja in chi gli ha sofferti o
veduti da presso: tali sono, le burrasche di mare, gli stenti e i rischi della guerra, la rabbia di Scilla,
e i sassi dei Ciclopi, quelle cose di cui Enea disse benissimo: <I>forsan et haec meminisse
iuvabit</I>, e che il Caro tradusse un po' lunghettamente:
E verrà tempo
Un dì, che tante e così rie venture
Non che altro, vi saran dolce ricordo.
Il cuore si rallegra doppiamente nel paragone d'una quiete presente con una angoscia passata, le
immagini della quale sono grandi, semplici, forti, e miste del ricordo di una certa fortezza. Ma v'ha
un'altra specie di mali e di pericoli, i quali dopo avere orribilmente tormentato con la presenza,
restano nojosi anche nella memoria: quei mali e quei pericoli nei quali vi si è rivelato un grado
ignorato di perversità umana, aumento di scienza molto tristo: nei quali si è conosciuta in sè una
suscettibilità di profondo ed amaro patire, che diventa esperienza, che porta ad osservare, a
distinguere in tutti gli oggetti, in tutti i casi ciò che potrebbero avere di penoso, e si associa così a
tutte le idee: quei mali e quei pericoli, nei quali non v'è stato nessuno splendido esercizio di attività
morale, che destano una pietà senza maraviglia, che non si possono sentire a rammemorare senza
ribrezzo, e senza vergogna, persino da chi vi si è trovato e n'è uscito innocente; e i mali di Lucia
erano di questa seconda specie.
Certo nella inaspettata salute di quel giorno v'era per Lucia una gioja, e la riconoscenza all'ajuto del
cielo che santificava quella gioja, la rendeva ancora più viva: ma era stata una gioja ben turbolenta e
confusa nei primi momenti; ed ora col crescere della calma quella gioja era alterata continuamente
dalle rimembranze recenti e dai pensieri dell'avvenire. L'animo che è liberato da una grande
sventura, è come la terra daddove è sterpato un grand'albero: per qualche tempo ella appare
sgombra, e vuota: ma a poco a poco comincia ad esser segnata qua e là di piccioli germogli, quindi
a coprirsi di erbacce, e mostra chiaramente che quello che si chiama riposo della terra è una
metafora, o un errore. Così i guai che erano stati sepolti e come soffocati nell'animo quando una
grande sciagura lo riempiva e per dir così, lo aduggiava, cominciano a spuntare e a ricomparire
poco da poi che la sventura è cessata.
Lucia ripensava con amarezza i mezzi che l'infame Rodrigo aveva saputi mettere in opera a
perseguitarla, e si angustiava di quello che avrebbe potuto fare nell'avvenire. Come essere al riparo
di un sì scellerato tiranno, vivendo presso a lui? o dove andare? come trovare il sostentamento in
quei tempi così scarsi, e quando i risparmj degli anni addietro fossero tutti consumati? Ma l'idea più
penosa per Lucia, e quella che rendeva tutte le altre più penose (giacché abbiamo promesso di non
tacer nulla al lettore di quello che è venuto a nostra notizia) il pensiero invano respinto, e che si
mesceva a tutti gli altri, era quello del voto fatto nella notte antecedente. Lucia non confessava a se
stessa d'esserne pentita, ma lo era; le sembrava orribile sconoscenza il rammaricarsi dell'offerta
posta sull'altare per ottenere un gran dono, rammaricarsene quando il dono era ottenuto, le
sembrava che questo sentimento le avrebbe attirate nuove sventure, e queste meritate, e quindi
riprovava il sentimento, ma non poteva farlo scomparire. L'invincibile di tutte le difficoltà, l'amaro
di tutte le privazioni, l'inestricabile di tutti gl'impacci le pareva che venisse dal non poter essere di
Fermo; con lui tanti inconvenienti sarebbero svaniti, e tutti gli altri sarebbero divenuti tollerabili!
ma il pensiero di Fermo era per lei una tentazione, quasi un delitto, e doveva sempre rispingerlo. La
poveretta non era istrutta abbastanza per conoscere che quella promessa fatta in una agitazione
febbrile, senza meditazione, quasi senza piena coscienza non era un voto; e che ella già legata con
una promessa solenne a Fermo non aveva il diritto di sciogliere senza consenso e senza colpa di lui,
un legame già stretto da due volontà libere e concordi; e ignorava anche i mezzi, che la religione la
quale consacra i voti dell'uomo, offre per liberarlo dai voti, quando il loro adempimento invece
d'essere una occasione di maggior bene, divenga un ostacolo. Lucia aspettava con ansietà amorosa
di rivedere la madre, ma tremava di doverla abbracciare con questo segreto nel cuore, ripugnava di
rivelarglielo; e sentiva che il silenzio sarebbe stato impossibile.
Era la poveretta in questi pensieri, e sa il cielo fin quando vi avrebbe durato, quando lo scalpito d'un
quadrupede che si fermò nel cortiletto, un salire precipitoso per la scaletta di legno, le annunziò
Agnese: la porta si aprì impetuosamente; Lucia fu nelle braccia di sua madre, e tutte le altre idee
svanirono. Noi non descriveremo le sensazioni delle due donne in quel rivedersi. Questa è la frase
della quale si servono tutti i narratori quando si trovano ad un punto simile al nostro; e fanno bene.
Il lettore conosce i casi e il carattere di quelle due poverette, e deve immaginarsi ciò che hanno
sentito e detto. Dopo i primi sfoghi cominciarono le inchieste e i racconti, e il soggetto di essi è
pure già conosciuto. Una sola di queste rivelazioni vuol essere ricordata particolarmente: Lucia non
sapeva nulla della fuga di Fermo, e questa notizia che la madre le diede, le cagionò le più varie e
opposte commozioni. L'assenza di Fermo era certo dolorosa per lei; ma quando seppe ch'egli era in
sicuro, provò quasi una torbida consolazione nel pensiero che la tentazione era lontana, che
l'esecuzione del suo voto diveniva più facile, che se non altro non verrebbe così presto la necessità
di parlarne. Lucia ed Agnese erano in colloquio, quando il buon curato entrò nella casa, cercò di
Tommaso (perché egli non s'intratteneva col bel sesso che in casi di somma necessità), e gli disse
che il Cardinale domandava Lucia, e la buona donna che era stata a prenderla. Questa andò ad
avvertire le donne della chiamata: Lucia si alzò per partire, la madre le tenne naturalmente dietro, e
le tre donne uscirono dalla casa, e attraversando una folla di curiosi, giunsero alla casa del curato, e
furono condotte alla presenza di Federigo.
Quando il buon vescovo doveva parlar con donne, cosa che lo impacciava pure alquanto, aveva per
massima di non riceverne mai una sola, quando non fosse decrepita, e voleva che una matrona le
fosse sempre di compagnia. Nel caso presente invece d'una matrona ve n'aveva due, e tutto era più
che in regola. Pure secondo il suo costume egli fece tenere spalancata la porta, e si pose in un luogo
dove potesse esser veduto da chi era nell'altra stanza, e così accolse le tre donne che erano
impacciate almeno al pari di lui, ma per tutt'altri motivi. Il riserbo abituale, e il contegno modesto di
Federigo non potè fare che non gli apparisse sul volto un non so che di affetto soave nell'accogliere
Lucia e nel farle animo: ringraziò pure cordialmente la buona donna del pio uficio da lei prestato, e
chiese chi fosse la terza: quando seppe che era la madre di Lucia, si rallegrò pure con lei, e la salutò
cortesemente. Quindi pregate le due ultime di scostarsi alquanto si trattenne con Lucia sulle sue
vicende, interrogandola con quella delicatezza che richiedeva il pudore di Lucia e il suo; poiché in
quella canizie egli conservava la purità ombrosa di una fanciulla. Ma le inchieste ch'egli faceva a
Lucia non erano mosse da una vana curiosità, e ne pure dal solo interessamento per quella infelice
innocente: erano venute all'orecchio di Federigo voci sorde, confuse sul conto della Signora, che gli
davano da pensare: e in questa occasione egli sospettava con angoscia che la condotta della Signora
con Lucia potrebbe rivelare qualche cosa di quella donna che era per lui un tristo mistero. Lucia con
tanto più di schiettezza e di libertà, quanto essa non sospettava nemmeno di accusare, credeva anzi
di lodare, soddisfece alle domande di Federigo, nel quale il sospetto crebbe.
Fin qui per Don Abbondio le cose andavano benone. Le circostanze essenziali della storia stavano
senza parlare del matrimonio ricusato, e Lucia aborriva il discorso del matrimonio. Ma il Cardinale
che disegnava di riparlare altra volta con Lucia e non voleva in quel giorno così burrascoso per lei
tenerla più a lungo, chiamò a sè le due donne presenti e lontane; e disse a ciascuna ciò che era più
opportuno: ringraziò di nuovo la buona donna, consolò Agnese, e l'animò ad ammirare la
provvidenza che dopo d'averle dato tanti timori per la figlia, l'aveva liberata con modi inaspettati, e
l'aveva fatta conoscere ad uno che aveva il dovere, e qualche mezzo per proteggerla. Quella
benedetta Agnese fra le risposte che diede con un imbarazzo che in lei era un po' comico, perché
voleva non averne, disse anche queste tremende parole: «Già, la colpa in gran parte è del Signor
curato». «Come? di che curato?» domandò il Cardinale. «Oh bella! del nostro», rispose Agnese. Il
Cardinale domandò una spiegazione, e Agnese spiattellò tutta la storia del matrimonio, senza far
motto del clandestino. Federigo che non voleva fare alcuna dimostrazione prima d'avere inteso il
curato, per non manifestare un giudizio che forse avrebbe dovuto ritrattare, tacque, ma si legò al
dito anche questa. Si rivolse alla buona donna, e le chiese se fino a tanto ch'egli avesse provveduta
Lucia d'un asilo, non le sarebbe stato grave di tenerla presso di sè. La buona donna fu
contentissima, il Cardinale la ringraziò; e pensò a darle qualche segno di ricompensa; e veduto dal
suo abito e dal contegno che un dono di moneta l'avrebbe umiliata, prese da un picciolo scrigno un
libretto di orazioni ben ornato, e un rosario prezioso, e la pregò di ritenere queste memorie della sua
riconoscenza. La buona donna ripose con molta gioja il dono che si conserva tuttavia dai suoi
discendenti con molta pietà, e si fa vedere con molto amor proprio. Le donne partirono: Federigo
accudì a quello che gli rimaneva di faccende per la visita; e sul far della sera partì da Chiuso
accompagnato da una gran folla, e s'incamminò alla volta di Maggianico, paese famoso per le sue
campane.
Ma quella dea che ha (mirabile a dirsi!) tanti occhi quante penne, e tante lingue quanti occhi, e (ma
questo pare più naturale) tante bocche quante lingue, e finalmente tante orecchie quanti occhi lingue
e bocche (debb'essere una bella dea) questa ultima sorella di Ceo e di Encelado, partorita dalla
Terra in un momento di collera, veloce al passo e al volo, che cammina sul suolo e nasconde il capo
tra le nuvole, che vola di notte per l'ombra del cielo e della terra, né mai vela gli occhi al sonno; e di
giorno siede sui comignoli dei tetti o su le torri, e spaventa le città, portando attorno il finto e il vero
indifferentemente, costei aveva già prima della notte diffusa nei paesi circonvicini la storia delle
avventure di quel giorno. Per fare intendere al lettore questa particolarità, abbiamo usurpato
formole che a dir vero appartengono esclusivamente alla poesia, ma saremo scusati da coloro, i
quali sanno che ad imprimere vivamente una immagine nelle fantasie il mezzo più efficace è
l'allegoria, e singolarmente quella già nota e consecrata delle antiche favole: poiché quando si vuol
fare immaginar bene una cosa, bisogna rappresentarne un'altra: così fatto è l'ingegno umano quando
è coltivato con diligenza. Siccome però a voler cavare dalle allegorie il senso vero ed ultimo, quello
che si vuol trasmettere, è necessario in ultimo pensare alle cose che le allegorie fanno intendere,
così non lasceremo di dire che tutti gli abitanti del contorno, che erano convenuti quel giorno in
Chiuso, tornando la sera alle case loro, raccontarono ciò che avevano veduto, ripeterono ciò che
avevano inteso, commentarono le circostanze che per sè non avrebbero bastato a dare idea d'un
fatto compiuto, e inventarono gli episodj che erano indispensabili per dare continuità alla storia. Ma
il fondo delle loro relazioni era vero; e questo fondo aveva abbondantemente di che eccitare una
grande maraviglia e un grande interesse. Il Conte del Sagrato era nome d'una terribile celebrità nei
contorni, e assai più lontano; e una conversione tanto inaspettata, e che doveva portare tanti
cangiamenti era un argomento all'universale di una pia maraviglia, di esultazione, e di riconoscenza
a Dio, e di nuova venerazione per l'uomo di Dio che ne era stato lo stromento. E quello che rendeva
ancor più interessante quella conversione era l'averne veduto un effetto immediato, un testimonio
vivo, già tanto interessante per sè : una povera giovane restituita volontariamente dal carcere privato
alla libertà e alle braccia di sua madre. Ma pei parrocchiani di Don Abbondio, l'interesse era ancor
più grande che per gli altri; per essi la povera giovane era Lucia, quella Lucia che avevano veduta
fra loro modesta, bella, irreprensibile, allegra, che avevano pianta sommessamente smarrita, della
quale si sussurravano mille notizie diverse, e tutte lagrimevoli, e della quale ora i suoi vicini
potevano dire: «l'abbiamo veduta noi oggi con Agnese andare dal Cardinale che le voleva parlare in
persona».
Al mattino seguente la fama si posò anche sul comignolo del castellotto di Don Rodrigo; ed è facile
immaginarsi che la novella ch'ella portava fece sull'animo suo tutt'altro effetto che sull'animo di
quella povera moltitudine. Quella Lucia ch'egli aspettava da un giorno all'altro d'avere segretamente
negli artigli, ora pubblicamente libera; sventate e divolgate ad un punto le sue trame abbominevoli;
e quel suo alleato nel quale egli fidava, che con la sua cooperazione doveva dare l'autorità del
terrore al fatto, e far morire il biasimo anche nelle bocche dei più arditi, ora disertato, divenuto un
oggetto di fiducia per gli avversarj. Don Rodrigo si sforzava di ridere, e guardava in faccia ai suoi
bravi per attingere coraggio o indifferenza; ma s'accorgeva che i bravi guardavano in faccia a lui
con la stessa intenzione; e per non trovare il coraggio, il mezzo più sicuro è d'essere in molti a
cercarlo: anche quel poco che ognuno si sentiva, se ne va: il Griso stesso era avvilito. Costoro
s'erano tutti radunati nel castello, come in un asilo, perché non pareva loro di star bene in nessun
altro luogo. Girando il mattino, s'erano avveduti che tirava un'aria estrania, inusitata: avevano
osservata su tutti i volti, una esaltazione, una risolutezza che aveva abbattuta la loro che veniva in
gran parte dall'abitudine di mostrarla soli. Prima d'allora quando un contadino s'avveniva in uno
scherano, e vedeva in lui non solo la forza sua e le armi che portava, ma tutta la potenza dei suoi
compagni e del capo, passava a canto con una umile riverenza; se fosse stato insultato lo avrebbe
tollerato in pace, perché era certo che gli altri che lo avessero veduto, sarebbero stati molto contenti
di esserne fuori, e non avrebbe avuto un ausiliario: ora l'occasione di esternare un sentimento
unanime aveva fatta sentire a tutti una fratellanza, una comunione di idee e di causa; ognuno era
certo che la cosa era intesa da mille come da lui; e ognuno comunicando agli altri il suo nuovo
coraggio, ne riceveva da essi, per la ragione inversa di quello che era accaduto ai bravi e a Don
Rodrigo.
La liberazione di Lucia era l'argomento dei discorsi di tutti quelli che s'incontravano; la gente si
fermava in crocchj a parlarne; un bravo che passasse in veduta dei crocchj, aveva tutti gli occhj
addosso a sè: e la espressione di tutti quegli sguardi era una, quella dell'orrore. Tutti parlavano
sicuramente della pietà che avevano provata, del timore che avevano avuto per quella innocente,
mettevano fuori i pensieri che avevano compressi, o comunicati sotto voce, alla sfuggita, e trovando
una conformità negli altri, sentivano che a quei pensieri era unita una forza. La giustizia aveva
trionfato, il cielo s'era manifestato per l'innocente, e questa manifestazione che pareva una promessa
d'aiuto accresceva ancor più l'animo di tutti. Un potente scellerato aveva pubblicamente abjurata col
fatto la iniquità, e l'aveva così vilipesa e indebolita nello stesso tempo. L'iniquità era conosciuta, e
perdendo un protettore terribile, aveva acquistato un nemico pur terribile: un Cardinale, un santo,
un nobile, uno che aveva mezzi di persuasione, di forza, di autorità, di aderenze.
Quella poi che rinforzava l'effetto di tutte queste considerazioni, era la notizia sparsa che il
Cardinale veniva a visitare anche quella parrocchia, che si fermerebbe qualche tempo nei contorni,
che ci sarebbe folla d'uomini condotti dallo stesso sentimento pio, avverso alla ingiustizia. E già si
diceva che il castellano di Lecco, quello Spagnuolo di cui il podestà aveva tanta stima, si disponeva
ad incontrare il Cardinale, in gran pompa, coi suoi soldati: tutta la forza, tutto lo splendore era per la
pietà e per la giustizia. Ognuno pensava che gli scellerati avrebbero dovuto convertirsi come il
Conte, o perdersi d'animo, e fuggire.
Don Rodrigo, dopo una breve esitazione, prese quest'ultimo partito. La violenza quando è assistita
dalla fortuna, ama a mostrarsi, ella ha con sè come un argomento della sua bontà, o della sua
ragionevolezza, poiché ottiene il suo intento; ma quando è abbandonata dalla fortuna, quando non
valgono altri argomenti che quelli del diritto, del senso universale della giustizia, che le mancano,
quando appare non solo come ingiustizia, ma come sbaglio, allora la violenza vorrebbe nascondersi
anche a se stessa. Don Rodrigo pensava che cosa mai avrebbe potuto fare di conveniente, che stesse
bene in quei giorni, e non trovava nulla, nemmeno un soggetto di discorso con chi venisse a
visitarlo. E d'altra parte s'immaginava bene che nessuno sarebbe venuto. Quei signori che lo
avevano adulato fin allora, si sarebbero allora avveduti ch'egli era un ribaldo, il podestà doveva in
quei momenti far dimenticare le sue relazioni con l'uomo che avrebbe dovuto reprimere e punire; al
più il dottor Duplica, il quale non voleva mai inimicarsi senza speranza un signore, sarebbe stato
quei giorni a poltrire in letto, per potergli dire un giorno che una malattia gli aveva tolto il bene di
ossequiare il Signor Don Rodrigo. Questi non vedeva così distintamente tutte queste disposizioni,
ma le sentiva confusamente come per istinto. D'altra parte, come condursi col Cardinale? Tutti i
signori del contorno sarebbero andati a visitarlo, ed egli rimanersi solo a casa? Che direbbe lo Zio
del consiglio segreto? Andare dinanzi al Cardinale, egli? gran Dio!
Ordinò dunque che tutto si apparecchiasse pel ritorno in città, e al più presto. Quando la carrozza fu
pronta, vi fece salire tre bravi: il Griso come il più terribile fu posto alla vanguardia sulla serpe,
tutto armato; al resto della famiglia fu dato ordine di venire a Milano l'indomani, e si partì. Dopo i
primi passi Don Rodrigo vide coi suoi occhi, la via piena di viandanti che andavano in folla a
Maggianico, altri per vedere il Cardinale, per assistere alla solennità: giovani, vecchi, benestanti, e
poveri in quantità che sapevano di non tornare con le mani vuote. Guardò alla sfuggita, e conobbe
in un punto su tanti volti quale era il sentimento universale per lui: fremette, si promise di
vendicarsi, ma s'accorse che la menoma dimostrazione in quel momento poteva far nascere una
guerra della quale l'evento finale non sarebbe stato dubbio: dissimulò dunque, ritirò la testa nella
carrozza, guardò i suoi bravi, e lesse sui loro volti pallidi il desiderio di esser fuori di quella
processione e lontani dal paese. Sentì un romore dietro, stette in silenzio tendendo l'orecchio, e
comprese ch'erano urli e fischi. Allora mormorò fra i denti: - vorrei che il Griso avesse giudizio,
che non mi facesse scene -. Avrebbe voluto dare al Griso questo consiglio della paura, ma la paura
gli comandava di non muoversi, di non farsi vedere; e stette in quella ansietà inoperosa fino a che la
carrozza, giunta al punto dove la strada si divideva, imboccò quella che conduceva a Milano, e si
separò dalla folla che traeva a Maggianico. Don Rodrigo e i suoi scherani respirarono allora dallo
spavento; ma i pensieri che rimasero a Don Rodrigo non furono molto più sereni. Il cocchiere
sferzò i cavalli per allontanarsi al più presto, e tutti i viaggiatori, senza dir motto, lo lodarono in
cuore, e si rallegrarono, sentendo che la carrozza andava celeremente, senza impedimenti in una
strada solitaria. Buon viaggio!
Intanto il buon Federigo attendeva in Maggianico a spicciare le faccende e a celebrare le funzioni
solite della visita. Il Conte del Sagrato era venuto quivi di buon mattino con la folla, e dopo il
Cardinale era egli il personaggio che traeva a sè tutti gli sguardi. I terrazzani e i concorsi si
avvicinavano a lui per curiosità e per interesse, e si ritraevano per una antica abitudine di spavento;
ma visto poi il curato che passando su la piazza, e accorto del Conte gli si accostò, e si fermò a
salutarlo cordialmente, più rassicurati si ravvicinavano ancora, come una troppa di pulcini ombrosi
non avvezzi ancora a conoscere la massaja fuggono in confusione al suo comparire, poi vedendola
tranquilla senz'atto di minaccia, e vedendo la chiocchia alla quale si riparavano, andarle vicino
senza sospetto, le tengono dietro, e tornano, però non senza esitazione, all'oggetto che gli aveva
spaventati. Federigo aveva dato ordine che appena giunto il Conte gli fosse annunziato, e lo accolse
nei primi momenti di riposo. Frattanto egli e Lucia erano il soggetto di tutti i discorsi: i paesani di
quella chiedevano avidamente notizie della ultima storia della poveretta, e raccontavano in cambio
le sue prime vicende. Questi discorsi furono riferiti al Cardinale, che fu lieto assai della partenza di
Don Rodrigo; e si fermò sempre più nel disegno di far tornare Lucia alla sua casa per avvisare poi
ivi ai mezzi di porla per sempre in sicuro. Prima di partire da Maggianico pregò egli il curato di
portarsi a Chiuso, e di far sapere a Lucia ch'egli pensava a lei, e che stesse di buon animo
...
Dopo due, tre o quattro giorni spesi dal Cardinale nella visita di altrettante Chiese (questa
indeterminazione è nel manoscritto); venne la volta di Don Abbondio; il quale non dico che
desiderasse questa visita; ma se l'aspettava. Quando si seppe che sul vespro di quel giorno il
Cardinale arriverebbe al paese, coloro che erano rimasti a casa (giacché una gran parte del popolo
andava quotidianamente dov'egli si trovava) si suscitarono e ragunati si mossero per andargli
incontro. Don Abbondio era stato quei dì un po' malato; giacché credo di avere accennato altrove,
che la sua salute era soggetta ad alterazioni improvvise quanto quella d'un diplomatico: ma in quel
giorno dovette risolversi di star bene; si pose alla testa di quella folla, e andò sulla via per la quale
Federigo doveva venire.
Non erano ancora molto distanti dal paese quando si cominciò a vedere l'altra folla che veniva, e a
distinguere la lettiga e il corteggio a cavallo; l'incontro e l'accompagnamento si avvicinarono, i due
romori si mischiarono, le due turbe si trasfusero in una, e nel mezzo si trovò la lettiga ferma del
Cardinale, e Don Abbondio allo sportello a fare il suo complimento. Nelle accoglienze e nelle
risposte di Federigo cercò il nostro scaltrito Don Abbondio di scrutinare se Lucia avesse
chiaccherato qualche cosa del matrimonio: ma invano: la sincerità ponderata di Federigo rendeva il
suo volto impenetrabile come avrebbe potuto fare la più imperturbata dissimulazione. Nella sua
lunga e affaccendata carriera aveva egli da gran tempo imparato con quella scienza sperimentale
che fa sapere e sentire, e conoscere le cose, delle quali si aveva prima soltanto la formola, aveva
dico imparato che le relazioni d'una parte sola non mettono mai chi le ascolta in caso di dare un
giudizio, che la parte la quale parla la prima o maliziosamente o senza volerlo altera sempre gli
elementi necessarj di questo giudizio: di modo che, se uno da questa prima relazione riceve una
persuasione, e la dimostra, quando poi ascolta l'altra parte è per lo più costretto a dire con un'aria un
po' scimunita: «Ah! io non sapeva; non m'immaginava; non mi avevano detto».
E aveva esperimentato che molte volte da due relazioni contraddittorie, ed egualmente confuse o
artificiose, aveva ricavato facilmente il mezzo di venire a quella verità che non era stata nudamente
espressa né dall'una né dall'altra; più facilmente che non l'avesse potuto mai ricavare da una sola
relazione fatta con la buona fede e giudiziosamente. Si era quindi fatta una legge di sospendere
realmente il suo giudizio fin che non avesse inteso colui di che altri si doleva; e di non contare
intanto per nulla quello che gli era stato riferito. Quindi non aveva ancora una opinione in mente su
questo fatto, e sincero com'era, non lasciava trasparire nessuna opinione: a segno che Don
Abbondio non vedendo negli atti e nel volto di lui nulla che indicasse malcontento o sospetto, tenne
per fermo che il Cardinale non sapesse nulla, e ne fu molto consolato.
Il corteggio raddoppiato andò verso la Chiesa, e quivi il Cardinale entrato come potè tra i plausi e
gli urti, e pregato alquanto, cominciò le sue funzioni da un breve discorso ch'era uso di fare al
popolo sulla visita ch'egli stava per intraprendere, e quindi si ritirò nella casa del Curato.
Per quanto quei buoni terrazzani avessero voglia di accogliere il loro vescovo con dimostrazioni
straordinarie di venerazione e di affetto premuroso, non lo poterono fare, perché i plausi e gli urti
fino all'ultimo grado erano diventati l'accoglimento ordinario per lui, e quel primo entrare nelle
Chiese, ch'egli andava a visitare, non era la minima delle sue pastorali fatiche, né il più leggiero
pericolo. Da per tutto era mestieri prima di tutto ch'egli avesse molta sofferenza, e quindi che quelli
del suo corteggio gli servissero da guardie, diradando la turba come potevano, allontanando quelli
che volevano baciare o tirare la sua veste, facendo in modo in somma che a forza d'amore e
d'ossequio il buon uomo non fosse sconquassato. Questa amorevole persecuzione, ormai antica,
aveva cominciato per lui dai primi giorni del suo episcopato: poiché, quando egli fece il suo
ingresso nel Duomo di Milano (che, a dirla senza vanità, è un ampio edificio) egli fu talmente
compresso che molti nobili che lo circondavano trassero le spade per allontanare la folla; tanto v'era
allora d'incomposto anche nella riverenza e nella protezione; e malgrado questa minaccia, forse
invece d'un vescovo santo, sarebbe rimasta in duomo una reliquia, se due preti tarchiati e giovani
non avessero tolto da quella stretta il Cardinale, e sollevatolo sulle loro braccia non l'avessero
portato in salvo fino all'altare. Come dovessero poi stare le ossa di quei due galantuomini ognuno se
lo può immaginare.
Ma se le accoglienze dei paesani di Lucia al Cardinale non poterono essere più clamorose né più
calde che le altre, avevano però una espressione di una riconoscenza speciale, che Federigo potè
distinguere: anzi egli intese più d'una volta nelle benedizioni che gli erano date, unito al suo nome
suonare quello di Lucia. Il buon vecchio tripudiò in cuore, e per quella gioja che dà sempre agli
onesti il vedere l'espressione pubblica d'un sentimento onesto ed umano, e perché con un tal favore
del popolo gli parve che Lucia potesse con sicurezza tornare almeno per allora a casa sua. Ritiratosi
pertanto come abbiam detto nella casa di Don Abbondio, il Cardinale s'informò da lui e da qualche
altro prete su lo stato delle cose per rapporto a Lucia, e potè esser certo che ogni pericolo era
cessato per lei, giacché il suon gran nimico, e gli scherani di questo se n'erano iti con la coda tra le
gambe, e quand'anche fossero stati sfrontati a segno di rimanere, i difensori di Lucia sarebbero stati
dieci volte in numero più del bisogno. Quando ebbe questa certezza Federigo ordinò che l'indomani
di buon mattino la sua lettiga andasse a prendere Lucia e la madre, e impose all'ajutante di camera
che si portassero provvigioni di vitto alla casetta delle donne perché le poverette e Lucia
principalmente non provasse quei mancamenti e quei disagi che le avrebbero renduti increscevoli i
primi momenti del ritorno, e prolungato in certo modo il sentimento amaro dell'assenza.
All'indomani alzatosi al solito di buon mattino, attese il Cardinale alle consuete operazioni,
s'intrattenne alquanto col Conte del Sagrato, il quale non aveva mancato di venire a quella stazione
della visita, come negli altri giorni; poscia andò nella Chiesa come era uso. Le funzioni non erano
ancora terminate che Lucia giunse con Agnese alla soglia della casetta paterna. Agnese aveva
parlato per tutta la strada; la sua gioja pel ritorno trionfale, la gioja di ricondurre salva a casa la
figlia da tanti pericoli, quella d'esser divenuta conoscenza di Monsignore illustrissimo,
l'aspettazione dell'accoglimento che le farebbero i parenti, i conoscenti, tutti i paesani, erano
sentimenti espansivi e distinti, che si prestavano assai bene alla sua loquacità naturale. Ma i
sentimenti di Lucia erano misti, intralciati, ripugnanti: erano di quelli sui quali la mente s'appoggia
con una insistenza dolorosa, per distinguerli e per dominarli: di quei sentimenti che non cercano di
esser comunicati, né trovano ancora la parola che li rappresenti. Rivedeva ella la sua casa, quella
dove aveva passati tanti anni tranquilli, che aveva tanto desiderato e sì poco sperato di rivedere; ma
quella casa che non era stata per lei un asilo, quella casa dove aveva data una promessa che non
credeva di poter attenere, dove aveva tante volte fantasticato un avvenire, divenuto ora impossibile.
Era terribilmente in forse di Fermo: Agnese non le aveva potuto dire se non quello ch'ella stessa
sapeva confusamente; che Fermo cioè, dopo il tumulto di Milano del giorno di San Martino, aveva
dovuto fuggire dalla città, e uscire dallo Stato per porsi in salvo. E quand'anche Fermo fosse tornato
tranquillamente, le ansietà di Lucia si sarebbero cangiate, ma non avrebbero cessato, perché ella
non poteva più esser sua. Tremava ancora nel pensiero che Fermo potesse essere informato del suo
ratto, della sua prigionia, e non sapere esattamente com'ella aveva fuggito ogni pericolo: la
poveretta mentre aveva rinunziato a Fermo, avrebbe voluto ch'egli sapesse ch'ella era in tutto degna
di lui. Avrebbe voluto che Fermo fosse informato del voto ch'ella aveva fatto senza ch'ella glielo
dicesse, che egli l'approvasse con dolore, che non pensasse mai ad altra, né più a lei, o per meglio
dire (giacché questa non era l'idea precisa di Lucia) avrebbe voluto che Fermo facesse tutti i giorni
una risoluzione di non più pensare a lei. L'assenza del Padre Cristoforo accresceva ed esacerbava
tutti questi cordoglj: le mancava l'aiuto, e il consiglio; quegli a cui ella confidava anche i mezzi
pensieri, quegli le cui parole la rendevano sempre più tranquilla, e più conscia di se stessa. Quanto a
Don Rodrigo, egli era messo almeno per qualche tempo fuori del caso di far paura; e la
rimembranza di quest'uomo, trista certo e schifosa per Lucia, non accresceva però le sue
inquetudini. Pensava però che Don Rodrigo sarebbe tornato, e rimasto, e che il Cardinale non
avrebbe potuto sempre aver l'occhio sopra di lei per difenderla; e da questo pensiero deduceva la
necessità di trovare qualche dimora più sicura, e sperava che il Cardinale stesso ne avrebbe tolto
l'incarico.
Così dopo d'avere abbracciata la Zia che l'accolse piangendo, Lucia la lasciò con Agnese che se ne
impadronì per raccontarle tante tante cose, e si ritirò nella sua stanza. Ivi dopo d'aver ringraziato
Dio dell'averla ricondotta quivi oltre e contra la speranza, si mise a rivisitare tutte le sue masserizie,
come per provare se potesse ricominciare la sua vita passata; ma non v'era oggetto nella casa, non
v'era angolo al quale non fossero associate idee divenute dolorose e ripugnanti. Lucia prese come
macchinalmente il suo arcolajo, e sedette a dipanare la matassa di seta che aveva lasciata a mezzo
quando Fermo venne a pigliarla per la spedizione del matrimonio clandestino.
Dopo pochi momenti, ecco giungere Perpetua affannata a dire che Monsignore tornato di Chiesa
aveva chiesto se Lucia era arrivata, e che udendo di sì aveva ordinato che fosse tosto chiamata. «Il
signor Curato poi», aggiunse Perpetua sottovoce, «mi ha imposto di dirvi o Lucia che vi ricordiate
del parere che vi ha dato a Chiuso: ehn? sapete? di non dir nulla di quel tale affare; Agnese
m'intendete? del matrimonio? guardatevi dal parlarne, perché, perché, i Cardinali passano, e i curati
restano». Le due donne si guatarono in viso come per dire l'una all'altra: - ora mò? non siamo più in
tempo -. Ma Agnese fatta una faccia tosta disse a Lucia: «certo non bisogna dir nulla»; e mettendo
la bocca all'orecchio di Lucia, continuò: «del matrimonio clandestino. Guaj, vedi, è un guajo
grosso». Lucia con queste due ingiunzioni l'una delle quali era ineseguibile, e l'altra poteva
dipendere dalle domande che il Cardinale le avrebbe fatte, s'incamminò, tutta pensierosa e agitata,
con le due donne alla casa del curato. Per la via incontrarono la folla che uscita, dalla Chiesa si
diffondeva nel contorno; e Lucia fu accolta con acclamazioni, e fermata ad ogni passo con saluti,
fra quali vergognosa con gli occhi bassi e gonfj, entrò nella casa parrocchiale, e fu tosto condotta
nella stanza dov'era Federigo, il quale la ricevè con le solite precauzioni.
Dopo alcune inchieste cortesi sul suo viaggio, sul piacere ch'ella aveva provato nel rivedere la sua
casa, Federigo la interrogò di nuovo sull'affare del matrimonio: Lucia dovette rispondere, e
raccontò tutta la faccenda fino al clandestino, dove si fermò come un cavallo che ha veduto
un'ombra, e ristà con una sosta improvvisa e singolare che non è quella solita d'allora che è giunto
al termine del suo viaggio. Federigo, che s'avvide di qualche cosa, domandò a Lucia che risoluzione
avesse presa ella, sua madre, lo sposo quando si videro chiusa la via a quella unione che
desideravano e che chiedevano legittimamente. Agnese, udendo questo cominciò a far certi visacci
a Lucia cercando di non lasciarli scorgere al Cardinale (cosa non molto facile), e questi visacci
volevano dire: - rispondi: «niente, abbiamo aspettato con pazienza». - Lucia stava interdetta:
Federigo che vedeva tutto (l'avrebbe veduto un cieco nato), disse ad Agnese con un contegno
tranquillo e serio: «Perché non lasciate essere sincera la vostra figlia?» e volto a Lucia: «parlate
liberamente», continuò: «Dio vi ha assistita: dategli gloria col dire la verità». Lucia allora spiattellò
tutta la storia del clandestino; e la narrazione divenne allora liscia, verisimile, e ben congegnata.
«Avete confessata una colpa», disse tranquillamente Federigo: «Dio ve la perdoni, e... a chi v'ha
dato una tentazione così forte di commetterla. Ma d'ora in poi, buona figliuola, e voi buona donna,
non fate più di quelle cose, che non raccontereste volentieri».
Quindi passò a chiedere a Lucia dove fosse Fermo; che ora il matrimonio poteva e doveva esser
tosto conchiuso.
Questo era un punto ancor più rematico. «Le dirò io...» cominciava Agnese, ma il Cardinale le
diede un'occhiata la quale significava ch'egli sperava la verità più da Lucia che da lei, onde Agnese
ammutì; e Lucia singhiozzando rispose: «Fermo, povero giovane non è qui: s'è trovato in quei
garbugli di Milano, e ha dovuto fuggire; ma son certa ch'egli non ha fatto male, perché era un
giovane di timor di Dio».
«Ma che ha fatto in quel giorno?» chiese ancora il Cardinale: «quale è la sua colpa?»
«Non ne sappiamo di più», rispose Lucia.
Il Cardinale giacché altri non v'era a cui domandare, si volse ad Agnese la quale rianimata disse:
«Se volessi, potrei inventare una storia per contentare Vossignoria illustrissima, ma sono incapace
d'ingannare una gran persona come Ella è; e non sappiamo proprio niente di più».
«Dio buono!» disse il Cardinale: «insidie, colpe, sciagure, incertezze, ecco il mondo dei grandi e
dei piccioli. Ma voi», disse a Lucia, «che pensate adunque di fare intanto?»
«Io», rispose Lucia, «io vedo che il Signore ha deciso altrimenti di me, che non mi vuole in quello
stato; e ho messo il mio cuore in pace. E se trovassi dove vivere tranquillamente, fuor d'ogni
pericolo..., se potessi esser ricevuta conversa in un monastero...: consecrarmi a Dio...»
«Oh che furia!» sclamò Agnese.
«Voi vi siete promessa, buona giovane», disse Federigo: «vi siete allora risoluta a promettere senza
riflessione, leggiermente?»
«Questo no», disse Lucia arrossando.
«Bene», disse Federigo: «potrebbe ora dunque esser leggiero il ritrattarvi. Se quest'uomo fosse
innocente, se potesse sposarvi, che mutamento è accaduto nelle vostre relazioni? Nessun altro che
una serie di sventure ad ambedue, e non è questa una ragione per separarvi. Questo non è il
momento di pigliare una risoluzione. Sospendete, fate ricerche, aspettate che Iddio vi riveli più
chiaramente la sua volontà. L'asilo intanto ve lo troverò io».
Lucia fu tentata più d'una volta di rivelare il voto, ma una vergogna insuperabile la ritenne.
Federigo l'assicurò che non sarebbe partito da quei contorni prima d'avere stabilito qualche cosa per
lei, e dopo qualche altra parola di consolazione e di avviso, la lasciò partire con Agnese.
Fece poscia venire a sè il curato, il quale, inchinandosi al Cardinale gli guardò in faccia per vedere
se v'era scritto il matrimonio, ma non potè rilevar nulla. La sua incertezza però fu breve, giacché le
prime parole di Federigo furono queste: «Signor curato, perché non avete voi unita in matrimonio
quella giovane Lucia col suo promesso sposo?»
- Donne ciarlone! - voleva sclamare Don Abbondio, ma s'avvide tosto che questa non era una
risposta che stesse bene, né una risposta; e disse titubando: «Monsignore illustrissimo, mi scusi...
ma non posso parlare».
«Come?» disse il Cardinale con volto serio e dignitoso: «non sentite che voi siete ora qui per render
conto al vostro superiore? e che avendo tralasciato, negato di fare ciò che nella via ordinaria, era il
vostro dovere, avete a dirne una buona ragione, o a confessarvi colpevole?»
Queste parole fecero tosto rientrare in sè Don Abbondio. Egli aveva peritanza dell'arcivescovo, e
paura di Don Rodrigo, e come questo sentimento era incomparabilmente più forte nell'animo suo,
così aveva quasi fatto svanire il primo. Pensava Don Abbondio che Federigo rimproverava, ma che
Don Rodrigo dava, e al paragone i rimproveri gli parevano poca cosa, e l'autorità stessa non
gl'imponeva troppo quando pensava al rischio della persona. Ma quando vide l'autorità spiegarsi, e
volere essere riconosciuta si trovò come annichilato: la riverenza presente divenne in quel momento
più forte del terrore lontano.
Replicò adunque umilmente: «Monsignore, io sono il più sommesso degli inferiori di Vossignoria
illustrissima... ma ho detto così... Vede bene, Monsignore, ognuno ha cara la sua pelle. Non tutti i
signori sono santi, come Vossignoria. Basta, dirò tutto: ma so che parlo ad un prelato prudente, che
non vorrebbe perdere un povero curato».
«Dite sicuramente», replicò il Cardinale, «io desidero di trovarvi senza colpa».
«Deve dunque sapere Monsignore illustrissimo», ripigliò Don Abbondio «che la vigilia appunto del
giorno stabilito per quel benedetto matrimonio (parlo a Vossignoria, come in confessione) io me ne
tornava a casa tranquillamente, senza una cattiva intenzione al mondo, sallo Dio, quando... quando
mi si presentarono in su la via, (al mio Superiore e ad un Signore tanto discreto, dico tutto) mi si
presentarono faccia a faccia, come sono solo io ora dinanzi a Vossignoria illustrissima, due uomini,
per parlare onestamente, con certi visi... parevano coloro che posero San Vincenzo su la graticola;
con archibugi, pistole, spadoni, spuntoni..., parati a festa insomma... Vossignoria non ha mai veduto
nulla di somigliante, e mi si affacciarono, dico, mi fermarono, e mi intimarono in nome d'un certo
Signore (i nomi non servono a nulla) che io mi guardassi bene, per quanto aveva cara la vita (mi
pare che fosse un parlar chiaro) dal fare quel tal matrimonio. Ecco la storia genuina. Io adunque ho
stimato che l'ostinarmi contra la forza sarebbe stato un dare occasione a costoro di commettere un
sacrilegio, e che, io mi sarei renduto reo d'un vero suicidio».
«Non avete avuto altro motivo?» domandò pacatamente Federigo.
«Non basta, Monsignore?» replicò Don Abbondio. «O forse mi sono male spiegato: dico che se
avessi fatto il matrimonio, costoro mi avrebbero data una schioppettata nella schiena. Eh!
Monsignore!»
«E vi par questa una ragione bastante per ommettere un dovere preciso?»
«No?» disse precipitosamente Don Abbondio con una sorpresa tanto viva che quasi sarebbe paruta
stizza. «La pelle! la pelle! non è una ragione bastante?»
Il Cardinale, alzando gli occhi in faccia a Don Abbondio disse con una indegnazione composta:
«Ma quando vi siete presentato alla Chiesa, alla Chiesa dei martiri per ricevere questa missione che
esercitate, quando avete assunti volontariamente questi doveri del ministero, la Chiesa vi ha ella
fatto conto della pelle? Vi ha ella detto che quei doveri erano senza pericoli? Vi ha detto che dove il
pericolo cominciasse ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente dichiarato che vi mandava
come un agnello fra i lupi? Vi ha promessa la sicurezza temporale per ricompensa? o la vita eterna?
Non sapevate voi che v'erano dei violenti nel mondo? La pelle! Offeritela per le mani dei violenti in
sagrificio alla fede e alla carità, e la Chiesa la raccoglierà come un nobile tesoro, la conserverà di
generazione in generazione, di sacerdozio in sacerdozio, come un oggetto di culto, come un
testimonio della forza che le è stata data dall'alto, come un tempio dove lo Spirito avrà operate le
sue maraviglie. Ma per conservarla qualche tempo di più, per salvarla a spese della carità e del
dovere! non faceva certo mestieri della unzione santa, della imposizione delle mani, della grazia del
sacerdozio. Come! al soldato che riceve pochi soldi di paga, che combatte per una causa che non
conosce non è lecito dire: ho voluto salvare la vita! non è lecito, è turpe; supporre ch'egli lo possa
pensare, è una ingiuria e non una scusa! e sarà scusa per noi! Dio buono, per noi che predichiamo le
parole della vita, che rimproveriamo ai fedeli il loro attacco alle cose terrene, che facciam loro
vergogna, che gli chiamiamo ciechi perché non sentono il valore della promessa, o perché operano
come se non lo avessero compreso! Che più? per questa stessa vita del tempo, la Chiesa non ha ella
pensato a voi? non vi nutrisce ella della sostanza dei poveri? non vi munisce di riverenza e
d'ossequio? non vi copre ella d'un abito, che prima pure che si sieno vedute le vostre opere vi attrae
la venerazione, perché vi segna come un uomo trascelto, come uno di quegli che non hanno altra
professione che di fare il bene? E perché vi distingue ella così, se non a fine che possiate farlo?
QUEGLI da cui abbiamo la missione e l'esempio, il precetto e la forza di eseguirlo, quando venne
su la terra ad illuminare i ciechi, a congregare i dispersi, ad evangelizzare i poveri, a curar quelli
che hanno il cuore spezzato, a ben fare, a salvare, pose Egli per condizione di aver salva la vita?»
Don Abbondio teneva bassi gli occhi, il capo, le mani; il suo spirito si dibatteva tra quelli
argomenti, come un pulcino negli artigli del falco che lo tengono elevato in una regione
sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirato. Vedendo poi che il Cardinale taceva come chi
aspetti una risposta, dopo aver molto cercato, articolò finalmente queste parole: «Non so che dire:
avrò fallato: è giusto che i superiori abbiano ragione. Quando la vita non si ha da contare per nulla,
non so che dire. Vossignoria illustrissima parla bene... Bisognerebbe però», aggiunse con voce
meno spiegata «essersi trovato al busillis».
<B>CAPITOLO IV</B>
Ebbe appena Don Abbondio proferite queste ultime parole che se ne pentì, s'accorse d'aver detta
una insolenza, e si aspettò che questa volta Monsignore monterebbe affatto in bestia. Ma alzando
dubbiosamente lo sguardo, fu molto maravigliato in vedere la faccia di quell'uomo, ch'egli era
destinato a non poter mai né indovinare né comprendere, in vederla passare da quella gravità
riprensiva ad una gravità tutta compunta e pensosa. «Pur troppo!» disse il Cardinale: «tale è la
nostra miseria. Dobbiamo ripetere dagli altri quello che forse non sapremmo dare noi; dobbiamo
riprendere altrui, e sa Dio quello che avremmo fatto noi nel caso stesso. Ma guaj se io dovessi
prender la mia debolezza per misura del dovere altrui! Pure è certo ch'io vi debbo l'esempio: non
debbo essere il fariseo che impone altrui insopportabili carichi, ch'egli non vuol pure toccare colla
punta del dito. Or bene: se voi m'avete veduto trascurare qualche mia obbligazione per
pusillanimità, ditemelo francamente, correggetemi, fatemi ravvedere».
Vedendo Federigo che Don Abbondio non rispondeva, e sospettando ch'egli forse fosse rattenuto
dal timore di offenderlo, riprese con tuono umile e cordiale: «Dite, che dinanzi a quel Dio che ci
ascolta, io vi protesto, che non che sdegnarmene, vi sarò grato, e v'avrò più caro che mai non vi
avessi». Ma i pensieri di Don Abbondio erano tutt'altri da quelli che s'immaginava il Cardinale.
- Oh che tribolatore! - pensava Don Abbondio. - Anche sopra di sè! purché frughi, rimescoli,
esamini, critichi, è contento. Ora io andrò a fargli l'esame di coscienza! Farebbe meglio a non farmi
tanta inquisizione sui fatti miei, che dei suoi io non mi piglio briga. - Ma come bisognava pure dir
qualche cosa ad alta voce, ecco ciò che disse Don Abbondio.
«Oh Monsignore, mi burla! Chi non conosce il petto forte, l'animo coraggioso di Vossignoria
illustrissima?» A questa dichiarazione fece poi nel suo cuore Don Abbondio questo commento: -
Anche troppo, che un po' di giudizio starebbe meglio: lasciare andar l'acqua all'ingiù, e non andare a
comprarsi le brighe, nelle faccende cercare tutti i musi duri per cozzare e fino nelle visite andare a
pescare tutti i pericoli, schivare le strade piane, e andare in cerca dei greppi e dei precipizi per
fiaccarsi l'osso del collo.
Il Cardinale rispose al complimento di Don Abbondio: «Io non vi domandava una lode che mi fa
tremare, perché chi può sapere come mi giudichi Chi vede tutto? ma voi dovete sapere che quando a
servire il prossimo in quelle cose, dove egli ha ragione nei nostri servigj è necessaria una
risoluzione coraggiosa, allora questa risoluzione è di stretto dovere. Ditemi dunque: che avete voi
fatto dopo quella intimazione che avete detto?»
«Che ho fatto, Monsignore?» disse Don Abbondio. «Mi son messo a letto con la febbre». E
aggiunse in cuor suo: - Stiamo a vedere che rimprovero mi farà per aver avuta la febbre.
«Vi tolse essa il sentimento e la favella?» domandò il Cardinale.
«Monsignor no», rispose Don Abbondio: «ma le so dire che fu una febbre fiera: sono spaventi che
non gli auguro a nessuno».
«La carne è inferma», ripigliò Federigo: «ed è questa la nostra miserabile condizione: ma lo spirito
fu egli pronto? Che avete voi fatto per quei due poveretti, dei quali voi, e voi solo allora
conoscevate il pericolo?»
«Ma che cosa doveva fare, col nome di Dio?» disse Don Abbondio.
«Debbo io dunque dirvelo?» ripigliò Federigo: «non l'avete sentito? non lo sentite pur ora? Al
vedere un tanto pericolo venir sopra due anime innocenti, che vi sono date in custodia, le vostre
viscere non si sono commosse? Non avete tremato per essi? Non avete provato il tormento della
carità? Il vostro corpo si abbattè sotto lo spavento: guai al tristo superbo, che ne pigliasse
argomento di beffa e di dispregio: per questa debolezza che non è della vostra volontà, non sento
altro che una pietà rispettosa: ma nella umiliazione del vostro terrore, ma nelle angosce della vostra
infermità, come non avete pensato alle angosce che erano minacciate a quelli sui quali voi dovevate
vegliare? Che! il lupo s'era mostrato, le pecore pascevano con sicurezza, e voi non avete pensato,
non dico a difenderle, ma né pure a farle avvertite. Coi cenni l'avreste dovuto, quando la parola vi
fosse mancata».
«Ecco come vanno le cose», disse Don Abbondio: «io mi confondo davanti a Vossignoria
illustrissima, e faccio torto alla mia causa, per non saper ben dire le mie ragioni. Non le ho detto
che quei due (due lì presenti, ma a contarli tutti, sono un reggimento) quei due mi hanno proibito
espressamente, sotto pena della vita di parlare».
«Dio buono!» riprese Federigo, «voi avete creduto, voi credete ancora, voi sostenete dinanzi a me
che una tale proibizione dovesse essere per voi un comandamento? Che doveste obbedire? Così
dunque basterebbe un violento in ogni parrocchia per fare che il ministero fosse tutto sospeso, i
pastori muti e schiavi? i deboli abbandonati? Che dovevate voi fare? Chiedere a Dio la forza che vi
era necessaria, e Dio ve l'avrebbe accordata; non perdere un momento: avvertire quei due poveretti
della iniquità potente che stava all'erta contra di loro, strascinarvi in Chiesa, e fare a malgrado
dell'uomo quello che Dio vi comandava, consacrare la loro unione, e chiamare sopra di loro la
benedizione del cielo: dovevate soccorrerli di consiglio, di mezzi per porsi al riparo con la fuga,
cercar loro un asilo, fare quello che implorereste se foste perseguitato da un più forte di voi:
dovevate informar tosto il vostro vescovo del loro, del vostro pericolo, dell'impedimento che una
violenza infame poneva all'esercizio del vostro ministero. Io, io allora avrei tremato per voi; io
avrei posto in opera tutto quello che Dio mi ha dato di ajuti, di aderenze, di autorità, per difendervi:
io non avrei dormito fin che non fossi certo che non vi sarebbe torto un capello. Ah! per quanto
l'iniquità trionfi, v'è pure ancora un po' di forza per la giustizia: ma i poverelli, inesperti, ignari,
sfidati, non sanno dove andarla a cercare: bussano alla prima porta; e se la trovano chiusa, sorda,
crudele, si disanimano affatto, e non sanno come adoprarsi. Quell'uomo che ardì tanto credete voi
che avrebbe tanto ardito se avesse saputo che le sue trame, le sue violenze erano note fuor di qui,
note a me? Vi dico che sarebbe stato contento di ritrarsi, e voi dopo aver fatto il debito vostro,
sareste stato sicuro. Quella inquetudine che avete provata, l'avrei provata io, incessante, intensa,
ingegnosa: io vi avrei promosso in luogo, fin dove certo le braccia di costui non si sarebbero
allungate. Ma voi non avete fatto nulla. Nulla! Dio ha salvata questa innocente senza di voi: l'ha
salvata... se dico troppo, se il mio giudizio è temerario, smentitemi, che mi consolerete... l'ha salvata
a mal vostro grado».
Don Abbondio taceva: il Cardinale continuò: «È doloroso il terrore, sono increscevoli le angosce, è
amara la pressura: voi lo sapete: ma sapete voi misurare la paura e le angosce che ha sofferte una
vostra parrocchiana innocente?»
Don Abbondio, dagli anni della pubertà in poi, non aveva mai occupato tanto poco di spazio come
in quel momento: ad ogni parola del Cardinale egli si andava ristringendo, impicciolendo, avrebbe
voluto sparire. Tacque egli per qualche momento, non trovando ragione da opporre in quel campo
dove il Cardinale aveva posta la questione, e dove la teneva a forza. Finalmente per dir qualche
cosa pensò a cangiarla e a ricriminare. Disse dunque con quella debolezza ostile che fa svanire
anche la pietà che la debolezza ecciterebbe naturalmente:
«Quelli che vengono a rapportare, ad accusare, non dicono tutto, Monsignore illustrissimo. Questo
bel fiore di virtù, questa povera giovane è venuta per sorprendere il parroco e per fare un
matrimonio clandestino. E quel suo sposo, era una buona lana, è andato a Milano, e sa il... cielo che
cosa ha fatto: a buon conto ha dovuto fuggire».
«Io lo sapeva», disse il Cardinale; «ma voi come osate parlare di questi fatti che aggravano la vostra
colpa, che ne sono la conseguenza? Voi chiudete a dei poverelli la via legittima per giungere ad un
fine legittimo, e siete voi quello che fate lor carico se ne hanno presa una illecita? Certo il vostro
rifiuto non gli scusa: ma pensate voi bene in questo momento quale sia l'animo di colui a cui si nega
quello che gli è dovuto? L'uomo è tanto artificioso per giustificare i mezzi, che lo possono condurre
ai suoi desiderj! che debb'esser quando i desiderj sono giusti? Non è questa la più forte delle
tentazioni? Mal fa chi soccombe anche a questa: ma che dite di colui che la dà? E quello sventurato
giovane; bene avete detto, sa il cielo che cosa ha fatto! Ah! tutti errano pur troppo, anche quelli che
dovrebbero raddrizzare gli errori altrui: v'ha tanti scellerati impuniti, Dio volesse che la pena, che il
terrore della pena non cadesse mai sugli innocenti! Ma che ch'egli abbia fatto, egli profugo,
esacerbato, col sentimento della giustizia negata, pregate Dio, io prego per lui e voi, che gli perdoni,
e non vi accagioni di quello che egli possa aver fatto. Era egli prima d'ora uomo di risse, e di
misfatti? e di rivolta? Io lo domando a voi, e Dio ascolta la vostra risposta».
«Questo non lo posso dire», rispose Don Abbondio.
«E voi non tremate?» ripigliò il cardinale. «Voi non pensate che se quest'anima la quale era stata
affidata a voi, s'è pervertita, voi avete una terribile parte nel suo pervertimento? Un tiranno l'aveva
contristata, provocata, esacerbata: era una tentazione: ma non la più forte; ma poteva divenire una
occasione di offerta, di sagrificio, di rassegnazione. I poverelli sanno, debbono pur troppo saperlo,
che v'ha dei soverchiatori violenti: hanno inteso dire fino dall'infanzia che Dio gli lascia spaziare
alcun tempo su la terra per esercizio dei buoni, hanno appreso ad adorare, anche nella iniquità degli
uomini, la giustizia, e la misericordia di Dio entrambe infallibili, ma riserbate entrambe a momenti
ch'Egli solo conosce. E quante volte la persecuzione dell'empio non accresce in essi la fede? Ma
quello che la turba, quello che inverte la loro coscienza, quello che travolge il loro proposito, è
l'abbandono per parte di coloro che predicano la fede, la coscienza, il proposito. Un tiranno ha
sbalzato questo sventurato giovane lontano dalla sua casa, l'ha staccato da quei mezzi, da quelle
consuetudini, da quella vita nella quale egli poteva esser facilmente onesto. Ah! allora più che mai
egli ha avuto bisogno di consiglio, e di soccorso! Allora una voce forte e amorosa doveva farsi
sentire a quell'anima tentata; doveva dirle: bada! l'iniquità trionfante non ti confonda: ella non è
eterna: la tua collera non ti vinca: ella non è giusta, perché non ha ancora veduto la fine.
Quell'infelice era sopraffatto dallo spettacolo dell'ingiustizia d'un uomo; un altr'uomo doveva
rendergli visibile la carità, perch'egli la credesse, perché l'amasse, perché non si staccasse da essa.
Chi doveva esser quest'uomo? - Ma egli ha veduta, ha sentita l'ingiustizia sola, l'ha veduta impunita,
temuta: ha veduto colui dal quale aveva imparato a detestarla, ritirarsi, cedere, assecondarla, quando
si è mostrata nella sua forza; dopo averla abborrita, egli ne è stato abbagliato, ne ha fatto il suo Dio.
Non dite ch'egli era disposto alla perversità, e che ha colta la prima occasione per darsi ad essa.
Sarebbe questa una scusa dolorosa, ma una scusa per voi, se aveste fatto quello che per voi si
poteva, qualche cosa, per ritrarlo da quella via, per ritenere nel bene i suoi pensieri dubbiosi. Che
avete voi fatto? Che conforto, che ricordo, che esempio ha egli portato con sè, partendosi? Che ha
egli avuto da voi? Un rifiuto. <I>Chi non ha cura dei suoi, ha negato la fede, è peggiore
dell'infedele</I>. La sentenza è terribile, ma non viene da me: è del vostro Maestro, e del mio».
Il Cardinale cessò di parlare, ma nel suo volto composto al silenzio si dipingevano ancora i
sentimenti che avevano mosse le sue parole, e che le sue parole avevano accresciuti: l'ira senza
peccato, la commiserazione, un riflesso di terrore sopra se stesso al ricordo di quei doveri, che gli
erano comuni con quello ch'egli riprendeva dell'averli sconosciuti. Don Abbondio sulle prime,
quando aveva veduto che s'intonava un rabbuffo, aveva sentito un turbamento, una stizza, una
tristezza tutta carnale; non poneva mente al senso della ammonizione, ma al tuono con cui era fatta:
e non s'affannava d'altro che di sentirla finire. Ma dalle dalle, la pioggia continua di quelle parole
dopo d'avere sdrucciolato su quella terra arida, l'aveva pure penetrata: erano conseguenze
impensate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica pur nella mente di Don Abbondio; il quale
cominciò davvero a comprendere quanto la sua condotta fosse stata diversa da quella legge, ch'egli
stesso aveva sempre predicata. Taceva egli; ma non più di quel silenzio impersuasibile e dispettoso:
taceva come quegli che ha più cose da pensare che non da dire. Il Cardinale s'accorse dell'effetto
delle sue parole; ne sentì consolazione e pietà, in un punto, e riprese:
«Queste però, signor curato, non debbono essere le ultime nostre parole su questo affare. Sa il cielo
come io avrei desiderato di tener con voi tutt'altro discorso. Siam vecchi entrambi: sa il cielo se m'è
doluto di dover contristare con rimproveri questa vostra canizie; quanto avrei voluto piuttosto
racconsolarmi con voi delle nostre cure comuni, dei nostri guaj, col pensiero della beata speranza,
alla quale già già tocchiamo. La mezza notte è vicina; lo Sposo non può tardare: colmiamo d'olio le
nostre lampade, affinché non sieno estinte al suo arrivo. Riempiamo il nostro cuore di carità: essa
sola è eterna; essa sola può raddolcire quel momento. Amiamo, e sarem forti; amiamo e le
debolezze, che pur ci rimarranno, saranno coperte e perdonate».
Federigo fece ancora pausa a queste parole: Don Abbondio non ruppe il silenzio, ma il Cardinale
vide ch'egli gli assentiva con l'animo, e continuò:
«Il male avvenuto è irrevocabile; ma non irreparabile; speriamo. Le sventure di quei due poveretti
possono ancora tornare in loro bene, e in bene vostro. Chi sa quante occasioni Dio vi prepara di
soccorrerli, di divenir per essi un padre, di compensare il torto che la vostra negligenza può loro
aver fatto. Deh! non le lasciate sfuggire. Deh! non indurate il vostro cuore; non restituite loro, nelle
occasioni, l'amarezza che può avervi data questa riprensione, che io v'ho fatta, sa il cielo, per amor
vostro non meno che pel loro. Pur troppo, io l'ho più volte esperimentato in questa difficile altezza:
il debole che si richiama al superiore, che gli fa conoscere la sua ragione, che ottiene una giustizia,
troppo spesso momentanea, peggiora spesso la sua condizione. Quegli che è stato ripreso per sua
cagione, tace dinanzi alla riprensione, cede al suo maggiore, ma trova poi il mezzo di fare espiare al
debole quel breve trionfo. Son tanti i mezzi di fare avere torto al debole! e colui che ne aveva
assunta la protezione, è tanto distratto da altre cure, di sì corta vista, che è facile fargli credere
ch'egli si è ingannato alla prima, che ha protetto un immeritevole. Deh! non fate così: poiché
quand'anche riusciste a farmi travedere, non sono io quello che v'ha da giudicare. Amate quegli
infelici perché son vostri figli, per quello che hanno sofferto, per l'occasione che v'hanno data di
udir la voce sincera del vostro pastore, per l'amore che possono attirarvi da Dio. Amateli
cordialmente, e saprete sempre quello che avrete da fare per essi».
«Monsignore», disse Don Abbondio, con voce commossa, «dinanzi a voi e dinanzi a Dio prometto
di fare per essi tutto quello che potrò. Ma Vossignoria illustrissima pensi a mettere un buon
guinzaglio a quel cane. Vossignoria ha avuta la degnazione di dirmi che avrebbe tremato per me
povero prete: sappia, Monsignore, che v'è da tremare ancora, perché quando Vossignoria sarà a far
del bene altrove, costui tornerà qui a fare alla peggio».
«Dio l'ha già atterrito senza di voi, senza di me», interruppe Federigo, «voi lo avete veduto fuggire:
non è questo un pegno dell'aiuto celeste? Ma io non lascerò di mettere in opera ogni mezzo umano
che sia in poter mio. Porrò in sicuro quella povera giovane, che non lo sarebbe forse qui: chiederò
conto di quegli che le era promesso; e s'egli è innocente... se le mie parole possono giovargli... Dio
buono son tanto sospette le parole in bocca nostra! Pure io spero in Dio. Quanto a quel Signore,
spero pure di poter fargli sentire che v'è chi non ha paura di lui, e può fargliene. Ad ogni modo,
ricordatevi ch'egli non può uccidere che il corpo, e temete Quel solo che può perdere il corpo e
l'anima».
«Ah l'anima! è vero pur troppo!» disse Don Abbondio, lasciando interrotta la frase che il suo
pensiero compì a questo modo: - ma se quel birbante mi dovesse uccidere il corpo, sarebbe dura -.
«A proposito del corpo», disse poi dopo un momento, «non per dare un parere a Vossignoria
illustrissima, ma per amore di quella regolarità che tanto le piace, mi faccio lecito di avvertirla che
l'ora è avanzata, e che il mio povero pranzo non aspetta che Vossignoria».
«Andiamo», disse il Cardinale, con un sospiro.
Abbiamo detto che il Conte del Sagrato era venuto ogni mattina a quella Chiesa che il Cardinale
visitava in quel giorno. Stava alquanto con lui in quell'ora di riposo che precedeva il pranzo, e poi
ripartiva. Ma in questo giorno egli era venuto con un disegno che fu cagione di farlo rimanere più
tardi. Sapeva il Conte che Lucia doveva tornare alla sua casa: il Cardinale lo aveva informato di
questo, anzi gliene aveva chiesto consiglio: perché, dove si trattava di pericoli, e di cautela, di bravi
e di tiranni, non v'era uomo più al caso di dare un buon consiglio: e il Conte aveva confortato il
Cardinale ad installare pure sicuramente Lucia nel suo pacifico albergo. Prevedendo egli dunque
che quel giorno Lucia si sarebbe trovata dal Cardinale, non vi si presentò all'ora consueta, ma stette
nella Chiesa aspettando l'ora in cui il Cardinale era solito di desinare, e quando questa gli parve
dover esser giunta, entrò nella cucina, dove Perpetua stava in grandi faccende, e le chiese con umile
affabilità di poter ivi trattenersi ad attendere che il pranzo fosse finito per chiedere udienza a
Monsignore. Chi entra in una cucina in un giorno di cerimonia, è sempre il mal venuto; ma il Conte
aveva una antica riputazione di ribalderia, e una recente di santità, che imposero anche a Perpetua,
la quale per levarsi dattorno nel modo più gentile quell'incomodo arnese, propose al Conte d'entrare
nella sala del pranzo.
«Si faccia avanti», diss'ella «sulla mia parola: Monsignore la vedrà molto volentieri; e anche il mio
padrone, e tutta la compagnia: non faccia cerimonie».
Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto. Perpetua lo fece sedere al
posto d'onore della cucina nel banco sotto la cappa del camino; dicendo: «Vossignoria starà come
potrà: veramente avrebbe fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta,
com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia, perché oggi ho tante
faccende: ella vede». Il Conte sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè,
si diede a mangiare. Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire. «Come?, un signore suo pari!
non sarà mai detto ch'ella faccia questo torto alla mia cucina. Ecco, si serva: mangi di questo: e lasci
fare a me per mandare in tavola il piatto, senza un segno: non faccia complimenti: che serve?» E
come il Conte rifiutava, Perpetua gli si avvicinò all'orecchio, e gli disse a bassa voce: «Via, Signor
Conte; che scrupoli son questi? so quello che posso fare: la padrona sono io qui». Ma tutto fu
inutile. Il Conte ringraziò di nuovo, e continuò a rodere ostinatamente il suo pane.
Quando poi da quello che accadeva in cucina, s'avvide che erano cessati i cibi e levate le mense,
fece chiedere udienza a Federigo, dal quale fu tosto fatto introdurre.
«Monsignore», diss'egli, quando gli fu in presenza, «questo è un giorno di festa singolare per questo
paese e per voi, ma in questa allegrezza comune, io, io ho una parte ben diversa da tutti gli altri; il
gaudio puro e sgombro della liberazione d'una innocente non è per colui che l'aveva vilmente
oppressa, angariata. A me conviene dunque un contegno e un linguaggio particolare; lasciate ch'io
faccia oggi la mia parte; approvate che io vada ad implorare un perdono da quella innocente, ch'io
mi umilj dinanzi a lei, che le confessi il mio orribile torto, e che riceva dalla sua bocca innocente
dei rimproveri che non saranno certo condegni alla mia iniquità, ma che serviranno in parte ad
espiarla».
Federigo intese con gioja questa proposizione; e pel Conte a cui questo passo sarebbe un progresso
nel bene e una consolazione nello stesso tempo; per Lucia, alla quale lo spettacolo della forza
umiliata volontariamente sarebbe un conforto, un rincoramento dopo tanti terrori, e pel trionfo della
pietà, e per l'edificazione dei buoni; e finalmente perché una riparazione pubblica e clamorosa
attirerebbe ancor più gli sguardi sopra Lucia, e sul suo pericolo, sarebbe una più aperta
manifestazione del soccorso che Dio le aveva dato, la renderebbe come sacra, e così più sicura da
ogni nuovo attentato dello sciarrato suo persecutore. Approvò egli adunque con vive e liete parole
la proposizione, e aggiunse: «Dite: dite se l'offesa la più ardentemente bramata, la più lungamente
meditata, la meglio riuscita reca mai tanta dolcezza quanto una umile e volontaria riparazione?»
«Ah! la dolcezza sarebbe intera», rispose il Conte, «se la riparazione potesse esserlo; se il
pentimento, se l'espiazione la più operosa, la più laboriosa, potesse fare che il male non fosse fatto,
che i dolori non fossero stati sentiti».
«Ma v'è ben Quegli», rispose Federigo, «che può far di più; che può cavare il bene dal male, dare
pei dolori sofferti il centuplo di gioja, fargli benedire a chi gli ha sofferti. E quando voi fate per Lui
e con Lui, quel poco che v'è concesso di fare, Egli farà il resto: Egli farà che del male passato non
resti a quella poveretta che un argomento di riconoscenza e di speranza, e a Voi di una afflizione
umile e salutare».
Detto questo il Cardinale, chiamò il curato, e gl'impose che facesse avvisare Lucia del disegno del
Conte, e le dicesse ch'egli stesso la pregava di accoglierlo. Partito il curato, Federigo richiese il
Conte che aspettasse tanto che Lucia potesse essere avvertita.
Dopo qualche momento il Conte uscì dalla casa di Don Abbondio e s'avviò a quella di Lucia tra una
folla di spettatori, fra i quali era già corsa la notizia di ciò che si preparava.
La forza che spontanea, non vinta, non strascinata, non minacciata si abbassa dinanzi alla giustizia,
che riconosce nella innocenza debole un potere, e domanda grazia da essa, è un fenomeno tanto
bello e tanto raro, che beato chi può ammirarlo una volta in sua vita. Quei buoni terrieri (in quel
momento erano tutti buoni) non si saziavano di guardare il Conte, lo seguivano, lo circondavano in
tumulto, lo colmavano di benedizioni. Tanta è la bellezza della giustizia: per tarda ch'ella sia,
innamora sempre quando è volontaria: quelli che dopo aver fatti patir gli uomini si vendicano
dell'odio loro che gli tormenta col fargli patire ancor più, non pensano che quell'odio è pronto a
cangiarsi in favore, in riconoscenza, al momento che una risoluzione pietosa, un ravvedimento
anche senza confessione faccia cessare i patimenti.
Il Conte camminava ad occhi bassi e col volto infiammato, tutto compunto e tutto esaltato, che
poteva sembrare un re condotto in catene al trionfo, o il capitano trionfatore. Don Abbondio
camminava al suo fianco, e pareva... Don Abbondio.
Giunti alla casetta di Lucia, il curato fece entrare il Conte, e con ambe le mani ritenne la folla, o
almeno le comandò che si rattenesse, tanto che potè chiuder l'uscio, e lasciarla al di fuori.
Lucia, tutta vergognosa condotta dalla madre si fece incontro al Conte, il quale, trattenendosi vicino
alla porta nell'atteggiamento di un colpevole, le disse con voce sommessa: «Perdono: io son quello
che v'ha offesa, tormentata: ho messe le mani sopra di voi, vilmente, a tradimento, senza pietà,
senza un pretesto, perché era un iniquo: ho sentite le vostre preghiere, e le ho rifiutate; ho vedute le
vostre lagrime, e son partito da voi senza esaudirvi, vi ho fatta tremare senza che voi m'aveste
offeso, perché era più forte di voi, e scellerato. Perdonatemi quel viaggio, perdonatemi quel
colloquio, perdonatemi quella notte; perdonatemi se potete».
«S'io le perdono!» rispose Lucia. «Dio s'è servito di lei per salvarmi. Io era nelle unghie di chi mi
voleva perdere, e ne sono uscita col suo ajuto. Dal momento ch'ella m'è comparsa innanzi, che io ho
potuto parlarle, ho cominciato a sperare: sentiva in cuore qualche cosa che mi diceva ch'ella mi
avrebbe fatto del bene. Così Dio mi perdoni, come io le perdono».
«Brava figliuola!» disse Don Abbondio, «così si deve parlare: fate bene a perdonare, perché Dio lo
comanda; e già quando anche non voleste, che utile ve ne verrebbe? Voi non potete vendicarvi, e
non fareste altro che rodervi inutilmente. Oh se tutti pensassero a questo modo, sarebbe un bel
vivere a questo mondo!».
«È vero», disse Agnese, «che questa mia poveretta ha patito molto... ma bisogna poi anche dire che
noi poveretti non siamo avvezzi a vedere i signori venirci a domandar perdono».
«Dio vi benedica», disse il Conte, «e vi compensi con altrettanta e con più consolazione i mali che
io vi ho fatti, tutti quelli che avete sofferti». Indi soggiunse titubando: «Come sarei contento se
potessi far qualche cosa per voi!»
«Preghi per me», disse Lucia, «ora ch'è divenuto santo».
«Quello ch'io sono stato, lo so pur troppo anch'io: quello ch'io ora sia, Dio solo lo sa!» rispose il
Conte... «Ma voi, in questa vostra orribile sciagura... in questa mia scelleratezza... non avete avuto
soltanto timori, e crepacuori... La vostra famiglia... una famiglia quieta e stabilita... i vostri lavori,
l'avviamento... voi avete sofferti danni d'ogni genere... se osassi... se potessi parlare di compensar
questi, io che v'ho fatto tanto male che non potrò compensar mai... ma Dio è ricco... frattanto:
datemi questa prova di perdono... accettate», e qui cavò con peritanza quasi puerile, un rotolo di
tasca... «accettate questa picciola restituzione... non mi umiliate con un rifiuto».
«No no», disse Lucia: «Dio mi ha provveduta abbastanza: v'ha tanti poverelli che patiscono la fame:
io non ho bisogno...»
«Deh! non mi rifiutate...» replicò il Conte con umile istanza: «se sapeste! questa somma... questo
numero... pesa tanto in mano mia... e sarei tanto sollevato se l'accettaste... Non mi farete questa
grazia, per mostrarmi che m'avete perdonato?» e vedendo che il volto d'Agnese esprimeva il
consenso che il volto e le parole di Lucia negavano, presentò alla madre il rotolo, implorando pur
con lo sguardo il consenso di Lucia.
«Grazie», disse Agnese al Conte; «e tu», continuò rivolta a Lucia, «ora non parli bene. Questo
signore lo fa pel bene dell'anima sua, e noi poveri non dobbiamo esser superbi». Così dicendo
svolse il rotolo, e sclamò: «Oro!»
«Vostra madre ha ragione», disse Don Abbondio: «accettate quello che Dio vi manda, e se vorrete
farne del bene non mancheranno occasioni. Così facessero tutti! Così Iddio toccasse il cuore a
qualchedun altro e gli ispirasse di compensare anche me povero prete, delle spese che ho dovuto
fare in medicine per quella maledetta...» Voleva dire - paura - ma ebbe paura di parlare
imprudentemente e si fermò.
«Vi ringrazio della vostra degnazione», disse il Conte a Lucia, «e del vostro perdono. E se mai in
qualunque caso voi credete ch'io possa esservi utile, voi sapete... pur troppo... dove io dimoro. Il
giorno in cui mi sarà dato di fare qualche cosa per voi, sarà un giorno lieto per me: mi parrà allora
che Dio mi abbia veramente perdonato».
«Ecco che cosa vuol dire avere studiato!» disse Agnese: «appena Dio tocca il cuore, si parla subito
come un predicatore».
Lucia ringraziò pure il Conte, il quale dopo d'aver ripetute parole di scusa e di umiliazione e di
tenerezza, si congedò, uscì con Don Abbondio, e sulla porta si divisero. Il Conte tra le acclamazioni
della folla prese la via che conduceva al suo castello, e Don Abbondio tornò a casa.
Appena le due donne furono sole, Agnese svolse il rotolo, e in fretta in fretta si diede a noverare.
«Dugento scudi d'oro!» sclamò poi: «quanta grazia di Dio! Non patiremo più la fame certamente».
«Mamma», disse Lucia, «poiché quel signore ci ha costrette ad accettare questo dono, e ha preteso
che fosse una restituzione... quei denari non sono tutti nostri. Non siamo noi sole che abbiamo
sofferti danni... non sono io sola che abbia dovuto fuggire, intralasciare i miei lavori. Io sono
tornata finalmente... e se non istarò qui, ho almeno chi pensa a me, chi non mi lascerà mancare di
nulla... Un altro è lontano, e che Dio sa quando potrà tornare. Mi parrebbe di aver rubati quei
denari, se almeno almeno non gli dividessi con lui».
«Glieli porterai in dote», disse Agnese, studiandosi di rotolare come prima gli scudi, che facendo
pancia da una parte o dall'altra sfuggivano dalle sue mani inesperte.
«Non parliamo di queste cose, mamma», disse Lucia sospirando; «non ne parliamo. Se Dio avesse
voluto... ah! le cose non sarebbero andate a quel modo. Non era destinato che fossimo... non ci
pensiamo per carità».
«Ma s'egli torna», voleva cominciare Agnese.
«È lontano, è profugo, ramingo... ah! c'è altro da pensare: forse egli stenta, forse non ha pane da
mangiare. Forse con questo ajuto, egli potrà collocarsi bene altrove, farsi un avviamento, uno
stato...»
«Ohe!» disse Agnese, «tu non pensi più a lui?...»
«Penso a toglierlo d'angustia, e di bisogno», rispose in fretta Lucia. «Questo lo possiamo fare, al
resto provvederà Iddio».
Agnese era onesta e buona, e per quanto le piacessero quei begli scudi giallognoli, non avrebbe
potuto possederli con un contento puro e tranquillo quando le fossero divenuti in mano un
testimonio di dura e bassa avarizia. Consentì ella dunque a destinarne la metà a Fermo, e promise a
Lucia che avrebbe cercato tosto il mezzo di farglieli tenere sicuramente. Ma Agnese era rimasta
colpita di quella nuova rassegnazione di Lucia all'assenza del suo promesso sposo, e non lasciò di
tentarla con interrogazioni, dirette, tortuose, calzanti, subdole, per venirne all'acqua chiara. Lucia
però seppe per allora e per qualche tempo schermirsi dal soddisfare alla curiosità materna,
allegando sempre che era inutile il pensare a cose che le circostanze rendevano impossibili.
Il Cardinale aveva risoluto di partire quella sera di là, per portarsi ad una parrocchia vicina; ma
partiva col dispiacere di non avere ancora potuto provvedere Lucia d'un asilo; e quantunque tutto
paresse ivi sicuro per essa, pure il cuore del buon vecchio non era abbastanza tranquillo. Per avere
la certezza che desiderava, egli non si rivolse a Don Abbondio; perché teneva per fermo (e nessuno
dirà ch'egli giudicasse temerariamente) che Don Abbondio per rispondere «Monsignor sì» o
«Monsignor no», avrebbe consultato piuttosto l'interesse e la sicurezza sua propria che quella di
Lucia.
Commise egli adunque al suo Cappellano crocifero di aggirarsi fra il popolo, e di osservare lo stato
delle cose, la disposizione degli animi, di vedere se v'era rimasta in paese gente di mala intenzione,
se insomma si poteva partire col cuore quieto, lasciando Lucia nel luogo, dove alcuni giorni prima
non era stata sicura. Il Cappellano fece ciò che gli era stato imposto; parlò al sagrestano, agli
anziani, al console, e da tutti fu accertato che nulla v'era da temere. Anzi appena si ebbe sentore di
questa inquietudine del Cardinale, in un momento giovani e vecchi s'offersero di guardare la casa di
Lucia; con quella risoluzione, con quell'ardore con cui si veggono offrire le alleanze ad un principe
vittorioso. «Son qua io», diceva l'uno... «tocca a me», diceva l'altro: «io son cugino», gridava un
terzo: «io io che non ho paura di brutti musi», schiamazzava il quarto, e così fino al centesimo. Non
si sarebbe potuto credere che Lucia pochi giorni prima avesse dovuto fuggire segretamente da
quello stesso paese. Perché costoro non si presentavano quando v'era il bisogno? Eh! perché v'era il
bisogno.
Avuta questa sicurezza, il Cardinale partì, facendo ancora ripetere a Lucia, ch'egli non si sarebbe
scostato da quei contorni prima d'aver provveduto alla sua sorte. Infatti egli andò sempre in quei
giorni ripensando al modo di compire questa sua opera, e ricercando in ogni persona, in ogni
circostanza se poteva farne un mezzo al suo benefico intento. A forza di attendere e di ricercare,
l'occasione si presentò. Visitando una di quelle parrocchie, ricevette Federigo fra le altre visite che
accorrevano da ogni parte, quella d'una famiglia potente di Milano che villeggiava in quelle
vicinanze. Don Valeriano, capo di casa, Donna Margherita sua moglie, Donna Ersilia loro unica
figlia, e Donna Beatrice sorella del capo di casa, rimasta vedova nel primo anno di matrimonio, e
ritornata a vivere ritiratamente in casa. Dei primi tre il Cardinale non aveva conoscenza molto
vicina: sapeva soltanto che la famiglia benché molto distinta, pure non faceva terrore, che Don
Valeriano non aveva riputazione di soverchiante e di tiranno; e questo merito negativo bastava in
quei tempi a conciliare ad una famiglia potente la stima e la fiducia dei più savj. Oltre di che, Donna
Beatrice era nota a Federigo assai più da vicino; le abitudini di una vita tutta consecrata alla pietà e
alla assistenza dei poveri le avevano data senza ch'ella se ne curasse, una riputazione di santità, e il
Cardinale in più occasioni incontrandosi con essa nelle stesse intenzioni, e nelle stesse occupazioni
aveva avuto campo di accertarsi che quella riputazione non era menzognera. Quando adunque
questa visita gli fu annunziata, propose egli di trovare il modo che Lucia andasse in quella casa; ma
non dovette studiar molto a condurre il discorso dov'egli desiderava; perché l'affare di Lucia era
stato tanto clamoroso che Don Valeriano non mancò di parlarne per fare un complimento al suo
liberatore. Questi allora dopo d'aver modestamente rifiutate le lodi ch'egli sapeva di non meritare,
raccontando semplicemente il fatto, e togliendone tutto ciò che la fama vi aveva aggiunto in suo
onore, aggiunse che però tutto non era finito, che quella povera giovane uscita da un tanto pericolo
non era pure in sicuro, non aveva un asilo, e che certamente avrebbe compiuta una opera
incominciata da Dio chi l'avesse raccolta. Don Valeriano guardò in faccia a Donna Margherita, la
quale assentì con una occhiata: Donna Beatrice, non guardata da loro, gli guardò entrambi con
ansietà per vedere se avevano inteso, se avrebbero fatto vista d'intendere: Donna Ersilia continuò a
guardare la croce del Cardinale, la porpora, a seguire con l'occhio la mano per osservare l'anello,
che erano le cose per le quali s'era fatta una festa di venire a far quella visita. Don Valeriano offerse
al Cardinale di prendere Lucia al servizio della casa, o come il Cardinale avrebbe desiderato. Il
Cardinale accettò lietamente: fece avvertire Lucia ed Agnese, le quali vennero all'obbedienza: Lucia
fu consegnata a Donna Margherita, e posta ai servigj di Ersilia. Don Valeriano fu molto contento
d'avere esercitata una protezione, Donna Margherita di avere in casa sua una persona alla quale potè
metter nome: quella giovane che mi è stata affidata dal signor Cardinale arcivescovo, Donna
Beatrice di vedere in sicuro una innocente, e di poterla soccorrere e consolare, Donna Ersilia,
d'avere una donna al suo servizio, con la quale potere parlare senza che le fosse dato sulla voce.
Lucia pure fu contenta di avere una destinazione che la toglieva da quel contrasto doloroso tra il
voto e il cuore; Agnese di vedere la sua figlia in salvo, e in casa di signori, e finalmente il Cardinale
di aver messa quella pecorella al sicuro dalle zanne del lupo.
Noi profittiamo di questa contentezza dei nostri personaggi d'antica e di nuova conoscenza, e
prendiamo questo momento, in cui anche la buona ed infelice Lucia trova un po' di riposo in una
qualunque conformità tra la sua situazione e lo stato dell'animo suo, per lasciarla con la sua nuova
compagnia, e parlare d'altri fatti indispensabili alla integrità della storia. Prima però di staccarci da
Federigo, non possiamo a meno di non raccontare un tratto accaduto nella visita da lui fatta in quei
contorni; perché questo racconto quale lo troviamo nel nostro manoscritto e altrove, serve assai a
dipingere i costumi di quel tempo tanto lontani dai nostri, e osservabilissimi per una certa pienezza
d'entusiasmo, per una esplosione di sentimenti, clamorosa, per un impeto veemente, come troppo
spesso al male, così pure qualche volta verso ciò che era veramente stimabile. Oltre di che Federigo
è personaggio tanto amabile, nelle sue azioni anche le più comuni v'è sempre una tale espressione di
gentilezza, di bontà, che fa riposarvi sopra la fantasia con diletto; e cogliere ogni pretesto per
rimanere il più che si possa in una tale compagnia. Che se qualche lettore osasse dire che noi ve lo
abbiamo trattenuto troppo a lungo, osasse confessare d'aver provato un momento di noja,
bisognerebbe concluderne delle due cose l'una: o che noi raccontiamo in modo da annojare anche
con una materia interessante; o che questo lettore ha un animo ineducato al bello morale, avverso al
decente, al buono, istupidito nelle basse voglie, curvo all'istinto irrazionale. Ma il primo di questi
due supposti è manifestamente improbabile, a parer nostro. Veniamo al racconto.
Dalle Chiese delle quali abbiamo parlato si era Federigo trasportato a visitar quelle della valle di
San Martino che era allora nel dominio veneto e nella diocesi milanese; e per tutto dov'egli si
andava fermando, oltre la folla dei parrocchiani, la chiesa, la piazza, la terra formicolavano di
moltitudine accorsa dai luoghi circonvicini. In una di quelle terre avendo egli sbrigate nella sera
stessa del suo arrivo, le principali faccende, aveva egli disegnato di partire prima del pranzo, per
giungere più tosto alla stazione vicina. Era la chiesa dov'egli si trovava, posta sulla cima d'un lento
pendio che terminava in una vasta pianura. Celebrati i santi misteri si volse egli dall'altare per
favellare al popolo, e stendendo dinanzi a sè il guardo che dalla elevazione dell'altare poteva
trascorrere per la porta spalancata sul pendio e nel piano sottoposto, vide dalla balaustrata del
presbitero, nella chiesa, sul pendio, nel piano, una calca non interrotta, come un selciato continuo di
teste e di volti; se non che al di fuori quella superficie uniforme era interrotta da tende alzate che
facevano parere quel luogo un campo, o una fiera; guardando poi più fisamente scerse fra quella
moltitudine abiti diversi di ricchezza e di foggia che dinotavano una varietà di condizioni e di paesi.
Chiese egli a chi lo serviva più da vicino che cosa volesse dire quel concorso; e gli fu detto che era
gente accorsa da tutta la diocesi di Bergamo, e dalla città stessa per vederlo, per udirlo. «E perché»
diss'egli, «non gli accoglieremo noi gentilmente come si conviene con ospiti?» Quindi dette alcune
parole di insegnamento e di salute ai popolani che non avendo avuto viaggio da fare avevano i
primi occupata tutta la chiesa, propose loro che facessero gli onori di casa, e cedessero il luogo a
quegli estranei che erano venuti da lontano per sentire un vescovo. La voce corse tosto per la chiesa
e per lo spazio di fuori; questi uscivano e cedevano il luogo con pronta cortesia, quegli entravano
con ritegno e con rendimenti di grazie: contadini e signori parevano in quel momento gente bene
educata. Cangiata a poco a poco l'udienza, il Cardinale parlò a quei sopravvenuti come gli dettava la
sua abituale carità, e la simpatia particolare che aveva eccitata in lui quella ardente e comune
volontà la quale egli si sforzava di credere mossa in tutto dal suo ministero e per nulla da una
inclinazione alla sua persona. Terminato il discorso, benedisse egli tutto quel concorso, lo
accomiatò, e si dispose a partire. Salito sulla sua mula, si mosse col suo seguito in mezzo a quella
moltitudine, ma dopo alquanto viaggio, quando credeva d'abbandonarla, s'avvide che la moltitudine
lo seguiva. Si volse egli allora, ristette in faccia a quella, e la benedisse di nuovo come per
congedarla ultimamente. Ma rimessosi in via, s'accorse che non era niente, e che la processione
continuava. Li fece pregare di ritornarsene, e di non aggravare inutilmente la stanchezza del
cammino già fatto, ma tutto fu inutile: gli era come un dire al fiume, torna indietro. Si erano già
fatte più miglia di cammino, l'ora era tarda, quando il Cardinale che era digiuno e già da lungo
tempo combatteva con la fame, sentendo mancarsi le forze, e visto che quel giorno gli era forza
desinare in pubblico, si fermò sulla cima d'una salita dove vide spicciare una sorgente da una roccia
che fiancheggiava il cammino: e chiese così a cavallo che gli fosse servito il pranzo. L'ajutante di
camera tolse da un cestello un pezzo di pane, e glielo presentò, Federigo lo prese indi chiese che gli
fosse riempiuto un bicchiere a quella sorgente. Mentre questo si faceva, cominciò Federigo a
banchettare, non senza un qualche pudore per tutti quegli spettatori, e chiuse il banchetto col
bicchiere d'acqua che gli fu porto. Quando tutta quella folla vide quali erano le mense d'un uomo
così dovizioso, e così affaticato, insorse un grido di maraviglia, un gemito di compunzione: e questi
sentimenti crebbero quando fra quegli accorsi alcuni i quali conoscevano più degli altri le
costumanze del Cardinale, affermarono che questo era il suo solito pranzo, quando doveva farlo in
cammino, e che quello che gli era imbandito in casa non ne differiva di molto. I poveri si
rimproveravano la loro intolleranza del disagio, i ricchi la loro intemperanza; e quivi tosto molti fra
questi distribuirono ai bisognosi i danari che si trovavano indosso. Il Cardinale così ristorato pregò i
più vicini che finalmente tornassero, e persuadessero gli altri a tornare, e alzata la mano su tutta la
turba che egli dominava da quella altura, la benedisse di nuovo, stendendo poi verso di quella
affettuosamente ambe le mani in atto di saluto. La turba rispose con nuove acclamazioni, e non
osando più resistere al desiderio di quell'uomo, si rivolse, e tornò addietro. Federigo proseguì il suo
cammino.
Venga ora un uomo ben eloquente e si provi a dare uno splendore di gloria a quel pranzo del
Cardinale, a renderlo un argomento frequente di ammirazione e di memoria: non gli verrà fatto. È
forse da dire che queste virtù di semplicità e di temperanza non danno mai alla fantasia degli
uomini di che ammirare? Non già; poiché si parla tuttavia delle magre cene di quel Curio mal
pettinato, come lo chiamò Orazio; è viva e comune la memoria del salino di Fabricio, e del suo
piattello sostenuto da un picciuoletto di corno. E perché dunque il tozzo di pane di Federigo e il suo
bicchier d'acqua non potranno ottenere una simile immortalità di gloria? Se alcuno ha in pronto una
cagione ragionevole di questa differenza, la dica; per me non ho potuto trovarne che una, ed è: che
il Cardinale Federigo non ha mai ammazzato nessuno. La più parte degli uomini, parlo degli uomini
colti, non consente ad ammirare le virtù frugali ed astinenti che in coloro i quali eccitano con virtù
feroci un'altra ammirazione di terrore: non considera quelle come virtù che quando sieno unite ad
un profondo sentimento d'orgoglio, e di disprezzo per qualche parte del genere umano. Se quel
tozzo di pane fosse stato mangiato da un generale in presenza di venti mila cadaveri, sarebbe in tutti
i discorsi, in tutti i libri; nessun fedele umanista avrebbe potuto evitare di farvi sopra almeno una
amplificazione in vita sua. Eppure la ragione dice che quel tozzo di pane, solo cibo d'un uomo che
avrebbe potuto nuotare nelle delizie, e che se ne asteneva per un sentimento profondo della dignità
umana, e per dar pane a chi ne mancava, quel tozzo di pane mangiato tra le fatiche d'un ministero di
misericordia, di pace, e di pietà, dovrebb'essere una rimembranza più cara agli uomini che non quel
salino e quel piattello che copriva la mensa d'un uomo che era sobrio per potere esser forte contra
gli uomini; che godeva di essere un povero Fabricio per essere un potente Romano. Le idee di cui si
componeva il sentimento temperante di questo erano superbe, ostili, sprezzanti, superficiali: quelle
di Federigo umane, gentili, benevole, profonde. In quello stesso convito di Pirro, dove Fabricio
diede quelle prove della sua fermezza e della sua astinenza, lasciò egli trasparire manifestamente
quel suo animo: ivi all'udire le dottrine epicuree esposte da Cinea, disse egli quelle atroci parole,
tanto lodate dagli antichi, e, chi lo crederebbe? dai moderni: «Oh Ercole!» (il santo era degno del
voto) «Oh Ercole!» diss'egli: «fa che queste dottrine sieno ricevute dai Sanniti e da Pirro fin tanto
che saranno nemici del popolo romano». Ma il nostro mangiator di pane avrebbe avuto orrore di sè ,
se avesse potuto anche un momento desiderare la perversità ai suoi nemici, ai nemici del suo
popolo. Egli desiderava la giustizia, la fortezza, la sobrietà a tutti, la desiderava per loro, per sè, per
la gloria del Dio di tutti, la desiderava, e tutta la sua vita fu spesa a promuoverla. La sua
benevolenza non era nazionale, né aristocratica, egli non aveva bisogno di odiare una parte del
genere umano per amarne un'altra: si faceva povero non per insultare, non per dominare, ma per
dividere la condizione dei suoi fratelli poveri, e per migliorarla. A dispetto di tutta la storia, di tutta
la morale, di tutta la rettorica, Federigo Borromeo era più grand'uomo che Fabricio; o per meglio
dire Federigo era veramente grand'uomo, per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì
misero sostantivo.
<B>CAPITOLO V</B>
Ho visto più volte un caro fanciullo, (vispo a dir vero più del bisogno, ma che a tutti i segnali
promette d'essere un galantuomo) l'ho visto affaccendato sulla sera, a cacciare al coperto un suo
gregge di porcellini d'India che egli aveva lasciato spaziare il giorno in un giardinetto. Il fanticino
avrebbe voluto farli andar tutti di brigata al covile, ma era fatica perduta; uno si sbandava a destra, e
mentre il picciolo pastore correva per raggiungerlo, un altro, due tre, uscivano dalla frotta a sinistra;
dopo qualche impazienza egli si persuadeva che non sarebbe riuscito a quel modo; spingeva dentro
prima i più vicini, e poi tornava a pigliar gli altri ad uno a due a tre, come gli veniva fatto. Così pure
abbiamo dovuto far noi coi nostri personaggi: per seguire Lucia nelle sue dolorose vicende, ci è
stato forza perder di vista Fermo: ora che Lucia è uscita dal pericolo, e posta in sicuro, e gli altri
tutti qual più qual meno allogati, noi torneremo indietro sulle tracce del suo promesso sposo.
L'abbiamo lasciato che s'avviava da Monza a Milano, munito d'una lettera del Padre Cristoforo ad
un padre Bonaventura, il mattino del giorno undici di novembre. Al dolore di avere abbandonata la
casa, al rancore d'averla abbandonata per la violenza d'un ribaldo, al tribolo di trovarsi tapino sur
una strada senza sapere dove si poserebbe il capo, ai patimenti, ai disagi, alle stizze, agli sconcerti
della notte passata s'era aggiunto ora un dolore, che esacerbava tutti gli altri; il distacco da Lucia, e
un pensiero che diceva: - chi sa quando ci rivedremo -. Andava dunque il povero Fermo tutto
sconsolato, pensando a tutti i suoi guai, e in capo a tutti questi pensieri si trovava sempre quel Don
Rodrigo che era la prima cagione dei guaj: e Fermo allora lo malediceva con tutti i tiranni, con tutti
i dottori, con tutti quelli che avrebbero dovuto proteggere il povero, e lo lasciavano opprimere. I
curati non li malediceva, ma ritirava da loro la sua benedizione. Si ricordava poi di Domeneddio, e
del Padre Cristoforo, questo gli accadeva ad ogni volta che si abbatteva in una qualche immagine
dipinta sur una di quelle cappellette che erano allora frequentissime su le strade: allora Fermo
tornava in sè, e si sforzava di perdonare: di modo che, in quel viaggio, egli ebbe ammazzato in
cuore Don Rodrigo e risuscitatolo almeno venti volte.
A misura che Fermo si allontanava dalle colline e si avvicinava alla città, l'aspetto del cielo e del
paese gli diveniva più triste e saturnino: di tempo in tempo la via profonda fra due ripe, solcata da
rotaje che erano diventate rigagnoli, e tutta fango negli altri spazj era presso che impraticabile: a
quei passi un sentiero erto a guisa di scaglioni su la ripa, segnava che altri passeggeri si erano fatta
una via nei campi, costeggiando quella che avrebbe dovuto essere la via.
Fermo salito il primo di questi sentieri, da quel luogo più elevato, guardando dinanzi a sè, vide la
guglia del Duomo, e ristette attonito: conobbe tosto quello che doveva essere, e ristette ancora a
rimirare, dimentico per un momento di tutti i suoi travagli e assorto in quella contemplazione:
poiché, come tutti i contadini di Lombardia, egli aveva fino dalla infanzia inteso parlare di quel
Duomo, come della maraviglia del mondo: e in allora i viaggi erano così rari, e le comunicazioni
così infrequenti, che Fermo dubitava assai se in vita sua avrebbe veduta mai quella maraviglia.
Ma dopo qualche momento d'estasi, guardandosi intorno, e seguendo la catena dei monti, vide
sorgere fra gli altri le punte del suo <I>Resegone</I> e si sentì tutto rimescolare il sangue, si mosse
macchinalmente per correre da quella parte, e tosto ravveduto gli volse le spalle, e continuò
tristamente il suo cammino. Ad ognuno in cui si abbatteva, domandava egli se quella era la via che
conduceva a Milano, non tanto per esser certo della via quanto per assaggiare quegli abitatori
sconosciuti, per sentire il loro linguaggio, giacché gli pareva di trovarsi in un paese strano, e per
dirla nel suo linguaggio pareva perduto. Gli era risposto che andava bene, ed egli continuava.
Finalmente cominciò a vedere campanili, cupole, torri, tetti e si accorse d'esser vicino. Allora
s'accostò ad un viandante che veniva da Milano, e detto umilmente: «in grazia, Vossignoria», gli
fece una domanda più precisa, e alla quale egli, con le sue idee contadinesche, stimava che ogni
milanese dovesse saper rispondere: «Dove si va», disse Fermo, «per andare dal Padre
Bonaventura?»
L'uomo a cui Fermo s'era voltato e ch'egli aveva pigliato per un cittadino, era un agiato abitante del
contorno, il quale andato quel mattino alla città per sue faccende, ne tornava senza aver fatto nulla,
e non vedeva l'ora di trovarsi a casa sua.
«Caro giovane», rispose questi con una dolcezza studiata, e dissimulando la noja che gli dava
l'essere fermato, «caro giovane, bisognerebbe che mi spiegaste più chiaramente chi è questo Padre
Bonaventura che voi cercate».
«Non lo conosce?» replicò Fermo: «è il Padre Bonaventura cappuccino».
«Ve n'ha tanti!» disse l'interrogato; «sapreste dirmi di che convento egli sia?»
Fermo allora si trasse di seno la lettera del Padre Cristoforo, e la mostrò a quel signore, il quale
letto sulla soprascritta: nel convento della Concezione in Porta Orientale, disse a Fermo: «Bravo
giovane, siete fortunato, il convento è qui vicino: pigliate questo viottolo a mancina; è una
scorciatoia: vi troverete tosto all'angolo di una fabbrica lunga e bassa: camminate lungo il
rigagnolo, e vi troverete alla porta orientale. Entrate, pigliate ancora la mancina, e dopo forse cento
passi, vedrete una piazzetta con dei bei faggi; ivi è il convento di quei buoni padri. Dio vi
accompagni». Ciò detto, fece egli un grazioso saluto con la mano, e continuò il suo cammino
lasciando Fermo stupefatto del garbo con cui i cittadini parlavano ai foresi: perché i modi, il volto,
il tuono di quel signore non erano di una semplice cortesia ospitale; v'era un non so che di riverente
e di cortigianesco; si sarebbe detto che quel signore parlava ad un uomo d'alto affare, e che voleva
farglisi vedere amico sviscerato. Ma Fermo non sapeva che quello era un giorno d'eccezione, in cui
le cappe s'inchinavano ai farsetti.
Entrò egli nel viottolo che gli era stato additato, e dopo un breve cammino si trovò all'angolo del
Lazzeretto; e dinanzi alla porta orientale.
Non bisogna però che a questo nome il lettore si lasci correre per la fantasia le immagini che ora gli
sono associate: ma che cerchi di raffigurare con la mente gli oggetti quali erano al tempo di Fermo.
Al di fuori della porta, invece dell'ampia e diritta via fiancheggiata di pioppi che si vede al presente,
una stretta e tortuosa strada la quale da principio seguiva la linea del lazzeretto, e poi correva
sghemba fra due siepi. Una portaccia sostenuta da due pilastri, coperta da una tettoia per riparare le
imposte, e fiancheggiata da una casipola pei gabellieri. A destra e a sinistra di chi entrava due salite
ai bastioni, non come ora inclinate regolarmente, fra due cordoni paralleli, ed orlate d'alberi, ma
tortuose, non battute, con una superficie ineguale di rottami e di cocci gettati a caso. Il corso, ampio
e irregolare come al presente, aveva nel mezzo un fossatello, che fra due rive erbose prosaicamente,
senza esser campestri, menava un'acqua lenta, bruna e carica d'immondizie: di modo che il corso
era partito in due strade strette e torte, coperte or di fanghiglia ora di polvere secondo l'ora del
tempo e la stagione. A pochi passi dalla porta, dove è ancora la contrada di Borghetto (chi non la
conosce è un tartaro) questo fossatello passava sotto una volta, e lasciando libero il mezzo riusciva
lungo alcune casipole a destra di chi entrava, e quindi passando in un'altra tomba, attraversava
sotterraneamente la salita del bastione, e si gettava nel fosso che lambe il muro della città. Al primo
entrare si affacciavano a destra le casipole di cui abbiamo parlato, e ch'erano abitazioni di lavandaj,
addossate all'abbazia di San Dionigi la quale occupava una parte di quello che ora è giardino
pubblico: verso il mezzo del giardino attuale v'era allora una strada che divideva il terreno
dell'abbazia dal terreno d'un monastero, di cui il chiostro rimane tuttavia in piedi, con una facciata
la quale vorrebbe dire: - sono un palazzo -, con tre altri lati che par che dicano: - siamo un casolare
dirupato -, ed un complesso che non sa bene quello che si voglia dire. Questa via era posta quasi
dirimpetto a quella di Borghetto, tuttavia esistente; nel mezzo del quadrivio era una colonna con
una croce, e si chiamava la croce di San Dionigi. Delle fabbriche poi che allora costeggiavano il
corso, ben poche rimangono ancora, e sono le più povere e disadatte: i palazzi, e le case ornate che
ora si veggono son tutte nate molto tempo dopo. Quando Fermo entrò vide la casa dei doganieri
deserta, e deserta quella prima parte del corso; e se non avesse inteso un romore lontano che
accennava un grande movimento, avrebbe creduto d'entrare in una città abbandonata. Guardandosi
indietro, come accade a chi trova solitudine dinanzi a sè, mentre aspettava di trovar folla, vide
troppe di gente che veniva. Andando innanzi lungo le case dei lavandaj, senza saper che cosa
pensare di quello che gli appariva, vide egli lunghe strisce bianche, che avrebbe credute esser neve
se fosse stata egualmente diffusa; ma erano strisce le quali terminavano a quella e a questa porta di
quelle casipole. Abbassandosi a guardare più attentamente, e toccando si accertò che ell'era farina, e
disse tra sè: - Grande abbondanza dev'essere in Milano, se in quest'anno vi si sciupa la grazia di Dio
a questo modo. - Procedendo così come trasecolato, e passando presso la croce per attraversare il
corso e incamminarsi dal lato destro, dov'era il convento, parve di vedere al piè della colonna, e
sugli scaglioni del piedestallo, certe cose sparse qua e là, che non erano ciottoli, e se fossero state
sul banco d'un fornaio, egli non avrebbe dubitato un momento di chiamarle pani: ma non ardiva
creder così tosto ai suoi occhi, perché per esser pani eran troppo fuor di luogo. Guardò più da
vicino, si abbassò, ne ricolse uno: era un pane tondo, bellissimo, e d'una pasta, di cui Fermo non ne
aveva ancor mangiato molte volte: «È pane davvero!» sclamò egli ad alta voce, tanto ne fu
maravigliato. «Così lo seminano in questo paese? e non si fermano a raccorlo quando cade? che
venga da sè come i funghi?»
Fermo aveva camminato dieci miglia, e sentiva appetito; e già al primo entrare si era proposto di
fermarsi alla prima bottega di fornajo che avrebbe incontrata: ché non sapeva che in quel giorno a
quell'ora in Milano v'era pane da per tutto quasi fuorché da' fornaj. Trovandone ora così a
proposito, stette egli un momento a pensare se gli fosse lecito profittare di quella ventura; e disse
tosto: - L'hanno gettato alla balìa dei cani che passano: è meglio che ne profitti un cristiano: alla fin
fine, se viene il padrone, glielo pagherò. - Fatto questo proponimento raccolse un pane, se lo pose in
una tasca, ne raccolse un secondo, e lo pose nell'altra; e raccolto il terzo cominciò a mangiare.
Frattanto vide gente che veniva dall'interno della città, e adocchiò curiosamente i più vicini, avido
di scoprire qualche cosa che gli rendesse chiaro quel poco che aveva veduto fino allora. Erano un
uomo e una donna che si traevano dietro un ragazzotto, tutti e tre curvati sotto una carica, e in un
aspetto strano. Avevano l'abito e il volto infarinato, il volto per sopra più stravolto, camminavano
come affaticati e dogliosi, come se fossero stati pesti, e parevano venire da qualche trambusto.
L'uomo portava a fatica su le spalle un sacco di farina, che bucato qua e là ne lasciava sfuggire degli
sprazzi ad ogni intoppo del portatore. Il ragazzotto teneva fermo sul capo con ambe le mani un
cesto colmo di pani: il ragazzotto non potendo fare il passo lungo a paro dei suoi genitori rimaneva
indietro di tempo in tempo, e quando egli affrettava il passo per raggiungerli, e giungeva balzelloni,
qualche pane cadeva. Ma la figura la più strana e la più sconcia era quella della donna. Mostrava
essa tutte le gambe fino al ginocchio, e queste gambe si vedevano uscire da un gran corpo che
procedeva barcollando; da lontano sarebbe sembrato una pancia immensa; ma Fermo vide che la
donna teneva con le due mani il lembo della gonna rivolta in su, e piena di farina, la quale pure
traboccava ad ogni passo, e lasciava il segno di quel viaggio faticoso. Mentre Fermo guatava quello
spettacolo singolare, sopraggiunsero alcuni che venivano da fuori, e accostatisi a quei caricati,
chiesero dove si andava a pigliare il pane. «Innanzi, innanzi», rispose la donna. Quando quegli
furono passati, Fermo intese la donna mormorare: «Questi foresi birboni, verranno a portarci via
tutto».
«Un po' per uno», disse l'uomo: «abbondanza, abbondanza».
«Se tu lasci ancor cadere uno di quei pani, brutto dappoco...» disse la madre, digrignando i denti, e
raggrinzando il naso verso il ragazzo, che in un salterello ne aveva seminato un paio.
«Come ho da fare?» rispose il ragazzo.
«Eh! buon per te che ho le mani impedite!» ripigliò la donna, e così dicendo, dimenò i pugni, come
se desse una buona spellicciatura al poveretto; e con quel movimento fece volare uno spruzzo di
farina, da farne più che i due pani lasciati cadere dal ragazzo.
«Via, via», disse l'uomo: «qualcheduno gli raccoglierà: abbiamo stentato tanto tempo, ora che viene
un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace».
La conversazione non si sarà probabilmente terminata a quelle parole; ma gl'interlocutori
s'allontanavano da Fermo, ed egli non potè intenderne altro.
Da quel poco però ch'egli aveva inteso, e veduto, e che vedeva tuttavia, potè egli comprendere che
il popolo era sollevato, e che quello era un giorno di conquista eroica, vale a dire, che ognuno
pigliava secondo le sue forze, dando busse in vece di danari.
Nel nostro sistema d'imparzialità, e di fedeltà storica, noi dobbiamo confessare che il primo
sentimento di Fermo fu un sentimento di compiacenza. Egli aveva tanto patito nello stato ordinario
della società; l'aveva veduto così favorevole e comodo per la iniquità, e provato così inerte e senza
ajuto per la ragione debole, che si sentiva naturalmente inclinato ad ogni cosa che lo rivolgesse, e lo
cangiasse. Il cangiamento al far dei conti, poteva essere un male peggiore, ma intanto non era più
quel male di prima, ma intanto i pari di Don Rodrigo, si trovavano una volta nelle angosce che
avevano date agli altri, e i pari di Fermo facevano valere le loro ragioni. Per altra parte Fermo,
come tutti quelli che avevano sofferto della carestia, ne accagionava principalmente la scelleratezza
di alcuni, e la negligenza crudele, o la connivenza di alcuni altri; e gli pareva giusto che la forza
venisse in ajuto della parte oppressa dalla scelleratezza e dalla connivenza. Gli passava bene per la
mente che quella cuccagna non sarebbe stata che pei birboni più vigorosi e più svergognati, che i
veri languenti per fame non si sarebbero gettati in quel tumulto, e così la parte la più debole e la più
degna di soccorso avrebbe continuato a patire, e in quel giorno principalmente sarebbe stata
forzatamente priva anche dei soccorsi della carità volonterosa, ma impotente; vedeva bene col suo
buon senso che quell'orrendo sciupio non avrebbe certo diminuita la scarsezza, e che quella farina
calpesta per le vie non sarebbe più andata in nutrimento di nessuno; ma queste riflessioni fugaci, e
quasi inavvertite non bastavano a soffocare quel gaudio del garbuglio e dell'anarchia che si alzava
nel cuore buono, ma irritato, e nella mente non perversa ma pregiudicata di Fermo. Nulladimeno
egli propose di starsene fuori, e si rallegrò di essere raccomandato ad un cappuccino; il quale gli
darebbe ricovero, e buoni pareri.
Passato dinanzi alla croce, si portò egli sulla sinistra del corso, camminando lentamente verso il
convento: ad ogni passo vedeva egli arrivare nuova gente alla rinfusa; altri trionfante e carico delle
spoglie, altri che quatto quatto si ritirava dal tumulto. Dove sorge ora quel bel palazzo con una
ampia loggia v'era allora, e v'era ancora non son molti anni, una piazzetta, e in fondo ad essa la
chiesa dei cappuccini, e la porta del convento: noi facciamo i nostri complimenti a quei lettori i
quali non hanno veduto niente di tutto questo; ciò vuol dire che son molto giovani; ed essendo al
mondo da poco tempo avranno fatto anche poche minchionerie.
Quel compito signore a cui Fermo aveva domandato del Padre Bonaventura gli aveva dato così
chiaro indirizzo che era impossibile andare in fallo: del resto tutte le chiese e i conventi dei
cappuccini avevano come una fisonomia speciale, e chi ne aveva veduto uno ne avrebbe
riconosciuto un altro a prima vista. Fermo s'avvicinò alla porta, cavò la lettera di seno, e tirò il
campanello. S'aperse lo sportello, e il portinajo alla grata domandò chi era.
«Uno di fuori che ha una lettera pel padre Bonaventura», rispose Fermo.
«Non è in convento», disse il portinaio.
«Mi lasci entrare, e starò ad aspettarlo», replicò Fermo.
«Fate una cosa», disse il frate: «andate ad aspettare in Chiesa, o dove volete, che per ora non si
entra»; e, detto questo, chiuse lo sportello.
Fermo rimase interdetto: egli si era proposto quel convento come un punto di riposo, e un ricovero
dai pericoli di una città nella quale egli non conosceva nessuno, non aveva che fare, e che era in
tumulto. Sulla prima egli volle seguire il consiglio del portinajo, e ricoverarsi in chiesa; ma lo
spettacolo di quella moltitudine sciolta da ogni legge, di quella attività clamorosa, di quella
fratellanza di tanti che non avevan fra loro altra relazione che la complicità di quel momento, lo
attirava; la curiosità vinse, e Fermo disse fra sè: - andiamo a vedere -. Mentre egli si avvia tra la
folla al centro della città e del trambusto, noi parleremo brevemente, se sarà possibile, delle cose
che furono l'origine e il pretesto di esso.
Era quello il secondo anno di scarso raccolto: nel primo era stata piuttosto scarsità che carestia: le
provvigioni rimaste degli anni grassi antecedenti avevano supplito tanto o quanto al difetto di
quello, e la popolazione era giunta al nuovo raccolto, non satolla, e non affamata; ma certo affatto
sprovveduta. Ora, il nuovo raccolto nel quale erano riposte tutte le speranze, fu scarso, come
abbiam detto, e lo fu d'assai più del primo, in parte per maggiore contrarietà delle stagioni, e in
parte per colpa orrenda degli uomini. Si guerreggiava allora in Italia, e non lontano dal Milanese; il
quale si trovò soggetto ad alloggiamenti di truppe e a gravezze straordinarie. Queste furono tanto
intollerabili, e le estorsioni, le rubberie, il guasto della soldatesca portati a tal segno, che molte
possessioni rimasero abbandonate, molte campagne incolte, e molti contadini andarono accattando
quel vitto che avrebbero procacciato a sè e ad altri col lavoro delle loro braccia. E dove pure s'era
coltivato, le seminagioni erano state scarse, perché l'agricoltore, tentato dall'urgente bisogno aveva
sottratta e consumata una parte e la migliore del grano che doveva esser destinato a quelle.
Ottenuto appena il raccolto, la guerra stessa che era stata la principale cagione a renderlo scarso, fu
la prima a divorarne una gran parte. Le depredazioni parziali, le provvigioni per l'esercito, e lo
sprecamento infinito delle une e dell'altre fecero tosto un tale squarcio in quel misero raccolto, che
la fame fu preveduta, quasi sentita sotto la messe stessa. I territorj che circondano il milanese, in
parte afflitti dalla guerra, e tutti dalla sterilità comune di quell'anno, non lasciavano speranza di
cavarne ajuto di viveri. Sorse quindi quel sentimento di ansia e di terrore nei più, di gioja avara e
crudele in alcuni, che nasce da una cognizione confusa ma viva della sproporzione tra il bisogno di
nutrimento, e i mezzi di soddisfarlo, tra il grano e la fame: e questo sentimento produsse il suo
effetto naturale, inevitabile: la ricerca premurosa, e l'offerta stentata del grano; quindi il
rincaramento.
Questa sproporzione è uno di quei mali che spaventano la terra, perché pesano ad un tempo sur una
moltitudine: quando un tal male esiste, i migliori mezzi per alleggerirlo (giacché toglierlo non è in
potere dell'uomo) sono tutte quelle cose che possono diffonderlo più equabilmente, farne sopportare
al maggior numero, a tutti i viventi, se fosse possibile, una picciola porzione, affinché nessuno ne
abbia una porzione superiore alle forze dell'uomo, fare che quel male sia un incomodo per tutti
piuttosto che l'angoscia mortale per molti, e la morte per alcuni. Quindi il primo, il più certo, e il più
semplice mezzo di alleggiamento comune è l'astinenza volontaria dei doviziosi, che si privino di
una parte di nutrimento per lasciarne di più alla massa del consumo universale. Poi tutto quello che
può aumentare nelle mani degl'indigenti i mezzi di acquistarsi il vitto, in proporzione dell'aumento
delle difficoltà, cioè del rincaramento. Aumento quindi delle mercedi, e nuovi guadagni offerti per
mezzo di nuovi lavori ai molti a cui cessano in quelle circostanze i lavori e i guadagni usati. Questo
mezzo però sarebbe uno scarso rimedio, sarebbe anzi un accrescimento del male, se non fosse
accompagnato dalla cura attenta, assidua di somministrare il vitto anche a quei molti che per
debolezza, o per infermità non lo possono ottenere col lavoro: si avrebbero allora dei lavoratori ben
nutriti, e degli impotenti morti di fame: e la beneficenza sarebbe crudele per molti. A questi ultimi
non si può provvedere altrimenti che con l'elemosina tanto sapientemente comandata dalla
religione: quella elemosina di cui molti scrittori hanno enumerati, e censurati amaramente gli abusi.
Nè a torto; poiché è utile scoprire e censurare gli abusi dovunque s'intrudano: è però cosa trista e
dannosa che in un soggetto di tanta importanza non si sieno quasi considerati che gli abusi; e
sarebbe da desiderare che alcuno pigliasse la bella e forse nuova impresa di ragionare del buon uso
della elemosina, di mostrare com'ella sia uno dei mezzi più potenti, più semplici, e certo più
irreprensibili a tutti quei fini che si propone una saggia e ragionata economia pubblica.
Questi che abbiamo accennati sono certamente i principali e più sicuri rimedj alla penuria delle
sussistenze; e quando si fossero posti in opera, il meglio da farsi, sarebbe sopportare quella parte
inevitabile di patimento con tranquillità, e con rassegnazione, giacché tutte le ire, tutte le
declamazioni, tutti i falsi ragionamenti non ponno far nascere una spiga di frumento né accelerare
di cinque minuti il nuovo raccolto che deve mettere alla disposizione degli uomini una nuova massa
di sussistenze.
Ma oltre i mezzi per render tollerabile quel male, ve n'ha pur troppo, e moltissimi, per esacerbarlo,
per accrescerlo, per rendere più trista e complicata una situazione che lo è già tanto per sè; e questi
mezzi sono stati per l'ordinario più adoprati dei primi; e si possono ridurre a due capi principali: le
idee del popolo, e i provvedimenti dei magistrati. Nella epoca di cui parliamo, le idee e i
provvedimenti concorsero potentemente a produrre quel tristo effetto in un grado singolare.
Nei tempi di carestia, la carestia è il soggetto di tutti i discorsi: fatto ben naturale, ma degno di
molta osservazione, e di commento. Tutti ragionano delle cause del male, tutti propongono i veri
rimedj, tutti dissertano di principi generali, di commercio, di monopolio, di accapparramento, di
importazione, di esportazione, di circolazione. Ma la maggior parte non si è occupata mai in vita
sua di questa materia: i primi pensieri sono giudizj, e l'applicazione dei principj precede alla ricerca
di essi. Guaj allora a quegli che hanno pensato a questi principj nel tempo in cui nessuno vi
pensava; guaj a quegli che danno più degli altri un senso preciso a quelle parole che tutti
proferiscono, guaj a quegli che hanno esaminati con una vista generale i fatti che sono l'argomento
della discussione comune! Essi soli non sono ammessi a parlare: essi debbono vedere
pazientemente discorrere i sofismi precipitati, e baldanzosi della ignoranza, perché chi può fermare
il sofisma? la ragione in bocca loro è paradosso, e quando non si avesse altro da opporle, basterebbe
quella accusa che le si fa di essere stata sui libri. La parola che suona alto, che signoreggia in quelle
dolorose circostanze è quella della irriflessione: ma cessata la carestia, cessano tutti i discorsi:
nessuno ne vuol più parlare né sentire a parlare: i libri, se quell'epoca ne ha prodotti che trattino di
quella materia, sono per lo più un soggetto di contraddizione per un momento, e rimangono dopo
quasi dimenticati: la società è in quel caso simile ad un povero scapestrato, il quale trovandosi
all'estremo, non ha parlato d'altro che di novissimi e di penitenza: convalescente accoglie ancora il
prete per urbanità; guarito allontana da sè tutti i pensieri di quel momento del terrore.
Cessi il cielo che alcuno rinfacci ostilmente l'ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri
né ozio, l'irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo lavoro. Ma quegli che
meritano rimproveri acerbi, e severi, quegli che per bene loro e d'altrui vorrebbero essere
sborbottati come ragazzacci caparbj, tanto che si correggessero, sono coloro, i quali potrebbero
meditare a loro agio sui fatti simili, esaminare le conseguenze, i giudizj, i sistemi che ne hanno
cavati gli scrittori, pesare le osservazioni e le opinioni, e procacciarsi così una opinione ragionata; e
non lo fanno mai; ma al momento del serra serra escono in campo a sentenziare furiosamente,
cominciano a pensare con la voce e studiano dalla cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le
voci che nascono da un antico pensiero, ripetono, in un linguaggio meno incolto e più strano i
giudizj storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed accrescono la stortura e la passione,
si oppongono ferocemente a tutti quei raziocinj che potrebbero illuminare l'opinione dell'universale
sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare
quelle risoluzioni che lo peggiorano: e infervorati in queste degne imprese, non si spaventano col
pensiero della loro ignoranza; anzi ne cavano argomento di gloria, e di fiducia; e a tutte le
obiezioni, (o alla metà delle obiezioni perché di rado lasciano terminare una frase ad un
galantuomo) rispondono con quell'inverecondo sproposito: «noi non vogliamo teorie»; non
riflettendo nemmeno che quelle che essi sputano tutto il dì sono pur teorie, diverse da quelle dei
loro avversarj, in ciò soltanto che non sono fondate sulla cognizione, o almeno sulla ricerca dei
fatti.
Le storture del popolo, e di questi che abbiamo detto intorno alla carestia sono moltiplici per sè, e
infinite nelle loro applicazioni e nei loro rivolgimenti; molte si possono vedere enumerate in alcuni
libri che le hanno esaminate e ribattute con più sagacità e pazienza che profitto; ma si possono forse
ridurre a due capi principali. Il primo è l'opinione che il male non esista, che il difetto di sussistenze
sia soltanto una apparenza nata da combinazioni perfide degli uomini. Questa opinione viene
sempre espressa e ripetuta con una formola concisa, come tutte quelle che racchiudono un errore o
un equivoco: - il grano c'è -. Proposizione ambigua che può intendere una verità fatua e
inconcludente, o una affermazione temeraria e fanatica. Poiché se con quelle inconsiderate parole si
vuol dire che esiste una indeterminata quantità di biade, si dice il vero, ma che cosa s'insegna? che
cosa si vuol concludere? quella non è, né può essere la questione. Ognun sa che i grani si
raccolgono una volta l'anno, o a certe distanze, e che si consumano alla giornata: tra l'un raccolto e
l'altro ci debbe dunque esser grano più o meno: se non ce ne fosse assolutamente, non si parlerebbe
più di stentare, ma di morire, e tutti, e in pochi giorni. Se poi dicendo: - il grano c'è -, s'intende
(come s'intende) che ne esista una quantità eguale al consumo ordinario, proporzionata al bisogno, o
al desiderio della popolazione; come mai una tal cosa si afferma senza conoscere, senza poter
conoscere, senza cercar di conoscere il fatto su cui si forma il giudizio: la quantità del grano
esistente? Eppure un fatto che con le più minute indagini, coi calcoli più scrupolosi, con l'esame il
più freddo non si conosce mai con precisione, è continuamente affermato con sicurezza, senza
indagini, senza calcoli, senza esame: un fatto che appena si può conoscere approssimativamente per
gli indizj del prezzo, della ricerca, della distribuzione, del consumo, si afferma assolutamente contra
la testimonianza di tutti questi indizj.
L'altra stortura, conseguente da questa, e pur madornale è nel supporre che il male sia il caro prezzo
del grano: mentre questo non è che un effetto del male vero, la sproporzione tra il grano e il
bisogno; è un effetto, e un doloroso, deplorabile, funesto, acerbo, accumulate quanti epiteti vorrete;
non saranno mai troppi; ma il sostantivo è: rimedio. Il caro prezzo è un rimedio, considerato
parzialmente per un territorio, perché vi attrae il grano dai paesi dove è meno scarso, e quindi a
minor costo: è rimedio considerato generalmente, perché, forzando pur troppo migliaja d'uomini a
diffalcare una parte del consumo ordinario, è cagione che si risparmj, si distribuisca per tutto l'anno
fino al raccolto la scarsa e mancante vittovaglia. Se una forza qualunque, potesse illudere,
addormentare fino alla fine tutti i terrori, tutte le cupidigie, di modo che in un anno scarso
generalmente, il prezzo rimanesse basso come negli anni abbondanti, ne avverrebbe certamente che
il consumo, fin che grano vi fosse, sarebbe eguale a quello degli anni abbondanti: si viverebbe
lietamente a discrezione per qualche tempo: e l'ultimo effetto di questo terribile beneficio sarebbe di
fare sparire tutta la provvigione qualche mese prima del raccolto.
Il linguaggio di coloro che hanno ben fitte in testa queste due storture è accetto al popolo che
patisce; e la cosa è troppo naturale: non riconoscendo il male nella natura delle cose, attribuendolo
tutto alla perversità umana, essi mostrano nello stesso tempo una compassione che pare più sincera
per chi soffre, un grande orrore per chi fa soffrire, e fanno sempre intravedere la possibilità d'un
rimedio pronto ed assoluto.
Ma quegli i quali veggono chiaramente la realtà del male, non hanno cose gradite da dire a chi lo
sopporta; poiché chi dopo d'aver suggeriti alcuni rimedj per minorare il male, confessa che molto è
senza rimedio, e raccomanda la rassegnazione, può difficilmente far credere che compatisce; chi
nega all'addolorato che la causa prima, unica del suo dolore sia nella volontà scellerata di alcuni,
converrà che abbia ben fama di onesto e di umano perché l'addolorato si contenti di crederlo cieco e
insensato, e non lo chiami atroce, fautore, complice di quelli che creano il dolore. Sono i
chiaroveggenti, in quel caso, come un medico, che giunga al letto d'un infermo circondato da una
famiglia amante e ignorante, dove si trovi un ciarlatano il quale assevera che il male è tutto nella
cecità o nella impostura dei medici, e ch'egli tiene un'ampollina dov'è la salute. Se il medico il quale
vede che la malattia è incurabile, si lascia uscire dalla chiostra dei denti questo suo parere, la
famiglia lo riguarderà come un pazzo crudele che desidera di veder morire le persone.
Queste false idee che a malgrado di tanti scritti ragionati, e dell'aumento di tante cognizioni, vivono
tuttavia latenti e come addormentate nella mente di moltissimi, pronte a ricomparire quando una
penuria (che Dio tenga lontana) dia loro occasione di mostrarsi, erano ben più universali, più
pertinacemente tenute, più furibondamente applicate nei tempi della nostra storia; nei quali
l'ignoranza era tanto più generale, e la scienza che era pure di pochi, consisteva in un
peripateticismo inteso come si poteva, e applicato come si voleva a tutte le quistioni possibili di
ogni genere, in tempi in cui non esisteva ancora l'economia politica, voglio dire la scritta e ridotta in
trattati, perché l'economia politica di fatto esiste nella società necessariamente, più o meno
spropositata.
Gli sventurati abitanti della campagna avevano veduta la scarsità del raccolto, avevano vedute e
sofferte le atroci dissipazioni della soldatesca, e gli sventurati abitanti della città le avevano pure
intese raccontare: ma quando la carestia cominciò a farsi sentire, né gli uni né gli altri volevano
accagionare di un tanto male una causa passata, e irrevocabile. Come se non avessero veduto nulla,
o tutto dimenticato, essi attribuivano il caro prezzo soltanto alla crudele ingordigia di quegli che
possedevano il grano. E una circostanza speciale avrebbe dovuto pure avvertirli di esaminare più
freddamente, se l'esame freddo fosse possibile in quei casi. L'anno antecedente era pure stato
scarso; e si era per tutto quell'anno gridato contra gli accapparratori come contra la sola cagione
della carezza; si era detto che il grano abbondava, ma era tenuto chiuso, stivato, murato nei granaj
degli avari.
Ora l'anno era passato, si era fatto il nuovo raccolto; sarebbe stata cosa molto naturale ricercare se
quel grano era stato finalmente venduto, o no. Nel primo caso, avrebbero dovuto gli uomini
conchiudere che s'erano dunque ingannati nell'affermare che il grano abbondava, poiché s'era
venduto a caro prezzo fino al raccolto, appena aveva bastato. Che se il grano dell'anno antecedente
non era venduto, esisteva dunque; i capitali degli avari, i granaj erano occupati; come dunque
potevano essi fare ancora nuove incette? Ma la popolazione sfogando sempre il suo dolore con
imprecazioni, non pensava che le ultime contraddicevano alle prime. Si diceva anche che molti
accapparravano i grani per ispedirli in altri paesi; e in questi altri paesi si gridava che i grani erano
spediti a Milano. Tutti quelli che ne possedevano, erano oggetto di minaccia e di abbominazione: i
possessori che non lo vendevano erano tiranni, quegli che lo comperavano per rivenderlo, i fornaj
che ne facevano provvista, scellerati che volevano ritirarlo dal commercio e imporgli il prezzo che
sarebbe piaciuto alla loro avidità. Che ognuno provvedesse la quantità che poteva essergli
necessaria fino al raccolto, era cosa impossibile. Quindi se la popolazione avesse voluto o potuto
rendersi un conto esatto delle sue idee, e dei suoi desiderj, avrebbe trovato ch'ella voleva che il
grano non fosse in nessun luogo. Il prezzo straordinario al momento stesso del raccolto, crebbe
nell'autunno, crebbe straordinariamente al cominciare dell'inverno, e col prezzo crebbe il fremito e
il clamore del popolo, il quale accusava già apertamente i magistrati di negligenza, anzi di
connivenza con coloro che lo affamavano.
Non è però da dire che i magistrati non facessero dalla parte loro molti spropositi, ma questi erano
in numero e in grossezza, ancora ben lontani dai desiderj e dalle richieste del popolo. Il maneggio
delle cose forza a riflettere anche quelli che sono più nemici della riflessione; e chi deve operare o
comandare direttamente, scorge talvolta anche a mal suo grado, anche chiudendo gli occhi,
l'impossibilità o l'assurdità d'un provvedimento, che è domandato con furore dai molti che lo
stimano giusto, e lo credono agevole. Oltre di che l'effetto immediato di quegli spropositi era di
esacerbare la condizione universale; si sentiva crescere il male; e l'aumento si attribuiva non già alla
efficacia funesta degli spropositi fatti, ma al non farne abbastanza. Era stato tassato il prezzo
massimo del riso, a lire quaranta imperiali il moggio per la città di Milano: la conseguenza fu che
quegli che possedevano riso, e potevano venderlo a molto maggior prezzo per tutto altrove, non ne
spedirono più un grano alla città; e questa si trovò senza riso. Altro editto che tassa il riso allo
stesso prezzo massimo per tutto lo stato: altra conseguenza, che i possessori ricusino di vendere ad
un prezzo comandato, quella merce a cui la rarità ne ha assegnato un maggiore. Ordine di vendere il
genere a chiunque ne offra il prezzo tassato: industria dei possessori a nasconderlo per poter
rispondere: «non ne ho». Pene severe, indeterminate, arbitrarie a chi lo nasconde: nuova industria,
nuovi aguzzamenti d'ingegno, nuovi trovati per evitare le pene, senza esser danneggiato.
Comparvero allora, come dovevano comparire, di quegli uomini, i quali conoscono a perfezione
l'arte di eludere gli editti, arte tanto più facile, quanto più gli editti sono assurdi. Costoro osservato
lo stato delle cose, fatte le loro ragioni, trovarono che comperando il riso ad un prezzo molto
maggiore dell'assegnato arbitrariamente si poteva fare ancor molto guadagno: offersero quel prezzo
ai possessori, i quali non rispondevano di non aver riso da vendere a chi lo pagava più di quello che
comandava la legge. Questi nuovi compratori, trovavano poi il modo di rivendere il riso a maggior
prezzo agli stati vicini, dove non v'era tassa, o di conservarlo nascosto in onta degli editti: il modo
consiste, come ognun sa, nello studiare non tanto la volontà unica donde è uscita la legge, quanto le
volontà moltiplici, varie, più vicine che debbono eseguirla, e nel trovare i mezzi di eludere queste
volontà, o di comperarne la complicità.
Quello che si è detto del riso accadeva di tutti gli altri grani: come il possederli, il farne commercio,
era un rischio dell'avere e della persona, un soggetto di terrore, un peso di sospetto pubblico, quasi
un marchio d'infamia, così avvenne che questo commercio non fosse quasi più ricercato che dagli
uomini i più esperti ad eludere il rischio, i più agguerriti contra l'odio e contra l'infamia; i quali
sapevano come tutte queste cose, affrontate e sofferte con una certa sapienza particolare possono
fruttare danari.
La scarsità del frumento, e i mezzi posti in opera per renderlo più comune lo avevano fatto salire ad
un prezzo esorbitante. Si vendeva cinquanta lire il moggio, se crediamo al Ripamonti allora vivente:
settanta anzi ottanta se vogliamo stare al detto di Alessandro Tadino, medico riputatissimo di quei
tempi che scrisse anch'egli (a dir vero con le gomita) una storia della peste, e della carestia che
l'aveva preceduta. Ma supponendo anche esagerata l'asserzione di quest'ultimo, il prezzo attestato
dal Ripamonti era tale da porre in angustia una gran parte della popolazione.
I mali nei loro cominciamenti, producono nell'uomo, generalmente parlando, una irritazione più
forte del dolore. Sclama egli da prima che i mali sono intollerabili, che sono giunti all'estremo, e
tanto fa, tanto s'ingegna, tanto s'arrabatta, che coi suoi sforzi crea egli questo estremo che
naturalmente non sarebbe arrivato: s'accorge allora che si può soffrire molto di più di quello ch'egli
aveva creduto dapprima, ogni nuovo colpo gli rivela una nuova facoltà di patire e di accomodarsi,
ch'egli non sospettava in se stesso; e salta per lo più dalla rabbia all'abbattimento senza aver toccata
la rassegnazione.
Per sua sventura il popolo milanese trovò in quella occasione l'uomo secondo i suoi desiderj, l'uomo
che partecipava delle sue idee, e che assecondandole gli procurò una gioja corta e fallace, a cui
doveva succedere, un nuovo dolore senza disinganno, un nuovo furore, l'ebbrezza del delitto, lo
spavento delle pene, e quindi la tranquillità stupida della disperazione impotente.
Il Governatore di Milano, Gonzalo Fernandez di Cordova, si trovava allora a campo sotto Casale
per una guerra, atroce nella condotta, orrenda nelle conseguenze, e nata da certi pettegolezzi, dei
quali parleremo più tardi e più laconicamente che sarà possibile. Nella sua assenza, governava lo
stato il gran cancelliere Antonio Ferrer. Questi stordito dai richiami continui e crescenti del popolo,
stordito dal vedere che tutti i provvedimenti già dati invece di togliere il male lo avevano
accresciuto, non sapendo più che fare, e persuaso che qualche cosa bisognava pur fare, s'appigliò al
partito di quelli che non veggono nelle cose reali un elemento ragionevole di determinazione: fece
un'ipotesi. Suppose che il frumento si vendesse trentatrè lire il moggio, né più né meno. Ammessa
l'ipotesi, tutte le cose si raddrizzavano, e correvano a verso. Il prezzo del pane si trovava
proporzionato alle facoltà della massima parte, cessavano quindi i patimenti, le minacce, le
angustie; era un altro vivere. Animato e rallegrato dallo spettacolo che la sua fantasia aveva creato,
Antonio Ferrer, fece un altro passo: pensò che quel lieto vivere si sarebbe ricondotto, se si fosse
potuto far discendere il pane al prezzo corrispondente a quel prezzo ipotetico del frumento.
Procedendo col pensiero, trovò che un suo ordine poteva produrre questo effetto; e conchiuse che
bisognava dar l'ordine. Il poveruomo non badò che cosa fosse conchiudere dal supposto al fatto,
operare come se le cose fossero in un stato diverso da quello in cui erano: non pose mente a
distinguere che quel tale prezzo moderato era un bene in quanto fosse stato conseguenza naturale
della proporzione tra la ricerca, e la quantità esistente, ma non un bene per sè, e in ogni modo. Non
pensò a niente di tutto questo: fece come una donna di mezza età che per ringiovinire alterasse la
cifra della sua fede di battesimo. L'ordine fu dato, promulgato, ed eseguito.
Ordini meno iniqui e meno insani avevano trovato nelle volontà, nella natura stessa delle cose,
ostacoli invincibili, ed erano rimasti senza esecuzione, ma alla esecuzione di questo vegliava il
popolo il quale come era ben naturale l'aveva accolto con un grido di esultazione; e vedendo
finalmente esaudito e convertito in legge il suo desiderio, non sofferiva che fosse da burla. Il popolo
accorse tosto ai forni a domandare il pane a quel prezzo legale, e lo domandò con quell'aria di
risolutezza e di minaccia che danno la forza e la legge insieme unite.
Se era naturale che il popolo esultasse, non lo era meno che strillassero i fornaj: un politico avrebbe
potuto dire che quello era il caso di fare soffrire un picciol numero per sollevare e tranquillare una
gran moltitudine: ma il male era che questo picciol numero era appunto quello che doveva, e che
poteva solo dare in fatto quello che la legge comandava e prometteva in parole: e a produrre
l'effetto non bastava che i fornaj avessero ricevuto un ordine preciso, non bastava che avessero
molta paura, che fossero disposti a sopportare l'ultima rovina delle sostanze per salvare la persona:
era necessario che potessero. Ora la cosa comandata era non solo dolorosa per essi, ma diveniva di
giorno in giorno più difficile; ma doveva arrivare un momento in cui sarebbe stata impossibile. Il
popolo stesso affrettava questo momento: quantunque gridasse risolutamente e tenesse
confusamente che quel prezzo stabilito era equo, ragionevole, sentiva però anche confusamente che
esso era come in guerra con tutto il resto delle cose, che era l'effetto d'una volontà e non della
natura, e prevedeva pure confusamente che la cosa non avrebbe potuto andar così sempre, né a
lungo.
Approfittava quindi del momento di baldoria, assediava continuamente i forni, come dice il
Ripamonti, si affaccendava a carpire quel pane che gli era dato quasi da una ventura momentanea, e
la sua pressa indiscreta gareggiava con la fretta e col travaglio dei fornaj. Così quella cieca
moltitudine consumava improvidamente in poco tempo, e sparnazzava in parte la scarsa e preziosa
provvigione la quale però doveva servirgli per tutto l'anno. I fornaj costretti ad affacchinare e a
scalmanarsi per discapitare, ponevano in opera tutte le arti per far perder tempo ai chieditori di
pane, senza irritarli all'estremo, adulteravano il pane con tutte quelle sostanze, che senza troppo
lasciarsi distinguere, ne accrescessero il peso, e intanto non rifinivano di domandare che la legge
fosse abrogata. Ma Antonio Ferrer stava immoto a tutti i richiami, come Enea agli scongiuri di
Didone.
Generalmente parlando è impresa delle più ardue quella di smuovere un uomo da una sua ipotesi:
con meno fatica gli si farà rinnegare l'evidenza dei fatti, perché finalmente l'evidenza l'ha trovata;
ma l'ipotesi l'ha fatta egli; e l'ha fatta non per ozio né per ispasso, ma per un gran bisogno che ne
aveva, per uscire da un impaccio. Oltre questa cagione generale, si può supporre senza temerità che
quell'uomo, benché dagli effetti avesse dovuto conoscere quanto il suo ordine era stato pazzo, non
voleva rivocarlo egli, e perdere così tutto il favore del popolo anzi cangiarlo in furore; giacché
certamente il popolo l'avrebbe creduto subornato e corrotto se avesse tolto ciò che egli aveva
stabilito come giusto. Prevedeva egli dunque che la cosa non sarebbe durata, ma lasciava ad altri la
briga di dichiararla cessata legalmente. Come però spesse volte bisogna rispondere qualche cosa ai
richiami che non si vogliono soddisfare, Antonio Ferrer rispondeva ai fornaj, a tutti quelli che per
uficio erano costretti parlargli dello stato angustioso delle cose, rispondeva che i fornaj avevano
guadagnato assai assai in passato, e che era giusto che tollerassero allora quella picciola perdita. I
fornaj repplicavano che non avevano fatti questi guadagni, e che non potevano più reggere alla
perdita presente; Antonio Ferrer, ripigliava che avrebbero guadagnato nell'avvenire, che sarebbero
venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto.
<B>CAPITOLO VI</B>
Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due difetti: d'esser troppo corto, e
d'esser troppo lungo; di passare troppo tardamente, e d'essere passato troppo in fretta: ma la cagione
primaria di questi inconvenienti è negli uomini stessi, e non nel tempo, il quale per sè è una gran
bella cosa: ed è proprio un peccato che nissuno finora abbia saputo dire precisamente che cosa egli
sia.
In questo caso però il tempo non poteva essere d'alcuno ajuto, anzi a dir vero, gl'inconvenienti
erano di quelli che col durare si fanno più gravi. I fornaj avevano protestato fin da principio, che se
la legge non veniva tolta, essi avrebbero gettata la pala nel forno, e abbandonate le botteghe; e non
lo avevano ancor fatto, perché sono di quelle cose alle quali gli uomini si appigliano solo
all'estremo, e perché speravano di dì in dì che Antonio Ferrer gran cancelliere sarebbe restato
capace, o qualche altro in vece sua. Alla fine, i Decurioni (un magistrato municipale) vedendo che
la minaccia de' fornaj sarebbe divenuta un fatto, scrissero al governatore ragguagliandolo dello stato
delle cose, e chiedendogli un provvedimento. Probabilmente il Signor Gonzalo Fernandez di
Cordova avrà avuto molto a cuore di trovare un mezzo per nutrire stabilmente molti uomini; ma in
quel momento impedito egli e assorto in una faccenda più urgente, quella di farne ammazzare molti
altri, non potè occuparsi della prima, e ne diede l'incarico ad una commissione, ch'egli compose del
presidente del Senato, dei presidenti dei due magistrati ordinario e straordinario, e di due questori.
Si riunirono essi tosto, o come si diceva allora spagnolescamente, si giuntarono: e dopo mille
riverenze, preamboli, sospiri, proposizioni in aria, reticenze, tergiversazioni, spinti sempre tutti
verso un punto solo da una necessità sentita da tutti, conscj che tiravano un gran dado, ma convinti
che altro non si poteva fare, conchiusero ad aumentare il prezzo del pane, riavvicinandolo alla
proporzione del prezzo reale del frumento; e si separarono nello stato d'animo d'un minatore che
avesse dato fuoco ad una mina non caricata da lui, prevedendo bene uno scoppio, ma non sapendo
né quando né quale egli sarebbe.
Questa volta i fornaj respirarono, ma il popolo imbestialì: s'era già avvezzo a quel vantaggio che
aveva apportato l'editto del gran cancelliere; e cominciava già a trovare che il vantaggio era troppo
scarso, che la giustizia non era intera; e aspettava ad ogni nuova deliberazione che il prezzo sarebbe
ancora diminuito. Il sentimento di furore che produsse l'aumento, fu universale: questo sentimento
veniva espresso da migliaia d'uomini con lo stesso impeto, con la stessa intensità, con le stesse
parole. La sera del giorno che precesse a questo in cui Fermo arrivò in Milano, le vie, le piazze
erano sparse di crocchj, nei quali conoscenti, e ignoti parlavano altamente d'un fatto comune nel
quale avevano dolori e idee comuni. Migliaja d'uomini si coricarono quella sera dopo d'aver dette
ed udite molte volte le stesse frasi, e si svegliarono il mattino vegnente con una persuasione piena e
fervida che si faceva loro un torto tirannico, con un impulso indeterminato ma potente a far qualche
cosa, e con la confidenza che fra tanti unanimi la cosa da farsi si sarebbe determinata.
Fra queste migliaja vi aveva alcuni i quali meno irritati, pensarono con gioja che in quel giorno
l'acqua sarebbe stata torbida, e si sarebbe potuto pescare, e fecero proponimento di non lasciarla
posare fin che non fosse fatta la pesca.
I crocchj precedettero l'aurora: fanciulli, donne, uomini, vecchj, operaj, mendichi, si ragunavano a
caso, e cominciavano o proseguivano naturalmente lo stesso discorso: qui erano voci confuse di
molti parlanti, là uno predicava, e gli altri applaudivano: da per tutto racconti diversi ma
egualmente violenti delle cabale e delle iniquità che avevano macchinato il nuovo editto: da per
tutto lo stesso linguaggio di lamenti, d'imprecazioni, di minacce; e da per tutto per ultima
conseguenza una parola la più moderata nel suono, ma la più forte, quella che esprimeva la cosa, e
la faceva: così non può andare. Non mancava più che una occasione, un avvenimento, un
movimento qualunque per ridurre a fatti quelle parole; e l'occasione non si fece aspettar molto.
Uscivano secondo il solito dalle botteghe dei fornaj quei fattorini che con una gerla carica di pane
andavano a portarne la quantità convenuta, ai monasteri, alle case dei ricchi, insomma (per dirla con
un termine milanese, che la lingua toscana dovrebbe ricevere poiché non è altro che una
applicazione speciale e analoga d'un vocabolo toscano) alle poste loro. Uno di questi passava per
quel crocicchio che si chiamava il Leone di Porta Orientale, dove era adunato molto di quel popolo.
Al primo vedere quel fattorino e quella gerla: «ecco», gridarono cento voci: «ecco se c'è il pane».
«Sì, sì, pei tiranni che non vogliono darne alla povera gente», grida uno della folla. Un altro
s'avanza, s'appressa al fattorino, alza la mano all'orlo della gerla, la fa abbassare con una strappata,
e con l'altra mano toglie un pane e dice: «siamo cristiani anche noi; abbiamo da mangiare». «Anche
noi»; rispondono cento voci, molti s'avventano al fattorino, e gridano: «giù quella gerla». Il
garzoncello arrossisce, impallidisce, trema, vorrebbe dire: - lasciatemi stare -; ma non ha tempo,
sviluppa le braccia in fretta dalle ritorte che servono di manichi alla gerla, la lascia nelle mani di
quelli che l'avevano presa; e a gambe. Il pane fu diviso in fretta, ma senza tumulto e senza risse fra
coloro che erano più vicini alla presa. Ma quelli a cui non era toccato nulla, irritati e aizzati dalla
vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità, e dalla impunità della impresa, si mossero a troppe
alla busca di altre gerle vaganti: tutte quelle che si abbatterono in questi cercatori, furono ritenute e
svaligiate come la prima. Ma questa poca preda non bastava alla voglia di tutti, né il fatto fin allora
a coloro che avevano fatto conto su un garbuglio più grande. S'intese una voce che diceva:
«andiamo ai forni».
«Ai forni! ai forni! sono il buco dei ladri, la fucina della carestia». «Ai forni! ai forni!» rispose il
coro.
In quella via torta, angusta, e frequentata che va dal Leone di Porta orientale al duomo, v'era già a
quei tempi un forno che sussiste tuttavia, con lo stesso nome, che in toscano viene a dire: forno
delle grucce, e nel suo originale milanese è espresso con parole di suono tanto eteroclito e bisbetico
che l'alfabeto comune della lingua italiana non ha il segno per indicarlo.
Quivi si addrizzò la folla.
I fornaj che avevano veduto tornare il fattorino svaligiato e rabbaruffato, e intesa la sua relazione,
stavano già in sospetto, e pensavano a guardarsi. All'avviso della visita che si avvicinava,
mandarono in folla ad avvertire il Capitano di giustizia, e a chiedergli ajuto. Questi che stava all'erta
aspettandosi che la sua presenza sarebbe domandata in qualche luogo, accorse tosto, e con alcuni
alabardieri arrivò che la moltitudine cominciava a spessarsi dinanzi alla bottega. «Largo, largo»,
gridava il capitano, gridavano gli alabardieri, e si appostarono sulla porta. La folla si condensava
vie più, quei di dietro spingendo i primi. «Figliuoli, a casa... che cosa è questa?... animo... via gente
dabbene, buoni figliuoli... ahi canaglia!» Una pietra lanciata dalla retroguardia degli assalitori colpì
la cucuzza del Capitano all'ultima sillaba di <I>figliuoli</I>.
«Ahi! ah! canaglia. Quel temerario... Alabardieri, disperdete questi birboni».
«Indietro, indietro», gridavano gli alabardieri, sospingendo i primi, ma invano.
«Animo! animo!» gridava il capitano, «rispingeteli almeno tanto che chiudiamo le porte; da bravi!
Indietro! indietro!» Gli alabardieri, uniti, fecero impeto tanto che i fornaj potessero afferrare le
imposte e farle girare sui cardini, a misura che queste si racchiudevano gli alabardieri si ritiravano
insieme, e gli uni e gli altri si chiusero al di dentro.
«Apri! apri!» urlava la folla al di fuori, percotendo le porte. «Via! via!» si rispondeva da quei di
dentro che si tenevano calcati alle imposte per fermarle contra gli urti. Il Capitano di giustizia
intanto fattosi visitare ad un alabardiere e toccato egli con la mano il luogo della percossa, fu certo
che non era altro che una bernoccola, onde rincorato salì le scale, e si fece ad una finestra, dove
presa una imposta di dentro, come scudo e cacciando fuori da quella il capo, e la mano per ottener
silenzio: gridava a quanto fiato aveva in corpo: «Che timor di Dio è questo?»
Una vociferazione, immane, confusa, nella quale non si distinguevano altre parole che, «pane!
pane! apri! apri!» copriva la voce del Capitano.
«Che dirà il re nostro signore?» gridava egli.
«Pane! pane! apri! apri!»
«Indulgenza plenaria, perdono a chi torna a casa», gridò egli di nuovo, sporgendo il capo con
precauzione: ma viste più mani nella folla che si movevano a lanciargli un secondo biscottino, si
ritirò. Alcuni garzoni del forno, s'avvisarono di rompere il selciato d'un cortiletto; e tolte molte
pietre, salirono con quelle al piano superiore, e fattisi alle finestre, minacciarono di gettarle sugli
assalitori se non si ritiravano.
«Ah cani! vi faremo in pezzi»; urlava il popolo, e non si ritirava: le pietre cominciarono a scendere;
molti ne furono malconci, e due ragazzi ne rimasero morti. Il furore crebbe la forza della
moltitudine: le porte furono spezzate, le ferriate delle finestre del pian terreno scassinate e divelte, e
la bottega aperta agli assalitori. I fornaj, gli alabardieri, il Capitano si rifuggirono in fretta sul
solajo, dove s'appostarono alle uscite che davano sui tetti, per farsela da quella parte, alla meglio, se
il pericolo si fosse avvicinato anche a quel rifugio.
Per buona loro ventura, i vincitori si curavano per allora più di preda che di carnificina. I primi
entrati si gettarono sui cassoni del pane, e li posero a sacco: la folla si sparse dalla bottega nei
magazzini ov'erano le farine: quelli che afferrarono i sacchi, gli sciolsero e perché non avrebbero
potuto caricarli e portarseli via con tutto quel peso, gittavano una parte della farina, e portavano il
resto: altri raccoglievano come potevano quella farina, riponendola negli abiti loro, nei cenci che
trovavano. Alcuni i quali erano venuti con più profonda intenzione, andarono al banco, lo
spezzarono, tolsero le ciotole dei danari, gli intascarono a manate, e sdrucciolando tra la folla
andarono a casa a vuotarle, per tornare a nuove faccende.
Frattanto lo stesso assalto si dava ad altri forni: in alcuni i padroni resistevano e si chiudevano a
difesa, in altri, distribuendo tutto il pane a quegli che si facevano innanzi stornavano il saccheggio
finito, e la distruzione.
Le cose erano a questo punto quando Fermo si avanzava sulla via appunto di quel forno dove aveva
cominciato ed era maggiore il tumulto. Andava egli ora spedito, or ritardato tra una folla di gente
che procedeva verso il campo di battaglia, e di gente che tornava carica: guatava andando, e
origliava per conoscere un po' più chiaramente lo stato delle cose. V'era un ronzio confuso di
clamori e di discorsi: noi riferiremo quei pochi che Fermo potè intendere a misura che mutava di
vicini, procedendo tra la calca, e sostando di tratto in tratto per una qualche fermata improvvisa
della moltitudine.
«Ecco scoperta l'impostura infame di quei birboni che dicevano, che non c'era pane, né farina, né
frumento. Adesso si vede la cosa sincera, e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva
l'abbondanza!»
«Vi dico io, che tutto è niente, è un buco nell'acqua, se non si fa una buona giustizia di quei birboni.
Metteranno il pane a buon mercato, ma hanno proposto di attossicarlo per ammazzare la povera
gente. Hanno posto il partito nella giunta, e io lo so di certo, l'ho inteso con questi orecchi da una
mia comare che è amica della lavandaja d'uno di quei signori».
«Largo, largo, signori, dieno il passo ad un povero padre di famiglia che porta da mangiare a cinque
figliuoli che muojono di fame». Così diceva uno che barcollava sotto un gran sacco di farina; e i
vicini si stringevano per dargli il passo.
«No, no, no», diceva sommessamente, e con aria misteriosa all'orecchio d'un suo compagno, un
altro. «Io son uomo di mondo, so come vanno queste cose, e me la batto. Questi baggiani che fanno
ora tanto schiamazzo, domani staranno tutti cheti a casa loro, ognuno dirà, io non c'era, oppure: è
stato il tale che mi ha strascinato: no no: largo da questi garbugli. Ho già vedute certe facce, di
uomini che fanno l'indiano e notano tutti, e domani poi:... si cavano le liste, e chi è sotto è sotto».
Queste parole diedero un momento da pensare a Fermo, ma il vortice lo trasportava; e un discorso
ch'egli intese subito dopo, rinnovando e riscaldando l'indegnazione ch'egli sentiva con tutti gli altri
soffocò le considerazioni di prudenza che gli consigliavano di tornare indietro.
«Si sa tutto», diceva una voce più sonora dell'altra: «è scoperta la gran cabala orrenda. È il vicario
di provvisione che ha mandato un gran cavaliere travestito da merciajo a parlare col re di Francia: e
si sono intesi: il re ha fatto promettere al vicario uno scudo d'oro per ciascun milanese che sarebbe
morto di fame; e così, quando il paese sarebbe stato vuoto, il re veniva innanzi per diventar padrone
egli».
«Era ordita la trama di farci morir tutti: tanto è vero che mettevano attorno che il gran cancelliere è
un vecchio rimbambito, per togliergli il credito, e comandare essi soli».
«Finora va bene, ma se avremo giudizio, bisognerà far prima la festa a tutti i forni, e poi andare dai
mercanti di vino: sono tutti birboni d'un pelo, d'accordo coi fornaj per far morire la povera gente di
fame e di sete».
«Ah tiranni! cani! scellerati! metterli in una stia a vivere di veccia e di loglio, come volevano trattar
noi».
In mezzo a questi discorsi giunse Fermo, a forza d'urti dati e ricevuti, dinanzi a quel forno. Lo
spettacolo era lurido e spaventoso. Le mura intaccate da sassi e da mattoni, le finestre sgangherate,
diroccata la porta, quella casa pareva un gran teschio disotterrato; alle finestre, alla porta si vedeva
gente affaccendata a compire l'opera della distruzione, a strappare il resto delle imposte: al di dentro
erano altri che con asce spezzavano le gramole, i buratti, i cassoni, le panche, le madie, altri che
prendevano a fasci i rottami, le corbe, le pale, i registri delle partite, i mobili, e portavano tutto al di
fuori. I guastatori si avviarono con questo peso alla vicina piazza del duomo, e quivi accatastate
tutte quelle materie v'appiccarono il fuoco, ponendosi intorno a godere quel falò, acclamando con
bestemmie, con canti di trionfo, con promessa di ricominciare ben tosto altrove.
Fermo seguì la processione, e si fermò dinanzi al rogo in mezzo a quella folla ondeggiante a vedere
e ad udire. Alcuni allargando intorno a sè un po' di spazio con le gomita, facevano quel che
potevano per danzare; altri sopraggiungevano con nuove spoglie da ardersi, e fattisi far largo a
forza di urti e di urli, le gettavano sul mucchio ardente: si alzavano nuove fiamme, tizzoni accesi
saltavano qua e là, e più forti ululati sorgevano in mezzo al rombazzo confuso e continuo. Fermo
non credeva, né era possibile di credere, tutto quello ch'egli aveva inteso dire in quel giorno; ma
tutti quei discorsi, le sue idee antecedenti, la persuasione universale gli davano l'intima persuasione
che un gran disegno di affamare il popolo fosse stato ordito e scoperto. Partecipava egli dunque
dell'ebrezza comune, gridava a quando a quando con gli altri, e se non attizzava la fiamma, stava
pure a contemplarla con diletto, mangiando intanto un altro di quei pani che aveva raccolti e posti in
tasca al primo entrare in città.
«Muoja la carestia!» si urlava da ogni parte; «muojano gli affamatori! viva l'abbondanza! viva il
pane! viva! viva!» A dir vero la distruzione dei buratti, delle madie, il disfacimento dei forni, e lo
scompiglio dei fornai non pare che fossero i mezzi più spediti per far vivere il pane: ma questa è
una sottigliezza metafisica che non poteva venire in mente ad una moltitudine.
Il fuoco non era per anco estinto, quando corse all'improvviso una voce per la folla, che al Cordusio
(così è chiamato un crocicchio poco distante dalla piazza dove si faceva la baldoria) s'era scoperto
da un fornajo un altro grande ammasso di pane e di farina. La folla si diresse in tumulto verso
quella parte: si gettò nella via corta ed angusta di Pescheria Vecchia, si condensò sotto l'arco che la
termina, si diffuse nella piazza dei mercanti. Quivi mentre si passava accanto alla loggia che tiene il
lungo della piazza, una mano si alzò sopra le teste della turba e si rivolse verso una statua colossale
che occupava una nicchia or vuota nella parte più apparente della loggia, e una voce gridò nello
stesso tempo: «quello era un re! un re che rendeva giustizia pronta, e faceva impiccare i tiranni e i
cabaloni». «Viva! vivarispose uno stormo di voci. Non è però da credere che tutti quei gridatori
sapessero bene a chi, e perché applaudivano; l'unica idea distinta che ne avevano era di un re morto.
Il pezzo di marmo che ricevette quell'applauso era niente meno che una statua di Don Filippo II, la
quale durò in quella nicchia, ancora centosettant'anni circa, dipoi fu trasformata alla meglio in un
Marco Bruto, e finalmente smozzicata e ridotta ad un torso informe che fu strascinato e gittato non
so dove: e avrebbe pur meritato d'esser conservato pel suo destino singolare d'aver rappresentato
due personaggi, il nome dei quali fa nascere tosto idee disparatissime, e che pure ebbero più punti
di rassomiglianza che non appaja a prima vista. Tutti e due gravi e rigidi sermonatori l'uno di
filosofia, l'altro di religione, tutti e due commisero senza rimorso, con giattanza, di quelle azioni che
la morale comune, e il senso universale della umanità abbomina; tutti e due credettero che nel loro
caso una ragione profonda, un intento di perfezione rendesse virtù ciò che è comunemente delitto.
Tutti e due con una opposizione ardente e attiva, hanno promosse, rafforzate, estese le cose che
volevano impedire ed estinguere nei loro cominciamenti; e tutti e due hanno avuti in vita e dopo
morte fautori che hanno approvata la loro condotta, gli hanno lodati d'aver fatti mali infiniti per
ottenere il contrario dei loro fini. Tutti e due si sono immaginati che la maggiorità dei loro
contemporanei avrebbe secondate con gran favore le loro intenzioni, e tutti e due si maravigliarono
con indignazione di trovare avversione, resistenza da tutte le parti. Tutti e due sono stati in diverse
epoche tenuti in gran venerazione, e in quelle epoche non era un viver lieto. Preghiamo il cielo, che
quando hanno da nascere uomini di quel carattere, si trovino collocati in una condizione dove
abbiano da faticare assiduamente per vivere, che al più possano dissertare in un picciolo crocchio, e
che non giungano mai a far cose per cui debbano avere statue dopo la morte.
Il corteo clamoroso dovette condensarsi e insaccarsi onde passare come per una trafila nella via
angusta dei Fustagnaj, e quindi sboccare al Cordusio. Quivi era già ammassata un'altra folla, e il
saccheggio d'un forno era avviato: i sopravvegnenti incalzavano quelli che erano già signori del
campo, e si trasfondevano in essi, come potevano.
Tutto ad un tratto una voce orrenda uscì dalla folla: «andiamo dal Vicario di Provvisione, a fare una
giustizia». Quella voce fu come una scintilla caduta nel mezzo d'una polveriera. «Dal Vicario di
Provvisione» gridarono tutti: e parve un rammentarsi d'un accordo già fatto, più che una risoluzione
di quel momento. La casa del Vicario era sventuratamente vicinissima a quel luogo: in un punto la
via fu piena, e la casa cinta d'ogni parte.
Il Vicario di Provvisione stava in quel momento facendo un chilo agro e stentato d'un pranzo
mangiato di mala voglia con un po' di pane raffermo rimasto del giorno antecedente, e fra pensieri
tristi, di stupore, di inquietudine, di incertezza.
Uno o due benevoli, (perché nei garbugli sempre vi trascorre qualche onesto che cerca poi di
impedire un po' di male) precorsero lo stormo, ed entrati nella casa, avvertirono del pericolo. I
servi, alle porte, alle finestre: non si vedeva altro che un nuovolo di gente che appressava, che era lì:
in fretta in fretta, si avvisa il padrone, mentre questi delibera di fuggire, come fuggire, gli è detto
che non è più a tempo: appena i servi possono chiudere e sbarrare la porta al momento che i primi
della vanguardia stavano per porre piede sulla soglia: si chiudono tutte le imposte delle finestre,
come quando il tempo imperversa, e comincia a cader la gragnuola; e intanto si sente l'ululato
orribile della moltitudine, che vuole entrare, e i colpi che già si danno alla porta. «Il Vicario! il
tiranno! lo vogliamo, vivo o morto!»
Il Vicario errava di stanza in istanza, raccomandandosi a Dio e ai suoi servitori che tenessero fermo,
che trovassero modo di farlo scappare: ma la casa era cinta da tutte le parti. Il poveruomo salì sul
solaio e da un bugigatto del muro tra la soffitta e il tetto guatò ansiosamente nella via, e la vide
stivata, fitta di nemici, udì le grida e le minacce, e si ritirò tremante e quasi fuor di sè nell'angolo il
più riposto, che potè rinvenire. Ivi rannicchiato e tremante, porgeva l'orecchio, e quando poi udiva i
colpi violenti nella porta, lo turava spaventato, poi come fuori di sè, stringendo i denti, e
raggrinzando tutta la faccia tendeva con impeto le braccia e i pugni come se volesse tener ferma la
porta contra gli urti, poi si dava per disperato ed aspettava la morte. Gli passavano per la mente
gl'impegni che aveva fatti per giungere a quell'uficio, la consolazione che aveva provata nel
giungervi, e malediceva di cuore tutti quei pensieri antichi. Finalmente stette tranquillo e come
istupidito.
Intanto al di fuori altri percoteva le imposte della porta, con travi: altri era andato in cerca di
scarpelli e di martelli, e dava colpi in regola nel muro, per aprirvi una breccia; altri lanciava sassi
alle finestre, altri con le pale conquistate ai forni ne stuzzicava le imposte per aprirle, grida orrende
accompagnavano tutte queste operazioni. Quegli stessi però che con le grida, le incoraggiavano e le
applaudivano, in fatto vi ponevano ritardo con la pressa delle persone non lasciando agio al giuoco
delle leve e degli arieti: per buona sorte accadeva questa volta nel male, ciò che è troppo frequente
nel bene: che i fautori i più ardenti divengano un impedimento.
Nel mezzo della turba un vecchio malvissuto mostrava un martello, dei chiodi, e una fune, dicendo
che voleva egli configgere alle imposte della porta il Vicario quando fosse stato acchiappato ed
ucciso.
«Ecco, ecco quello che farà la cosa spiccia; largo, largo»: era una lunga scala che altri portavano
per appoggiarla al muro, e salire alle finestre, dove l'entrata sarebbe stata più facile. Per buona sorte
quel mezzo che avrebbe facilitata l'impresa non era facile a porsi in opera: i portatori spinti alcuni di
qua alcuni di là e divisi da una calca brulicante e irrequieta erano costretti or l'uno or l'altro di
abbandonare il peso, il quale cadeva sulle spalle, sulle teste dei più vicini, che lo rispingevano,
grida, percosse, urli da tutte le parti. Ma intanto la porta era quasi sconfitta dai gangheri, e i fori nel
muro andavano allargandosi e sprofondendosi, già poco mancava a vedersi l'interno della casa.
Fermo si trovava in mezzo alla calca, ma questa volta strascinato e assorbito dal vortice piuttosto
che venuto di sua voglia; le grida che chiedevano il sangue, i volti che ne mostravano la
abbominevole sete, lo avevano riempiuto di turbamento e di orrore; egli detestava in quel momento
quella che gli era paruta giustizia del popolo, la trovava più atroce della fame.
«Andiamo andiamo», diceva egli ai suoi vicini; «è una vergogna! vogliamo noi fare il boja?
assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia il pane a buon mercato se commettiamo di
queste iniquità?».
«Ah! traditore della patria!» disse uno che era vicino a Fermo rivolgendosi a lui con un viso
d'indemoniato: «aspetta, aspetta, tu sei un amico del Vicario, e dei tiranni...»
Per buona sorte in quel momento, alcuni che portavano una scala fecero impeto tra Fermo e il suo
nemico, e gli disgiunsero. Fermo approfittando di quella confusione nata nella confusione si
allontanò, cercando di uscire dalla folla, e di andarsene. Quegli che gli aveva fatto quel
complimento non si curò di rintracciarlo, né lo avrebbe potuto. Ma un altro che si trovava accanto a
lui, e che lo aveva seguito, gli disse all'orecchio: «buon giovane, state zitto, se non volete farvi
ammazzare; ma aspettate quietamente, che forse potrete far del bene». Fermo gli rispose
affettuosamente coll'espressione del volto, e rimase in mezzo alla calca.
Ma quegli stessi benevoli che erano venuti ad annunziare il pericolo, non avevano posto tempo in
mezzo, ed erano tosto volati al castello per avvertire di ciò che accadeva, e domandare soccorso. Fu
tosto spiccata una troppa di soldati, che accorse al luogo del tumulto.
Ma giunta che fu, non seppe che farsi. Le parti estreme dell'attruppamento, alle quali sole i soldati
potevano accostarsi, erano una ciurma disarmata, e oziosa, mista di uomini di donne e di fanciulli:
parevano piuttosto spettatori che altro: all'ordine di dissiparsi non rispondevano che con un cupo e
profondo mormorio. Far fuoco sopra quella gente, parve a quelli che comandavano il drappello, che
sarebbe stata cosa crudele, e piena di pericolo assai più grave di quello che si voleva far cessare:
attraversare la prima calca, e giungere in ordine, e uniti al centro del tumulto, dove la rivolta era
operosa; non era cosa possibile, il solo tentare di procedere avrebbe sparpagliati i soldati tra la
moltitudine, e postili così separati a discrezione di quella, irritata. I soldati stettero dunque oziosi;
quelli che erano più presso gli guardavano senza timore, gli beffavano, le grida continuavano, e gli
smuratori proseguivano la loro impresa romorosa, senza darsi pensiero della truppa.
L'impresa sarebbe stata pur troppo condotta al termine, e già lo toccava, se dalla parte opposta non
fosse giunto un più efficace soccorso. «Una carrozza! uh! uh! chi è questo tiranno che ardisce
venire ad insultare la povera gente? dalli! dalli! sassate, sassate!» «Zitti! zitti! è Ferrer! non vedete
la livrea? è un galantuomo! amico della povera gente: eccolo! eccolo! ecco mette la testa allo
sportello! è egli. Viva Ferrer! Viva Ferrer!» La carrozza s'era fermata in capo della calca, a canto ai
soldati; e nella carrozza v'era di fatti quell'Antonio Ferrer gran cancelliere, che era stato una delle
principali cagioni di tutto quel guasto, ma che almeno veniva per porvi qualche rimedio e si valeva
della popolarità che gli avevano acquistata i suoi spropositi per minorarne i tristi effetti. Sia
benedetto Antonio Ferrer! degli spropositi molta gente ne fa, ma non sono molti coloro che
adoperino il vantaggio che possono averne cavato, a fare un po' di bene o ad impedire un po' di
male. Antonio Ferrer metteva fuori dello sportello una faccia tutta umile, tutta benigna, tutta
amorosa, una faccia che egli aveva creduto di tenere in serbo pel momento in cui si sarebbe trovato
al cospetto di Don Filippo Quarto: ma fu obbligato a spenderla in questa occasione impreveduta.
Cercava egli di parlare, ma i picchj, gli scalpiti, gli urli, i viva stessi che si facevano a lui
soffocavano la sua voce. Andava egli dunque ajutandosi col gesto, ora avvicinando la punta delle
mani alla bocca, e tenendole poi supine, per render grazie alla benevolenza pubblica, ora
rivolgendole e abbassandole lentamente per richiedere (ma con un garbo ineffabile) un po' di
silenzio e di tranquillità; ora allargandole dinanzi a sè, per domandare se fosse possibile un po' di
passaggio, accennando nello stesso tempo col volto ch'egli veniva per far cosa grata a quelli a cui
domandava il passaggio.
«Viva Ferrer! l'amico della povera gente! non abbia paura, ella è un galantuomo! Vogliamo pane!»
«Sì, figliuoli, pane, pane! abbondanza!» rispondeva Ferrer, ponendo la destra sul cuore per dare la
forza del giuramento alle sue parole.
«Che cosa ha detto?» domandavano quelli che non erano vicini abbastanza per intendere il suono
delle parole.
«Ha detto pane! abbondanza!» rispondevano quelli che avevano inteso; e queste parole girarono in
un momento fino all'altra estremità della calca.
«Ciarle! ciarle!» gridavano alcuni. «Viva Ferrer! è un galantuomo!» gridavano altri. «Noi vogliamo
Ferrer! comandi Ferrer! morte ai birboni!»
«Sì figliuoli miei cari!» diceva il vecchio, alzando la voce quanto poteva: «comanderò io: si farà
giustizia: il pane a buon mercato. Intanto fatemi un piacere, datemi un po' di passaggio. Vengo per
mettere in prigione il vicario di provvisione».
Questa nuova parola fu pure trasmessa di bocca in bocca. «Sì sì: bravo! in prigione!» «No no! lo
vogliamo morto!» «No! in prigione! giustizia! Largo! largo!» «Sono imposture! chi l'ha da
giudicare? Sono tutti d'una razza!» «Via! via!» «Ferrer è un galantuomo! in prigione!»
La proposta inaspettata del gran cancelliere aveva divisi in un momento i pareri e gli animi di quei
comizj tempestosi, o per dir meglio aveva fatta scoppiare una divisione che già esisteva. Alcuni o
per una ebbrezza di furore e di crudeltà, o per una fredda speculazione di anarchia volevano
persistere nel proposto sanguinario: ma i più, placati in parte e raddolciti dal vedere che un alto
magistrato veniva a riconoscere la giustizia della loro causa, e a compirla legalmente, vinti dalla
affezione che sentivano in quel momento pel vecchio Ferrer, commossi da quella sua canizie e dal
contegno supplice e carezzevole che tanto piace alla moltitudine in un uomo che le si è sempre
mostrato in un aspetto di gravità e d'impero, innamorati anche dalla sicurezza animosa del vecchio
che non aveva dubitato di affrontare una tanta burrasca, gridavano che gli si facesse luogo, e che il
vicario gli fosse rilasciato. Fermo era tra questi, e gridava a testa: «prigione, giustizia!»
I sentimenti, le grida, i movimenti di questa parte più placabile erano mossi e regolati, senza ch'ella
se ne avvedesse, da alcuni, i quali senza aver fra di loro intelligenze precedenti, operavano pure di
concerto, condotti da una intenzione comune.
V'ha degli uomini onesti, ai quali nelle sommosse popolari, alle affoltate, alle vociferazioni d'una
moltitudine alleggiata, sono colpiti da un orrore pauroso, non ponno sostenerne la vista, la
vicinanza, e vanno a rimpiattarsi, se è possibile, dove non ne giunga nemmeno il mormorio.
Ve n'ha altri, i quali sentono un orrore egualmente forte, ma che non li confonde, che non toglie
anzi cresce loro l'attività. Il tumulto è per essi un nemico terribile, di cui vanno in cerca, per
opprimerlo, o per ammansarlo: accorrono dove la confusione è più bollente, il brulicame più fitto:
non si curano o dimenticano in quel momento da che parte sia la ragione e il torto, dimenticano il
proprio pericolo, e non hanno altro di mira che di frastornare le risoluzioni feroci, d'impedire delitti:
sono del partito degli oppressi e dei minacciati, quali essi sieno; difenderli, salvarli, trafugarli,
reprimere i violenti, acquetare le cose è il loro scopo. Di questa specie d'uomini molto rispettabile
erano coloro che abbiamo accennati: l'oggetto dei loro sforzi era di stornare la carnificina preparata
al Vicario di Provvisione: sentirono essi tosto che la venuta e la proposta di Ferrer era un mezzo
potente alla loro mira, anzi l'unico, al punto in cui erano le cose, e tutti, come d'accordo, fecero tutto
il possibile, per cavare ogni vantaggio da quell'incidente avventurato. Ripetevano e spargevano le
parole del gran cancelliere, vi aggiungevano i commenti e le interpretazioni che erano più
accomodate alle idee ed alle passioni della moltitudine, gridavano quelle parole che potevano
diventare un grido universale, e comandare le azioni: lodavano, e dirigevano quegli che erano già
inclinati alla moderazione, ammonivano con dolcezza gli ostinati, o gli svergognavano anche
minacciosamente dove gli ostinati erano in minor numero, e la forza e il favore erano per la
moderazione. I loro sforzi non furono inutili, e poco a poco apparve manifestamente che la
moderazione aveva il maggior numero di partigiani.
«Giustizia», e «Ferrer!» erano le due parole che più risuonavano tra il clamore vario e
indisciplinato.
Alcuni tra i guastatori avevano già deposti gli stromenti di distruzione, e ristavano dall'impresa.
«State quieti! aspettate! viene Ferrer a metterlo in prigione», si gridava da mille parti a quegli che
proseguivano a dar colpi alla porta e al muro. Alcuni aggiungendo i fatti al consiglio, cercavano di
toglier loro di mano le leve e i martelli, e le travi: quindi una lotta tra gli uni e gli altri che ritardò la
presa della fortezza, e diede tempo al soccorso di arrivare.
Ferrer si volse al cocchiere e gli disse in fretta, sotto voce ma distintamente:...
Poi continuando a rivolgersi al popolo: «Signori», diceva: «un poco di passaggio, vedo... capisco...
sono angustiati... in cortesia... sì signori... pane, abbondanza... in prigione, lo condurrò io, in
castello...»
«Passo! passo a Ferrer!» «Vogliamo impiccarlo noi, il vicario! è un birbone!» «No no: in prigione!
giustizia!»
Intanto il cocchiere, imitando anch'egli la condotta del padrone, sorrideva alla moltitudine, e con
una grazia delicatissima moveva la frusta a destra e a manca per accennare a quelli che erano
dinanzi ai cavalli che si ritirassero un poco sui lati: alcuni si ritiravano volontariamente, e quei bene
intenzionati che abbiam detto, posti nel mezzo rimovevano gli altri poco a poco, e la carrozza dava
qualche passo. Ferrer andava sempre ripetendo le stesse frasi, talvolta dicendo le parole che
soddisfacessero alle grida che sentiva più distintamente.
«Giustizia, m'impegno io, vengo a pigliarlo prigione: è giusto: il re nostro signore vuole che si
castighino quelli che fanno del male ai suoi fedelissimi vassalli... a questi bravi galantuomini: largo
di grazia: gli faremo il processo: giustizia pronta: pane a buon mercato: abbondanza! abbondanza!»
Così passo, passo, la carrozza giunse dinanzi alla casa, su la porta, e si fermò.
Quivi era il punto difficile, il momento sommo dell'impresa: ma il nostro Ferrer era un valente in
quel giorno, e doveva uscirne vincitore.
<B>CAPITOLO VII</B>
In un disegno qualunque o di pensiero o di azione (quando sia di quei disegni che hanno a riuscire)
dopo superati alcuni ostacoli, dopo avute certe arre di buon successo, giunge un momento in cui le
idee diventano più sicure e più vigorose, la cosa appare più fattibile, il già fatto conforta, e indica
nello stesso tempo quello che resta a farsi, la probabilità di ottenere lo scopo ne rinnova il desiderio
che la vista degli ostacoli aveva indebolito, e lo spirito acquista quasi una placida sveltezza, una
risoluzione pronta che governa gli avvenimenti.
Il disegno di salvare un uomo debb'essere uno di quelli che danno in sommo grado all'animo di chi
l'ha conceputo e lo sta eseguendo questa alacrità, questo vigore intenso, questa gioja crescente. La
morte e lo scampo, le angosce estreme, e un sollievo inaspettato, i tormenti, e il riposo, un cadavero
sfigurato in cui nulla più appare che l'insulto fatto all'immagine di Dio, e l'aspetto d'un vivente che
si ricompone alla speranza, alla vita, alla riconoscenza, debbono essere incessantemente presenti a
quell'animo, fargli sentire vivamente che l'una delle due sta per avverarsi; intendere tutte le sue
potenze a fare che il bene s'avveri, e sia cessato lo spaventoso irreparabile.
La porta, quando la carrozza vi si fermò, era in uno stato miserabile: i gangheri in parte scassati
fuori del muro, le imposte scheggiate, ammaccate, forzate nel mezzo e scombaciate l'una dall'altra,
lasciavano tra loro una fessura dalla quale si vedeva un pezzo di catenaccio torto e quasi divelto con
gli anelli, che teneva ancora insieme quelle imposte, a un di presso come già Romolo Augustolo
teneva insieme l'impero d'occidente. Dinanzi a questa porta si tenzonava tuttavia tra quelli che
volevano abbatterla ed entrare di forza, e gli altri che volevano ch'ella fosse aperta soltanto al gran
cancelliere. L'arrivo di questo, attestando in certo modo l'assenso della folla alla sua missione, e
facendone vedere il compimento probabile e vicino, sconcertò i disegni violenti dei primi, i quali
finalmente si rimasero.
«Giustizia! giustizia!» si gridava. «Giustizia», rispondeva Ferrer, «in castello, in prigione». Uno di
quegli amici della quiete si avvicinò allo sportello, e disse al gran cancelliere: «Faccia presto, e con
coraggio, ché siamo qui molti galantuomini a darle ajuto». «Bravi», rispose Ferrer: «fate far largo,
statemi intorno, e fate in modo che la porta s'apra tosto, e ch'io entri solo». «Lasci fare», rispose
quello, e intanto egli ed i suoi compagni rispinsero i furibondi, e occuparono tutto lo spazio fra la
carrozza e la porta, si divisero quindi a rispingere e a contenere a destra e a sinistra la folla, e
lasciarono così una picciola piazzetta tra la carrozza e la porta. Uno di essi intanto s'era posto alla
fessura, e procurava di fare intendere a quei di dentro che quegli che parlava era un amico, che era
giunto un soccorso, il gran cancelliere, che si aprisse o si finisse di aprire la porta: che il Vicario
stesse pronto per entrare in carrozza ed esser salvo. Quei di dentro intesero, respirarono, e risposero
che aprirebbero; e che si correva a cercare il padrone.
Un altro aperse lo sportello della carrozza, e il vecchio Ferrer, in gran toga discese.
Da una parte e dall'altra gli affollati stavano in punta di piedi per vederlo, mille facce, mille barbe
s'alzavano per sopravanzare quegli che erano davanti. Il momento di curiosità e di attenzione
generale produsse un momento di generale silenzio. Ferrer appoggiato a due benevoli pose piede
sul predellino, e quivi fermatosi un momento, e dato uno sguardo a destra e a sinistra, come da una
bigoncia, salutò la moltitudine, indi posta la destra al petto gridò: «Avrete pane quanto ne vorrete:
lo prometto io: vengo a far giustizia, vengo a prenderlo prigione»: e a queste ultime parole, stese la
destra in atto severo verso la porta di quella casa, come accennando che veniva a portarle un
rigoroso giudizio, e pose piede in terra fra le acclamazioni che n'andavano alle stelle.
La porta fu tosto aperta, o per meglio dire quei di dentro fecero uscire a stento il catenaccio
incurvato dagli anelli squassati, e allargarono la fessura, badando bene a ragguagliarla appuntino
allo spazio che occupava il gran cancelliere.
«Presto presto», diceva egli, «signori, aprite bene, ch'io entri, e voi ritenete la gente per amor di
Dio», diceva agli altri, «ch'io entri solo... Così, così state», diceva ancora a quei di dentro, «non
ispingete... eh! raccomando le mie costole... chiudete ora... no, eh! eh! la toga, la toga».
La toga sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte se Antonio Ferrer non ne avesse ritirato con
molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda di una biscia che si rintana, inseguita.
Le imposte furono ravvicinate, e appuntellate per di dentro, mentre di fuori la porta era difesa dai
benevoli, i quali andavano però gridando: «presto presto».
«Presto presto», diceva pure Ferrer ai servitori: «dov'è quest'uomo benedetto? venga venga, son qui
per salvarlo». Il Vicario scendeva le scale mezzo guidato e mezzo tirato dai suoi, i quali gli
persuadevano ch'era giunta la salute. Quand'egli vide il gran cancelliere, mise un gran respiro, si
sentì scorrere un po' di vita per le gambe, e affrettò il passo incontro al suo salvatore. «Stia di buon
animo ch'io vengo per salvarla», disse Ferrer. «Son perduto, son perduto», rispose il Vicario: «come
uscire di qui? la strada è piena di gente che mi vuol morto». «Ho qui la mia carrozza: venga tosto, e
confidi in Dio», disse Ferrer; e presolo per mano lo condusse verso la porta.
«Guardate un po', come stanno le cose là fuori», disse egli allora ad un servo: si tolsero i puntelli, si
separarono un po' le imposte, e un servo, facendo capolino, disse a quelli che facevano guardia al di
fuori: «Siamo a tempo?...» «Sì, sì, ma tosto, tosto», risposero quelli: il varco fu aggrandito, e Ferrer
uscì col Vicario, dicendo: «Qui sta il busillis: Dio ci ajuti».
Quei della guardia, colle mani, colle cappe, coi cappelli, fecero come un velo, una rete, una nuvola,
per togliere il Vicario alla vista della moltitudine: il Vicario entrò, Ferrer gli tenne dietro, lo
sportello fu chiuso; la moltitudine seppe, indovinò quello che era accaduto, e sollevò un grido
confuso di viva e d'imprecazioni.
In tutto questo frattempo una parte di quelli che volevano salvo il Vicario, s'era impiegata a
preparare un po' di via alla carrozza facendo ritirare la moltitudine: il cocchiere stava pronto, e si
mosse cautamente però, tosto che sentì chiudere lo sportello, e dirsi: «Andiamo».
Ferrer voleva raccomandare al Vicario di tenersi rincantucciato nel fondo della carrozza, ma vide
che il suo consiglio era stato prevenuto: egli si affacciava ora a destra ora a sinistra, rispondendo
alle mille grida, e di tempo in tempo passando colla faccia accanto all'orecchio del Vicario gli
diceva qualche parolina che doveva essere intesa da lui solo.
«Sì sì, lo prometto, in castello, in prigione! un esempio, una giustizia esemplare. Tutto questo per
bene di Vossignoria. No no, non iscapperà, è in mano mia, si farà un buon processo, un processo
severo, e se è reo... voglio dire... sarà castigato rigorosamente. Sì sì uno scellerato, un birbante; ma
si farà giustizia. Vossignoria perdoni. Lo faremo saltar fuori il frumento, lasciate fare; a buon
mercato, brava gente, fedelissimi vassalli. Il re nostro signore non vuole che si patisca la fame.
Avete ragione. La passerà male, se ha fallato, la passerà male. Stia di buon animo; che siamo quasi
fuori».
In fatti la carrozza era giunta in capo alla via, ad ogni passo la folla diveniva più rada, e la carrozza
cominciava a scorrere liberamente. Fra i più avanzati alcuni avevano presa la corsa e battevano la
strada alla carrozza per vedere se la s'avviava al castello davvero; altri la seguivano lentamente, altri
si rimanevano addietro.
Quivi il Ferrer vide quei soldati, che erano stati spettatori oziosi del tumulto, e stavano ancora lì ritti
e ordinati, come per imporre alla moltitudine, per mantener l'ordine, ma in vero per non saper che
farsi: Ferrer guardò all'ufiziale con un cenno del volto, che voleva dire: - bell'ajuto che m'avete
prestato -: l'ufiziale fece un inchino, e si strinse nelle spalle: Ferrer, in un momento di vanagloria,
mormorò fra sè: - oggi è proprio il caso di dire <I>Cedant arma togae</I> -.
Quando la carrozza ebbe preso il largo affatto, il Vicario, riavuto un po' il fiato, rese grazie umili, e
sincere prima a Dio poi al vecchio Ferrer che lo aveva cavato d'un bel fondo.
«Eh! eh!» diceva Ferrer, al quale i pensieri della vanagloria erano stati interrotti dai pensieri d'una
politica nella quale era incanutito. «Eh! Che dirà il re nostro signore? Che dirà il Conte Duca?» - Il
Conte Duca, - soggiunse tra sè a bassa voce - che non vuol romori, che s'adombra se una foglia fa
un po' più strepito del solito.
«Ah! per me», disse il Vicario: «non voglio più saperne, me ne lavo le mani, rassegnerò il mio
posto, e andrò a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano da questa
gente bestiale». «Vossignoria farà quello che sarà più conveniente al servigio del re nostro
signore», disse Ferrer.
«Ah! il re nostro signore non mi vorrà veder morto», rispose il Vicario: «lontano, lontano da
costoro: in una grotta».
In pochi momenti la carrozza fu in castello, e il Vicario respirò davvero quando sentì alzarsi dietro
di lui un ponte levatojo, e si trovò in luogo, dove non si vedevano che soldati.
Gli storici originali contemporanei non parlano più nulla di lui; ma noi valendoci del privilegio che
hanno gli storici di seconda mano, di inventare qualche cosa di verisimile per rendere compiuta la
storia, e supplire alle mancanze dei primi, affermiamo sicuramente, come se ne fossimo stati
testimonj, che il Vicario uscito dal castello quando la sedizione fu affatto compressa, continuò ad
essere Vicario pel tempo che gli rimaneva a compiere la sua carica, e da poi procurò di diventare
tutto quello che potè.
Dobbiamo pur notare un'altra reticenza più importante e che dà luogo ad indovinare con minor
timore d'ingannarsi. Non si trova scritto che il processo del Vicario, che il Ferrer aveva promesso
dugento volte in quel giorno, sia stato fatto; e si può scommettere che non sia stato fatto. Su di che
non possiamo lasciare di dire il nostro parere, perché avendo noi accompagnato il Ferrer coi nostri
voti e coi nostri applausi in quella spedizione, non intendiamo per nulla di aver lodata una
gherminella, un raggiro. Ferrer fece molto bene a promettere che il Vicario sarebbe giudicato,
perché quella era una promessa ragionevole, e che poteva impedire un delitto. Ma fece molto male
o Ferrer o chiunque si fosse quegli o queglino che non si curarono di fare o impedirono che si
facesse una cosa la quale era stata promessa solennemente, e avrebbe pure dovuto esser fatta
quand'anche non si fosse promessa. Poiché, o il Vicario era reo, non dico delle pazzie che gli
venivano apposte, ma di qualche cosa, ed era bene punirlo: o egli era del tutto innocente, ed era
cosa ottima mettere in chiaro la sua innocenza, convincere la moltitudine della sua spaventosa
credulità, e farle sentire, farle confessare che le era stato risparmiato una stolida atrocità. Invece si
mentì, le prevenzioni della moltitudine non furono tolte, le fu dato per sopra più il rancore d'essere
stata ingannata, e col fare di questo mezzo di salute un inganno, si tolse, per altre occasioni simili,
al mezzo la sua efficacia, la quale consisteva tutta nella fede data alle parole.
- Ma, sento dirmi, queste cose non vanno giudicate con questa misura: non sono come le parole che
si danno tra privati: si trattava d'impedire un male, e ogni parola era buona: passato il pericolo,
l'attenere quella parola era cosa difficile, pericolosa, strana; si avrebbe dovuto propalare molte cose
che dovevano stare segrete, insomma tutto il sistema era un ostacolo.
- Tanto peggio per un sistema che mette i suoi autori, e i suoi agenti in impicci, dai quali non si
possono cavare che dando una parola, che il sistema poi impedisce di mantenere. Dovremmo noi
dunque ammettere che i primi falli scusino, anzi santificano quelli che vengon dopo?
- Eh! con questi argomenti, non si farebbe nulla. Il fondamento della vera sapienza pratica consiste
nel prendere gli uomini come sono. - Queste parole proferite così spesso, e sempre così a proposito,
queste parole nelle quali i sapienti devono certamente intendere un senso, poiché le pronunziano
con tanta sicurezza che passando tanto per le bocche degli uomini non hanno mai perduta la loro
forza, e sciolgono tutte le questioni, troncano a maraviglia anche la presente, e ci dispensano
dall'internarci in una digressione la quale sa il cielo quanto avrebbe durato. Prendiamo dunque gli
uomini come sono, raccontando quello che hanno fatto.
La folla che al moversi della carrozza, s'era tutta messa in movimento, per tenerle dietro, cominciò
a sparpagliarsi, quando la carrozza, vincendo della mano, si allontanò e disparve. Ad ogni
crocicchio per cui si passava, ad ogni via che metteva capo sulla via per dove procedeva la folla,
una parte di essa se ne scompagnava e ne usciva a destra o a sinistra: chi per andarsene a casa o ai
fatti suoi per la più breve, chi per voglia di scialarsi un po' al largo, dopo tante ore di pressa. Di
quegli che rimanevano addietro, alcuni si stavano come trasognati, pensando alle imprese di quel
giorno, non sapendo bene render conto a se stessi se dovessero essere soddisfatti o no, parendo loro
che la cosa fosse imperfetta, che si fosse terminato senza conchiuder nulla di serio, e guardandosi
intorno per vedere se la cosa voleva continuare in qualche modo. Altri si riunivano in piccioli
crocchj, e procedendo lentamente, e talvolta sostando, tenevano ragionamento sul fatto e
sull'avvenire. Si disputava del supplizio che sarebbe dato al Vicario di provvisione: chi gli
pronosticava le forche, chi il taglio della testa, perché era cavaliere; i più moderati si contentavano
del bando. Si stabiliva il prezzo del pane, si facevano leggi ancor più severe contra gli
accapparratori, e contra i fornaj, si benediceva Ferrer, e si maledicevano tutti gli altri magistrati. In
questi crocchj s'inframmettevano di quei pescatori nel torbido che avevano dilatata e tenuta viva la
sommossa in quel giorno, e gettavano accortamente i germi per l'indomani, ora mostrando di fidarsi
poco delle promesse fatte in un momento di terrore, e facendo intendere che le promesse non
sarebbero attenute, se non fossero rimasti uniti quelli che le avevano fatte uscire con la forza; ora
asserendo che nel tal luogo, alla tale ora dell'indomani vi sarebbe gran concorso, e preparando così
un concorso al quale nessuno aveva pensato ancora. Quelle tali facce, delle quali già al mattino ne
aveva riconosciuta alcuna quel prudente le cui parole avevano dato da pensare a Fermo, andavano
ora in ronda più che mai, origliando, sguaraguatando, intromettendosi ai discorsi per andare a
riferire qualche cosa ai magistrati, i quali tra la battisoffia e la stizza stavano consultando, e
aspettando di conoscere un po' meglio lo stato delle cose, di vedere le acque un po' abbassate per
piantare un qualche argine.
Fermo, dopo avere finché potè, seguita la carrozza che aveva salvato il Vicario dal furore del
popolo e lo conduceva legalmente in prigione, si fermò a riaversi un poco, a ricapitolare, a
riconoscere i suoi pensieri, che erano tutti esultanti. Quel disgusto che gli avevano recato le grida
del sangue e i preparativi della carnificina, aveva dato luogo alla gioja di vedere la giustizia, e
l'umanità vittoriose, il delitto punito senza delitti, e la dignità del magistrato, il potere legale unito
col voto pubblico, e divenuto suo amico, e suo ministro.
Fermo vedeva aprirsi il secolo dell'oro, e durava fatica a rinvenire dallo stupore di una tanta
mutazione, avvenuta negli affari del mondo, e nei suoi, come egli credeva. Ieri sera fuggitivo a
cercare un nascondiglio, perché? perché aveva ragione; senza forza, senza altro soccorso che di
consigli, di consolazioni, e di buona volontà: oggi in mezzo ad una moltitudine di uomini che
parlavano come lui, e parlavano alto, e soli, oggi egli aveva esercitato con gli altri la giustizia e la
clemenza, aveva cooperato a far punire un colpevole potente, a salvarlo da una pena ingiusta e
crudele, aveva gridato tutto il giorno, aveva detto sempre il suo parere, e se pure aveva trovato
contraddizione, alla fine il suo voto aveva trionfato. Pieno di entusiasmo pel passato, e di più grandi
speranze, egli si mischiò ad uno di quei crocchj, e dopo essere stato uditore per qualche momento,
si fece interlocutore, e poco stante divenne predicatore.
«Signori miei cari», diss'egli perché al forese sono signori tutti i cittadini che non domandano
l'elemosina. «Signori miei cari, sentano un poco anche me, che ho delle cose giuste da dire. Ecco se
non è vero che oggi si è veduta la prova che a saper fare si ottiene più giustizia in un giorno che in
cento anni a star lì senza muoversi. Come sarebbe andata se non ci fossimo trovati insieme tanti
galantuomini? Si sarebbe tirato innanzi allo stesso modo fino a che fossimo tutti morti di fame. Per
lungo tempo fanno mostra di non intendere, e poi per darvi un osso in bocca mettono fuori una
buona grida che dice di sì, e pochi giorni dopo viene un'altra grida che dice di no: e intanto passa il
tempo, e i cenci vanno all'aria. È una lega malandrina: e i galantuomini che si trovano fra quelli che
menano la polta, anch'essi non ponno parlare; come quel bravo Ferrer, sia benedetto! che è tutto
dalla nostra, eppure non poteva far niente; e oggi l'abbiamo veduto come era contento di poter dire
la sua ragione, e di vedersi sostenuto; come parlava col cuore in mano, e che faccia ridente aveva
per trovarsi in mezzo ai galantuomini. Dunque ha potuto fare le cose giuste, e mettere in prigione
un tiranno; ma eh! eh!... ce n'è tanti altri; e la cosa è chiara, perché lo dicono anche le gride: che il
mondo è pieno di tiranni che fanno il Decalogo al rovescio, che vogliono tutte le cose a modo loro,
ed è un modo da cani, che vanno in volta coi loro bravi, il fiore della canaglia, con certi uomini che
cominciano in questo mondo a farsi la faccia che avranno a casa del diavolo, e con questi fanno e
disfanno, e tiranneggiano la povera gente, e se un povero figliuolo cerca di maritarsi onestamente,
signor no, essi non vogliono perché... perché... birboni, birbononi! E se uno non vuol fare a modo
loro lo fanno bastonare, e se dice - ahi! - i bastoni si cangiano in coltelli; e quando un povero
figliuolo s'imbatte in colui che lo ha tiranneggiato, bisogna che gli faccia di cappello, e che metta la
testa fino in terra, come se passasse dinanzi al suo Santo protettore. Eppure le gride cantano chiaro,
ed io lo so, che ne ho sentito leggere una da un avvocato,... una buona lana, anch'egli, tutti
d'accordo; perché anche i giudici, a che cosa credete che guardino i giudici? alla ragione? Eh!
guardano ai calzoni, e se sono di seta quegli che li porta ha ragione, se sono di fustagno ha torto.
Dunque dico io, siccome le gride non servono a nulla bisogna finirla; e dirlo al Ferrer, ma dirglielo
in piazza, e in molti, che faccia fare il processo a tutti costoro, e poi, perché ci vuol altro che una
carrozza a condur prigione tutti costoro, bisognerà far venire oltre tutti quelli che maneggiano, e
che sono come Ferrer, che hanno il timore di Dio e vogliono le cose giuste: e condurli alle case di
questi tiranni, loro signori li conosceranno meglio di me, e farli metter tutti allo scuro, e far loro un
buon processo, e giustizia sommaria, e poi far lo stesso anche fuori dalle porte di Milano, che vi so
dir io che il bisogno è grande. Dico bene, signori miei?»
«Dite bene, benissimo!» risposero molte voci: «parla come un libro»: disse uno. «Eh! eh! che
tabella hanno questi di fuora!» disse un altro. «Poh! poh!» mormorava un altro, crollando le spalle,
«non bisogna metter troppa carne a fuoco: ci siamo mossi pel pane; e se si mettono in campo altri
piati, non avremo più nemmeno i pani».
La proposta divenne l'oggetto d'una discussione generale: il crocchio si suddivise in piccioli
crocchj, dove altri narrava fatti di tiranni, altri proponeva i mezzi di porre ad esecuzione il disegno
di Fermo, altri faceva obiezioni. Intanto il sole era caduto, il barlume andava cedendo il luogo alle
tenebre, e molti stanchi già di deliberare, e non raffigurando più la faccia dei loro interlocutori (cosa
che scema molto il diletto del conversare) si spiccavano a uno a due a tre; e se ne andavano con la
promessa di rivedersi. Quei che s'erano aggruppati intorno a Fermo, ed erano i più affetti al suo
disegno, si separarono quando uno ebbe detto; «Buona sera, io vado a casa»: «anch'io», disse un
altro: «anch'io, anch'io: a rivederci domani: da buoni fratelli: non mancate: addio: addio: buona
sera, buona sera».
Fermo, rimaso solo pensò ai casi suoi. Quando si dice che l'amore, le speranze, i timori, lo sdegno,
l'ambizione, ed altri divertimenti di simil genere, tolgono la fame, la sete, la stanchezza, si deve
intendere che le tolgono temporariamente, che le sospendono, perché a torle realmente e in modo
utile, sono necessarj ingredienti di tutt'altro genere, come per esempio, cibo, bevanda, riposo.
Fermo aveva passata vegliando la notte antecedente su un barroccio disagiato, la mattina su la via
da Monza a Milano, e il resto di quel giorno a girare per le vie, o a dimenarsi per la calca; aveva
mangiati in tutto il giorno due di quei pani che aveva trovati su le sue orme come la manna nel
deserto, e di liquido non aveva gustato pure una goccia. E siccome dopo esser stato qualche tempo,
osservatore silenzioso, aveva poi schiamazzato la parte sua per qualche ora, così la sua gola era
come d'aprile un campo che sia in grande necessità di pioggia, e invece vi abbia tirato un gran
vento. Quindi le immagini grandiose di assembramenti, di deliberazioni publiche, di carrozze, di
prigioni, di Don Rodrigo in fuga, diedero luogo nella sua mente, e vi si presentò in vece una
scranna, un fiasco, un po' di companatico, e un letto; e dietro alle immagini tosto il pensiero del
come procacciarsi le cose.
In tutt'altra occasione Fermo balzato dai suoi monti nella città, di notte, senza conoscenti sarebbe
stato impacciato assai, ma l'attività e i successi di quel giorno gli avevano data una gran fiducia
nelle sue forze, e avevano fatto di lui un uomo assai più disinvolto dell'ordinario.
- Osterie in Milano ce n'è, - diss'egli fra se medesimo: - e con la lingua in bocca, e con quattro soldi
in tasca non si perisce in nessun luogo. Oh! e la lettera da dare al Padre Bonaventura? È tardi, a
quest'ora il convento sarà chiuso, e sa il cielo quanto è distante, e avrei a domandare forse venti
volte la via prima di giungervi: e poi... quand'anche fosse giorno chiaro, che andrei a fare ora dal
Padre Bonaventura? Se è tanto amico del Padre Cristoforo, sarà un santo anch'egli: buona gente nel
confessionale, al letto d'un moribondo: ma delle cose di questo mondo... so ben io, non s'intendono
niente. So già quello che mi direbbe: «figliuol mio, sono tempi cattivi, statevene fuori, non andate
nella gente». Poh! se tutti dovessero dar retta a chi dà di questi pareri, non si farebbe mai nulla a
questo mondo. Non sono poi un ragazzo. Vediamo se saprò trovare un'osteria.
Così pensando Fermo andava innanzi lentamente guardando in su a destra e a sinistra per iscoprire
qualche insegna, qualche frasca spenzolata che indicasse l'ospitalità venale di cui egli aveva
bisogno.
Ma quando Fermo si era mosso, si era pur mosso su la sua traccia un uomo che aveva intesa la sua
predica, e da poi gli era sempre stato a canto in modo da osservarlo senza esserne osservato: questi
appena Fermo ebbe dati venti passi cogli occhi in aria, gli si accostò, si fermò a considerarlo un
momento come se lo vedesse in quel punto per la prima volta, e gli disse: «Buon giovane, voi mi
sembrate forese: avete bisogno di qualche cosa, posso servirvi?»
«Oh! che brav'uomo», rispose Fermo: «appunto ho bisogno di trovare un'osteria per bere un tratto, e
per dormire questa notte».
«Ve ne insegnerò io una a proposito, e v'accompagnerò», disse lo sconosciuto.
«Vi sarò bene obbligato», replicò Fermo: «ma mi spiace del vostro...»
«Eh! burlate», disse l'altro: «si può fare meno? Una mano lava l'altra, è un proverbio che l'avrete
anche nel vostro paese: quale è il vostro paese? non per cercare i fatti vostri, ma perché mi parete
stanco, e dovete aver fatto viaggio assai».
«Sono infino, infino da Lecco», rispose Fermo.
«Per bacco! venite ben da lontano, povero giovane», disse la guida; «ma l'osteria è vicina, e potrete
riposarvici a momenti. Siete fortunato, non dico per farmi valere, ma siete fortunato d'essere
incappato in un galantuomo che vi condurrà bene».
«Vi sono obbligato», rispose Fermo: «e vi fermerete a bere un tratto con me».
Il resto della via fu speso in rifiuti cerimoniosi dello sconosciuto, ai quali Fermo replicava con
istanze sempre più forti; tanto che entrarono insieme in una picciola osteria, e attraversato un
cortiletto, lo sconosciuto, come sperto del luogo, s'accostò ad una porta, e alzato il saliscendo
aperse, e introdotto Fermo, entrò con lui nella cucina.
Due o tre lucerne appese ad altrettanti staggi appiccati ai correnti della soffitta, illuminavano la
stanza, nella quale erano sparse cinque o sei tavole: su alcune si mangiava, si giocava su alcune
altre, e si gridava dappertutto: e si vedevano correre danari, i quali se avessero potuto parlare,
avrebbero detto probabilmente: - questa mattina noi eravamo nella ciotola d'un fornajo -. Sotto la
cappa del camino stava seduto l'oste il quale stava ad udire, non parlava che quando era chiamato,
evitava tutti i discorsi delle cose del giorno, e se pure veniva stimolato a dire il suo parere,
rispondeva per lo più: «non so niente; io faccio il mio mestiere». Quando egli sentì muovere il
saliscendo, guatò a chi entrava, riconobbe tosto la guida, e fissò gli occhi scrutatori in faccia del
guidato.
«Vi conduco un bravo avventore», disse la guida, «trattatelo bene».
«È mio impegno», disse l'oste: «che cosa comandano questi signori?»
Fatta questa solita interrogazione, egli esaminò ben bene il volto e la persona di Fermo, dicendo fra
sè: - tu vieni con un cacciatore: o cane o lepre sarai; ma non sono l'oste della <I>luna piena</I>, se
non ti conosco alla prima parola che dirai -.
«Avete del vino sincero, sano, fatto in coscienza?» disse Fermo.
«Quanto a questo», rispose l'oste: «potete star sicuro: non ne ho mai tenuto altro: ne ho del più e del
meno caro; ma per la sincerità, tutto il mio vino è lo stesso: se venisse un ragazzo lo tratterei come
tratto voi». Così disse l'oste; e aggiunse fra sè: - ho inteso: tu sei lepre; va che sei caduto in buone
mani -.
«Dunque portate del buono», disse Fermo: l'oste partì, e un momento dopo tornò con un boccale.
«Che vogliono da mangiare questi signori?» diss'egli, riponendo il boccale sur una tavola.
«Che cosa avete?»
«Per esempio un buon pezzo di stufato?»
«Portate lo stufato», disse Fermo.
«Ma!» disse l'oste già in atto di partire, e sostando, «pane non ne ho in questa giornata».
«Eh! al pane ha pensato la Provvidenza», disse Fermo; e in aria di trionfo si cavò di tasca il terzo ed
ultimo di quei pani raccolti sotto la croce di San Dionigi.
«Va bene», disse l'oste, e partì. Fermo allora, preso per un braccio lo sconosciuto guidatore, gli fece
forza perché sedesse, e bevesse con lui. Poco stante l'oste portò da mangiare; e Fermo astrinse il
guidatore a fargli compagnia, e si pose a mangiare con un appetito, che si fece sentire molto grande
quando la prima sete fu ammorzata.
A tutte quelle tavole si gridava: quindi la conversazione era divenuta come generale: perché molti
discorsi, facendosi sentire dall'una tavola all'altra, provocavano risposte, le quali facevano poi
nascere dei dialoghi continuati. Come poi il soggetto di tutti quei colloquj separati era un solo, le
vicende di quel giorno, così in poco tempo anche il colloquio divenne comune a tutti quelli che ivi
si trovavano riuniti a caso. Fermo parlò assai, perché come abbiam detto era giunto quivi con una
gran sete, e il vino non mancava.
Lo sconosciuto aveva già intese dalla bocca di Fermo, e registrate attentamente nella memoria
molte cose che erano per lui tesori; ma gli mancava una notizia importante, e pensò a
procacciarsela. Disse dunque a Fermo: «converrà che voi avvisiate l'oste che avete intenzione di
dormir qui affinch'egli vi prepari la stanza».
«È vero», rispose Fermo, e chiamato l'oste: «avete», disse, «una buona stanza, un buon letto da
darmi? da povero figliuolo, ma una cosa pulita».
«Starete da principe», disse l'oste, e fattosi ad un armadietto che era appeso ad una parete ne tolse
un pezzetto di carta, un picciolo calamajo, e una penna, quindi accostatosi a Fermo: «in grazia»,
disse, «il vostro nome?»
«Il mio nome?» rispose Fermo, a cui il vino sincero dell'oste aveva portate tutte le passioni ad un
grado lirico. «Che cosa volete fare del mio nome? Avete paura ch'io non vi paghi? Se fossi un
tiranno con dieci bravi al mio servizio potreste dubitare, ma sono un povero figliuolo, e non son
uomo da dare un canto in pagamento a nessuno».
«Boh! non dico per questo», rispose l'oste: «ma v'è una grida molto severa che «<I>ordina ed
espressamente comanda</I>» sono parole della grida, e la so a memoria: «<I>comanda</I>» dice
«<I>a tutti gli osti e tavernaj, camere locande etc. che ogni notte,</I>» dice «<I>giorno per giorno,
dia notizia e relazione di tutte le persone che alloggeranno etc. specificando</I>» dice «<I>il giorno
dell'arrivo di ciascuno, nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene,</I>» dice...
«Questa è bella», interruppe Fermo: «ecco se non è per sapere i negozj degli altri. Vengo per un
negozio briccone, senza mia volontà, vengo per un negozio che a raccontarlo ci vorrebbe una sera;
ma colui che mi ha fatto venire, si è tessuto il capestro, e presto presto desidererà di non essersi mai
impacciato nei fatti miei».
«Onde, non per mia curiosità, ma per cagione della grida», continuava l'oste; ma Fermo l'interruppe
ancora dicendo:
«Questa è una grida che non conta, perché non è mica buona, è fatta contra la povera gente, per
sapere i fatti dei galantuomini, ed è una di quelle che s'hanno a disfare: dunque non ne parliamo più,
e vi assolvo io. Riempitemi invece un'altra volta questo boccale, che il vino lo trovo a mio genio, e
lo riconosco per galantuomo senza domandargli il nome».
«Ma io sono obbligato...» ricominciò l'oste, dando allo sconosciuto un'occhiata che voleva dire: -
siatemi testimonio ch'io faccio il mio dovere.
«Via, via», gridarono in un punto molte voci: «quel giovane ha ragione: sono tutti balzelli,
angherie, legge nuova, legge nuova oggi!»
L'oste si strinse nelle spalle, e guardò ancora allo sconosciuto, il quale disse pure: «via non vedete
che è un galantuomo? andate a preparargli la stanza».
«Bravo compagno! bravi amici!» sclamò Fermo, «adesso vedo proprio che i galantuomini si danno
la mano e si sostengono». Partito l'oste, si parlò della grida e delle gride, e poi ancora del pane e dei
tiranni. Lo sconosciuto che fino allora non aveva presa gran parte alla conversazione, uscì in campo
anch'egli con le sue riflessioni, e con le sue proposte.
«Per me», diss'egli, «se dovessi comandare io, troverei tosto il mezzo di fare stare gli ammassatori,
e i fornaj, e di far trovare pane per tutti. Ecco come vorrei fare. Vorrei che si pensasse alla povera
gente che non ha frumento e che deve provvedere pane di giorno in giorno, e che non ne avessero a
mancar mai, che ognuno avesse la sua razione fissata. Vi dovrebbero essere dei galantuomini, dei
signori, ma buoni, e caritatevoli, che tenessero conto di tutti, e stabilissero ad ognuno la sua
porzione secondo il bisogno, e a prezzo fisso. Per esempio io andrei a farmi notare», e così
parlando, preso un coltello rivolse la punta verso la tavola e la dimenava, come se scrivesse: «e si
dovrebbe scrivere: - Ambrogio Fusotto: - di che professione? - Spadaio. - Maritato? - signor sì: -
quanti figli? - quattro. - Tante libbre di pane al giorno, e darmi un buon viglietto, col quale io andrei
tutti i giorni a prendere il mio pane da un fornajo, a prezzo fisso. Ma bisognerebbe fare le cose
giuste, senza parzialità, e in proporzione della famiglia. A voi per esempio dovrebbero scrivere:
tanto pane tutti i giorni per... il vostro nome?»
«Fermo Spolino».
«Bravo: la professione?»
«Lavoratore di seta».
«Benissimo; ma avete moglie?»
«Non l'ho», disse Fermo, «ma se Dio vuole...»
«Dunque», disse lo sconosciuto, «abbiate pazienza; ma voi dovete avere una porzione più picciola».
«È giusto», rispose Fermo, «ma poi quando io pigliassi moglie, che sarà presto, come spero...»
«Razione doppia», disse lo sconosciuto.
«Così va bene», rispose Fermo.
Lo sconosciuto aggiunse ancora poche parole, poi si avvisò tutto ad un tratto che la moglie e i
quattro figli sarebbero stati in pensiero pel suo ritardo, e si levò per partire: tre volte era egli sorto
in piedi, e tre volte Fermo presolo per le falde del mantello l'aveva fatto ripiombare sulla panca: ma
alla quarta egli alzandosi saltò al di sopra della panca, e se ne andò tra le istanze, e i ringraziamenti,
e i saluti, invero un po' affoltati del nostro povero Fermo.
Questi, rimasto solo alla sua tavola, (ci duole raccontarlo, ma la cosa fu così) vuotò solo in varie
riprese il fiasco che aveva fatto riempire di nuovo per due bevitori, lo vuotò, alternando i sorsi con
le parole, e ponendoselo a bocca ogni volta che l'idea la quale s'era presentata splendida e risoluta
alla sua mente si oscurava e fuggiva tutto ad un tratto, o la frase per vestirla non voleva lasciarsi
trovare; a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in
furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco. Pure, siccome allo
scrittore infervorato nelle sue idee, vengono talvolta nel maggior calore della composizione certi
lucidi intervalli, nei quali una voce interna dice ad un tratto: - e se fossero minchionerie? - così
anche il nostro poveretto, in mezzo a quella baldanza di pensieri, in quella crescente esuberanza di
forze, sentiva di tempo in tempo che a quelle forze mancava un certo fondamento, e che appunto nel
momento della più grande intenzione parevano pronte a cadere.
Quel po' di senno che gli era rimasto lo faceva accorgere che il più se n'era ito; a un dipresso come
l'ultimo lumicino rimasto acceso dopo una grande illuminazione fa intravedere gli altri spenti.
Sentiva Fermo un bisogno di trovarsi coricato, e di dormire, e qualche cosa nello stesso tempo lo
avvertiva che gli sforzi necessarj per arrivare a quel punto di riposo divenivano più difficili di
momento in momento. Fece dunque una risoluzione in uno di questi lucidi intervalli: appoggiò
ambe le mani spalancate sulla tavola, si sollevò alquanto, diede un sospiro, tentennò alquanto, e
finalmente fu in piedi.
«Presto, presto oste», diss'egli: «conducetemi alla mia stanza, perché... io sono un buon figliuolo... e
mi piace far le cose con giudizio... e gli stravizzj:... quando il sole è andato a letto... tutti i
galantuomini... mi diceva mio padre...»
L'oste che desiderava questa risoluzione di Fermo, non si fece aspettare: staccò una di quelle
lucerne, e tenendola alzata con la sinistra, e preso con la destra il braccio di Fermo: «andiamo»,
disse, e si avviò reggendo e traendosi dietro il suo ospite. Fermo, però s'arrestava di tratto in tratto,
e, gettandosi verso la brigata, col braccio che gli rimaneva libero andava iscrivendo nell'aria certi
saluti, a guisa d'un nodo di Salomone, ai quali le braccia e le voci della brigata rispondevano in
modo poco dissimile. Ma l'oste scotendolo, lo tirava verso una porticina, tanto che potè entrarvi e
mettersi su una scaletta angusta di legno, per la quale dando a Fermo un avviso ad ogni scalino, lo
tirò nella stanza. Quivi Fermo si guardò intorno, e disse: «bene! bravo! galantuomo! son contento».
Poscia forzandosi di fissare in faccia all'oste due occhietti che luccicavano e si oscuravano a
vicenda come lucciole, appoggiandosi sul destro piede per chinarsi verso l'oste, e ricadendo poi
indietro sul sinistro, stendendo verso la faccia dell'oste la mano coll'indice e col medio tesi piegati
al mezzo, e aperti, per farle quella carezza di protezione amorevole che in milanese si chiama una
mezz'oncia, senza però poter mai giungere ad afferrare quella guancia liscia e rubiconda dell'oste,
disse con una cera tra amichevole e corrucciata:
«Ah! oste, oste! furbaccio! tu mi hai voluto fare un tiro da nimico... ma, la ti è venuta busa, perché...
perché io sono un mariuolo... e tu però non hai trattato bene, perché... tu dovresti tener la parte dei
buoni figliuoli... e non di quelli che fanno le gride, perché... quelli che fanno le gride, non vengono
a bere il tuo vino... povero minchione che tu sei... e non ti danno un becco d'un quattrino perché...
sono superbi, e avrebbero paura di sporcarsi la tonaca e... non sono gente di buona compagnia... che
basta veder il Ferrer, che è il meglio di tutti e pare... un dottore di medicina ammalato... dunque chi
ti fa andare la bottega... chi è, chi non è... sono i buoni figliuoli».
L'oste, il quale non avrebbe creduto che Fermo fosse ancora in caso di mettere insieme tante parole
con un senso tal quale, pensò di approfittare di quel momento lucido per fargli intendere la ragione,
e schifare un impaccio a tutti e due, e gli disse:
«Sì, sì, io son tutto pei buoni figliuoli; ma vedete bene...
quelli che comandano, vogliono essere obbediti; mi capite... abbiate giudizio, facciamo le cose qui
fra noi da buoni amici; ditemi tosto il vostro nome, la patria, la professione, il negozio per cui siete
venuto: in un momento è finita, e poi andate a letto e buona notte».
«Ah! cane!» disse Fermo levando la voce; «tu mi torni in campo col negozio... adesso capisco tu sei
della lega... aspetta, aspetta...»
Così gridando Fermo, si avviava barcollante verso la scala ma l'oste lo rattenne: e vedendo che
s'egli insisteva Fermo avrebbe gridato sempre più e sarebbe stato inteso dalla brigata, la quale
certamente avrebbe prese le parti di quello, ricordandosi che in quel giorno il potere era nelle mani
di quelli che erano soliti obbedire, e non si poteva prevedere quando sarebbe loro ritolto, pensando
che quand'anche al ritorno della tranquillità un ordine revochi e dichiari nulli tutti gli atti della
rivolta, le busse toccate una volta sono irrevocabili, stimò che la faccenda più pressante era di
acquetar Fermo; e con voce più sonora di quella di Fermo gli gridò: «ho detto per ridere: non lo
avete capito, che ho detto per ridere?»
«Ah! ora tu parli bene, da buon figliuolo», rispose Fermo, acquetandosi tosto: «per ridere;... sono
proprio cose da ridere... dunque le gride».
«Dunque, andate a dormire», disse l'oste, «che troverete un letto da galantuomo. Via spogliatevi,
presto, da bravo».
E mentre andava così facendo animo a Fermo con la voce, il malandrino diceva fra sè: - pezzo di
minchione! se vuoi affogare, affoga, per me son certo di cavarmene, ma tu, resterai solo
nell'impaccio -.
Fermo intanto si andava spogliando, e interrompeva questa operazione con mille ciancie, e con
mille atti strani, che l'oste sofferiva pazientemente per una buona ragione. Quando Fermo s'ebbe
tratto il farsetto, l'oste lo prese, pose le mani su le tasche per vedere se v'era la postema, e fatto certo
del sì, volle tentare di avere il suo conto prima di abbandonar Fermo quella sera, prevedendo che
l'indomani probabilmente Fermo avrebbe avuti altri affari, e la postema sarebbe stata in deposito
presso a gente che non si sarebbe data premura di pagar l'oste. Disse dunque, tenendo il farsetto:
«Voi siete un buon figliuolo, n'è vero? volete le cose giuste?»
«Buon figliuolo...» rispose Fermo. «Dunque», replicò l'oste, «saldate ora il vostro conterello, perché
domattina, io debbo correre qua e là per mie faccende». «Oh! questo sì», disse Fermo, «questo è
giusto: son mariuolo, ma galantuomo». L'oste si diede fretta di domandare quello che gli veniva,
ajutò Fermo a cavare i danari dalla tasca, a noverarli, tolse il suo pagamento, e dato delle mani a
Fermo per ajutarlo a salire sul letto, gli disse, «buona notte». Fermo si lasciò cadere sul letto,
mormorò fra i denti: «buoni figliuoli», e cominciò a russare.
L'oste, stirata la coltre di sotto il corpo di Fermo, gliela accomodò indosso alla meglio; quindi,
ripresa la lucerna con la sinistra, gliela sollevò sul capo, e stesa la destra contra il lucignolo perché
la luce cadesse sul dormente, si fermò a contemplarlo un momento, nell'atto che vediamo dipinta
Psiche quando sorge a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto: e disse: «Matto
minchione! tu l'hai voluto: sei andato proprio a cercarla col lanternino; tal sia di te».
Dette queste parole come per isfogo, e per una apologia anticipata, si mosse, abbassò la sua lucerna,
e la pose dinanzi a sè, uscì, volse la chiave nella toppa, e chiuse così Fermo nella stanza, e s'avviò
per la scala verso la cucina. Ma nel fare tutte queste operazioni, e nello scendere, continuava tra sè
la allocuzione che aveva cominciata dinanzi a Fermo, favellando con l'assente come aveva fatto
coll'addormentato.
- In un giorno come questo - proseguiva egli - colla mia prudenza, io era venuto a capo di salvare la
capra e i cavoli, di passarmela liscia; e il diavolo doveva mò proprio portarti alla mia osteria per
guastarmi il mestiere. Se tu fossi venuto solo, avrei potuto lasciarti addormentare su la tua panca, e
quando tutti fossero partiti, portarti fuora, e collocarti in un canto della strada al fresco, e domattina
poi ti saresti svegliato un po' ingranchito, ma fuor d'impicci tu ed io. Ma tu invece, pezzo d'asino,
hai pensato anche a condur teco un testimonio.
A questo punto della sua arringa mentale, l'oste si trovò in cucina, girò un'occhiata per vedere se
tutto era in regola, fece un cenno con l'occhio all'ostessa che nella sua assenza presiedeva con la
prudenza e con l'imparzialità del mestiere la brigata procellosa; e quindi staccò il mantello da un
cappellinajo, e se lo pose indosso, continuando tuttavia:
- E che testimonio! Pare che tu avessi paura di passartela senza impicci; volevi proprio far le cose a
dovere per tirarti una tegola sul capo. - Qui staccò pure il cappello, e lo pose in capo. - Va che sarai
servito: tua colpa: tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte nasca il sole.
Qui tolse da un canto un buon randello, s'avviò alla porta, e uscì nella via, sempre continuando la
sua orazione.
- Io ho fatto quello che ho potuto per salvarti, e tu bestia, in ricompensa, per poco non mi hai messa
a romore l'osteria. Ora cavatene come potrai: per me, chi che sieno per essere i pazzi che
comanderanno domani, io sono a cavallo: faccio la mia deposizione, e sono in regola: quelli che
hanno comandato così, sono soddisfatti; e quelli a cui non piace non ne sapranno niente.
Le vie brulicavano ancora di gente, che andava e veniva in troppa; come le onde del mare quando il
più sperto pilota non saprebbe affermare, se la burrasca sia sul finire, o sul ricominciare: ma l'oste
cercando il largo fra gli scogli, camminando a sghembo tra una brigata e l'altra, ponendo cura di
non urtare nessuno, e dissimulando gli urti che riceveva, se ne andava al suo cammino, continuando
intanto fra sè. - E tu prega il cielo che domani tiri l'aria d'oggi, se no, stai fresco. Hai voluto
affogare, affoga; ma afferrar me per una gamba, per trarmi sott'acqua con te... ah! non era azione da
galantuomo. Tu mi volevi esporre, se nol sai, <I>a trecento scudi di pena, o a cinque anni di galera,
o a maggior pena pecuniaria o corporale, ad arbitrio di Sua Eccellenza</I>. Obbligatissimo alle sue
grazie.
<B>CAPITOLO VIII</B>
A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di Giustizia. Entrò, salì, fu
introdotto e fece ad un ufiziale, la sua relazione, come era capitato all'osteria uno che non aveva
voluto dare il suo nome, e come egli oste dopo d'averlo ammonito di obbedire alle gride, dovette
tacere per non far nascere uno scandalo.
«Lo sapevamo», rispose l'ufiziale, con aria di importanza e di mistero: «ma voi avete ben fatto di
compiere il vostro dovere. Ora badate a non lasciarlo partire costui».
«Col dovuto rispetto a Vossignoria», rispose l'oste, il quale con tutta la sua prudenza, non aveva
potuto a meno di non prendere un po' di quegli spiriti arditi di che era piena l'aria in quel giorno,
«col dovuto rispetto, io faccio l'oste e non il birro: ho fatto il mio dovere: a lor signori tocca ora».
«Va bene, va bene», rispose l'ufiziale, il quale con tutta la sua arroganza non aveva potuto a meno
di non tremare un po' in tutta quella giornata, e non sapeva ancora bene a che punto le cose si
fossero. L'oste ne andò pei fatti suoi.
La prima informazione, come il lettore se n'è addato certamente, era venuta da quella falsa guida, la
quale, per darne piena contezza, non era niente meno che un bargello travestito, in traccia d'uno che
gli desse una occasione di farsi onore e merito, eseguendo gli ordini assai difficili che gli erano
imposti: e quest'uno fu il nostro povero Fermo.
Nel momento in cui la sommossa era al maggior grado di fermento e l'assedio posto alla Casa del
Vicario, molti magistrati, scapolando furtivamente per vicoli, e per vie deserte s'erano riuniti nelle
sale del consiglio segreto, e quivi avevano consultato non senza tremore sulla urgenza del caso. I
pareri erano varj, proposti con esitanza, e abbandonati facilmente, e non si conchiudeva, ma quando
sul declinar del giorno venne la relazione, che il Vicario era in salvo, che la folla cominciava a
dissiparsi, un vecchio machiavellista del consiglio segreto: «ah!» disse, «signori miei: ora il partito
è chiaro: centomila pani, e quattro capestri». Tutto quello che fu detto da poi non fu che un
commento a queste parole, e deliberazione sul modo di condurle ad effetto. Si ordinò che fossero
mandate guardie ai forni rimasti intatti fin allora, per assicurarli, e per obbligare i fornaj a far pane
in abbondanza per l'indomani. Furono destinate persone autorevoli, e accette al popolo, le quali di
buon mattino assistessero ai forni in uno colle guardie, e aggiungendo la persuasione alla forza,
cercassero di regolare la distribuzione del pane, e mantenessero la tranquillità: il prezzo del pane fu
riabbassato a quella prima tassa immaginata dal Ferrer. Si mandarono soldati a sgombrare la via
dov'era la casa del Vicario, dai pochi che v'erano rimasti: e la via fu quindi sbarrata, e i soldati vi si
posero a stazione, per togliere alla sedizione il campo dov'ella aveva già ottenuta una vittoria, e
dove probabilmente ella si sarebbe presentata di nuovo per ricominciare la battaglia. Finalmente
furono spediti attorno tutti i membri di quella che il popolo chiamava <I>onorata famiglia</I> con
l'ordine di metter le mani su qualcheduno dei capi, o dei più turbolenti, ma però in modo che il
colpo fosse sicuro, e non potesse dare occasione ad un nuovo ribollimento.
L'ordine era più facile da darsi che da eseguirsi: e per non parlare che di ciò che si lega alla nostra
storia, quel falso Ambrogio aveva girato lungo tempo qua e là, su e giù, sempre in mezzo alle
occasioni, senza poterne cogliere una, vedendo i rei a centinaja, senza poterne fare un prigione, e si
rodeva come un cacciatore che viaggiando vegga levarsi a destra e a sinistra, dalle macchie, tordi,
starne, e pernici, e non abbia lo schioppo con sè; quando gli capitò nelle ugne il povero Fermo, e vi
rimase, come abbiamo veduto. Il bargello malandrino andò tosto a riferire, come aveva colto <I>in
flagranti</I> uno che predicava, come l'aveva condotto all'osteria, come quegli aveva negato
obbedienza alla grida, ricusando di dare il nome, come poi egli uomo benemerito glielo aveva
cavato di bocca, e come finalmente la bestia era nel covo, e non si trattava che di andarla a
prendere. Il Capitano di giustizia, avrebbe voluto che fosse presa subito subito senza tardare: - ma -,
pensava egli, mettendo di tratto in tratto la mano sulla sua bernoccola: - bisogna prima assicurarsi
che tutte le cose sieno quiete. - All'aurora tutto era disposto in modo che non si credeva più che la
forza potesse trovare ostacoli, e allora fu spedito il bargello con un notajo e due birri all'osteria della
luna piena. Saliti alla stanza di Fermo, che dormiva, il bargello lo riconobbe, disse al notajo: «è
l'uomo», e partì. Fermo russava già da sette ore, e non avrebbe finito così presto, se una mano che
gli scoteva la spalla, e una voce che gridava: «Fermo Spolino», non lo avesse fatto risentire.
Aperse gli occhj a stento, e guatò: era giorno fatto e la luce che entrava per le impannate fece
vedere a Fermo un uomo ravvolto in una cappa nera stargli al capezzale da un lato, e due in farsetto
armati, l'uno dall'altro lato del capezzale, e l'altro a piedi del letto. Mentre Fermo andava
raccapezzando le sue idee, e cercando di ricordarsi delle circostanze che gli pareva di dover sapere,
per potere comprendere quelle che gli erano affatto nuove e strane, s'udì dire dall'uomo della cappa
nera: «alto, su, Fermo Spolino, alzatevi e venite con noi».
«Che vuol dir questo?» disse Fermo quando potè aver la favella, e nello stesso tempo dubitando che
fosse un sogno, scuoteva la testa e dimenava tutte le membra per destarsi affatto.
«Ah! avete inteso una volta, Fermo Spolino?», disse l'uomo dalla cappa nera, «alzatevi, e venite con
noi, che non abbiam tempo da perdere».
«Fermo Spolino!» disse Fermo Spolino. «Chi v'ha detto il mio nome?» - Che sia uno stregone
costui vestito di nero? - mormorò tra sè; «Ehi! l'oste, l'oste!» gridò quindi a quanto fiato aveva in
corpo.
«Meno ciarle, e su!» disse uno di quei birri.
«Che prepotenza è questa?» disse Fermo, «ah! adesso mi ricordo... badate bene a quello che fate:
non è più come una volta...»
«Badate voi, a far presto», disse il notajo, «se non volete esser portato via in camicia».
«E perché mò?» disse Fermo.
«Il perché lo direte al Signor Capitano di giustizia».
«Io sono un buon figliuolo, non ho fatto niente...»
«Tanto meglio per voi; così dopo due parole vi lasceranno andare pei fatti vostri».
«Mi lascino andare adesso, subito», disse Fermo, «io non ho nulla che fare con la giustizia».
«Lo portiamo via?» disse uno di quei birri al notajo.
«Fermo Spolino!...» disse il notajo con aria di consiglio minaccioso.
«Come sa Lei il mio nome?» disse Fermo.
«Se non fate presto...»
«Voglio sapere perché vengono a fare questa sorpresa a un galantuomo. Che cosa ho fatto? parlino:
io son uomo che intende la ragione, e darò conto di tutto». Ma i birri fattisi bruscamente vicini a
Fermo stavano per porgli le mani addosso, quando egli gridò: «non toccate la carne d'un
galantuomo, che...»
«Dunque alzatevi subito», disse il notajo.
«Ebbene mi alzerò», disse Fermo; «ma io non voglio andare dal Capitano di giustizia. Io non ho che
fare con lui. Voglio esser condotto da Ferrer; quello lo conosco, e saprò fare intendere le mie
ragioni».
«Presto, vestitevi, venite con noi, e direte tutta la vostra ragione a vostro bell'agio».
Fermo, vedendo che la resistenza era inutile, tolse sul letto i suoi panni, e cominciò a vestirsi,
cercando intanto di scoprire la cagione di un avvenimento così nojoso e così inaspettato: ma la sua
mente ravvolgendosi per cercarla fra le memorie della sera antecedente, si confondeva, come un
padre che s'aggiri in una folta mascherata, per riconoscere un suo ragazzaccio. Poco a poco però
cominciò egli a ricordarsi della grida, del nome, e del negozio, delle istanze dell'oste, e dei suoi
rifiuti; ma come diavolo, l'uomo nero sapeva egli appuntino quel nome e cognome che Fermo non
aveva mai voluto pronunziare? E poi, come erano cangiate le cose a segno, che colui il quale
doveva in quella giornata fare il legislatore, la cominciasse coi birri al fianco per andare in
prigione? - Qualche mistero ci dev'essere, - disse Fermo tra sè: - e intanto se potessi con un po' di
buona grazia uscire dalle mani di costoro, sarebbe meglio. - Con questa intenzione volgendosi al
notajo con un volto tra il gioviale e il furbo, gli disse:
«Se non si trattasse che di dire il mio nome... jeri sera, veramente io era un po' brillo, e abbiamo
parlato per metà, il vino, ed io.. ma ora non ci avrei difficoltà; ed ella dovrebbe esser contenta, così
rimarremmo in libertà tutti e due».
«Bravo, bravo figliuolo», disse il notajo, «voi pensate con giudizio: se farete le cose con garbo ne
uscirete presto e bene; ma lo direte a chi ha l'autorità di farvi rilasciar subito: è una formalità da
nulla; ma io non posso far niente».
«Ham!» disse, o piuttosto fece Fermo scotendo la testa, e ricominciò a pensare - Diamine! Che cosa
fanno tutti quei buoni fratelli di jeri? mi lasciano in ballo a questo modo! - Fra questi pensieri stava
egli di tempo in tempo con le mani alzate tra un bottone e l'altro, interrompendo l'azione del
vestirsi. Ma il notajo s'era tirato verso la finestra, e aprendo le impannate (ché i vetri in quel tempo
erano riserbati soltanto alle case signorili, anzi alla parte più signorile di esse) guardò nella via non
senza inquietudine, e vide che le cose non erano già più come le aveva trovate nel venire: i popolani
sbucavano come vespe dalle case, e si riunivano a sciami: il ronzio sordo cresceva, e, quello che al
notajo parve un segno mortale, le ronde che giravano per impedire l'attruppamento, cominciavano a
procedere con molta buona creanza.
Chiuse l'impannata in furia, lanciò dal suo cuore, poiché ne aveva uno anch'egli, una imprecazione
contra il Capitano di giustizia che lo aveva messo in quell'intrigo, un'altra contra Fermo che in un
momento così urgente per lui notajo, pareva che volesse perdere il tempo a bella posta, indi fece un
cenno ai birri, che sbrigassero la faccenda. I birri rinnovarono più forti le minacce a Fermo, questi,
accortosi della inquietudine dei nemici, concepì buona speranza, conchiuse che, se l'interesse di
quelli era che si facesse presto, il suo doveva essere di tirare in lungo, e procurò di perder tempo,
senza dare a coloro un pretesto di venire all'estremo. Ma finalmente si trovò vestito: e allora
ponendo le mani nelle tasche del suo farsetto: «oh!» disse, «io aveva una lettera: voi me l'avete
rubata».
«La lettera è qui», disse il notajo traendola di seno in fretta, e senza pensare in quel momento a
ribattere l'irriverenza del rimprovero: «è ella questa?» soggiunse mostrandola.
«Questa appunto», rispose Fermo, stendendo la mano per prenderla.
«Piano, piano», disse il notajo; «ho piacere che l'abbiate riconosciuta, ma non ve la posso dare: vi
sarà restituita a momenti da chi si deve, purché abbiate giudizio: andiamo, andiamo».
«Voglio la mia lettera», disse Fermo: «che bricconeria è questa? a forza di trattare coi ladri, avete
imparato il mestiere».
I birri volevano gettarsi addosso a Fermo; ma il notajo, sporgendo in fuori il mento e la mandibola
inferiore, allargando le narici, sbarrando gli occhi, e scotendo il capo in fretta, fece loro intendere di
non muoversi. L'uomo era in angoscia: pensava che non v'era da perder tempo, che il pericolo
cresceva, che il tragitto sarebbe stato rischioso, e che il miglior modo di farlo sicuramente era di
condurre Fermo con la persuasione. Gli diede quindi la lettera, dicendo: «ecco ch'io mi fido di voi;
ma abbiate giudizio, venite con buona maniera che sarà meglio per voi; quando sarete riconosciuto
per un galantuomo, sarete messo tosto in libertà: è un affare di mezz'ora. Andiamo, da bravo». Così
detto aprì la porta, e precedette il corteggio. Fermo non avendo più nessun pretesto d'indugio, gli
tenne dietro, e i birri fecero la retroguardia. Scesa la scaletta, il notajo fece un cenno ai birri, e disse
a Fermo: «abbiate pazienza, fanno il loro dovere»; e mentre gli proferiva questa bella parola, i birri
afferrarono, l'uno la destra l'altro la sinistra di Fermo, e le allacciarono con certi strumenti, che (per
quell'uso comune d'ingentilire le cose col nome) si chiamavano manichini, ed erano congegnati in
modo che colui che gli aveva intorno ai polsi era fortemente tenuto senza che apparisse alcun segno
di violenza; e il tenuto e il tenente potevano parere due amici che passeggiassero stretti per la mano.
«Che tradimento è questo?» sclamò Fermo, «a un galantuomo par mio!...» Ma i due amici
stringendo i manichini gli fecero sentire che con essi si poteva non solo tenere un rassegnato, ma
ancora martoriare un ricalcitrante; e nello stesso tempo il notajo, raccomandando ai birri di non far
male a quel povero giovane, cercava di persuaderlo con buone parole. Fermo vide che fin tanto che
egli si trovava solo con quei tre, era follia il competere, fece la gatta morta, e disse: «andiamo».
- Andiamo - soggiunse fra sè, - e vedremo se quei fratelli di jeri son tutti morti.
«Andiamo», disse il notajo, con un volto tutto grazioso: «fidatevi di me che vi voglio bene; e voi»,
continuò rivolto ai birri, «non lo stringete, è un buon figliuolo e mi preme; andiamo quietamente»,
disse ancora a Fermo, «non fate vista di nulla, non guardate né a destra né a sinistra, e nessuno s'
accorgerà di quello che è, e voi conserverete il vostro onore, nessuno potrà rinfacciarvi che siete
stato nelle mani della giustizia; e a momenti sarete in libertà».
Il fine di quella ammonizione era di persuader Fermo a lasciarsi condurre tranquillamente, ma
l'effetto ch'ella produsse invece fu di far sentire sempre più a Fermo, che si temeva di lui, e delle
circostanze, e di determinarlo ad approfittarne. Non si vuol dire per questo che Fermo fosse più
accorto del notajo: ohibò: ma è destino di quelli che vanno al disotto, ed hanno paura, che tutte le
parole ch'essi dicono per ajutarsi, dieno lume ed animo all'avversario.
Usciti nella via, Fermo tra i due birri, e il notajo dietro, Fermo cominciò tosto a gettare la testa a
destra e a sinistra, guardando con ansia se v'era da sperare ajuto. «Giudizio, giudizio», diceva il
notajo, a bassa voce, accostandosi a Fermo: «non vi fate scorgere, l'onore, figliuolo, l'onore». I birri
intanto affrettavano il passo tirando Fermo e ripetendo, «andiamo, andiamo». La via formicolava di
gente, e Fermo cercava di rallentare il passo per osservare quelli che andavano, e venivano, e per
udire se non si parlava più nulla delle cose del giorno antecedente, per accertarsi se la disposizione
degli animi era affatto mutata. Quando intese «forni, pane, Ferrer, giustizia, abbondanza», e vide
una brigata di otto o dieci che gli veniva incontro, e che i birri volevano schifare, portandosi nel
mezzo della strada, alzò la voce e scotendo le braccia e il capo gridò: «Ohe! fratelli! mi menano su;
e non ho fatto niente: solo perché jeri ho gridato: pane e abbondanza: non mi abbandonate, fratelli:
patisco per la patria: son legato; ad uno per volta vi faranno la stessa festa: fratelli, date uno
scappellotto a costoro che mi stringono le mani: ahi! ahi! sono un galantuomo, non ho fatto niente
di male».
La brigata si fermò sulla via, ma i birri stringendo pur Fermo, lo strascinavano nel mezzo, e
affrettavano il passo: la brigata allora si volse, e si divise, altri a fianco, altri dietro guardando pure
e ascoltando: quegli che erano sparsi nella via accorrevano, e si faceva folla. Il notajo tutto
tremante, cercava di rimandare quegli che gli si avvicinavano, dicendo: «è un malandrino, un ladro
colto sul mestiere, che svaligiava la casa d'un pover uomo». Ma intanto tutti quelli che venivano
dalla parte ove il corteggio doveva passare, accorrevano, e si fermavano, di modo che la via si trovò
sbarrata. Fermo predicava tuttavia, domandando misericordia: i birri sul principio comandarono,
poi chiesero, poi pregarono i sopravvegnenti che dessero il passo: ma i più lontani cominciarono a
mormorare, quindi a fremere, quindi ad urlare: i più vicini, parte per buona volontà, parte spinti,
urtavano i birri, i quali dopo aver fatto indarno ogni sforzo per tenersi insieme, e per non lasciare la
preda, furono separati dalla folla, dovettero abbandonare i manichini, e non cercarono più che a
perdersi nella moltitudine per uscirne salvi.
«Bravi fratelli», gridava Fermo: «saldi, ancora un momento, ahi! strappateli, fate che mi lascino,
siamo fratelli».
Il notajo veduta la mala parata, si fermò, e poi si volse indietro, per uscire da quella parte dove il
concorso era ancor rado, cercando intanto di far l'indiano, e componendo il volto ad una certa
curiosità, e maraviglia sciocca, come s'egli giungesse ivi a caso, e non c'entrasse per nulla. Ma
l'abito lo tradiva, e smentiva il volto; per meglio nascondersi si volse egli ad uno dei molti che lo
guardavano fiso, e disse: «che cosa è questa faccenda?»
«Uh! corbaccio!» rispose invece dell'interrogato, uno che era più lontano. «Corbaccio! uh
corbaccio!» fu ripetuto intorno. Il notajo impallidì: allora alle grida si aggiunsero gli urti di quelli
che gli stavano a fianco: tanto che il pover'uomo ottenne in breve quello che invero desiderava
ardentemente: d'esser fuori di quella calca, ma più colle gomita del prossimo che con le sue gambe.
Quando Fermo si vide tolto alle ugne dei suoi guardiani, e confuso nella folla dei suoi liberatori, si
scosse i manichini dai polsi, e il primo suo pensiero fu di approfittare di quella confusione, per
fuggire in luogo di salvamento. Si ricordò tosto che il suo nome era scritto sui libracci del Capitano
di giustizia, e fece ragione ch'egli non sarebbe sicuro né in Milano né a Monza né a casa sua, né in
alcuna parte dello Stato. - Se mi pigliano la seconda volta, - diss'egli fra sè - sto fresco, e lo merito...
Ma dove andare? - domandò a se stesso. - A Bergamo - si rispose. - E la strada? Domanderò a
qualcheduno di questi galantuomini: chi m'ha ajutato non mi vorrà tradire. - Mentre egli pensava, da
molte parti gli veniva gridato: «presto presto, a gambe, amico». Egli seguì il consiglio alla prima:
entrò per una via sconosciuta, e si diede a correre, senza saper dove; ma quando si trovò fuori della
folla, allentò il passo, e cominciò ad affisare i volti di quelli che incontrava, per trovarne uno che gli
garbasse, e gli desse fiducia a fare la sua inchiesta. Ma la scelta andò in lungo, e Fermo ebbe a fare
rapidamente forse venti giudizj fisionomici prima di fissarsi ad uno che fosse l'uomo per lui. Quel
grassotto che stava ritto su la porta della sua bottega, con le gambe aperte, con le braccia dietro la
schiena, e le mani l'una nell'altra su le reni, col ventre in fuori, il mento levato, e la giogaja
pendente, sollevando alternativamente su la punta dei piedi la sua massa tremolante, e lasciandola
cadere su le calcagna, aveva una cera di cicalone curioso, che invece di risposta avrebbe dato
interrogazioni: quegli che girava posatamente, adocchiando e origliando pareva uomo da
ripiombare un povero figliuolo nella fossa dei lioni e non d'aiutarlo ad uscirne del tutto: quell'altro,
che s'avanzava col labbro spenzolato, e con gli occhi immobili, non che segnare spicciamente, e
precisamente la via altrui, appena pareva conoscer la sua: e quel ragazzotto che a dir vero mostrava
una intelligenza superiore all'età, mostrava però ancor più malizia che intelligenza, e si sarebbe
potuto scommettere che nella domanda che gli fosse fatta egli non avrebbe veduto altro che
l'occasione di burlare e di confondere un povero forese. Tanto è vero che all'uomo già impacciato
ogni cosa è nuovo impaccio; e che ogni movimento, che si dà ad una matassa scompigliata per
ravviarne il bandolo, può far nascere nuovi nodi. Ciò che rendeva più critica la situazione di Fermo,
era l'essere egli affatto nuovo della città, dimodoché non sapeva nemmeno per qual porta si uscisse
per pigliare la via sulla quale egli voleva porsi, e gli conveniva chiedere a dirittura la via di
Bergamo; inchiesta sospetta, che poteva attirare gli sguardi sopra di lui, e rimetterlo in guaj.
Giacché la sedizione che era stata la salute di Fermo, cominciava appena a rialzare il capo, in
qualche angolo della città; e in tutto il rimanente la forza era tuttavia nelle mani avvezze ad usarla: e
per comprimere appunto la sedizione nel suo ricominciare, e per disperderla, giravano ronde di
soldati, e sbucavano da ogni parte i colleghi di coloro che i liberatori di Fermo avevan posti in fuga:
e se per disgrazia quegli stessi si fossero di nuovo abbattuti in Fermo, e lo avessero afferrato, e'
poteva scuotere, e guaire, qui non v'era da sperare soccorso.
Finalmente, come la necessità aguzza l'ingegno, Fermo, adocchiato uno che veniva in gran fretta, si
risolvette di voltarsi a lui, stimando giudiziosamente che l'uomo premuroso d'andare ad una sua
faccenda, risponde tosto e direttamente a chi lo interroga, perché quello è il modo più spiccio per
isbrigarsene. Fattosegli dunque a canto gli disse: «in grazia, signore: quale è la strada che conduce a
Bergamo?»
«Eh! amico», rispose frettolosamente l'altro: «vi conviene uscire dalla porta orientale...»
«Bene, e per andare alla porta orientale?»
«Entrate per questa via a mancina; e sboccherete alla piazza del duomo...»
«Basta, signore: il resto lo so: Dio gliene rimeriti».
«Niente, niente», disse il cortese preoccupato, e continuò la sua via.
Fermo con un passo più sicuro, e più spedito entrò per quella che gli era stata segnata, giunse alla
piazza del duomo, l'attraversò, diede passando una occhiata al mucchio di cenere, e di carboni
spenti, fredde reliquie della baldoria del giorno antecedente, poscia raffrontando i luoghi con le
memorie di jeri, riconobbe la via per la quale era venuto insieme con la folla trionfante, e si pose in
quella nell'attitudine d'un generale che ripassa sconfitto e fuggitivo pel campo dove aveva vinto
poco innanzi. Rivide il <I>forno delle grucce</I> smantellato, e guardato da soldati, e passò innanzi
senza badare ai crocchj che cominciavano di nuovo a formarsi, né alle grida che già si facevano
intendere. Via, via; giunse dinanzi al convento dei cappuccini, guardò sospirando la porta della
chiesa, e disse fra sè: - quel frate m'aveva però dato un buon parere, senza saperlo, quando mi disse
ch'io aspettassi in Chiesa; ma! non ho avuto giudizio -. Quando fu presso alla porta rallentò il passo
perché la celerità non lo chiarisse un fuggitivo, e preso il contegno placido d'uomo che vada pei
suoi negozj, non senza battito al cuore, passò la porta. Uscito al largo, respirò, ma pure andava
guardandosi indietro ad ogni tratto per vedere se non era inseguito: la strada maestra non gli andava
a genio: e al primo viottolo che scorse vi s'internò, volendo piuttosto allungare e raddoppiare il
cammino che farlo sempre in sospetto.
Quetata un poco la paura, sorsero nel suo cuore mille pensieri di rimprovero, mille di sollecitudine
per l'avvenire, e quindi mille proponimenti che il lettore s'immaginerà facilmente. Con questa trista
compagnia passando di viottolo in viottolo, di casolare in casolare, chiedendo la strada di tempo in
tempo, e cercando di stare più vicino che poteva alla maestra, senza toccarla mai, dopo aver fatte
forse quindici miglia, senza essersi allontanato più distante dalla città da cinque o sei, cominciò a
sentire fortemente gli stimoli della fame: e avendo veduto nella botteguccia d'un villaggio alcuni
pani, ben diversi da quei bianchissimi che il giorno antecedente aveva trovati sulle sue orme, ne
comperò con uno di quei pochi quattrinelli che gli rimanevano, e proseguì il suo cammino.
Finalmente, dopo averne fatto altrettanto, e non rimanendo più che due ore di giorno, egli sentì di
nuovo la fame, e per giunta la stanchezza: e la sollecitudine di porsi in salvo diede luogo al
desiderio di cibo e di riposo. Vedeva Fermo da qualche tempo attraverso i campi e le piante un
campanile, e presolo per meta si avviò direttamente verso quello. Giunto al paese, (Fermo non ne
sapeva il nome, ma era veramente Gorgonzola) vide che era posto su la strada maestra, stette in
forse un momento di tornarne fuori; ma alla fine il bisogno vinse. - Non saranno venuti a cercarmi
fin qui: - diss'egli fra sè: - e qui nessuno mi conosce.
Col conforto di questa riflessione, entrò in una osteria per ristorarsi con qualche cibo, e per
riposarsi, seduto però, e fin che durava il giorno; perché ai letti ed alle notti dell'osteria aveva preso
orrore, e all'ultimo si sarebbe piuttosto accontentato di dormire al sereno, sotto un noce, in un
campo. Sedette, e chiese qualche cosa da mangiare, e un mezzo boccale di vino calcando la voce
sulla parola mezzo, come per far sentire alla gola che quello era la misura prescritta
irrevocabilmente, e per farle ricordare gli spropositi del giorno passato.
V'erano in quella stanza alcuni oziosi, i quali venivano ivi per abitudine, e allora s'erano ragunati
anche per la speranza che arrivasse qualcheduno da Milano, il quale portasse le nuove più recenti.
Si sapeva in cento maniere secondo l'uso antico ed universale, il guazzabuglio del giorno
antecedente, e s'era pur bucinato che il mattino la pentola aveva cominciato a ribollire; sicché la
curiosità era infiammata. Gli occhi furono tosto addosso a Fermo, ma visto ch'egli era un forese,
nessuno pensò a lui, per sua buona ventura; perché chi gli avesse chiesto: «a caso, verreste voi forse
da Milano?» nella disposizione d'animo in cui era Fermo, possiamo ingannarci, ma egli diceva
certamente la bugia. In vece, senza essere importunato di richieste, potè egli mentre mangiava
saporitamente, sentire i discorsi che si facevano, e rimettersi un po' al corrente delle cose del
mondo, dopo una lunga giornata di ritiratezza.
«Eh! eh!» diceva uno, «i milanesi non son mica uomini di stoppa: e non la finiranno prima che sia
loro fatta ragione davvero».
«Pure», disse un altro, «il vicario se lo sono lasciato levare dalle mani».
«Sì», ripigliò un altro; «ma gli sarà fatto il processo».
«Stiamo un po' a vedere», saltò in campo un quarto, «se questi cittadini superbi non penseranno che
ai loro interessi, o se vorranno una legge nuova anche per la povera gente di fuora, che per diana ha
pure il ventre anch'ella, e lavora più di loro per far crescere il pane».
«Basta», riprese il primo: «si potrà vedere: mi pento di non essere andato a Milano, questa
mattina».
«Se vai domani, vengo anch'io», disse un altro, poi un altro, poi un altro.
A questo punto della conversazione si sentì il passo d'un cavallo; e i nostri interlocutori
indovinarono facilmente chi poteva portare, e ne furono molto lieti pensando che saprebbero le
notizie vere di Milano. Era infatti quegli che eglino avevano preveduto, un mercante che andando
più volte l'anno a Bergamo pei suoi traffichi era uso fermarsi a passar quivi la notte, e come trovava
nell'osteria quei soliti frequentatori del paese, era divenuto conoscente quasi di tutti.
Accorsero nella strada, si affollarono a gara attorno all'arrivato, uno prese le briglie, l'altro la staffa:
«Buon giorno», «buona sera», «avete fatto buon viaggio: che c'è di nuovo a Milano?»
«Eh! eh! ecco quelli dalle notizie», disse il mercante, «quelli che le vanno fiutando, come i bracchi
le pernici. E poi, e poi, le saprete voi a quest'ora, forse più di me». Così dicendo scese da cavallo, lo
diede e lo raccomandò ad un garzoncello, ed entrò nella cucina, circondato dai curiosi.
«Davvero che non sappiamo niente», disse il più antico di quei conoscenti.
«Possibile?» rispose il mercante: «bene, dunque sentirete. Ehi oste, il mio letto solito è in libertà?
Bene: dunque non sapete che jeri è stata una giornata brusca in Milano? ma brusca vi dico!...»
«Questo lo sappiamo».
«Vedete dunque», continuò il mercante, «che le sapete le notizie. Voleva ben dir io che stando qui
sempre ad agguatare quegli che passano, e a frugarli come se foste gabellieri, qualche cosa vi
potesse scappare».
«Ma oggi, che cosa è accaduto?»
«Ah oggi», disse il mercante, sedendo. «D'oggi non sapete niente?»
«Niente».
«Niente davvero? dunque vi racconterò io. Oste, il mio boccone solito, e presto, perché voglio
coricarmi subito, e domattina pormi in viaggio per tempo. Oggi, poco mancò che la giornata non
fosse brusca, come quella di jeri. Ma, un po' colle buone, un po' colle cattive... m'intendete eh? olio
ed aceto; e si fa l'insalata».
«In fine che cosa è accaduto?» domandarono in una volta due o tre di quegli ansiosi.
«Abbiate pazienza», disse il mercante, «che se l'oste mi darà di che ammollare le labbra, vi conterò
tutto».
«Oh bravo!»
L'oste portò la refezione: il mercante si versò un bicchier di vino, si accarezzò la barba e lo
tracannò: e trinciando la vivanda che gli era stata imbandita, cominciò la sua narrazione e la
continuò mangiando; mentre i suoi conoscenti stavano intorno alla tavola con le bocche aperte; e
Fermo in disparte, senza far vista di dar molta attenzione, ascoltava però con più ansia e
sospensione degli altri.
«Dovete dunque sapere», cominciò il mercante, «che questa mattina per tempo cominciarono a
congregarsi molti furfanti, gente senza casa né tetto, di quelli che jeri avevan fatto tutto il chiasso; e
si misero a girare in troppa per la città, per far numero, e tornar da capo. Da principio fecero
bravate e insolenze dove capitavano, far le corna alle spalle ai soldati, fare i visacci ai galantuomini,
rompere il muso ai birri: in un luogo strapparono dalle mani dei birri uno che era menato su: un
capo popolo che aveva predicato jeri che si avessero a scannare tutti i signori, e tutti i bottegaj:
pezzo di briccone! ma se v'incappa, gli medicheranno il pomo d'Adamo con un sovatto. Quando
parve a costoro d'aver fatto popolo a bastanza, andarono alla casa del vicario, dove jeri avevano
fatte tutte quelle belle prodezze, m(e qui a guisa d'interjezione fece con la lingua quel suono con
cui i cocchieri usano di dare ai cavalli il segnale della partenza).
«Ma?» dissero gli ascoltatori.
«Ma», continuò il mercante, «trovarono la via sbarrata, e dietro le sbarre una buona confraternita di
micheletti cogli archibugi spianati, e i calci appoggiati ai mustacchi: e... che cosa avreste fatto voi
altri?»
«Tornare indietro».
«Benone: così fecero anch'essi; ma quando furono al Cordusio, dinanzi a quel forno che jeri
avevano cominciato a saccheggiare; dite mò, se non sono birbi: si distribuiva il pane pulitamente;
v'erano dei buoni cavalieri che invigilavano perché tutto andasse in ordine: e costoro: «dalli dalli,
saccheggio, saccheggio»: in un momento, cavalieri, fornaj, avventori, tutti sossopra, chi qua, chi là;
e cominciò il saccheggio che durò poco, perché poco v'era da rubare. Quando non rimasero più che
le panche e gli utensili; «fuoco, fuoco», si cominciò a gridare; tavole, madie, imposte, tutto il
legname si pigliava a furore per portarlo in mezzo al Cordusio e dargli il fuoco. Ma un dannato
peggio di tutti gli altri, dite un po' che proposta diabolica mise in campo?»
«Che?...»
«Che? di abbruciar tutto nella casa, e la casa insieme. Ma un galantuomo ebbe una ispirazione del
cielo: entrò nella casa, salì le scale, e trovato per buona sorte un gran crocifisso, lo appese fuori
d'una finestra, e v'accese intorno due candele, che aveva tolte da capo del letto del fornajo. A quello
spettacolo: tutti rimasero in silenzio: v'era bene pochi diavoli in carne, che per fare chiasso e
baldoria, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma quando videro che tutti gli altri non erano
ebrei com'essi; dovettero tacere. Intanto venne tutto il capitolo del duomo in processione, a croce
alzata, e vestiti pontificalmente, che era un gran bel vedere; e cominciarono a predicare: «figliuoli
dabbene, che cosa fate? è una vergogna, dove è il timor di Dio? questo è l'esempio che date ai vostri
figliuoli? siamo in Milano, o in terra di Turchi? Via, tornate a casa, da bravi, che quel che è stato è
stato. Avrete abbondanza: il pane di otto once ad un soldo: la grida è stampata».
«Era vero poi?» domandò uno degli ascoltanti.
«Vero come il Vangelo. Volete voi che i canonici venissero in paramenti a dir bugie? Allora, la
gente cominciò a sfilare, e i soldati, con buona maniera, gli andarono sparpagliando di più e fecero
spazzare la piazza del Cordusio. Ebbene... pareva che non fossero contenti: andavano girandolando
per le vie, come se aspettassero l'occasione di porsi insieme di nuovo. Ma ecco che venne l'ultima
medicina, che fece l'effetto».
«E fu?...»
«E fu, unguento di canape: bastò nominarlo, per far guarire tanti matti. Si fece pubblicare, ed è vera
anche questa, che quattro capi erano stati presi jer sera, e saranno impiccati. Ah! ah! vi dico io che
ognuno studiava la via più corta per andarsene a casa, per non diventare il numero cinque. Quando
io sono uscito da Milano, pareva un monastero».
«Dunque gli impiccheranno?» domandò un altro uditore.
«Senza fallo, e presto», rispose il mercante.
«E la gente che cosa farà?» domandò ancora quegli.
«Anderà a vedere», rispose ancora il mercante. «Avevano tanta smania di veder morire
qualcheduno all'aria aperta, che volevano far la festa al Signor Vicario di Provvisione. Puh! che
spettacolo un cavaliere ammazzato di mala grazia! Invece avranno quattro birbanti serviti con tutte
le formalità. Quattro! quattro finora, ma chi sa?... Vi so dire che tutti quelli che jeri e questa mattina
hanno mangiato pane fresco in Milano, se ne stanno coll'olio santo in saccoccia. Per me, ho
testimonj che tutta la giornata di jeri, e tutta la mattina d'oggi me ne sono stato chiuso in casa: e poi,
si sa che noi altri mercanti siamo nemici dei torbidi...»
«Anch'io non mi son mosso di qui», disse un ascoltante.
«Non siamo qui tutti?» disse un altro: «la cosa parla da sè».
«Ohe, come andrà per Bartolommeo che è andato a Milano appunto jer l'altro?» disse un secondo.
«Se avrà avuto giudizio», rispose il mercante, «ne sarà stato fuori, e non gli accadrà nulla».
«Il guaio è», disse quegli, «che sta male a giudizio».
«Allora non so che dire»; rispose il mercante, in aria di chi si rassegna alle sciagure degli altri.
«Se io mi fossi anche trovato in Milano, per caso, per caso», disse un terzo, «me la sarei battuta
subito a casa».
«Infatti», ripigliò il primo, «in quei garbugli v'è sempre pericolo, e poi, via bisogna dire il vero,
sono cose che non istanno bene. Confesso la verità che i baccani non mi sono mai piaciuti».
«È stata una provvidenza vedete», disse il mercante «che l'abbiamo fatta finir presto: altrimenti, arte
per arte, saccheggiavano tutte le botteghe di Milano coloro».
«Ma per noi foresi non si farà niente?» domandò un altro: «i milanesi a buon conto hanno il pane a
buon mercato: e noi, povera gente?»
«Sarà quel che Dio vorrà», disse il mercante, vuotando l'ultimo bicchiere, ed asciugandosi la barba
col mantile. «Non sapete che jeri hanno guastata, e gittata tanta farina quanta basterebbe a dar da
mangiare per due mesi a tutto il ducato?»
«Dunque», disse quegli, «ha da patire il buono pel cattivo?»
«Ma non avete inteso che gl'impiccheranno?» rispose il mercante.
«L'ho sempre detto io», disse un altro «che a muover garbugli si fa peggio. Se i milanesi avessero
avuto un po' di giudizio, dovevano porre le mani addosso a quegli che cominciarono a parlare di far
chiasso, e legarli come salsicce, e condurli alla giustizia».
La conversazione continuava, ma Fermo ne aveva udito a bastanza: egli se ne era stato cheto cheto,
con l'animo d'un autore che trovandosi sconosciuto presso tre o quattro uomini di buon gusto, sente
fare il processo all'ultima sua opera: quel poco boccone tanto desiderato gli era tornato in veleno:
però dal veleno pensò a cavare il rimedio d'un buon consiglio; si alzò, con aria indifferente, pagò il
suo scotto, e uscì dall'osteria, risoluto di non fermarsi fin che non fosse giunto sotto le ali del leone
serenissimo di San Marco. Si avviò su la strada maestra, premuroso di giunger presto, confidando
nelle tenebre che cominciavano a stendersi su la terra; ma appena dati alcuni passi, pensò che il
passaggio al confine sarebbe stato pericoloso più di notte che di giorno, e si sovvenne che vi doveva
esser l'Adda da passare. Sconfortato uscì della via, entrò nei campi, e andando al lume della luna,
procurò di dirigere il suo cammino verso quella parte dove gli pareva che l'Adda dovesse passare.
Finalmente sentì il romore del fiume, e camminando sempre verso quello, giunse presso alla
sponda. Ma quivi non v'era modo di transitare, onde il povero Fermo dopo aver guardato intorno se
mai per caso qualche battello si trovasse su la riva, e non ne vedendo, tornò tristamente indietro, ed
entrato in un bosco che costeggiava il fiume, s'arrampicò sur un albero, e vi si appiattò, aspettando
con ansietà l'apparire del giorno. Ma la notte era appena incominciata, e il povero Fermo, ebbe
molte ore da meditare in quella sua incomoda stazione. Don Rodrigo, Don Abbondio, il Vicario,
Ferrer, la guida, l'oste di Milano, il notajo, i birri, il mercante, i curiosi, passavano a vicenda nella
sua fantasia; ma nessuno di costoro conduceva seco una memoria che non fosse di rancore o di
sconforto. Solo due immagini avevano un aspetto consolatore, e spargevano un po' di luce tranquilla
su quel quadro confuso. Se noi inventassimo ora una storia a bel diletto, ricordevoli dell'acuto e
profondo precetto del Venosino, ci guarderemmo bene dal riunire due immagini così disparate
come quelle che si associavano nella mente di Fermo; ma noi trascriviamo una storia veridica; e le
cose reali non sono ordinate con quella scelta, né temperate con quella armonia che sono proprie del
buongusto; la natura, e la bella natura, sono due cose diverse. Diciamo dunque con la franchezza
d'uno storico, che mentre quasi tutti i personaggi, coi quali Fermo era stato in relazione, si
schieravano e si affollavano nella sua immaginazione con un aspetto più o meno odioso, o
tristamente misterioso, di modo che, dopo averli contemplati qualche tempo come forzatamente,
essa gli rispingeva, e cercava di farli sparire, v'era però due immagini nelle quali essa riposava, con
una specie di refrigerio: due volti i quali ricordavano ed esprimevano candore, benevolenza, affetto,
innocenza, pace: quei sentimenti chiari e soavi nei quali tanto si gode la fantasia degli infelici: e
queste due immagini erano una treccia nera, e una barba bianca, Lucia e il Padre Cristoforo.
Ma i pensieri che questi volti stessi facevano nascere, eran tutt'altro che di una gioja pura: alla
immagine del buon frate, Fermo sentiva vivamente la vergogna della cervellinaggine che aveva
spiegata nel giorno passato, e della turpe sua intemperanza: e contemplando Lucia, oltre la stessa
vergogna, egli sentiva nel fondo dell'animo l'assenza, l'incertezza del rivedere, il terrore della
dimenticanza. Meno potente, meno scolpita, ma pure mista anch'essa di compiacenza e di dolore,
gli appariva pure l'immagine di quella povera Agnese, che lo aveva voluto per figlio, e che a
cagione di questo buon pensiero si trovava ora fuor di casa, e assediata da quelle sollecitudini che
non hanno alcun compenso di consolazione.
Con questa lanterna magica dinanzi alla mente vegliò Fermo tutta quella notte: quand'anche i
pensieri non gli avessero tolto il sonno, il disagio e il pericolo della postura, e il freddo, che
cominciava a frizzare lo avrebbero tenuto lontano. Finalmente, quando la luce cominciò a dar forma
e colore alle cose, Fermo guardando attentamente al fiume, vide un pescatore che costeggiava la
sponda, e che slegava un battello; scese dall'albero, e si avviò a quella parte, e vi giunse prima che il
pescatore salpasse.
«Amico, volete voi farmi il piacere di traghettarmi all'altra riva?» disse Fermo al pescatore che
guardava non senza sospetto lo sconosciuto che a quell'ora gli si accostava.
«Volentieri», rispose il pescatore, dopo aver guardato diligentemente intorno se non v'era alcun
testimonio, e lo accolse nella barca, lo condusse all'altra riva, senza fargli altro motto. Fermo prima
di scendere a riva, cavò una mezza lira, e la diede al pescatore che, dopo aver fatta qualche
cerimonia, la prese, e condusse la sua barca al largo.
Perché nessuno si faccia maraviglia della pronta e discreta cortesia del pescatore, dobbiamo
avvertire che quest'uomo era avvezzo ad essere richiesto sovente dello stesso servizio da
contrabbandieri, e da fuorusciti; e la massima forse la più importante della sua politica di pescatore
era di non farsi nemico nessuno di costoro, perché la sua barca e la sua vita era quasi sempre in loro
balìa. Prestava egli adunque ad essi quel servizio tutte le volte che potesse farlo senza correre
rischio dalla parte di gabellieri, di soldati, o di esploratori, altre classi ch'egli doveva rispettare per
un altro punto della sua politica. Pigliò dunque Fermo per uomo d'una delle due prime condizioni,
senza darsi briga di appurare quale, e lo servì.
Fermo, posto piede sulla terra di San Marco, respirò davvero; e, alla prima insegna che vide, entrò a
ristorarsi col cuore più largo. Sentì quivi pure relazioni e ragionamenti su gli avvenimenti di
Milano: a dir vero egli avrebbe potuto rettificare in molte parti i fatti e le riflessioni; ma da quei fatti
egli aveva appunto imparato a tacere. Continuò la sua strada, giunse a Bergamo, fece inchiesta di
quel suo cugino, e gli si presentò.
Era questi lavoratore di seta, come Fermo, e uno di quei tanti che vedendo mancarsi il lavoro a
cagione delle discipline assurde che a quei tempi erano prescritte nel milanese, e dei pesi
insopportabili d'ogni genere, avevano portata la loro industria in un altro stato, dov'erano bene
accolti e protetti. Massajo, e diligente in sei anni da che si trovava a Bergamo, aveva egli fatta una
provvigione che gli era di grande soccorso in quell'anno malvagio. Rivide egli con piacere Fermo
che aveva instradato nei lavori della seta, e a cui aveva fatto da padre, e lo accolse lietamente, prese
parte alle sue traversie, e gli promise intanto di procacciargli lavoro. «Se non ne troveremo»,
soggiunse, «starai con me, mangeremo insieme un po' di pane; e quando torneranno gli anni grassi,
mi pagherai di tutto, e farai un buon marsupio anche per te». Se quel brav'uomo avesse letto
Virgilio non avrebbe mancato di dire in questa occasione: <I>Non ignara mali miseris succurrere
disco</I>: perché in fatti questo era il suo sentimento.
Lasceremo per ora Fermo, giacché si trova in una situazione tollerabile, e torneremo alla sua e
nostra Lucia.
<B>CAPITOLO IX</B>
Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia.
Don Valeriano, capo di casa, ultimo rampollo d'una famiglia illustre che pur troppo terminava in
lui, uomo tra la virilità e la vecchiezza, era di mediocre statura, e tendeva un pochetto al pingue,
portava un cappello ornato di molte ricche piume, alcune delle quali spezzate al mezzo cadevano
penzoloni e d'altre non rimaneva che un torso: sotto a quel cappello si stendevano due folti
sopraccigli, due occhi sempre in giro orizzontalmente, due guance pienotte per sè, e che si
enfiavano ancor più di tratto in tratto e si ricomponevano mandando un soffio prolungato, come se
avesse da raffreddare una minestra: sotto la faccia girava intorno al collo un'ampia lattuga di
merletti finissimi di Fiandra lacera in qualche parte e lorda da per tutto: una cappa di... sfilacciata
qua e là gli cadeva dalle spalle, una spada col manico di argento mirabilmente cesellato, e col
fodero spelato gli pendeva dalla cintura; due manichini della stessa materia, e nello stesso stato
della gorgiera uscivano dalle maniche strette dell'abito, e un ricco anello di diamanti sfolgorava
talvolta, nell'una delle due sudicie sue mani: talvolta; perché quell'anello passava anche una gran
parte della sua vita nello scrigno d'un usurajo; e in quegli intervalli, Don Valeriano gestiva alquanto
meno del solito.
Questo contrasto nel suo abito esteriore nasceva da altri contrasti del suo carattere e delle sue
circostanze. Don Valeriano portato al fasto e alla trascuraggine era anche ricco e povero. Già da
molto tempo aveva egli divorato a furia di sfarzo, e lasciato divorare a furia di negligenza e
d'imperizia il suo patrimonio libero; e sarebbe egli rimasto povero del tutto e per sempre, se un suo
sapiente antenato non avesse anticipatamente provveduto a quel caso, istituendo un pingue
fedecommesso. Don Valeriano quindi, benché nell'animo non fosse molto dissimile dal selvaggio di
Montesquieu, non poteva, com'egli, abbatter l'albero per coglierne il frutto: e non poteva far altro
che lanciar pietre al frutto per farlo cadere acerbo e ammaccato. Viveva di prestiti: e per trovarne
doveva ricorrere ai più spietati usuraj; e subire le più rigide leggi che essi sapessero inventare, e per
supplire alla legge comune che non dava loro alcun mezzo di ricuperare il prestato, e per pagarsi del
rischio. E siccome nelle idee di Don Valeriano le pompe e il fasto tenevano il primo luogo, così alle
pompe e al fasto erano tosto consecrati i denari che toccavano le sue mani; e il necessario pativa.
In mezzo a queste cure incessanti Don Valeriano non aveva lasciato di coltivare il suo ingegno, e
senza essere un dotto di mestiere, poteva passare per uno degli uomini colti del suo tempo.
Possedeva una libreria di varie materie, la quale per poco non aggiungeva ai cento volumi; e aveva
impiegato su quelli abbastanza tempo e studio per avere una cognizione fondata nelle scienze più
importanti e più in voga: teneva i principj, e quindi non era mai impacciato nelle applicazioni.
L'astrologia era uno di quei rami dell'umano sapere, nei quali Don Valeriano era versato.
Sapeva non solo i nomi e le qualità delle dodici case del cielo, le influenze che hanno in ciascuna i
diversi pianeti: ma conosceva anche in parte la storia della scienza, la quale è parte della scienza
stessa: ne conosceva i cominciamenti, il progresso: come era nata nell'Assiria, e ci doveva nascere:
giacché essendo il cielo un gran libro, e il cielo dell'Assiria molto sereno, è naturale che ivi si
cominci a leggere, dove i libri sono più chiari e intelligibili; sapeva a memoria un buon numero
delle più stupende e clamorose predizioni che si sono avverate in varii tempi: e aveva in pronto gli
argomenti principali che servivano a difendere la scienza contra i dubbj e le obiezioni dei cervelli
balzani degli uomini superficiali e presuntuosi che ne parlavano con poco rispetto; perché anche a
quel tempo v'era degli uomini così fatti. Della magia aveva pure una cognizione più che mediocre,
acquistata non già con la rea intenzione di esercitarla, ma per ornamento dell'ingegno, e per
conoscere le arti così dannose dei maghi e delle streghe, e potere così entrare a parte della guerra
che tutti gli uomini probi e d'ingegno facevano a quei nemici del genere umano. Il suo maestro e il
suo autore era quel gran Martino del Rio il quale nelle sue Disquisizioni magiche aveva trattata la
materia a fondo, aveva sciolti tutti i dubbj, e stabiliti i principj che per quasi due secoli divennero la
norma della maggior parte dei letterati e dei tribunali, quel Martino del Rio che con le sue dotte
fatiche ha fatto ardere tante streghe e tanti stregoni, e che ha saputo col vigore dei suoi
ragionamenti dominare tanto sulla opinione publica, che il metter dubbio su la esistenza delle
streghe era diventato un indizio di stregheria. A un bisogno Don Valeriano sapeva parlare
ordinatamente e anche luculentamente del maleficio amatorio, del maleficio ostile e del maleficio
sonnifero, che sono i cardini della scienza, e conosceva i segreti dei congressi delle streghe, come
se vi avesse assistito. Aveva più che una tintura della storia in grande, per aver letta più d'una volta
quella eccellente storia universale del Bugatti; possedeva poi singolarmente quella del tempo dei
paladini, che aveva studiata nei Reali di Francia. Per la politica positiva aveva egli principalmente
rivolte le opere dell'immortale Botero; e conosceva assai bene la politica di Spagna, di Francia,
dell'Impero, dei Veneziani e di tutti i principali stati Cristiani; e poteva pur dare una occhiatina
anche nel Divano. Per la politica speculativa il suo uomo era stato per gran tempo il Segretario
Fiorentino, ma questi dovette scendere al secondo posto nel concetto di Don Valeriano e cedere il
primo a quel gran Valeriano Castiglione che in quello stesso anno aveva dato alla luce la sua opera
dello <I>Statista Regnante</I> dove tutti gli arcani i più profondi, e i più reconditi precetti della
ragione di stato sono trattati con un ordine nuovo e sublime. E bisogna confessare che il nostro Don
Valeriano prevenne il giudizio del mondo sul merito del Castiglione: poco dopo Urbano VIII lo
onorò delle sue lodi, Luigi XIII per consiglio del Cardinale di Richelieu, lo chiamò in Francia per
esservi Istoriografo, Carlo Emmanuele di poi gli affidò lo stesso ufizio, il Card. Borghese e Pietro
Toledo vicerè di Napoli, lo pregarono, invano però, di scrivere storie, e fu finalmente proclamato il
primo Scrittore dei suoi tempi.
Quanto alla storia naturale, non aveva a dir vero attinto alle fonti, e non teneva nella sua biblioteca,
né Aristotele, né Plinio, né Dioscoride; giacché come abbiam detto Don Valeriano non era un
professore, ma un uomo colto semplicemente: sapeva però le cose le più importanti e le più degne
di osservazione; e a tempo e luogo poteva fare una descrizione esatta dei draghi e delle sirene, e
dire a proposito che la remora, quel pescerello, ferma una nave nell'alto, che l'unica fenice rinasce
dalle sue ceneri, che la salamandra è incombustibile, che il cristallo non è altro che ghiaccio
lentamente indurato.
Ma la materia nella quale Don Valeriano era profondo assolutamente, era la scienza cavalleresca, e
bisognava sentirlo parlare di offese, di soddisfazioni, di paci, di mentite: Paris del Pozzo, l'Urrea,
l'Albergato, il Muzio, la Gerusalemme liberata e la conquistata, e i dialoghi della nobiltà, e quello
della pace di Torquato Tasso, gli aveva a mena dito; i Consigli e i Discorsi cavallereschi di
Francesco Birago erano forse i libri più logori della sua biblioteca. Anzi Don Valeriano affermava,
o faceva intendere spesso che quel grand'uomo non aveva sdegnato di consultarlo su certi casi più
rematici; e parlando talvolta di quelle opere con quella venerazione che meritavano, e che per verità
ottenevano da tutti, Don Valeriano aggiungeva misteriosamente: «Basta: ho messo anch'io un
zampino in quei libri».
Ma gli studj solidi non avevano talmente occupati gli ozj di Don Ferrante, che non ne restasse
qualche parte anche alle lettere amene: e senza contare il Pastorfido, che al pari di tutti gli uomini
colti di quel tempo, egli aveva pressoché tutto a memoria, non gli erano ignoti né il Marino, né il
Ciampoli, né il Cesarini, né il Testi: ma sopratutto aveva fatto uno studio particolare di quel libretto
che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale, diceva Don Ferrante, tutto, tutto, fino
alla protesta sulle parole Fato, Sorte, Destino e somiglianti era pensiero pellegrino, ed arguto.
Aveva poi un tesoretto, una raccolta manoscritta di alcune lettere dello stesso grand'uomo; e su
quelle si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per qualche negozio, o per
isciogliere qualche ingegnoso quesito che gli veniva proposto: e a dir vero le lettere di Don Ferrante
erano ricercate con qualche avidità, e giravano di mano in mano per la scelta e la copia dei concetti
e delle immagini ardite, e sopra tutto pel modo sempre ingegnoso di porre la questione, e di
guardare le cose; stavano però male di grammatica e di ortografia. Vi sarebbero molte altre cose da
dire, chi volesse compire il ritratto di questo personaggio; ma per amore della brevità, ce ne
passeremo, tanto più ch'egli non ha quasi parte attiva nella nostra storia. Veniamo dunque alla sua
signora Consorte. Donna Prassede, per ciò che risguarda il sapere, era molto al di sotto di suo
marito. Il suo ingegno a dir vero non era niente straordinario, ed essa non si era mai data una gran
briga di coltivarlo, almeno sui libri. Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così
Donna Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si dovrebbe fare cogli
amici.
Ne aveva poche, ma quelle poche le amava cordialmente, e si fidava in esse interamente, e non le
avrebbe cangiate ad istigazione di nessuno. Avrebbe anche avuto, com'era giusto, una gran voglia di
farle predominare in casa; e pare che il carattere straccurato di Don Ferrante avrebbe dovuto servire
a maraviglia a questo desiderio della consorte; ma v'era un grande ostacolo. La più parte delle idee
in questo mondo non possono esser messe ad esecuzione senza danari: ora Don Ferrante poco o
nulla curandosi del governo della casa, aveva però ritenuto sempre presso di sè il ministero delle
finanze; e a dir vero gli affari ne erano tanto complicati, che ormai nessun altro che egli avrebbe
potuto intendervi qualche cosa.
Aveva Donna Prassede il suo spillatico, pattuito nel contratto nuziale, e allo spirare d'ogni termine
dopo un po' di guerra, un po' di schiamazzo, molte minacce di svergognare il marito in faccia ai
parenti, veniva essa a capo di riscuotere la somma che le era dovuta. Ma fuor di questo, tutta
l'eloquenza, tutta l'insistenza, tutte le arti di Donna Prassede non avrebbero potuto tirare un danajo
dalla borsa di Don Ferrante. Le entrate, prima che si toccassero, erano impegnate a pagar debiti
urgenti, o destinate a soddisfare qualche genio fastoso di Don Ferrante. Non rimaneva dunque a
Donna Prassede altro dominio che su la sua persona, sul modo d'impiegare il suo tempo, su le
persone addette specialmente al suo servizio: cose tutte nelle quali Don Ferrante lasciava fare;
poteva ella in somma dare tutti gli ordini l'esecuzione dei quali non portasse una spesa, o che non
fossero in opposizione alle abitudini e alle volontà risolute di Don Ferrante. La sua gran voglia di
comandare, ristretta in questo picciol campo vi si esercitava con una energia singolare. Donna
Prassede profondeva pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che dovevano
sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe lasciato deviar nessuno d'un punto dalla via
retta. Perché, a dire il vero, questa smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista interessata;
era puro desiderio del bene; ma il bene ella lo intendeva a suo modo, lo discerneva istantaneamente
in qualunque alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse affacciata da esaminare: e
quando una volta aveva veduto e detto che quello era il bene, non era possibile ch'ella cangiasse di
parere; e per farlo riuscire predicava ed operava fintanto che avesse ottenuto l'intento, o la cosa
fosse divenuta impossibile: nel qual caso non lasciava di predicare per convincere tutti che avrebbe
dovuto riuscire.
Sotto due padroni così diversi di inclinazioni e di occupazioni, la famiglia era come divisa in due
classi; anzi in due partiti, ognuno dei quali aveva nella famiglia stessa un capo; le due persone cioè
che erano più innanzi nella confidenza dell'uno e dell'altro padrone. Prospero il maggiordomo di
casa, e il favorito di Don Ferrante, faceto e rispettoso, disinvolto e composto, dotto a tutto fare e a
tutto soffrire, abile a trattare gli affari, e a parlarne senza mai proferire le parole che potevano far
sentire gl'impicci, o offendere la dignità del padrone, sapeva suggerir a proposito un invito da fare
onore alla casa, trovare un cammeo prezioso, un quadro raro, ogni volta che una rata di pagamento
stava per entrare nella cassa di Don Ferrante, e sapeva trovare un prestatore ogni volta che la cassa
era asciutta.
L'antesignano dell'altro partito, la governatrice favorita di Donna Prassede era nominata molto
variamente. Il suo nome proprio era Margherita, ma dalla padrona era chiamata Ghita, dalle donne
inferiori a lei, e dai paggi di Donna Prassede Signora Ghitina; e dai servitori di Don Ferrante
quando parlavano fra di loro non era mai menzionata altrimenti che la Signora Chitarra.
Pretendevano costoro che il suo collo lungo, la sua testa in fuori, le sue spalle schiacciate, la vita
serrata dal busto, e le anche allargate la facessero somigliare alla forma di quello strumento: e che
la sua voce acuta, scordata, e saltellante imitasse appunto il suono, che esso dà quando è
strimpellato da una mano inesperta.
Esercitava essa sotto gli ordini immediati della padrona la più severa vigilanza sulle persone che
dipendevano da questa, ed era ministra di tutto il bene ch'ella poteva fare in casa e fuori. Ma quanto
alla gente di Don Ferrante, essa non poteva fare altro che notare tutte le azioni disordinate che essi
commettevano, disapprovare con qualche cenno, o al più con qualche frizzo, e riferire poi il tutto
alla padrona, la quale pure non poteva fare altro che gemere con lei. Prospero com'è naturale era
l'oggetto principale di avversione per Donna Prassede, ma inviolabile com'egli era, se ne burlava in
cuore; non lasciando però di corrispondere con riverenze profonde agli sgarbi della padrona, che
rendeva poi con usura in tutte le occasioni alla Signora Chitarra. Benché questi due capi col loro
predominio fossero passabilmente incomodi ognuno alla parte della famiglia che dirigeva, pure
l'una parte e l'altra aveva sposate le passioni e le animosità del suo capo; l'una faceva crocchio a
mormorare dell'altra; quando si trovavano in presenza, si scambiavano visacci, e talvolta parolacce,
cercavano scambievolmente di farsi scomparire e d'impacciarsi a vicenda nella esecuzione degli
ordini ricevuti. Don Ferrante però aveva appena qualche sentore di questa guerra sorda, perché egli
non osservava molto, e Prospero non si curava di parlargli di malinconie e le querele della moglie,
le attribuiva Don Ferrante ad inquietudine di carattere, a giuoco di fantasia, come le domande di
quattrini.
Lucia si trovava esclusivamente sotto l'autorità di Donna Prassede, la quale certamente non
intendeva di lasciare questa autorità in ozio. Si proponeva ella a dir vero di farsi ben servire da
Lucia nella parte che le aveva assegnata; ma oltre questo fine, che era semplicemente di giustizia,
Donna Prassede ne aveva un altro di carità disinteressata a suo modo, che le stava a cuore ancor più
del primo, ed era di far del bene a Lucia, o di Lucia, la quale le pareva averne gran bisogno. Perché
tutto ciò che Donna Prassede nella sua villeggiatura aveva udito, per la voce pubblica, della
innocenza di quella giovane, le affermazioni magnifiche ed energiche di Agnese quando era venuta
a proporle la figlia, il volto, il contegno modesto, la condotta stessa così irreprensibile di Lucia non
bastavano a produrre un pieno convincimento nella mente di Donna Prassede; e non poteva essa
persuadersi che una giovane contadina avesse levato tanto romore di sè, fosse passata per tanti
accidenti, senza averne cercato nessuno, senza essersi gittata un po' all'acqua, come si dice, senza
essere almeno una testa leggiera.
Donna Prassede teneva per regola generale che a voler far del bene bisogna pensar male: la sua
voglia di dominare, di operare su gli altri, che anche ai suoi occhi proprj prendeva la maschera di
carità disinteressata, era come il ciarlatano, che non dice mai a chi viene a consultarlo: «voi state
bene»; perché allora a che servirebbe l'orvietano? Oltracciò, l'aver ricoverata, sottratta al pericolo
d'una infame persecuzione una povera giovane era un'opera certamente non senza gloria; però in
questo Donna Prassede non era più che uno stromento quasi passivo, e la parte che le era toccata
non domandava altro che un po' di buona volontà, senza efficacia di azione, e senza esercizio di
senno, era più un assenso che una impresa. Ma dopo aver ricoverata la povera giovane, emendare
anche il suo cervello un po' balzano, rimetterla sulla buona strada, questo sarebbe stato non solo
compire, ma rassettare l'opera del Cardinale Federigo; il quale era a dir vero un degno prelato, un
uomo del Signore, dotto anche sui libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a discernimento di
persone, non ne aveva molto: questa insomma sarebbe stata gloria; e perché Donna Prassede
potesse ottenerla, era necessario che Lucia avesse il cervello un po' balzano, e avesse fatto almeno
qualche passo su una cattiva strada. Per averne qualche prova positiva, Donna Prassede richiese qua
e là informazioni intorno a quel Fermo a cui Lucia era stata promessa, e sulle avventure, sulla fuga
del quale Donna Prassede aveva intese in villa voci confuse, discordi, ma tutte poco buone. Le
informazioni furono quali dovevano essere: che quel giovane era un facinoroso, venuto a Milano
per metterlo sossopra, per fare il capopopolo, ch'era stato nelle mani dei birri, a un pelo dalla forca;
e se ora respirava tuttavia in paese straniero, lo doveva alla sua audacia nel resistere alla giustizia, e
alla celerità delle sue gambe. Questa notizia confermò il giudizio di Donna Prassede, e le diede
materia per le sue operazioni. Dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei, è un proverbio; e come tutti i
proverbj, non solo è infallibile, ma ha anche la facoltà di rendere infallibile l'applicazione che ne fa
chi lo cita. Lucia aveva dunque infallibilmente, non già tutti i vizj, che sarebbe stato dir troppo, ma
una inclinazione ai vizj di Fermo: questo fu il giudizio di Donna Prassede. E il bene da farsi era non
solo d'impedire che Lucia ricadesse mai nelle mani di Fermo, ch'ella avesse con lui la menoma
corrispondenza; bisognava andare alla radice, al più difficile, guarire Lucia, farle far giudizio,
togliere da quel cervellino l'attacco per colui; attacco che a dir vero era il solo vizio essenziale di
Lucia. Questa allora sarebbe divenuta al tutto una buona creatura; e chi avrebbe avuto tutto il merito
dell'impresa? Donna Prassede.
La prima parte di questo disegno, la parte materiale, la vigilanza esteriore sopra Lucia era
particolarmente affidata alle cure di Ghita. Doveva essa tenerle sempre gli occhi addosso,
accompagnarla alla Chiesa, spiare s'ella parlava a qualcheduno, se qualcheduno le faceva un cenno,
osservare attentamente che qualche messo nascosto non le si accostasse. Compresa e piena
dell'uficio che le era imposto, Ghita nella via andava sempre con gli occhi sbarrati, e sospettosi; e
siccome il volto di Lucia attraeva spesso e fermava gli sguardi, così la guardiana si trovava spesso
nel caso di fare il viso dell'arme ai guardatori, o almeno di far loro intendere ch'ella vegliava, e che
la loro mina era sventata: e quando s'avvedeva che la sua aria di sospetto e di minaccia femminile,
invece di stornare i tentativi, avrebbe provocata l'insolenza, pericolo comunissimo a quei tempi,
allora accelerava il passo, e lo faceva accelerare a Lucia. In Chiesa poi, se uno di quegli che si
trovavano sui banchi vicini aveva guardato attentamente a Lucia, o aveva tossito, Ghita,
continuando a mormorare le sue orazioni, non pensava più che a guardare il suo deposito. Aveva
inoltre l'incarico di frugare, quando lo poteva senza essere scoperta, nelle tasche di Lucia, per
vedere se mai ella ricevesse qualche lettera. Questa precauzione avrebbe potuto sembrare inutile,
giacché, (e qui dobbiamo apertamente confessare una cosa che finora si è appena indicata e lasciata
indovinare) la nostra eroina non sapeva leggere: ma Ghita pensava che le precauzioni non sono mai
troppe. Quello poi che in questo procedere vi poteva essere d'indelicato, non riteneva Ghita per
nulla; essa non vi sospettava nemmeno nulla di simile; non conosceva né la parola né l'idea; anzi la
parola in questo senso non esiste neppure ai nostri giorni nella lingua pura, e noi adoperandola
sappiamo d'essere incorsi in un brutto neologismo. Finalmente, doveva Ghita cercare di scovare nei
discorsi di Lucia se mai ella avesse qualche speranza, se qualche pratica fosse ordita, farla ciarlare
artificiosamente su tutti quegli incidenti che avevano dato a Ghita qualche sospetto.
Ebbene, signori miei, tutta questa gran macchina di cure e di operazioni, tutto questo lavorare
sott'acqua non dava quasi nessun incomodo a Lucia; o per dir meglio ella non se ne avvedeva; e
benché non potesse a meno di non sentire qualche cosa di minuto e di pettegolo nella sollecitudine
continua di Ghita, pure lo attribuiva alla indole di lei, e non mai a un disegno profondo, e
comandato. I pensieri di Lucia, quel pensiero ch'era divenuto lo scopo principale della sua vita, la
portavano alla ritiratezza, ad astenersi da ogni comunicazione; e quindi ella non era avvertita
dolorosamente di ciò che altri facesse per rivolgerla ad un punto al quale ella tendeva naturalmente.
In altri tempi quella situazione così nuova, così opposta alle sue abitudini, così lontana dalle sue
affezioni, le sarebbe stata penosissima, ma la facilità ch'ella vi trovava di ottenere quel suo scopo
faceva ch'ella vi stesse con rassegnazione, e quasi vi riposasse se non con piacere, almeno col
desiderio di farsela piacere. E il suo scopo era tuttavia quello di cui abbiamo già parlato: scordarsi
di Fermo. Si studiava ella quindi di rinchiudere tutte le sue idee nella casa dove era stata allogata, di
ristringerle alle sue occupazioni, si metteva con grande intensione a tutte le cose che le erano
comandate, si rallegrava tutte le volte che vedeva dinanzi a sè molti doveri che occupassero tutta la
sua giornata, che non le dessero agio di correre con la mente a desiderj vani e colpevoli, di smarrirsi
nelle memorie d'un passato irreparabile.
Le memorie tornavano però sovente a tormentarla; l'immagine della madre era, sempre la prima a
presentarsi; e mentre Lucia si fermava a contemplarla con sicurezza, con una mesta affezione,
l'immagine di Fermo che le stava dietro nascosta, si mostrava. Lucia voleva rispingerla tosto; ma
l'immagine che non voleva andarsene aveva un buon pretesto, ed era sempre lo stesso, per obbligare
Lucia a trattenerla almeno un momento: le ricordava in aria trista e non senza rimprovero i pericoli
che Fermo aveva corsi, e quelli che forse gli soprastavano ancora, le rimostrava che quando anche
un nuovo dovere può far rinunziare ad un affetto, già così lecito, già così caro, non deve, non vuol
però togliere la pietà, la sollecitudine, la carità del prossimo. Lucia combatteva, rivolgeva la mente
ad altre immagini, ma tutte erano tinte di quella prima, tutte la richiamavano. I luoghi, le persone:
Don Abbondio avrebbe dovuto pronunziare quelle parole, per cui ella sarebbe stata di Fermo: i
consigli, le cure, del Padre Cristoforo per chi erano? per Lucia e per Fermo: fino il monastero di
Monza, fino il Castello del Conte, fino il cardinale Federigo, tutto si legava a Fermo, e molte volte
Lucia ripensando a tutto questo, si accorgeva ch'ella si era immaginata di raccontar tutto a Fermo.
Con tutto ciò, ella combatteva, e la guerra sarebbe stata, se non sempre vinta, pure meno aspra e
meno dolorosa; Lucia avrebbe potuto, se non ottenere lo scopo almeno andargli sempre da presso,
se questo scopo non fosse stato anche quello di Donna Prassede.
La brava signora, per toglier Fermo dall'animo di Lucia, non aveva trovato mezzo migliore che di
parlargliene spesso. La faceva chiamare a sè, e seduta sur una gran seggiola con le mani posate e
distese sui bracciuoli di qua e di là dei quali pendevano le maniche della zimarra di dammasco
rabescato a fiori, che era stato l'abito di moda nei bei giorni di Donna Prassede, nel tempo in cui
v'era buona fede e semplicità, in cui tutti, fino i giovani, erano savj ed onesti, col volto imprigionato
tra un cappuccio di taffetà nero che copriva la fronte, e una enorme lattuga che girava intorno alla
gola e sul mento, Donna Prassede ricominciava la sua predica per provare a Lucia ch'ella non
doveva più pensare a colui. La povera Lucia protestava da principio con voce angosciosa, e timida,
ch'ella non pensava a nessuno. Donna Prassede non voleva mai stare a questa ragione, e ne aveva
molte da opporre: «So come vanno le cose», diceva ella, «conosco il mondo: so come son fatte le
giovani: se v'è un ribaldo, è sempre il più accetto. Fate che per qualche accidente non possano
sposare un galantuomo, un uomo di giudizio, si rassegnano tosto; ma se è uno scavezzacollo: non se
lo possono cavar dal cuore. Eh figlia mia, non basta dire: - non penso a nessuno -: vogliono esser
fatti, fatti e non parole». Così seguendo una sua idea, che è anche quella di molti altri, che per far
passare in una testa ripugnante i proprj sentimenti, bisogna esprimerli con molta efficacia,
adoperare i termini i più forti ed anche esagerati, Donna Prassede non risparmiava i titoli al povero
assente, lo nominava come un oggetto d'orrore, di schifo, faceva sentire che sarebbe stata cosa
inconcepibile, mostruosa, che alcuno potesse avere interessamento, e peggio inclinazione per colui.
Così ella otteneva appunto l'intento opposto a quello ch'ella si proponeva. Lucia cercava di
dimenticar Fermo; ma quando una parola sgraziata, e nemica glielo voleva a forza rimettere nella
mente in un aspetto odioso e spregevole, allora tutte le antiche memorie si risvegliavano ed
accorrevano per rispingere una immagine tanto diversa dalla immagine in cui quella mente era stata
avvezza a compiacersi. Il disprezzo con che il nome di Fermo era proferito faceva ricordare a Lucia
la condotta, il contegno, il buon nome di Fermo, tutte le ragioni per cui ella lo aveva stimato; l'odio
faceva risorgere più risoluto l'interesse; l'idea confusa dei pericoli ch'egli aveva corsi, anche dei falli
ch'egli poteva aver forse commessi, pericoli e falli che Donna Prassede rinfacciava a Lucia con
eguale amarezza come un egual motivo di avversione, suscitavano più viva e più profonda la pietà,
e da tutti questi sentimenti rinasceva quell'amore, che Lucia si studiava tanto di estinguere. L'amore,
acconsentito o combattuto, che sia, dà a tutti i discorsi una forza e un vigore suo proprio. Lucia
diventava coraggiosa, e giustificava Fermo: e Donna Prassede approfittava di quelle parole come
d'una confessione per provare a Lucia che non era vero ch'ella non pensasse più a lui. E con questa
prova in mano lavorava sempre più animosamente sull'animo di Lucia, facendole vedere chi era
colui ch'ella ardiva pure di difendere. E che doveva ringraziare il cielo che la cosa fosse finita a quel
modo, altrimenti le sarebbe toccato un bel fiore di virtù. Buon per lui che le gambe lo avevano
servito bene, altrimenti, avrebbe fatto una bella figura, avrebbe tenuta compagnia a quei quattro
altri galantuomini... Quando la grossolana signora toccava tasti d'un suono così orribile, la povera
Lucia non poteva più fare altro che prendere con la sinistra il grembiale, portarlo al volto per
nasconderlo, e per ricevere le lagrime che le sgorgavano dirottamente.
Se Donna Prassede avesse parlato così per un odio antico, per fare vendetta di qualche affronto
crudele, l'aspetto del dolore che producevano le sue parole gliele avrebbe forse fatte morire in bocca
o cangiare in parole più dolci; ma Donna Prassede parlava per fare il bene, e non si lasciava
smuovere: a quel modo che un grido supplichevole, un gemito di terrore potrà ben fermare l'arme
d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatte ingojare a Lucia tutte le amare parole ch'ella
credeva necessarie pel bene di lei, Donna Prassede, che non era trista in fondo, la rimandava con
qualche parola di conforto e di lode, e rimaneva sempre soddisfatta di avere acconciato un po' il
cuore di quella giovane. Acconciato come una gala di mussolo, stirata da un magnano. La povera
Lucia riconoscendo la buona intenzione pregava però caldamente che queste prove d'interessamento
le fossero risparmiate.
Donna Prassede aveva nel fondo del suo cuore un altro disegno sopra Lucia, che sarebbe stato il
compimento dell'opera. Silietta si compiaceva molto nella compagnia di quella giovane che era la
sola in casa che le desse retta, e la lasciasse parlare; e Donna Prassede pensava che si sarebbe fatto
un gran benefizio a Silietta e a Lucia stessa, se si fosse potuto farle nascere la vocazione di andar
conversa nel monastero dove Silietta doveva esser monaca.
Quivi Lucia sarebbe stata fuori d'ogni pericolo per sempre, e la buona opera di Donna Prassede
sarebbe stata più evidente, più conosciuta; Lucia sarebbe divenuta un monumento parlante della
sapiente benevolenza della sua padrona. Non ne aveva però fatta la proposizione a Lucia, ma con
quell'arte sopraffina che possedeva, cercava tutte le occasioni per far nascere spontaneamente nel
cuore di Lucia questo desiderio.
A poco a poco queste insinuazioni divenivano più frequenti e più chiare; e Lucia, cominciava a
comprenderle, ma però senza che le cominciasse la voglia di acconsentirvi. V'era nulladimeno per
essa un gran vantaggio, che Donna Prassede cadeva meno spesso, e con meno impeto su quel
primo, più doloroso argomento, tanto più doloroso, perché Lucia non aveva con chi esilararsi della
tristezza angosciosa che quei discorsacci le cagionavano. La nostra Agnese era lontana, a casa sua,
dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di Donna Prassede per saper le nuove di
Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di
rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di
comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si
rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai nostri giorni farebbe una madre della
condizione di Agnese, che avesse una figlia collocata in Inghilterra.
La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo. Quantunque
egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure, sapendo com'egli stava sui registri di
Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo. Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia;
dico, faceva scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non conoscevano l'uso
dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta.
Chi ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui
che fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte frantende, parte vuol
correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere come lo ha inteso;
quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e
con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva afferrato: di modo
che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali. Il peggio è
quando la situazione della quale si vuol render conto è complicata, e i disegni e le proposte che si
voglion fare, sono contingenti e condizionate. Tale era il caso di Fermo. Il suo disegno era di
stabilirsi a Bergamo, di viver quivi della sua professione, e di farsi con quella anche un po' di
scorta, di preparare un buon letto a Lucia, e che allora essa venisse a Bergamo con la madre ed ivi
si concludessero le nozze. Ma i tempi non erano propizii: l'amore, che dipinge le cose facili, bastava
bensì a persuadere a Fermo che il suo disegno si sarebbe potuto eseguire in seguito; ma non poteva
nascondergli che per allora era ineseguibile.
Bisognava adunque che Fermo facesse intendere ad Agnese questo miscuglio di speranze fondate
anzi certe, e di impaccio attuale, di sì nell'avvenire, e di no nel presente. Agnese ricevette la lettera
dopo il ritorno da Monza, intese e fece rispondere come potè. Il ratto di Lucia fece tanto strepito,
che la voce ne giunse a Fermo, ma per buona ventura insieme con quella della liberazione. Pure
ognuno può immaginarsi quali fossero le sue angustie. Se Lucia fosse rimasta nel suo paese, Fermo
certamente non si sarebbe tenuto dall'andarvi: di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi,
come che fosse, vi sarebbe andato. Ma egli seppe anche che Lucia era partita per Milano; e in tale
circostanza non solo il pericolo diventava per Fermo incomparabilmente maggiore, ma il tentativo
incomparabilmente più difficile, e l'evento quasi disperato. Dovette egli dunque contentarsi di
chiedere schiarimenti ad Agnese. La buona donna trovò il mezzo di fargli avere per mezzo d'un
mercante quei cento scudi che Lucia aveva destinati a lui, ed una lettera, nella quale v'era
l'intenzione di metterlo al fatto di tutto l'accaduto. Ma questa lettera non isgombrò le inquietudini, e
le ansietà di Fermo; anzi i cento scudi le accrebbero: - giacché -, pensava egli, - ora che Lucia per
una ventura inaspettata possiede tanto che basta perché noi possiamo viver qui marito e moglie,
perché non viene ella, e mi manda invece questi denari, come un dono, come una elemosina,
come... (e qui Fermo si sentiva scoppiare)... come un congedo? Voglio io denari da lei? E se ella
non è mia, pensa ch'io possa da lei ricevere qualche cosa? - Per quanto Agnese avesse cercato di
fargli scriver chiaro che Lucia dallo spavento in poi si trovava quale egli l'aveva lasciata, Fermo alla
vista di quei denari, e dati a quel modo, era assalito da mille dubbi torbidi e strani. Le lettere che
egli faceva scrivere a Lucia, cadevano tutte in mano di Donna Prassede, la quale certo non le
consegnava a cui erano indiritte, ma pel meglio, le leggeva, e si regolava su le notizie che ne
ricavava. Fermo sempre più inquieto chiedeva ad Agnese la spiegazione di quei dubbii e del
silenzio di Lucia. Quand'anche Agnese avesse saputo scrivere non avrebbe potuto soddisfare il
poveretto, perché la cagione del silenzio le era ignota, ed essa pure non capiva bene il contegno di
Lucia con Fermo. La spiegazione di tutto era nel voto fatto da Lucia, e che essa non aveva confidato
né meno alla madre. La corrispondenza andava sempre più imbrogliandosi fin che essa fu interrotta
dagli avvenimenti che racconteremo nel volume seguente.
<B>TOMO QUARTO</B>
<B>CAPITOLO I</B>
Dalla fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti con la narrazione, in sino alla metà del 1630, i
nostri personaggi, quale per elezione, e quale per necessità si rimasero a un dipresso nello stato, in
cui gli abbiamo lasciati; e la loro vita non offre in questo tempo quasi un avvenimento che ci sembri
degno di menzione. Qualche fatto, benché molto grave per taluno dei nostri eroi, non produsse però
mutazione nello stato degli altri. Pare quindi che noi dovremmo saltare a piè pari al punto in cui la
nostra storia ripiglia un movimento, e un progresso generale.
La storia pubblica però di quell'anno e mezzo è piena di successi; e noi non possiamo dispensarci
dal riferirli, da essi e con essi nacquero gli eventi privati che formeranno la materia ulteriore del
nostro racconto. Quei successi varii e moltiplici si riducono a tre principali: fame, guerra, e peste: lo
dichiariamo sul bel principio, affinché quei lettori che amano cose allegre, possano gettar tosto il
libro, e non abbiano poi a lagnarsi di non essere stati avvisati in tempo.
Dopo la bella spedizione del giorno di San Martino, parve per qualche tempo che l'abbondanza
invocata da una parte con tanti urli, promessa dall'altra con tanta sicurezza, fosse venuta davvero. Il
pane a quel modico prezzo che abbiam detto; e questa volta non per una ipotesi violenta, ma per un
compenso che i Decurioni coi denari della città avevano stabilito ai fornaj: i forni sempre ben
provveduti: tutto sarebbe andato bene, se le cose avessero potuto durare così fino al raccolto: vale a
dire se l'impossibile fosse divenuto possibile.
È cosa istruttiva e curiosa l'osservare per quali modi i disegni assurdi vadano a male, le volontà
insipienti sieno frustrate, notare i principj, i progressi, la varietà degli inciampi e delle resistenze, gli
effetti non premeditati nel disegno, e che nascono necessariamente ad impedire l'effetto voluto e
promesso. Noi abbiamo fatte molte ricerche negli atti pubblici e nelle memorie degli scrittori, per
tener dietro alla storia di quei provvedimenti annonarj; ma il filo che a gran fatica abbiam potuto
prendere da quella matassa scompigliata appena ci ha condotti per un breve tratto, ci ha fatti
raccappezzare gli effetti più prossimi. Ed eccoli quali risultano da autentici documenti.
Quelli che avevano denari oltre il bisogno quotidiano, correvano in folla ai forni a comperar e
ricomperare pane, ai mercati a comperar e a ricomperare farine, per farne provvigioni. Appariva
quindi manifestamente che il ribasso del prezzo fatto ad intendimento di dare pane ai poveri,
tendeva invece a farlo tutto venire in potere dei facoltosi. Grida dei 15 novembre, che proibisce il
comperar pane e farine per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali ad
arbitrio di S.E., ordine agli anziani, insinuazione a tutti di denunziare i contravventori, ordine ai
giudici di fare perquisizioni per le case. Come si facciano denunzie e perquisizioni è cosa facile da
capirsi; ma quello che nessuno potrà capire davvero né immaginare, si è come con questi mezzi si
potesse colpire tanti contravventori da impedire, o da diminuire sensibilmente quella tendenza a
fare scorta per l'avvenire.
Un consumo così straordinario in tempi di grande scarsezza doveva rendere difficile a rinvenirsi la
materia prima sufficiente: quindi la grida del 23 di novembre che sequestrava in mano degli
affittuarj e di chi che altri fosse la metà del riso da essi posseduto (il riso allora entrava nella
composizione del pane comune) e la riteneva agli ordini del Vicario e dei dodeci di Provvisione per
l'uso della città. Ma questa città che aveva assunto l'impegno di mantenere il pane al prezzo d'un
soldo per otto once, pagando la differenza tra il prezzo reale dei grani, non possedeva tesori
inesausti, era anzi imbrattata di debiti, e non sapeva dove darsi di capo per aver danari: perché
dunque essa potesse mantenere l'impegno, Grida dei 7 dicembre, che obbliga i possessori del riso a
venderlo, non brillato, al prezzo di L. 12, a chi avrà ordine dal Tribunale di provvisione. A chi ne
vendesse a maggior prezzo pena la perdita del riso, una multa di altrettanto valore e maggior pena
pecuniaria, ed anche corporale sino alla galera all'arbitrio di S.E. secondo le qualità dei casi e delle
persone. Così si era provveduto all'abbondanza della città. Ma i foresi sono essi pure soggetti alla
legge di mangiare per vivere: e giacché le gride tiravano per forza da tutte le parti tanto pane in
città, era cosa troppo naturale che i foresi accorressero alla città a provvedersene. Questa cosa
naturale, è chiamata un inconveniente dalla grida dei 15 di dicembre, la quale vieta il portar fuori
della città pane pel valore di più di venti soldi per volta, sotto pena della perdita del pane, di scudi
venticinque, ed in caso d'inabilità, di due tratti di corda in publico, e maggior pena ancora
all'arbitrio di S.E. per ogni volta. Ai ventidue dello stesso mese la stessa proibizione fu estesa ai
grani ed alle farine.
A questo punto, con nostro rammarico, e forse con un maligno piacere dei lettori, ci mancano ad un
tratto gli atti autentici; e tutte le memorie storiche che ci è stato possibile di consultare non hanno
più nulla né sul prezzo del pane, né sugli altri regolamenti dell'annona. Fanno soltanto il quadro
dello stato del paese in quell'anno 1629, fino al raccolto; ed ecco la copia di quel tristo quadro.
Chiuse o deserte le botteghe, e le officine; gli operaj vaganti per le vie, smunti, scarnati, tendendo la
mano ad accattare, o esitando ancora tra il bisogno e la verecondia. Misti agli operaj i contadini
venuti alla città, traendo i vecchj e le donne coi fanciulli in collo, e mostrandoli ai passaggeri, e
chiedendo che si desse loro da vivere con una querimonia impaziente, con isguardi abbattuti e pur
torvi. Misti agli operaj e ai contadini molti di quei bravi, già rilucenti d'arme e spiranti una
leziosaggine ardimentosa, ora abbandonati dai loro signori, erravano mezzo coperti d'un resto dei
loro abiti sfarzosi, domandando supplichevolmente, e guardando con sospetto per non tendere
inavvertentemente la mano disarmata e tremante a tale su cui l'avessero altre volte levata repentina
a ferire. Spettacolo che avrebbe rallegrate molte ire, se il sentimento di tutti non fosse stato assorto
nella miseria e nel patimento comune.
Nè questi soli, ma di altra varia origine nuovi mendichi confusi coi mendichi di mestiere si
aggiravano, o si strascinavano per la città, e nell'abito, e nei modi mostravano indizj dell'antica
condizione e della professione che altre volte procuravano loro un vitto certo e a molti agevole. Da
per tutto cenci e lezzo; da per tutto un ronzio continuo di voci supplichevoli, come se si fosse
camminato in mezzo ad una processione. Qua e là a canto ai muri, sotto le gronde, mucchj di paglia,
e di stoppie peste, trite, fetenti, miste d'immondo ciarpame, che avevano servito nella notte come di
canile ai mendichi cacciati dalla fame alla città, dove non avevano un asilo da posare il capo. Molti
si vedevano rodere con uno sforzo ripugnante erbe, radici, cortecce, che avevano raccolte nei prati,
nei boschi, come un viatico fino alla città dove speravano di trovar pure un vitto più umano. Di
tratto in tratto alcuno di quegli infelici si vedeva ristare, vacillare, tendere dinanzi a sè le mani
aperte come per cercare un appoggio, e cadere; ed erano talora madri coi bamboli in collo. Rari,
costernati, in silenzio, raccogliendo gli sguardi a sè, quasi per non vedere, abbassando la fronte
come se provassero vergogna di tanta miseria, turandosi le narici giravano fra quella turba coloro
che altre volte eran chiamati ricchi, ed ora pure davano invidia perché avevano ancor tanto da
preservarsi se non dal disagio, almeno dalla penuria mortale. Altri di essi che poco innanzi
passeggiavano con un fasto minaccioso, con un corteggio insolente di spadaccini, ora soletti, in
abito negletto e come da corruccio, con gli sguardi depressi, coi volti non avresti saputo dire se
storditi o compunti, attraversavano in fretta le vie, e sparivano. Altri esaurito già il contante che
avevano destinato al soccorso dei poverelli, vinti dalla crescente misericordia, aprivano di nuovo lo
scrigno, intaccavano le scorte riserbate ai loro bisogni, e uscivano; e assaliti da richieste superiori
alla liberalità ed alle facoltà loro, guatavano, per discernere tra miseria e miseria, tra angoscia e
angoscia quelle a cui era dovuto più pronto il sovvenimento. Appena il muovere della mano
manifestava una intenzione di liberalità, una gara tumultuosa e incalzante di grida, di sospinte, di
mani levate si faceva intorno a loro; gli estenuati e stupidi dall'inedia pigliavano come una forza
istantanea dalla nuova speranza, e si pignevano innanzi con violenza; i più robusti gli rigettavano
con furore, alle preghiere alla invocazione dei nomi più santi si mescevano le bestemmie della
disperazione; i vecchj rispinti tendevano da lontano le palme scarne; le madri alzavano i fanciulli
scolorati, male ravvolti nelle fasce stracciate, e ripiegati per languore nelle loro mani. Quei
caritevoli dovevano lasciarsi rapire più tosto che distribuire i soccorsi; e spogliati in un momento di
ciò che avevano portato con sè, fra le benedizioni, e le rampogne, rovesciando le tasche vuote,
uscivano a stento dalla folla più contristati del male irrimediabile, che soddisfatti del poco bene che
avevan potuto fare; e se ne tornavano non avendo più altro da dare in risposta a nuove richieste che
un aspetto di commiserazione, un cenno delle mani che esprimeva una buona volontà inutile, una
ripulsa dolente.
In mezzo ad una tanta confusione di guaj, e ad una tanta insufficienza d'ajuti, si mostrava però a
luogo a luogo un ajuto più generale e più ordinato che annunziava una grande copia di mezzi, e una
mano avvezza a profondere con sapienza. Era la mano del nostro Federigo. Oltre le elemosine in
vitto e in danaro, ch'egli distribuiva (il Tadino afferma che nel suo palazzo due mila poveri
ricevevano ogni giorno una capace scodella di riso) aveva l'ingegnoso compassionatore deputati sei
preti che girassero a coppia per pigliar cura dei poveri sfiniti per le vie. Ad ogni coppia aveva
assegnato un quartiere della città tripartita; ogni coppia era seguita da facchini che portavano grandi
corbe con pane, vino, minestra, uova fresche, brodi stillati, aceto medicato d'aromi. S'accostavano
quei preti ai poverelli che giacevano abbandonati sul pavimento, e soccorrevano ad essi secondo il
bisogno: a questo esinanito dal digiuno il cibo era il più necessario ed efficace rimedio: quell'altro
svenuto per più antica inedia, e già presso al morire, non avrebbe avuto vigore abbastanza per patire
né per prendere il cibo; e faceva mestieri di più sottili e potenti ristorativi per richiamarlo alla vita, e
rendergli a poco a poco le forze. Quando alcuno d'essi era rinvenuto o riconfortato, uno dei preti gli
amministrava i sacramenti, e le consolazioni della religione, quindi guardava intorno a sè per
vedere in qual casa del vicinato avrebbe potuto procurargli un ricovero, trovatolo ve lo faceva
portare. Se il padrone era dovizioso, il prete in nome del Cardinale lo supplicava che volesse
ricettare, collocare in qualche angolo della casa, nutrire quel derelitto che Dio gli mandava; ma
quando il languente era portato in una casa, dove non sembrasse che in un tale anno potessero
sovrabbondare provvisioni per usi di carità, quivi il prete pregava il padrone a ricogliere e ad
ospiziare per prezzo colui che vi era presentato; e sborsava il prezzo generoso anticipatamente.
Notava poi il luogo, e tornava a visitare il raccomandato, a curare che nulla gli mancasse; così
mentre l'un prete soccorreva i giacenti nella via, l'altro percorreva le case dove erano raccolti quegli
altri. La riverenza dell'abito sacerdotale, l'autorità di Federigo come presente a quegli uficj prestati
per suo ordine, e la santità degli uficj stessi, contenevano la folla tumultuosa, in modo che quei preti
potessero esercitarli tranquillamente e ordinatamente. Era questo per certo un alleggiamento ai
pubblici mali, e grande se si consideri che veniva da un solo avere e da una sola volontà, ma
rispetto ai bisogni scarso e inadeguato. Intanto che in tre angoli della città alcuni pochi erano levati
da terra, e ravvivati, in cento parti cadevano le centinaja, e molti per non esser più rialzati che sulle
spalle dei sotterratori. Nè le morti continue diradavano quella folla miserabile, la fame incalzava da
tutte le parti del territorio nuova folla alla città; le vie che vi conducono qua e là segnate di cadaveri,
brulicavano sempre di nuovi pellegrini che dal piano circostante, dai colli meno vicini, dai monti
lontani venivano strascinandosi; diversi d'abito, e di pronunzia, oggetto l'uno all'altro non più di
pietà ma di orrore, luridi tutti, ognuno più sbigottito dal trovarsi in mezzo a tanti compagni di
disperazione, a tanti rivali d'accatto. Attraverso costoro passavano pure altri non meno luridi
pellegrini che fuggivano dalla città, non già sperando di trovare in altra parte più facile
sostentamento, ma per morire altrove, per mutare un cielo divenuto odioso, per non veder più quei
luoghi dove avevano tanto patito. Così crescendo sempre il numero dei poveri a misura che la
popolazione s'andava scemando era trascorso l'inverno e già avanzata la primavera. E quei poveri si
andavano sempre più condensando nella città; accorrevano la più parte negli alberghi; e avrebbe
dovuto essere bene spietato, ma anche ben sicuro il padrone che negasse loro quella ospitalità: quivi
giacevano le notti ammucchiati su la paglia, sul letame: le case, le vie si riempivano di malati, di
cadaveri, di cenci, e di puzzo: dimodoché si cominciò a temere che alla fame tenesse dietro la
contagione. Il tribunale della Sanità instava presso quello della Provvisione perché si antivenisse
questa nuova sciagura; e proponeva che seguendo l'esempio e dilatando l'opera di Federigo,
raccolto tutto ciò che poteva esser destinato al pubblico soccorso, si distribuisse nutrimento a quelli
che ne mancavano, e gl'infermi si raccogliessero, e si collocassero in diversi ospizj per rendere più
facile il servizio, e per evitare i pericoli di una troppo grande riunione. Ma nella Provvisione
prevalse il partito di raccattare tutti gli accattoni validi e infermi nella fabbrica del Lazzeretto.
I medici conservatori del Tribunale della Sanità, protestarono contra questo disegno, allegando che
in una tanta turba ammassata in un luogo e costretta in picciole stanze l'epidemia sarebbe stata
inevitabile; ma alle proteste non si diede retta, come afferma il Tadino uno di quei medici. E se
vogliamo credergli in tutto, la cagione principale di far prevalere quel partito fu il desiderio di
servire ad un interesse privato, o a quello che alcuni privati credevano il loro interesse. Erano nel
Lazzeretto deposte molte merci venute da paesi sospetti di peste, e si ritenevano quivi per le purghe
e per le prove; coloro a cui quelle merci appartenevano brigarono perché il Lazzeretto fosse
destinato ad un altro uso, e con questo pretesto le merci fossero loro rilasciate: e furono esauditi.
Il Lazzeretto (se mai questa storia venisse alle mani di chi non sia mai stato a Milano) è una
fabbrica quasi quadrata: i due lati maggiori tirano a un di presso cinquecento passi andanti; gli altri
due poco meno; un fossato scorre e volta intorno all'edificio: ogni lato ha nel mezzo una porta, e un
ponte sul fossato: tutti i lati dell'edificio nella parte rivolta al di fuori sono divisi in camerette, che
sono in tutto 296: nell'interno gira per tre lati un porticato: lo spazio interiore è sgombro; fuorché
nel mezzo, dove sorge un tempietto ottangolare. All'aprirsi dell'estate il Lazzeretto fu sgombro dalle
merci, disposto pel nuovo uso, ed aperto ai mendicanti. Da principio vi accorsero volonterosi i più
famelici e desolati: ma altri, che dal trovarsi in più picciol numero ad accattare speravano più
frequenti soccorsi, e ai quali ad ogni modo era meno amaro lo stentare in libertà che campacchiare
rinchiusi, non risposero all'invito. Dall'invito, come è l'uso, si venne alla forza, si mandarono birri
che agguatassero chi mendicava, e chi dall'aspetto appariva un pezzente, lo legassero pel suo
migliore, e lo trasportassero a forza al Lazzeretto: e per ognuna di queste prede era stato assegnato
al predatore una ricompensa di dieci soldi: tanto è vero che anche nelle più grandi strettezze non
mancano mai danari per fare delle minchionerie. In poco tempo il Lazzeretto tra volontarj e sforzati
rinchiuse poco meno di dieci mila poverelli, d'ogni età, e d'ogni sesso, della città, del contado, di più
lontane regioni; uomini che avevano passata la loro vita in una operosa semplicità; e scherani
pasciuti in una scioperaggine facinorosa; donne, fanciulle, giovanetti nutriti nella verecondia e nella
inesperienza del tugurio, dei campi, della officina domestica, nelle consuetudini della pietà; altri
fino dall'infanzia disciplinati nella scola del trivio, all'accatto, alla ruba, alla buffoneria, alla truffa,
al dileggio; non sapendo né ricordandosi di Dio, se non quel tanto ch'era necessario per
bestemmiare il suo nome. Si trattava di allogare, di alimentare, e di contenere con una eguale
disciplina un raccozzamento così numeroso di tali e d'altri più diversi e moltiplici elementi; e la
cosa sarebbe riuscita ottimamente, se la buona intenzione, lo zelo, e l'affaccendamento di alcuni
potessero bastare ad ogni impresa.
Il numero dei ragunati nel Lazzeretto fece che fossero stivati a venti a trenta per ogni cella, ove si
giacevano prostrati come bestie, dice il Tadino, sopra una paglia imputridita. Il pane che si
distribuiva ad essi avrebbe dovuto, secondo gli ordini della Provvisione esser buono; perché quale
amministratore ha mai ordinato che si faccia e si distribuisca pane cattivo? Ma si tenne da tutti che
quel pane fosse adulterato con sostanze insalubri, non nutritive; cosa più che probabile in tanta
scarsezza; e con tanta difficoltà d'invigilare.
Quanto al governo di quella brigata, v'erano pure ordini perché ognuno si contenesse con modestia,
si lasciassero i vizj, e l'ozio che ne è il padre, perché quegli che potevano esercitassero quivi l'arte
loro, e gli altri almeno non mettessero scompiglio. A malgrado però degli ordini, mirabil cosa!
coloro che erano stati vagabondi prima d'entrare nel Lazzeretto, vagabondavano quivi come
potevano; e attendevano a molestare gli occupati: quegli che v'erano stati cacciati a forza
riempivano tutto di querele, di bestemmie, di tumulto. In somma l'angustia, la sporcizia, la caldura,
il cibo malsano, le acque stagnanti, la noja, l'accoramento, il furore, la sfrenatezza d'ogni genere
fecero ivi tanto sperpero, che in poco tempo la mortalità si manifestò più grande fra quei poveri a
cui si era così provveduto che non fosse stata nei dispersi e abbandonati. In alcuni giorni il numero
dei morti in alcune camerette oltrepassò la decina.
Il Tribunale della sanità rimostrava, indefessamente, tutta la città mormorava, la confusione e la
strage cresceva ogni giorno, la cosa era divenuta insopportabile a quelli che la facevano, a quelli per
cui era fatta, i deputati non avevan più testa; si tenne consulta, e il partito il più savio, il più ovvio, il
partito indeclinabile parve a tutti di disfare ciò che s'era fatto con tanta fiducia e con tanto apparato;
il Lazzeretto fu aperto, e i poveri lasciati all'antica licenza di errare mendicando. S'affoltarono ai
cancelli con un tripudio iracondo; una gioja furente e spensierata si dipingeva come a forza in
quegli sguardi foschi e mezzo estinti, su quei tratti indurati nella espressione del dolore: il
sentimento della libertà racquistata suppliva in quel primo momento a tutte le speranze, a tutti i
bisogni.
La città tornò a risuonare dell'antico clamore, ma più interrotto e più fievole; rivide quella turba più
rada, ma più ancora miserevole, più sformata, più orrenda per la diminuzione stessa; la quale faceva
risovvenire ad ogni pensiero che dei tanti scomparsi nessuno era uscito da quella gramezza che per
la morte.
Questo fu nell'estate: il raccolto venne finalmente a salvare coloro nei quali l'inedia non era
degenerata in morbo incurabile; la mortalità si andò a poco a poco scemando; quegli che erano stati
sospinti dalle necessità al mendicare ritornarono alle antiche loro occupazioni.
Si cominciava a respirare, e i mali già consumati nel passato divenivano un soggetto di
commemorazione e di trattenimento, grave sì ma non senza qualche dolcezza pel pensiero di averli
varcati, non senza qualche fiducia di miglior tempo, parendo agli uomini di avere esauriti in breve
spazio i patimenti che avrebbero dovuto diffondersi in una lunga durata, di aver quasi pagata una
gran parte di tributo anticipato alla sventura; quando nuovi mali richiamarono sul presente
l'attenzione e il terrore di tutti.
Non la guerra propriamente detta, ma un passaggio di truppe, più funesto agli abitanti che nessuna
guerra più accanita, desolò una parte del Milanese; e condusse la peste dalla quale nessun angolo di
quel paese fu salvo.
Ci conviene ora accennare brevemente le origini di tanta rovina. Vincenzo I Gonzaga duca di
Mantova era morto nel 1612, lasciando tre figli. Il primo Francesco morì nello stesso anno, e non
rimase di lui che una figlia per nome Maria; Ferdinando che dopo di lui tenne lo stato morì senza
prole legittima nel 1626; Vincenzo II l'ultimo dei fratelli gli succedette in età di 32 anni già
consumato dagli stravizzj, senza speranza di prole, e manifestamente vicino al sepolcro. Già molte
ambizioni, molte cupidigie, molti sospetti stavano all'erta aspettando ch'egli vi scendesse. Ma egli
aveva instituito erede per testamento Carlo Gonzaga Duca di Nevers, del resto suo parente il più
prossimo. E per assicurare l'effetto di questa disposizione, aveva segretamente fatto scrivere al
Nevers che mandasse a Mantova il figlio, pur egli Carlo Duca di Rethel affinché al momento che il
Ducato verrebbe a vacare, potesse pigliarne il possesso in nome del padre. Ma oltre il Ducato di
Mantova, dalla successione del quale erano per investitura escluse le femine, Vincenzo lasciava pur
quello del Monferrato, al quale, pel complicato, confuso, incerto, variamente applicabile diritto
pubblico d'allora, Maria, nipote di Vincenzo poteva aver qualche ragione. Per togliere ogni soggetto
ed ogni pretesto di dissensioni, pensò il Duca Vincenzo, o chi pensava per lui, a dare quella Maria
in moglie al Duca di Rethel che aveva fatto chiamare. L'aspettato giovane arrivò che il Duca
Vincenzo era agli estremi: le nozze che questi aveva proposto si fecero nella notte dopo il 25
Dicembre 1628, mentre egli moriva.
La morte e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del teatro; ma danno
sovente principio alle tragedie e alle commedie della vita reale. Al mattino lo sposo comparve in
grande abito da lutto, assunse il titolo di Principe di Mantova, e padrone delle armi e della
Cittadella, fu senza difficoltà riconosciuto dagli abitanti. Ma v'era altri a questo mondo che avevano
qualche cosa da dire in quella faccenda.
Luigi XIII re di Francia, o per dir meglio il Cardinale di Richelieu sosteneva il Nevers, uomo
d'origine italiana, ma nato francese; anzi aveva egli il cardinale, per mezzo di legati avuta gran parte
nel testamento del Duca Vincenzo.
Don Filippo IV, o per dir meglio il Duca d'Olivares, non poteva patire che un principe francese
venisse a stabilirsi in Italia, e sosteneva le pretensioni di Don Ferrante Gonzaga parente più lontano
del Duca Vincenzo.
Carlo Emmanuele Duca di Savoja aveva pure antiche pretensioni sul Monferrato; i Veneziani ai
quali dava ombra la grande potenza spagnuola in Italia favorivano il Duca di Rethel ma con trattati,
con promesse e con minacce; e Urbano VIII inclinato a quel Duca e sopra tutto alla pace, ajutava
come poteva queste due cause con raccomandazioni, e con proposte di accomodamenti.
Finalmente l'imperatore Ferdinando II pretendeva che il Duca di Nevers erede trasversale, non
aveva potuto senza il suo consenso impossessarsi di feudi dell'impero la successione ai quali era
rivendicata da altri. Richiedeva quindi che il possesso degli stati fosse depositato presso di lui,
finch'egli gli aggiudicasse per sentenza, e citò il Duca di Nevers con tutte le formalità allora in uso.
V'erano poi altre pretensioni secondarie e più intralciate che passiamo sotto silenzio per non
annojare il lettore, il quale comincia forse a mormorare; e certamente non saprà abbastanza
apprezzare la fatica che facciamo per ristringere in brevi parole tutta questa parte di storia.
Il Duca d'Olivares, istigato continuamente dal Cordova governatore di Milano, strinse un trattato
col Duca di Savoja contra il novello Duca di Mantova. Questi si pose sulla difesa, si venne alle
mani, Carlo Emmanuele invase il Monferrato, e Cordova pose l'assedio a Casale. Il Duca di
Mantova stretto da due nemici potenti invocava gli amici; ma i Veneziani non volevano muoversi se
il re di Francia non mandava un esercito in Italia, e il re di Francia o il Card. di Richelieu, era
impegnato nell'assedio della Rocella. Presa questa, parati o vinti certi intrighi imbrogliatissimi di
Corte, il re e il cardinale s'affacciarono all'Italia con un esercito, chiesero il passo al Duca di Savoja;
si trattò, non si conchiuse, si venne alle mani, i Francesi superarono, e acquistarono terreno, si trattò
di nuovo, il passo fu accordato, il re e il Cardinale s'avanzarono, trassero agli accordi il Cordova
spaventato, gli fecero levare l'assedio di Casale, vi posero guernigione francese, e tornarono a casa
trionfanti, e accompagnati da due sonetti dell'Achillini. Il primo, quello che comincia col famoso
verso:
<I>
Sudate o fochi a preparar metalli</I>,
è tutto di lode; l'altro è di consiglio; perché la poesia ha sempre avuto questo nobile privilegio di
ravvolgere avvisi sapientissimi, e insegnamenti reconditi negli idoli lusinghieri della fantasia, e
nella magica armonia dei numeri.
L'Achillini consigliava il re di Francia vincitore della Rocella e liberatore di Casale di tentare
l'impresa del Santo Sepolcro, né più né meno. Però il Cardinale di Richelieu non ne fece nulla:
convien dire che avesse altro in testa.
Ma i Veneziani che allo scendere dei Francesi, s'erano dichiarati e mossi, istavano per legati e per
lettere presso il Cardinale perché l'esercito da lui condotto non tornasse indietro, e adducevano
mille ragioni per provare che non era da far conto su quei trattati; ma il Cardinale badò alla prosa
dei Veneziani come ai versi dell'Achillini. La guerra continuò infatti contra il Duca di Mantova.
Questi aveva fatte e andava facendo tutte le sommessioni immaginabili all'imperatore affine di
placarlo, e di piegarlo ad accordargli l'investitura. Ma Ferdinando stava fermo in esigere che i
Ducati fossero a lui ceduti in deposito; e irritato dalle ripulse del duca più che ammansato dalle sue
riverenze; irritato di più dell'aver questi domandato il soccorso francese, stimolato dalla corte di
Madrid, si dichiarò anch'egli nemico del Duca di Mantova.
L'esercito Alemanno di circa trentasei mila uomini, ragunato sotto il comando del Conte di Colalto,
ebbe ordine di portarsi all'impresa di Mantova: la vanguardia che già da qualche tempo aveva
occupato ostilmente il paese de' Grigioni, si diffuse per la Valtellina, e ai 20 di settembre entrò nello
Stato di Milano.
La milizia a quei tempi era ancora in molte parti d'Europa composta in gran parte di venturieri che
si ponevano al soldo di condottieri di professione, i quali andavano poi coi loro drappelli al servizio
di questo o di quel principe. Oltre le paghe sulle quali non era da fare assegnamento certo, quello
che determinava gli uomini ad arruolarsi era la speranza del saccheggio e tutte le vaghezze della
licenza. Disciplina generale non v'era in un esercito, né avrebbe potuto conciliarsi con le varie
autorità private dei condottieri: e questi, prima di tutto non si curavano di mantenere una disciplina
particolare nei loro reggimenti, perché non avevano per questa parte responsabilità verso nessuno; e
quand'anche alcuno di essi a cose pari avesse pur desiderato di contenere i suoi soldati in un
qualche rispetto per le proprietà e per le persone degli abitanti, questo disegno sarebbe stato per lo
più o contrario ai suoi interessi, o superiore alle sue forze. Perché soldati di quella sorte o si
sarebbero rivoltati, o avrebbero tosto deserte le bandiere di un comandante nemico della violenza e
del saccheggio. Oltre di che siccome i principi nel comperare i soldati pensavano più ad averne in
gran numero per assicurare le imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, la
quale era ordinariamente molto scarsa, così le paghe erano per lo più ritardate e mancanti; e le
spoglie dei paesi dove passava l'esercito divenivano come un supplemento tacitamente convenuto
degli stipendj. Quindi i soldati di quel tempo e per le tendenze che gli avevano tratti a scegliere
quella professione, e per le abitudini di essa erano come una collezione di tutte le nequizie che può
dare la natura umana nel suo maggior grado di pervertimento. Ma quelli che allora scendevano nel
Milanese erano poi il più bel fiore di quella farina; erano in gran parte gli stessi che guidati
dall'atroce Wallenstein avevano poco prima desolata la Germania, in quelle guerre, tanto
impropriamente chiamate di religione, poiché queste stesse masnade che avevano combattuto per la
parte che pretestava di sostenere la religione cattolica erano composte in parte di Luterani.
L'annunzio della venuta di costoro portò il terrore nei distretti per dove avevano a passare: nelle
altre parti si diceva: «povera gente! stanno freschi: chi sa come gli acconciano coloro! vedrete che
non lasceranno loro altro che gli occhi per piangere; sia lodato Dio che non passeranno per di qua».
Ma chi sapeva che quell'esercito portava la peste con sè, e l'aveva già disseminata nei luoghi dove
aveva stanziato, sentiva qualche cosa di più che una fredda pietà per altrui. La maggior parte però
degli abitanti del Milanese o non lo voleva credere, o non se ne curava, o con quella fiducia senza
motivi così strana, e così comune, diceva: «Poh! che ha da venire la peste da noi?»
Colico sulle rive del lago di Como presso alla foce dell'Adda, fu la prima terra che toccarono quei
demonj; e, dopo d'averla messa a sacco l'arsero addirittura, se per rabbia di non avervi trovato
abbastanza bottino, o pel diletto di fare una baldoria, non si sa. Di là, senza curarsi d'itinerario né di
poste assegnate, ma guardando solo dove fosse più da sperarsi bottino, si gettarono sopra Bellano,
lieto paese sulle falde d'un monte e alla riva del lago. Gli abitanti ammoniti dall'esempio recente e
dalla prossima ruina avevano o nascoste sotterra, o trasportate in fretta sui monti le cose più
preziose, e le più facili a trasportarsi; e molti di essi s'erano appiattati lassù, abbandonando le case.
Con tanto più di furore v'entrarono quelle masnade, e delle cose lasciate, presero tutto ciò che
poteva loro servire e sperperarono ed arsero il resto, mobili, botti, travi. Quegli che erano rimasti
colla speranza di preservare i loro averi, ne videro la distruzione, videro l'abominevole sfrenatezza,
e per sopra più soggiacquero agli strapazzi, alle percosse e alle ferite. Nè i campi all'intorno furono
risparmiati; la vendemmia, somma speranza dei terrazzani in quell'anno calamitoso sparve in un
momento, coll'uve furono sterpate le viti, gli alberi abbattuti col frutto, molti casali incendiati.
Appena cessavano di farsi udire le trombe che avevan sonata la partenza d'un reggimento, un nuovo
squillo dall'altra parte annunziava terribilmente l'arrivo di altra simile, anzi peggiore brigata. I
sopravvegnenti, trovando la distruzione dove avrebbero voluto portarla, si vendicavano su le cose e
su le persone che capitavano loro alle mani, come di un furto che fosse stato loro fatto: e tanta
cupidigia frustrata tornava tutta in furore. Qualche memoria del guasto di quel paese ci rimane in
alcune lettere di Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe
acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all'uscire
della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato
possibile concepire nuove idee d'una precisione e d'una importanza perpetua, e per esporle, trovare
quello stile che vive. Questi sulle prime non aveva voluto fuggire, e parte cercando di avere ad
alloggio ufiziali, parte chiamando soccorso di soldati italiani ivi stanziati era venuto a capo di
preservare la sua casa, e di difenderla poi quando fu minacciata: e racconta agli amici i suoi
pericoli, e gli altrui disastri. V'è pure in una di quelle sue lettere un tratto singolare che merita
d'esser ricordato. Il tenente del colonnello Merode, il cui reggimento era venuto pel primo, entrato
nel giardino di Sigismondo, accennò un boschetto, e domandò che razza di piante fossero quelle, e
che frutto portassero. - Ahi barbaro! - pensò il Boldoni: - non conosce l'alloro, - e conchiuse fra sè
che da tal gente non era da sperarsi misericordia.
Desolato quel territorio, le feroci locuste si gettarono nella Valsassina. È un gruppo di montagne e
di valli, paese poco visitato dal sole, intersecato da torrenti, petroso e selvatico negli accessi, ma per
entro rivestito in gran parte di ricchi pascoli, e più fertile che non l'annunzi il suo nome: ha varie
terre, quale sul pendio, quale nel fondo a luogo a luogo assai vasto perché si possa chiamarlo
pianura: e sur alcuni monti più erbosi sono sparse bianche e picciole casette, che da lontano
raffigurano quasi un gregge sbandato al pascolo. Non vi mancavano possessori agiati, ma la più
parte degli abitanti erano e sono tuttavia mandriani i quali vi dimorano nelle stagioni più miti, e
passano al piano i mesi più rigidi. La fama spaventosa della sorte di Bellano precedeva le truppe, e i
valligiani s'erano presso che tutti rifuggiti sulle somme alture lasciando deposte sotterra presso le
case le loro ricchezze, e cacciando dinanzi a sè le mandrie che sono la principale. Ma i
saccheggiatori, ai quali non bastava quello che era stato loro abbandonato e a cui le arti di
preservazione degli abitanti avevano suggerite nuove arti di offesa e di depredazione, si diedero a
rintracciarli. Quelli che erano stati più lenti a fuggire, o che furono sorpresi nei loro nascondigli,
strascinati giù pei greppi a minacce, a percosse, ricondotti nei villaggi, erano quivi sottoposti alle
torture, che può inventare la cupidigia più crudele, perché rivelassero i tesori nascosti. Due passioni
ben diverse, ma egualmente potenti, l'avidità e il terrore supplivano alle convenzioni del linguaggio,
e si spiegavano fra di loro in un rapido e terribile dialogo. I gemiti, le voci supplichevoli, le mani
giunte al petto, o stese al cielo non impetravano che nuovi strazj: l'infelice che si prostrava ad
abbracciare le ginocchia dei suoi oppressori, era rialzato a forza di percosse. Colui che aveva
riposto sotterra o danaro o suppellettile, o a cui il vicino per far pompa di previdenza e di sicurezza
nei suoi ripieghi aveva confidato il luogo del suo deposito, si stimava felice di avere con che
acchetare quella perversità; accennava premurosamente, con aria di sommessa e quasi amichevole
intelligenza ai soldati che lo seguissero, e mostrava loro la terra di recente smossa, o l'armadio
murato di fresco; e cercava di sguizzare fra mezzo i saccheggiatori che ciechi per ingordigia si
gettavano a gara sulla preda.
Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco.
<B>CAPITOLO II</B>
Le contingenze infelici della vita umana son tante, che non di rado l'uomo oppresso da una
sventura, può consolarsi col pensiero d'altro male o di peggio, che senza quella sventura gli sarebbe
capitato infallibilmente. Se la infame passione di Don Rodrigo non fosse venuta a turbare i placidi
destini di Fermo e di Lucia, essi dopo d'aver passato un anno d'inopia, contra la quale chi sa se le
loro facoltà avrebbero bastato, si sarebbero ora trovati, probabilmente con un bambinello, esposti
nel loro paese a quella orrenda furia militare, costretti a fuggire; e quando avessero schivati tutti i
pericoli della persona, tornando poi a casa non v'avrebbero trovate che le muraglie e quelle mezzo
diroccate, e i segni perversi e luridi del sozzo torrente che v'era passato. Questi guaj sembrano ora
leggieri al paragone di ciò che Lucia e Fermo hanno sofferto in quella vece; ma allora non
v'essendo il paragone, e non potendo essi nemmen per sogno immaginare come possibili tutte le
traversie che abbiamo narrate, quel minor male sarebbe ad essi paruto il colmo della infelicità.
Comunque sia, in mezzo a tanti mali fu una ventura per entrambi l'esser lontani da casa loro in quel
brutto momento.
E Agnese? Agnese si trovava mò proprio nell'intrigo. «Vengono; hanno saccheggiata Cortenova,
hanno dato il fuoco a Primaluna, disertato Introbbio, Pasturo, Barzio, si sono veduti a Ballabio, son
qui, son qui»; così la fama andava di momento in momento crescendo e avvicinando il terrore.
Alcuni di quei poveri valligiani, che invece di rintanarsi sui monti dove forse non sarebbero stati
sicuri, avevano stimata miglior via di fuga, precorrere il nemico, giungevano ansanti, spaventati, in
disordine, come reliquie d'un esercito disfatto e inseguito, e raccontavano cose orribili della crudeltà
dei soldati, principalmente contra coloro che fossero o paressero opulenti. Agnese aveva ancora una
ventina di quegli scudi d'oro che il Conte del Sagrato le aveva donati così a proposito, e quasi per
ispirito di profezia. Che in quell'anno, senza quell'ajuto di costa, la poveretta sarebbe stata ridotta a
morire di stento, o a pitoccare disperatamente come tanti altri. Ma dopo d'aver sentiti i vantaggi
della ricchezza, Agnese ne provava ora tutte le cure e i terrori. È ben vero ch'ella aveva sempre
dissimulata prudentemente quella ricchezza, e il solo che fosse del segreto era Don Abbondio che
era stato testimonio del dono, e al quale essa ricorreva per fargli di tempo in tempo cambiare uno
scudo in picciola moneta. Ma una indiscrezione poteva avere tradito il segreto, o un sospetto averlo
indovinato, e allora il pericolo sarebbe stato terribile, e la fuga mal sicura. Poiché era cosa nota che
nei luoghi dove la soldatesca era già passata, uomini, ai quali in verità non si saprebbe trovare un
epiteto, o per invidia, o per isperanza di premio avevano guidati quei masnadieri al nascondiglio di
qualche lor paesano denaroso, segnandolo così allo spoglio, ed ai tormenti. Per queste ragioni
Agnese fluttuava in un dubbio tempestoso: più volte, vedendo passare qualche frotta de' suoi
paesani che tiravano verso i monti, s'era mossa per mettersi in loro compagnia; e poi ristava,
pensando con raccapriccio ai pericoli che l'asilo stesso poteva avere per lei. Ma dove trovare quello
che le desse la sicurezza particolare di ch'ella aveva bisogno? Maneggiando e rimaneggiando quegli
scudi d'oro, svolgendoli, e rincartocciandoli, togliendoli di seno per riporveli meglio, le sovvenne di
colui che glieli aveva dati, delle sue proferte, del suo castello posto al confine e in alto come il nido
dell'aquila; e si fermò tosto nel pensiero di cercarsi l'asilo colà. Aveva già sotterrate, nascoste sul
solajo, riposte alla meglio le masserizie più grosse; sbarrò come potè le finestre; tolse un fardello
dove aveva ragunato ciò che le sue forze bastavano a portare; ravvolse per l'ultima volta quegli
scudi d'oro, e li cacciò sotto il busto, tra la camicia e la pelle, uscì di casa, chiuse la porta, più per
non trascurare una formalità che per fiducia che avesse in quei gangheri e in quelle imposte, si mise
la chiave in tasca, e s'avviò. Trovandosi così soletta in istrada pensò quanto le sarebbe stato
prezioso un compagno in quel tragitto. Ma voleva esser galantuomo, galantuomo a tutte prove,
superiore ad ogni sospetto e più forte d'ogni tentazione. - Dove trovarlo anche questo? Il curato?
Perché no? la casa parrocchiale è a pochi passi; tentiamo.
Chi non ha veduto Don Abbondio in quel giorno non ha una idea vera dell'impaccio. I nemici che si
avvicinavano erano i più terribili che egli avesse mai avuti a fronte, e quelli contra cui erano più
inutili tutte le sue armi, tutti i suoi stratagemmi. Non era gente da ammansarsi colla pieghevolezza,
e colla sommessione, molto meno da contenersi coll'autorità. Non v'era salute che nella fuga; ma
primo di tutti a risolverla Don Abbondio era poi rimasto indietro di molti per le difficoltà che
trovava nella fuga stessa, e per le condizioni ch'egli vi aveva voluto porre. L'ertezza del cammino lo
spaventava, e questo spavento gli aveva fatto perder qualche tempo a voler persuadere or l'uno or
l'altro dei suoi parrocchiani che lo portassero in lettiga; ma in verità quello non era momento da
trovar lettighieri. Era pure andato pregando tutti quelli che avevano buone spalle, che per amore del
loro curato si caricassero delle sue masserizie, delle sue provvigioni, anche dei suoi mobili, per
portarli in alto e riporli in salvo; ma si era indirizzato ad uomini occupati a scegliere fra i pochi loro
averi quello che si poteva trafugare, lasciando con dolore il resto alle voglie dei ladri: e nessuno
aveva spalle da allogare a Don Abbondio. Pensava finalmente a nascondere il tutto sul luogo, ma la
cosa era per sè difficile, e il tempo stringeva. Di più non aveva ancora saputo scegliere un asilo, e
senza farne mostra, era tormentato dallo stesso timore che Agnese. Girava il pover uomo per la casa
tutto affannato e stralunato, non sapendo che farsi, se la prendeva quando col duca di Nivers, come
diceva egli, che avrebbe potuto rimanersi in Francia e voleva a forza esser duca di Mantova, quando
col duca di Savoja che voleva ingrandirsi, quando coll'imperatore che stava su certi puntigli, e
quando con Don Gonzalo di Cordova che non aveva saputo mandare quei diavoli per un'altra
strada. Bestemmiava ancor più la durezza dei suoi parrocchiani che non volevano dargli ajuto. - Oh
che gente! -, sclamava - che gente! ognuno pensa a sè! non c'è carità! - Si faceva alla finestra, e
chiamava quelli che passavano con una certa voce mezzo piagnolente, e mezzo rimbrottevole.
«Venite a dare una mano al vostro curato, se avete viscere di misericordia; non siate così cani.
Ajutatemi a portar via quei pochi stracci, quei pochi stracci» ripeteva, perché nessuno sospettasse
ch'egli avesse cose preziose da salvare. «Aspettatemi, che venga anch'io con voi; aspettate almeno
che siate quindici o venti, tanto da potermi guardare, ch'io non sia abbandonato. Volete voi
lasciarmi solo in man dei cani? Meritereste che il vostro parroco fosse spogliato, ammazzato.
Misericordia! Fermatevi dunque». - Eh! tiran di lungo. Oh che gente!
Bisogna dire che Don Abbondio fosse ben accecato dalla paura per parlare a quel modo. Quegli a
cui egli faceva quelle preghiere e quei rimproveri, passavano dinanzi alla sua casa curvi sotto il
peso delle robe loro, quale trascinandosi dietro la sua vaccherella, quale traendosi dietro i figli che a
stento lo seguivano, e la donna che portava quegli che non potevano camminare, quale reggendo un
vecchio o un infermo. Altri tornavano scarichi dal monte a raccogliere altre masserizie, finché
reggessero le forze, e lo permettesse il pericolo. Alcuni di loro non rispondevano a Don Abbondio,
altri diceva: «eh sì! s'ingegni anch'ella signor curato». - Oh povero me! oh che gente! - ripeteva egli.
- Ognuno pensa a sè: ognuno pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare.
Per buona sorte Perpetua aveva conservato assai più sangue freddo, e operava e dava consigli, come
Catterina prima aveva fatto nel campo alle rive del Pruth quando Pietro stretto tra i Turchi e i
Tartari, non trovando uscita né consiglio, era caduto d'animo, non sapeva a che partito appigliarsi, e
non aveva più energia che per isfogarsi in querele e in rimproveri. Perpetua ben convinta che non
era da fare assegnamento sopra altri, aveva fatto due fardelli uno per sè , uno per Don Abbondio; e
poi in fretta e in furia, sparpagliava il resto delle masserizie nei bugigatti più nascosti della casa, sul
solajo sotto il pagliajo, dietro i tini. Quando questa faccenda fosse terminata alla meglio, ella aveva
proposto di presentare a Don Abbondio il fardelletto destinato per lui, e d'intimargli di partire,
giacché in quel momento era cosa evidente che il padrone non era in caso di governarsi e pel suo
meglio bisognava comandargli. È però vero che Perpetua aveva creduto di riconoscere una simile
necessità in mille altri casi, che a gran pezza non erano urgenti come il presente.
In questo frattempo sopravvenne Agnese, e comunicata la sua risoluzione, fece intendere a Don
Abbondio ch'ella poteva essere opportuna anche per lui.
«Dite davvero, Agnese?» disse Don Abbondio.
«È un buon parere, signor padrone», disse Perpetua: «andiamo senza perder tempo».
«Senza perder tempo», disse Don Abbondio, «perché costoro possono giungere da un momento
all'altro. Ma saremo sicuri in casa di quel signore? Eh!»
«Andiamo», disse Perpetua, «sicuri come in chiesa: gli parlerò io: siamo amici: è stato nella mia
cucina quieto come un agnello: è diventato un uomo del Signore».
«Male non me ne vorrà fare: che dite eh? sarebbe un peccato senza costrutto: quelle poche volte che
ho dovuto trovarmi con lui, sono sempre stato così compito! Andiamo, ma la mia povera roba!»
«Anch'io ho dovuto lasciar quasi tutto il poco fatto mio, che sono una povera vedova», disse
Agnese.
«Sia fatta la volontà di Dio», disse Don Abbondio: e intanto Perpetua gli diede il fardello, dicendo:
«porti questo, ch'io porto quest'altro».
«Oh poveretto me!» disse Don Abbondio. «Che ci avete messo?»
«Camicie e abiti», rispose Perpetua, indi fattasi all'orecchio di Don Abbondio, domandò sotto voce:
«i danari li ha in tasca?»
«Sì, zitto zitto per amor del cielo», rispose Don Abbondio, e prese il fardello. «Sentite Perpetua»,
riprese poi tosto al momento di partire: «tirate fuori qualche altro abito che Agnese farà questo
servizio al suo curato di portarlo».
«Ma non vede, che ho preso con me tutto quello di mio che poteva portare?» disse Agnese.
«Oh me poveretto!» mormorò Don Abbondio, «ognuno pensa a sè. Andiamo, andiamo. Perpetua
chiudete bene la porta: alla custodia di Dio. Aspettate... ma no no, peggio: sono la metà Luterani!
misericordia!»
Don Abbondio rispondeva così ad una proposizione che s'era fatta e che alla prima gli era paruta un
bel trovato per preservare la casa. Voleva staccare dalla chiesa il quadro del Santo protettore, e
affiggerlo al di fuori su la porta, per indicare che la casa era sacra, e per fare in modo che non
potesse essere intaccata che per mezzo d'una profanazione: ma s'avvide tosto che quel mezzo di
difesa, molto debole per sè contra soldati avidi di rapina, poteva in questo caso divenire una
provocazione a far peggio: giacché fra quei soldati v'era di molti ai quali uno sberleffo fatto
coll'alabarda all'immagine d'un Santo sarebbe sembrato un'opera meritoria, una espiazione
anticipata del saccheggio.
Data una occhiata lacrimosa alla casa, Don Abbondio s'incamminò colle due vecchie amazoni, e per
tutta la via non fece altro che sospirare, lagnarsi dell'abbandono in cui l'avevano lasciato i suoi
parrocchiani, domandare a Perpetua dove avesse riposta la tal cosa e la tal altra, e se credeva che
non le avrebbero trovate: enumerare tutte le ragioni per le quali il Conte sarebbe stato peggiore d'un
cane se gli avesse fatto male, e divisare dove si sarebbe potuto cercare un asilo se quello a cui si
andava fosse stato mal sicuro.
Giunti presso al castello videro un gran movimento, gente che andava, gente che veniva, uomini in
arme appostati, altri che giravano in ronda a tre a quattro, tanto che Don Abbondio cominciò a
scrollare il capo e a dire: «Che è questa faccenda?» Ma Perpetua gli spiegò tosto che quegli erano
evidentemente uomini che vegliavano alla sicurezza del castello, e di quelli che, come si vedeva,
andavano ivi a rifuggirsi.
«Ohimè! ohimè disse Don Abbondio: «vedo che qui si voglion fare delle pazzie; appunto quando
più si vorrebbe stare zitti, rannicchiati senza né meno fiatare, farsi scorgere. Basta; vedremo: se
fanno pazzie per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n'è, e i precipizj non mi fanno paura:
quando si tratti di salvare la pelle, ho coraggio anch'io quanto chi che sia, andrei in mezzo al
fuoco».
Dette sotto voce queste parole Don Abbondio proseguiva lentamente, guardando con attenzione a
quegli armati, e cercando di comporre il volto alla indifferenza, e di non lasciar trasparire il suo
pensiero che diceva dentro: - Scommetterei che questo gradasso ha caro che sia venuto un flagello
così orribile per avere il pretesto di fare un po' di rimescolamento. Oh che gente! Oh che gente!
Del resto le cose erano quivi come Perpetua le aveva immaginate. Al castello del Conte era rimasta
unita una antica opinione di sicurezza e di potenza; e i nuovi costumi del signore ne avevano
cancellata affatto l'idea di oppressione e di terrore; dimodoché la gente del contorno dalla banda del
Milanese, vi accorreva come ad un asilo forte e pietoso nello stesso tempo. Il Conte lieto di esser un
oggetto di fiducia a quei deboli che aveva tanto spaventati ed oppressi, raccolse tosto i primi che si
presentarono. Ma un tal uomo non avrebbe potuto considerare la sua casa come un asilo disarmato,
un nascondiglio di paura, né starsi colle mani in mano quando ad ogni momento poteva presentarsi
un'occasione di menarle santamente. Fece addirittura tirar giù dal solajo le armi irrugginite, le fece
ripulire in fretta, ne distribuì ai servitori. Quindi a misura che accorrevano fuggiaschi, egli
trasceglieva gli uomini capaci di portare le armi, dava loro moschetti e partigiane: quando la
provvigione fu esaurita, ne fece raccogliere all'intorno: e scompartiva gli uficj a quei nuovi soldati;
altri mandava in ronda, altri più lontano per esplorare, altri stavano raccolti per porsi in difesa.
Quando uno era entrato nel castello, ed era passato in rivista dal signore, diveniva verso lui come un
soldato col suo antico ufiziale: tanto il Conte possedeva quella forte risolutezza che piega le
volontà, e quella parola che toglie il pensiero di fare diversamente da quello ch'ella suona. Aveva
allogate le donne e i fanciulli nelle stanze più riposte; i letti erano pei vecchj, e per gl'infermi: una
gran sala serviva di magazzino per le robe che erano portate su dai rifuggiti: tutto era collocato in
ordine, con numeri, dei quali il corrispondente era dato ai padroni; ed alla porta della sala era posto
come un corpo di guardia; chi aveva portate provvigioni, viveva di quelle, e i poveri erano nutriti
dal Conte con razioni che si distribuivano regolarmente come in un campo. Egli, come l'Ariosto
sognò di Carlo in Parigi, di qua di là, non istava mai fermo: dava ordini, visitava posti, metteva a
luogo quelli che arrivavano, governava ogni cosa; e dove nascesse qualche garbuglio, qualche
contesa, si mostrava, e tutto era finito.
Era appunto su la porta quando giunsero i nostri pellegrini; gli riconobbe tutti e tre, e gli accolse
tutti con pronta cordialità; ma alla madre di Lucia fece una accoglienza particolare nella quale
traspariva come una gratitudine perché ella gli desse ora una occasione di compensare alquanto in
quello stesso castello la terribile ospitalità che vi aveva trovato la figlia. «Bene avete fatto, brava
donna», disse il Conte, «di cercare qui un ricovero. Bene avete fatto di ricordarvi di me: fate stima
di esser in casa vostra. Voi ci portate la benedizione».
«Oh appunto!» rispose Agnese: «sono venuta a darle incomodo».
Il Conte le chiese con premura novelle di Lucia, e udite che le ebbe, si rivolse a Don Abbondio, e
disse: «La ringrazio Signor curato ch'ella degni scegliere un asilo in questa casa».
- Manco male che conosce i suoi meriti - pensò Don Abbondio, e cominciò per rispondere: «In
questi frangenti... in queste circostanze... non si... tutto è...» Ma vedendo che la frase così
cominciata non poteva venire a bene, la convertì in un inchino profondo.
«Son già arrivati alla sua parrocchia coloro?» domandò il Conte.
«Dio liberi!» rispose Don Abbondio: «Dio liberi! Non sarei qui vivo e sano ad implorare la
protezione del Signor Conte».
«Si faccia cuore», ripigliò questi: «qua su non verranno; ma se volessero tentar la prova, siamo
pronti a riceverli. In ogni caso la sua presenza è preziosa, Signor curato: ella potrà animare questa
brava gente alla difesa della vita di tanti deboli, della pudicizia di tante donne che confidano in
noi».
- Un corno, - disse fra sè Don Abbondio.
«Ella potrà», proseguì il Conte, «assistere quelli fra noi che lasciassero la vita in questa impresa di
misericordia».
«Signor Conte», disse Don Abbondio, «sarà quel che Dio vorrà». E così dicendo girava la testa a
guardare qual fosse la più vicina e la più alta delle cime che dominavano il promontorio su cui era
posto il castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i combattenti.
Non rimaneva nel castello più che un letto libero; e fu dato, com'era giusto, a Don Abbondio prete e
vecchio. Ma il Conte, memore della notte che Lucia aveva quivi passata, non avrebbe potuto
sofferire che la madre di lei, dormisse su la paglia. Fece quindi portare il suo letto nel dormitorio
delle donne, e disporlo quivi per Agnese, intimando ai servi che si guardassero bene dal dire che
quello era il letto del padrone: e nella sua stanza fece in quella vece portare una bracciata di paglia.
Quindici giorni circa passarono i nostri rifuggiti nel castello; quindici giorni di batticuore e di
sospetto, di spauracchi subitanei, e di rincoranti <I>non è vero</I>, di vigilie, di allarmi, di pericoli,
che grazie al cielo tutti svanirono senza danno. Il castello era fuor di strada, e quei pochi demonj di
lanzichenecchi sbandati che capitavano alle falde del promontorio, veggendo su per la via uomini in
arme, e non sapendo quanti più ve ne fosse in alto, più curiosi allora di preda che di battaglia, se ne
tornavano, pel loro meglio. Oltracciò la parte dell'esercito che nella marcia si diffondeva lungo
l'estremo confine aveva un interesse urgente di tenersi raccolta, e all'erta, e di non disperdersi
troppo a buscare. Sull'altro confine era raccolta una forza dei Veneziani, la quale sotto il comando
di Marco Giustiniani, provveditore all'armi in Bergamo era destinata a costeggiare l'esercito
alemanno per tutto quel tratto del suo passaggio che toccasse i confini della Repubblica; e a questa
forza avevano dato nome di Squadrone volante. Alla presenza di questi che certo non erano amici, e
che vedendo un bel tratto, potevano far da nemici, bisognava camminare con giudizio; e questa fu
principalmente la cagione per cui il castello non fu molestato.
Ma anche questa che in fatto era salute, fu pel volgo inerme che vi era ricoverato, e per Don
Abbondio principalmente un aumento d'inquietudine. Poiché, se il confine veneto fosse stato
sguernito, Don Abbondio certamente l'avrebbe varcato, e sarebbe andato innanzi fino a che non
avesse più inteso parlare di lanzichenecchi. Ma ora il poveretto non aveva più rifugio: l'accesso ai
monti, oltre la fatica, era pieno di pericoli, pei predoni che potevano trovarsi su la via: e attraversare
lo Squadrone volante sarebbe stato lo stesso che correre in bocca al lupo: giacché quella era una
marmaglia ragunaticcia d'uomini tagliati a un dipresso alla misura dei lanzichenecchi; e nel paese
che le era dato a proteggere faceva il peggio che poteva.
Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici giorni. Stavasi colle
donne coi vecchj e coi fanciulli nel luogo più riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo
cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non accrescessero lo spavento. L'aspetto
dell'armi, dei preparativi di difesa da una parte lo rincorava alquanto, dall'altra gli era intolerabile
facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in movimento a far carne. Si percoteva il petto e le
guance pensando alla minchioneria che aveva fatta. - Mi son messo in gabbia da me stesso, - diceva
tra sè sospirando. - Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due pettegole. - E in questo
pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra
di essa. Ma quando Perpetua giustificandosi alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere, e
cessava di garrire anch'egli tutto impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte tornando
all'antica natura non facesse il diavolo. Don Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in
quell'accampamento era come la tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno che
facevano da ufiziali, le signore, e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte, da buon generale,
metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a
mettere i pensieri in comune, perché i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento.
Bisognava dunque parlare, e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando il
Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto, egli allora sforzandosi di
mangiare e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura veramente
compassionevole.
Ma tutte le cose hanno finalmente un termine: passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di
Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli,
e poi quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati;
quando piacque al cielo, passò anche Galasso che fu l'ultimo. Lo squadrone volante dei Veneziani si
mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta dell'Adda,
fin dove ella era confine fra i due stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando
le due retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come uno stormo
di passere si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e fronzuti d'una gran quercia dove erano accorse
a ricoverarsi dalla tempesta. Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar
tosto cogli occhi proprj il suo dolore, e il guasto che v'era stato fatto, e nello stesso tempo perché i
barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan
potuto lasciare. E poi, per quanto il Conte avesse dato segni e prove d'esser divenuto un
galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo
brusco che era stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata. Ma
dall'altra parte lo riteneva la paura di abbattersi in qualche lanzichenecco sbandato, rimasto addietro
alla busca, e di affogare in porto. Era quindi sempre su le mosse, sempre s'indugiava, domandando
novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano dolorose. Quei
pochi rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi troppo presto, erano trovati sbigottiti,
storditi dalle percosse e dallo spavento: ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle
case, un impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie, sfracellate per istrazio dopo
avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il respiro; dimodoché
ognuno tornando con ansia alla casa derelitta, ne usciva alla prima con fastidio, e doveva farsi forza
a poco a poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone avanzando
così per la casa sua, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato che languiva
infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di
pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente
l'immagine confusa ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un
sogno lontano.
Il Conte argomentando da queste relazioni che Agnese se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe
però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse di quello che gli
rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche
attrezzo di cucina, e caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca
scorta, e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che ajutassero la povera
donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di
grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione, e della disperazione; ma la giunta fu
più trista ancora. Alla esclamazione cento volte ripetuta di «povera gente» succedette il «povero
me»: parola che generalmente parlando esce da una parte più profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere
qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra; e
tra con questi rimasugli, e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa se
non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi
paesani. Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare:
«oh che gente! oh che gente!» La sua casa era la più mal trattata del villaggio, perché era la più
apparente; e gli ospiti eroi sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi
avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, né le
cure erano state inutili: e Perpetua mettendo il piede su la soglia tra mezzo i mobili spezzati, i fogli
lacerati, e le piume delle sue galline, scerse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose
ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più
ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di
vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza, e lo
ritraeva, dava tre passi, e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza oltre il guasto che presentava, dava
tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ristretti in un picciolo angolo,
come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul focolare della cucina per
esempio si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di
seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio
teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco.
Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere, e di carboni spenti; e con
quei carboni, come per compenso, e per un complimento al padrone, i guastatori avevano
schiccherate le pareti di visacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei
preti, e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che per verità non poteva fallire a tali artisti.
Don Abbondio mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigj su le tempie, balzò di casa come
un forsennato, e andò di porta in porta a gagnolare, a scongiurare quegli che tornati da qualche
giorno avevano assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e
nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in
prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola; tanto che cogli ajuti
e con le prestanze potè accamparsi quel giorno in casa per riconquistarla e riordinarla poi tutta a
poco a poco. Passati quei primi giorni, e nel tempo appunto delle brighe e delle spese, Don
Abbondio ebbe con se stesso e con Perpetua una guerra assai fastidiosa. Perpetua, parte con la sua
vista acuta come il fiuto d'un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che
molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano sane e salve in
paese nelle mani dei barberini; ne fece tosto avvertito Don Abbondio, perché si facesse rendere il
suo. Ma Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che non gli spiacesse assai
vedersi così rubato a man salva, e sapere il fatto suo in mano d'altri: ma quegli che se lo tenevano
erano i più terribili e bizzarri arieti del suo gregge: quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre
sofferto ogni cosa piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati, e lodati come i
più savj ed esemplari. Sicché sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe con
Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche
mancanza, domandava qualcheduno di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
«Vada a cercarlo al tale che lo ha», diceva Perpetua, «e che non lo avrebbe tenuto fino a quest'ora
se non avesse che fare con un... buon uomo».
«Zitto, zitto Perpetua, zitto».
«Zitto, zitto», rispondeva Perpetua: «e così ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo. Rubare
agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare».
«Oh che spropositi! oh che spropositi!» sclamava Don Abbondio. «Ma sapete pure... Col nome del
cielo... volete la mia morte!...»
La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore, perché quando
si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter
competere, e taceva la prima. Tutto quello che fece Don Abbondio, fu di gittare in predica qualche
motto sul dovere di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo
diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore ad un predicatore di
corte. E pure appena quelle parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e
per riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare dell'ira, e della
mansuetudine, e del gran male che è l'infierire contra quelli che non vogliono né possono far difesa.
Ma fra mezzo alle cure del passato cominciava a nascere una che doveva tutte sommergerle: si
cominciava a sentire che i disastri manifesti e soli fino allora deplorati di quel passaggio, non erano
i soli né i più terribili. In tutta quella striscia del Milanese che la soldatesca aveva attraversata, si
videro tutt'ad un tratto uomini d'ogni età e d'ogni sesso infermarsi e cadere come mosche dopo una
pioggia autunnale. I segni che accompagnavano quella infermità erano sconosciuti a quasi tutta la
generazione vivente: solo alcuni vecchioni, con parole ravvolte e sospettose accennavano di aver
veduti quei segni altra volta. Erano i pochi i quali potessero ricordarsi d'essere vissuti nella peste
che cinquantatrè anni prima aveva desolata una parte d'Italia, e specialmente il Milanese, dove a
distinguerla da altre simili calamità fu poi chiamata, e lo è tuttavia: la peste di San Carlo. Tanto è
forte la carità religiosa! Tra le memorie così varie e così solenni d'un disastro universale, ella può
far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti ed azioni più
memorabili ancora dei mali: può riunire e subordinare alla memoria di lui tutti gli avvenimenti,
perché in tutti lo ha spinto ed intromesso a parte dei patimenti, in capo dei soccorsi, esempio,
consiglio, vittima volontaria; di ciò che per tutti è una sventura fare per lui come un'impresa; far
ch'essa prenda il nome da lui, come una provincia da un suo conquistatore.
Il tribunale della sanità in Milano era composto d'un presidente e di sei conservatori, quattro dei
quali tolti da magistrature diverse, e due medici: questi ultimi erano allora Lodovico Settala, e
quell'Alessandro Tadino, già da noi citato, e che lo sarà ancor più in seguito. Il primo, quasi
ottuagenario, era uno dei pochi testimonj viventi della peste di San Carlo; né testimonio puramente
passivo; ma, fisico fin d'allora molto riputato, benché giovanissimo, ne era stato uno dei più
affaccendati e intrepidi curatori. Questi, che stava all'erta, e richiedeva avvisi dalle terre che
l'esercito aveva toccate, ebbe in fatti i primi della mortalità; e fu il primo a riferire nel tribunale che
la peste s'era manifestata nel territorio di Lecco. Sopraggiunsero poi altri avvisi: il tribunale spedì
un commissario perché osservasse e facesse relazione: questi in compagnia d'un medico di Como,
visitò alcuni dei luoghi indicati; raccolse informazioni superficiali e contradditorie; credette a quelle
che attribuivano la mortalità ad un solito effetto dell'autunno in quei luoghi, e rassicurò il tribunale.
Ma ecco giungere avvisi da altri luoghi al tribunale, il quale finalmente delegò due commissarj ad
una visita generale dei paesi sospetti; Alessandro Tadino, e Giovanni Visconti Auditore. Quando
questi arrivarono, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offerivano senza ch'essi le
andassero cercando. Trovarono le ville, quale sbarrata per timore del contagio vicino, quale mezzo
abbandonata; famiglie accampate o disperse, già piangenti la morte di qualche congiunto, e tremanti
per la propria salute: s'inchiesero del numero dei morti, ed era terribile; visitarono gl'infermi e i
cadaveri, e rinvennero i segni che tremavano di rinvenire: assunsero informazioni, riseppero che ivi
più presto s'era manifestato il male, dove i soldati avevano stanziato più a lungo, o in più gran
numero; che i primi percossi erano stati quelli che avevano spogliati i morti per appropriarsi le
vestimenta, o che avevan comperata dai rimasti indietro qualche roba tolta ai loro paesani, o che in
qualunque modo avevano avuto contatto con quegli ospiti. Riscrissero quindi al tribunale che i
sospetti erano divenuti una dolorosa certezza; e nello stesso tempo diedero quegli ordini che
seppero per curare gl'infermi, e preservare i non tocchi, facendo tagliare strade, rinchiudere altri
nelle case, altri attendare alla campagna, fissando provvigioni ad un paese, lasciando istruzioni in
un altro, piantando in un altro la forca pei disobbedienti; il tutto in fretta e in furia come si poteva in
quei tempi, in quelle circostanze, da quegli uomini sopra quegli uomini. La nuova si diffuse tosto
nella città, e vi fu accolta con beffe incredule, e con disprezzo iracondo, e dal popolo e dalla
maggior parte di coloro che avrebbero potuto e dovuto dare provvedimenti in tanto pericolo.
Bisogna però eccettuare espressamente il cardinal Federigo, il quale ai primi romori di peste,
prescrisse al clero regolamenti di preservazione, e di carità, e ingiunse ai parrochi specialmente che
ammonissero i fedeli del grave peccato che avrebbe commesso chi per tema di danno o d'incomodo
occultasse il suo o l'altrui morbo contagioso, o per insensata avarizia trafugasse vestimenta o cose
di qualunque genere infette o sospette.
<B>CAPITOLO III</B>
Il giorno 22 d'ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato, fante in un reggimento italiano
alloggiato nel territorio di Lecco, entrò in Milano, carico di vesti rubate o comperate dai soldati
alemanni; e andò a porsi in una casa di suoi parenti nel borgo di Porta Orientale. Appena giunto
s'ammalò; fu portato allo spedale: e morì nel quarto giorno. Nel cadavero si scoperse un carbone
che diede sospetto di peste; i parenti del morto, spaventati dall'idea di divenire sospetti anch'essi, e
di essere assoggettati alle precauzioni sanitarie, accorsero ad asseverare che quel tumore era stato
cagionato dalla fatica del viaggio e della soma. Tuttavia gli abiti del Lovato e il letto dov'era
giaciuto furono arsi nello spedale; ma non si pensò a più lontani provvedimenti. Tre giorni dopo,
due serventi dello spedale, che avevano governato quell'infermo, e un buon frate che lo aveva
assistito, si posero giù con febbre, che fu giudicata pestilente.
Allora il tribunale della sanità fece sequestrare la famiglia del Lovato dalle molte altre famiglie, che
abitavano nella stessa casa. Quest'ordine fu dato per abbondare in cautela, a quel che lasciò scritto il
Tadino; ma se la cautela fu abbondante, certo non fu a tempo; poiché egli stesso racconta come un
Carlo Colonna sonatore di liuto, che dimorava sotto quel tetto, s'ammalò ben tosto, e visitato da lui,
morì in breve spazio con tutti i segnali del contagio.
Tutti gl'inquilini di quella casa furono allora mandati al lazzeretto. Ma dall'arrivo del Lovato erano
già corsi forse venticinque giorni, nei quali i parenti, i vicini che avevano praticato con lui, avevano
praticato pure con altri senza sospetto e senza riguardo. Furono ricercate tutte le robe del Lovato e
del Colonna; e fatte ardere quelle che si poterono rinvenire. Ma una parte era stata trafugata,
dispersa, nascosta, con quella destrezza, con quella diligenza che tutti noi figli d'Adamo sappiamo
mettere nel far male a noi stessi. I conservatori della sanità lo riseppero da una donna che si moriva
per avere avuto di quella abilità; e non poterono fare altro che concepire un gran sospetto per
l'avvenire. Ben presto ogni più tristo sospetto cominciò ad avverarsi: la più parte dei sequestrati nel
lazzeretto s'infermarono, e tutti coi medesimi tremendi segnali; e molti di essi morivano in poco
d'ora. Lo stesso accadeva di quando in quando in varj quartieri della città, o per comunicazioni
avute colla gente di quella casa funesta, o per nuovo arrivare d'uomini dalle parti del contado dove
la peste era più diffusa. Ma le nuove di quegli accidenti giungevano al tribunale, tarde per lo più,
incerte, contraddette. Il terrore del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni, e faceva sormontare ogni
altro terrore: si dissimulavano gli ammalati, si occultavano i cadaveri, si procuravano false
attestazioni. Quegli poi che avevano ottenuto l'intento di evitare il lazzeretto, o la quarantena in
casa, e di conservare le robe dei congiunti o degli ospiti loro, cadevano poi talvolta repentinamente
nelle vie, nelle chiese soprappresi dalla peste, e manifestavano in se stessi il malore che
insensatamente avevano voluto nascondere in altri. Il tribunale avvertito, faceva portare gl'infermi e
i sospetti al lazzeretto, e sequestrare gli altri nelle case.
Ma lo schiamazzare che si faceva contra quel tribunale non è da dirsi: i suoi atti erano oggetto di
amara censura e di derisione; le persone oggetto di avversione e di disprezzo. A volerlo ora dopo
due secoli, giudicare con discrezione, bisogna vedere ciò ch'esso poteva fare per distornare la peste,
o per diminuirne il guasto; e ciò che fece. Ora, prima di tutto è cosa troppo evidente che il tribunale
della sanità non poteva impedire che entrasse la peste nello stato, quando v'entrava un esercito nel
quale era appiccata. Fin da quando si seppe che la calata di questo esercito era risoluta, quei poveri
galantuomini, - e questo fu veramente un abbondare in cautela - rappresentarono al Signor Don
Fernando Gonzales di Cordova la rovina che infallibilmente ne sarebbe venuta al paese: ma Don
Fernando Gonzales di Cordova rispose chiaramente che il fine politico per cui si faceva passare
quella truppa, importava più che non la sanità pubblica. Non parlò dunque con esattezza quel
valentuomo, il quale in un libretto, per altro lodevolissimo, ricercando le cagioni per cui quella
peste fu tanto micidiale in Lombardia, nota per la prima «una somma spensieratezza nel lasciare
indolentemente entrare nella patria la pestilenza»: e fa nascere questa spensieratezza «dalla
ignoranza e dalla sicurezza nei loro errori, che formò il carattere dei nostri avi». La non fu
spensieratezza; fu posponimento volontario, abbandono pensato della salute degli uomini; e quelli
che lo commisero non sono nostri avi. A ciascheduno quel che gli si viene.
Ma data questa inevitabile ospitalità ad appestati, poteva il tribunale impedire ogni contatto dei
paesani con quelli? Qui pure l'impossibilità è manifesta: poiché si trattava di migliaja d'uomini che
violentemente si ponevano nelle case, occupavano i letti, prendevano, adoperavano, brancicavano,
mal menavano le cose e le persone che potevano aver nelle mani.
Entrato così il contagio negli abitanti, poteva il tribunale circoscriverlo tosto a quei primi infetti,
isolarlo, costringerlo nei luoghi dove si manifestava, ottenere quei due scopi egualmente sacri, e
tanto difficili a conciliarsi, l'assistenza agli infermi, e la preservazione dei sani? Quando si consideri
che i soldati avevano percorse forse cento cinquanta miglia del Milanese, e s'erano diffusi a destra e
a sinistra per trovare alloggiamenti, e per rapinare; che in varie parti di quel tratto la pestilenza si
manifestò ad un punto, in moltissime persone, si vedrà che anche quest'ultimo scopo era se non
impossibile, difficilissimo ad ottenersi dal tribunale, quand'anche questo avesse avuti a sua
disposizione mezzi grandissimi, e avesse trovata da per tutto una pronta, attiva, e sapiente
cooperazione; del che non era niente.
Ma per conchiudere finalmente, adoperò il tribunale tosto o tentò tutti quei mezzi che aveva se non
per distruggere, se non per ridurre a poco, almeno per iscemare in qualche parte il contagio, e per
salvare i paesi non ancor tocchi? Qui bisogna distinguere fra le persone stesse del tribunale.
I due medici, convinti dal primo momento della gravità del pericolo, insistettero tosto e sempre
perché si dessero pronti provvedimenti; ma non furono secondati dai loro colleghi. Proposero per
esempio che fosse proibito sotto pene severissime, il comperar robe dai soldati alemanni; «ma»,
dice ingenuamente il Tadino, «non fu possibile persuaderlo al presidente pieno di molta bontà, che
non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaja di persone, per il
commercio di questa gente e loro robbe». Così l'avere a quel primo avviso del Settala, anzi dopo gli
iterati avvisi che giungevano dal territorio di Lecco, spedito un ignorante commissario, col solo
carico di riferire, fu atto di trascuranza inescusabile; per non parlare di molti altri atti di egual
valore. Certo una condotta simile in simili circostanze d'un tribunale della sanità ai nostri giorni
ecciterebbe uno scandalo universale; o per meglio dire non vi sarebbe ora forse in Europa tribunale
della sanità che operasse a quel modo.
Ma - e qui appare il carattere singolare di quei tempi - non erano queste le accuse che gli uomini
d'allora facevano al tribunale; lo accusavano, indovinate mò; di corrività, e di precipitazione, lo
accusavano di credere pazzamente ad un male che non esisteva, di atterrire, di contristare, di
tormentare con ordini inutilmente i cittadini. Dopo tante calamità, parlare anche di peste pareva un
raffinamento di crudeltà; il popolo bene o mal vestito gridava ad una voce che quell'orrendo
sospetto era una invenzione di alcuni medici per guadagnare sul pubblico terrore. Molti fra i medici
stessi, facendo eco alla voce del popolo, la quale in questo caso - se è lecito fare una eccezione ad
un proverbio - non era certamente voce di Dio, ridevano al nome di peste, attribuivano la mortalità
ai disagj degli anni scorsi, ed avevano in pronto molti nomi per qualificare variamente gli accidenti
di quel male nelle varie persone; quando qualche infermo, rimovendo tristamente la coltre,
mostrava loro un tumore che gli dava da pensare, essi sogghignando gli domandavano se non aveva
mai veduto foruncoli; quando si parlava di taluno estinto repentinamente, o dopo brevissimo
languore, domandavano se non si erano mai conosciute apoplessie. Con una disposizione universale
di questo genere, gli ordini del tribunale dovevano incontrare da per tutto ostacoli, resistenze,
inesecuzione. Così era in fatti; e per immaginarsi a qual segno, basti sapere che gli ufiziali stessi del
tribunale, quelli che dovevano fare eseguire gli ordini, erano, come l'universale convinti che fossero
pazzie. Come però erano ordini, che davano ad essi una autorità, e ordini spiacenti a chiunque vi si
doveva assoggettare, una gran parte di quegli ufiziali faceva un traffico della inesecuzione.
Era venuto il carnevale; e agli animi avidi di tripudio diveniva ancor più insopportabile la tirannia
del tribunale che per un supposto ostinato, per un suo capriccio vi poneva inciampo in mille modi.
Non consta veramente che giungesse all'eccesso di proibire le mascherate; ma faceva far visite
incessanti, ma prescriveva sequestri, ma separava gente da gente, ma non rifiniva di tappezzare gli
angoli delle vie di ordini minacciosi, malinconici, ma insomma voleva intrudere a forza quella idea
di peste in tutto, amareggiava e teneva su la corda ogni galantuomo. Più ancora fremevano coloro
che come sospetti erano rinchiusi nel lazzeretto; e ripensavano tristamente ai divertimenti dai quali
erano tenuti in bando; si rodevano di non potere, come i loro concittadini, gettare alle finestre, alle
carrozze delle signore uova industriosamente ripiene di acqua odorosa o fetida, secondo il genio
leggiadro o spiritoso del dilettante: sollazzo renduto più piccante dal divieto annuo, e dalla
destrezza che si doveva impiegare a far le cose in modo da non esser sorpresi, e da schifare la multa
di venticinque scudi se il reo era un galantuomo, e due tratti di corda se scarseggiava di scudi.
Pensarono dunque al modo di divertirsi almeno in quel tristo ricinto; e con danari ottennero
facilmente dai ministri del tribunale, di confondersi e di praticare liberamente fra loro; ottennero di
più che si desse adito nel lazzeretto a chi voleva venire a rallegrarli: vi si fecero feste e balli: la
licenza fu tanto più sfrenata in quanto aveva costato desiderj, e denari: e quel luogo che in verità
pare dovesse ispirare tutt'altri pensieri, divenne un ridotto di tresche romorose, e di sozzi baccani.
Similmente, molti in casa di cui moriva uno appestato con denaro ottenevano dai ministri del
tribunale che la casa non fosse dichiarata sospetta, ottenevano di poter sottrarre all'incendio
prescritto dagli ordini le robe del defunto. Vedendo poi molti di costoro che guadagno ritraevano
dalla loro condiscendenza, pensarono a farla comperare anche a chi non ne aveva bisogno; e quel
traffico tanto insensato e colpevole si cangiò di più in concussione. Minacciavano essi del lazzeretto
o della quarantena famiglie dove era morto qualcheduno, quantunque con nessun indizio di peste, e
per altro male manifesto; prolungavano ad arbitrio le quarantene, intimavano la qualità di sospetti, e
le conseguenze di questa qualità coi più vani pretesti a chi conveniva loro; e il solo mezzo d'uscire
da quegli artigli era di ugnerli, come si dice.
Queste vessazioni crescevano il malcontento e i clamori: di tutto si dava cagione al tribunale, e alla
opinione che vi fosse la peste; giacché tolta questa opinione sarebbero necessariamente cessati colle
prescrizioni di cautela, gl'incomodi e gli abusi di quelle. Ormai chi avesse voluto parlar seriamente
di peste sarebbe stato accolto non più con risate, ma con minacce e con insulti: quei medici, che lo
ardivano erano nominati, notati, mostrati a dito come pubblici nemici.
Sa il cielo quante quei poveri galantuomini avranno dovuto ingozzarne; le quali sono sepolte
nell'obblio con chi le ha fatte e con chi le ha patite. Uno di quei casi però parve ai contemporanei
degno d'esser tramandato ai posteri; e in servizio di quei posteri che forse non l'avessero mai inteso,
lo racconteremo di nuovo anche noi.
Ludovico Settala era generalmente riputato il primo medico del suo tempo in Lombardia; e questa
riputazione gli è conservata tuttora da coloro che sono in caso d'avere una opinione ragionata su
questo fatto. Oltre questa superiorità di dottrina, era egli celebrato e venerato per bontà di costumi,
per uno grande zelo e un gran disinteresse e beneficenza nell'esercizio della sua professione.
Vecchio venerabile, autore di molte opere la più parte latine, lodato dagli esteri, uomo che per
amore del luogo natale aveva rifiutati gl'inviti splendidi del duca di Baviera, del granduca di
Toscana, del cardinal legato di Bologna, dei signori veneziani, protofisico, lettore di filosofia, egli
avrebbe potuto slanciare impunemente, anzi con applauso qualunque sproposito. Ma egli abusò di
tanta popolarità; volle dire una cosa vera, che importava a tutti, e che nessuno voleva intendere; e
ne fu severamente punito. La popolarità e il favore si cangiò in avversione. Egli, il primo a
denunziare la peste, aveva sempre persistito nel proporre provvedimenti, aveva messa ogni cura nel
farli eseguire, e più sicuro degli altri per una lunga abitudine di autorità aveva sempre predicato in
ogni occasione e con chi che sia che pur troppo il male era certo, e che l'ostinarsi a negarlo, non
poteva fare altro che dargli più campo a dilatarsi. Un giorno sul finire del Marzo 1630, appunto
quando il contagio che aveva lentamente serpeggiato nel verno, cominciava a mostrarsi più
frequente, essendo il buon vecchio portato in lettiga a visitare suoi malati, cominciarono alcuni del
popolo a seguirlo nella via, a mostrarlo agli altri, a sussurrargli intorno. Si fece folla, e allora si
cominciò a gridare più chiaramente: «è il capo della lega: è quegli che vorrebbe che ci fosse la
peste: per sostenere il suo puntiglio: per far lavorare i suoi medici impostori. Uh! Uh! È quegli che
mette la paura in corpo alla gente con quel suo cipiglio aggrondato, con quella sua barbaccia.
L'amico della peste: il protettore del contagio. Uh! Uh! È ora di finirla: Si vorrebbe insegnargli a
spaventare tutta una città colle sue imposture».
I lettighieri vedendo la mala parata, approfittarono della vicinanza d'una casa conoscente del loro
padrone, e ve lo portarono in salvo da quel tumulto, da quello sdegno che minacciava di diventar
furore; ivi il vecchio dovette rifugiarsi come un omicida per avere avuto ragione, e voluto far del
bene.
Da avvenimenti di questa sorte si trae troppo spesso una conseguenza falsa e perniciosa: che è
pazzia far del bene a noi uomini. Far del bene è sapienza; la pazzia è proporsi per fine o per premio
la nostra riconoscenza, e la lode che noi diamo e ritogliamo a capriccio, come un ragazzo il suo
balocco.
Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori
schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la
sostenevano però con argomenti un po' più reconditi, e si scatenavano contra il tribunale e contra
quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un saggio, l'autore
del manoscritto, riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante, e
un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era
costui professore d'ignoranza, e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò
non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; «perché i libri» diceva egli
«fanno perdere il buon senso». Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla
esperienza, e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è
da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio,
supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.
Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che divenendo di giorno in giorno
più risoluti cominciavano a non far distinzione di persone, e assoggettavano anche i potenti ad una
vigilanza incomoda.
«Tutto questo», diceva il Signor Lucio, «in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine, che hanno
scaldata la testa d'alcuni i quali per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia, e
pietà nello stesso tempo, il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con
giudizio, e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni, e del buon senso che gli ha
dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un
pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perché? perché l'ha trovata nei
suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci».
«Piano, piano», disse Don Ferrante, il quale benché occupato a dissertare in un altro crocchio aveva
intesa quella scappata del Signor Lucio. «Piano, piano; se si tocca la scienza son qua io a
difenderla».
«Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori»,
disse una signora, e il tratto riscosse un mormorio di applauso da tutta la brigata.
«Quand'anche ciò fosse vero», disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo
minuto, «una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità
del sesso. Comunque sia», continuò egli, «son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli
spropositi che si metton fuori sotto il suo nome».
«Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere», rispose il Signor Lucio, «che tutte
quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, che so io,
non sieno cavate dalla scienza».
«Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie», rispose Don Ferrante. «Anzi la scienza, chi
la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario, e insegna chiaramente che il contagio è una cosa
impossibile, una chimera, un non-ente».
«Son cose che le donne possano intendere?» domandò quella signora.
«La materia è un po' spinosa», disse Don Ferrante; «ma vedrò di renderla trattabile. Dico dunque
che in <I>rerum natura</I> non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato
contagio non può essere né dell'uno né dell'altro genere; dunque non può esistere in <I>rerum
natura</I>. Le sostanze... prego di tener dietro al filo del ragionamento... sono semplici o composte.
Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea; perché se fosse,
volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi; non è acquea, perché
bagnerebbe; non è ignea, perché brucierebbe; non è terrea, perché sarebbe visibile. Sostanza
composta, né meno; perché tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio o al tatto; e fra
tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto, non vi sarà quel Briareo
che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente.
Peggio che peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro;
sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano,
che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle
risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per
fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro. Mi pare che la
cosa sia evidente».
«Intanto», disse il signor Lucio, «senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i
galantuomini, e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno».
«Non lo sanno; perdoni», rispose Don Ferrante, «lo indovinano, a caso, come atomi senza cervello
che girando senza sapere dove, concorressero a comporre una figura regolare. Mi dica un po' di
grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità».
«Oh bella!» disse il signor Lucio; «la cagione è chiara: in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti
sono più frequenti perché v'ha più malattie; e questo è il caso nostro».
«Sì», disse Don Ferrante; «ma le malattie, la cagione prima delle malattie?»
«Nè qui pure c'è sotto gran misterio», rispose il signor Lucio: «la carestia, la mala vita hanno
cagionate le malattie».
«Tutto bene», disse Don Ferrante, «ma la cagione prima?»
«Io non so che cosa ella intenda per cagione prima», disse Don Lucio.
«Ora, vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza», disse Don Ferrante. «Per trovare la cagione
prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto,
bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perché
non si vuol fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle, e le considera come tante capocchie
di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare
né come né quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si
tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa causata dalla
congiunzione di Saturno e di Giove, <I>apparet cometa magnus in cardine dextro</I>, la quale
indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile
carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto
terribili: <I>Fames in Italia morsque vigebit ubique</I>. Che se i dotti le avessero trovate prima,
non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati
debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare, e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è
ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse!...»
Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un
giuramento, la sua fronte si corrugò; la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, articolò la
formola terribile: «<I>mortales parat morbos; miranda videntur</I>».
«O poveretti noi!» disse una signora, e rivolta al suo vicino chiese che cosa volesse dire quel latino.
«Le prime parole», rispose egli, «voglion dire che il morbo pare mortale: il resto è una
esclamazione che non significa niente».
Don Ferrante continuò: «Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi
pochi medici che voglion fare il singolare, e resistere all'evidenza, e credono di spaventarci con un
grande apparato di dottrina, come se alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai
toccato il <I>limen</I> della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di
esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole
rispettabili: ma che non fanno niente alla questione...»
«Eppure», disse il Signor Lucio, risolutamente, perché gli pareva di avere alle mani una buona
ragione, «eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni...»
«E qui li voglio», interruppe Don Ferrante; «qui dà in fuora lo sproposito. Confessano questi
signori, perché a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è
causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro.
Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni
agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze, e dicono poi: state
lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze discese
dai corpi celesti in questo mondo sublunare potessero schifarsi: come se quando le stelle inclinano
al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse
sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei
corpi celesti. Per me, credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici che
hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno
sciagurato, accioché per giunta di tanti mali ci tocchi anche il flagello dei regolamenti».
Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso, sapevano che era
comparsa quella cometa, avevano inteso dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto; ma
da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavare quel sugo che Don Ferrante espresse nella
sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima, e nello stesso tempo più
irritati contra i regolamenti, e più disposti a trascurare, come inutili, tutte le cautele. Lo stesso
contraddittore signor Lucio partì da quella disputa più pensoso; perché le predizioni astrologiche
erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.
Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che
fronte sicura sostenute, e predicate, con che fiducia applicate ai casi, e alle deliberazioni della vita,
si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di
rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi
avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti, sarebbe stato in molte cose l'uomo il più
illuminato, e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni.
Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi
tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un
giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di
errori tanto marchiani. E perché no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una
persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee
ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre,
dominanti in somma per una, due, più generazioni; divenute poi il ludibrio delle generazioni
susseguenti. Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle
diverse età, delle origini, dei progressi, e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni
stravaganze, raccolte insieme, e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente
avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa che ora
nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro l'affermare la tal
altra che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal
proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito, in quell'altro, era appena lecito avventurarla al
tale grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal
altra cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe
un tale errore, proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente,
diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro
annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, cresciuto, e morto in un
paese, tale recato da di fuori, e ricevuto con gratitudine, tale sorto tra il popolo illetterato, e a poco a
poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine;
tale, scavato in un libro vecchio; tale immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale messo
fuori da un uomo senza credito, e senza merito, aver fatto grande fortuna perché conforme ad altre
idee storte già dominanti, e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle
specie più singolari una lista che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe
tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e
pensatori di un'epoca, e rispinto dal popolo, e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di
prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodoché su quel punto i posteri non
trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.
Talvolta senza proteste senza richiami. Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o
derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero
ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con
importanza farebbe ridere per un altro verso.
Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di
sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e
sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi, e con istravaganze volgari. Dal che
si vede quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacché non ardivano impugnarle che gli
uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire della letteratura, gli scrittori che non
temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso.
Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee si trova generalmente che dopo quei
primi assalti staccati comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola.
Allora, un trambusto da non dire: quelle idee disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso,
sono sempre state difese con sicurezza, e con ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state
così forti, così inconcusse come in quel momento: ma noi posteri che vediamo la cosa finita,
possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a
dar fuoco ad un vespajo: gli abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio
terribile; pare che vadano ad una conquista o che celebrino una vittoria: ma guardate il nido, e
vedrete ch'egli arde; v'accorgerete che tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere
dove andarsi ad alloggiare.
È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono
costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti
proposti con somma fidanza, e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci, e
renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto ingegnosi; ma per chi
voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contro di essi; poiché sarebbe cosa
troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino
tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di
conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scavare, un po'
tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in
campo a combatterle, non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe, non
s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata
annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o
l'avevano rifiutata avvertitamente.
Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando
riunite tante opinioni false e credute si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali,
comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le
hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera.
Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe
osservare se fra le idee dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si
trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più
fermo, e con un certo sospetto per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a se
stessa come un giogo che le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacché, è cosa troppo
probabile che anche noi ne abbiamo di tali: e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti
da una sciagura comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali
si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che senza
studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si
ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un orrore della discussione, un'ombra, una
ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto
all'autorità dei morti, e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che
voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza; quante dottrine
non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo! Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo
ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol
confessare. Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato
che... Eh ma! signori voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase
sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore, e torno alla storia.
<B>CAPITOLO IV</B>
Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando gli ammalamenti e le
morti. I magistrati, come chi al raddoppiar di chiamate, e al continuo battere della luce, si risenta da
un alto sonno, cominciavano a riandare ciò ch'era accaduto, a guardare ciò che accadeva, a
sospettare, quindi a risolversi che bisognava far qualche cosa. Ordinarono contumacie, bollette,
purghe di merci, fecero porre cancelli alle porte, delegarono nobili che vi assistessero, intimarono
pene a chi trasgredisse gli ordini della Sanità, o turbasse con minacce o con insulti quegli che gli
eseguivano, consultarono sui mezzi di fornire alle spese sempre crescenti del Lazzeretto, e di tutti
gli altri servizj, e di nutrire una gran parte della popolazione alla quale cessavano i lavori e i mezzi
di sussistenza. Ma la difficoltà era appunto nel trovare questi mezzi.
Il Marchese Spinola de los Balbasos governatore, stavasi a campo sotto Casale, occupato nel suo
principal mestiere d'eroe. I Decurioni spedirono deputati a rappresentargli le urgenze dello Stato,
l'esaurimento delle casse municipali, l'impossibilità di aumentare le imposte, quando le correnti non
erano pagate per inabilità, e ad implorare che l'erario reale assumesse queste spese straordinarie ed
inevitabili. Il Marchese accoglieva i deputati con molta buona grazia. Del resto rispose spiacergli
assai di non trovarsi a Milano a fare ogni uficio per sollevare quella povera città, ma sperare che i
Decurioni avrebbero fatto cose grandi; pensassero essi, da quei bravi uomini che erano, al modo di
far danari; esser questo il tempo di non guardare a spese, di profondere per la salvezza della patria;
tutte le risoluzioni che essi avrebbero prese a questo fine e in questo senso, egli le avrebbe
approvate. Su le domande, rispose che avrebbe pensato. Più tardi poi, nel maggior fervore della
peste, il governatore pigliò il partito di lavarsene le mani; trasferì con lettere patenti la sua autorità
nel gran cancelliere Ferrer; ed affidò a lui e agli altri magistrati la fame e la peste, non ritenendo per
sè che la guerra. In quelle angustie i Decurioni, accattavano somme a prestito, ne chiedevano in
elemosina, ponevano contribuzioni particolari ai più facoltosi, aumentavano i carichi, ne
inventavano di nuovi: ma il ricavo non bastava ai bisogni, e le cose andavano come potevano. La
confusione cresceva di giorno in giorno: quella qualunque azione dei magistrati che nei tempi
ordinarj serviva a mantenere quel qualunque ordine, diveniva ora di giorno in giorno più debole,
più incerta, più intralciata, e in molte parti cessava affatto: e nello stesso tempo tutti gli elementi di
disordine diffusi in quel corpaccio sociale, acquistavano un nuovo vigore.
I ribaldi sentirono quanto guadagno di licenza e d'impunità poteva trovarsi per essi nel pubblico
turbamento, nello sbalordimento dei magistrati, e degli uomini quieti, e ne approfittarono. Nè basta;
l'autorità publica, istituita per reprimere quei ribaldi, fu costretta a servirsi di loro, e ad affidare a
quelle mani una porzione spaventosa di forza legale. Convenne arruolare in fretta e in furia uficiali
d'ogni genere pel servizio straordinario, commissarj, guardie, monatti: così con antica
denominazione milanese erano disegnati gli uomini condotti a trasportare al lazzeretto gl'infermi, a
sotterrare i cadaveri, a purgare ed ardere le robe infette, a vivere insomma della peste in mezzo alla
peste. A questo tristo e pericoloso uficio, dal quale rifuggivano anche gli uomini avvezzi ai più
bassi e penosi, si offrivano i più sicuri scellerati, pei quali l'attrattiva delle paghe, della rapina e
della licenza era più potente che il timore della morte. Sul principio fu pure fattibile contenerli entro
qualche regola, ma coll'estendersi della peste andò crescendo la loro licenza; e a grado a grado, le
case, le cose, le persone furono in loro balìa.
I tempi delle scelleratezze straordinarie sono per lo più illustrati da virtù più solenni, più risolute,
straordinarie anch'esse; e di tali non mancò il tempo di cui parliamo. Si videro esempj di
rassegnazione sentita ed animosa, di liberalità costosa, di carità ardente, e per così dire spensierata,
di zelo, di attività infatigabile; esempj tutti ispirati dalla religione, e dati in gran parte dai suoi
ministri.
Fino dal mese di novembre del 1629, il cardinal Federigo, ragionando dal pulpito sul pericolo
vicino della peste, aveva proferite queste parole: «non dubitate, fate animo, che né da me, né da
miei preti non sarete giammai abbandonati». Venuto il caso, egli attenne in tutto la promessa.
Dando per supposto, o accennando come cosa già nota che l'esporre la vita pei fratelli è un obbligo
del ministero, egli prescrisse ai parrochi, e a tutti gli ecclesiastici nuove regole sul modo di
amministrare i soccorsi della religione; indicò le cautele da usarsi, distribuì somme da erogarsi in
ajuti temporali. Corresse severamente e svergognò quelli che si ritiravano dall'assistere agli infermi:
il primo che disertando la sua parrocchia, s'era rifuggito in campagna, lo richiamò egli con
rampogne e con minacce d'interdetto al suo posto; né trovo che da poi gli sia più convenuto di
ricorrere al rigore per simile motivo. Egli con quella sua consueta composta operosità , attendeva in
casa alla direzione di tutte le opere imposte al clero, non rispingendo mai chi avesse bisogno di
conferire con lui; percorreva la città accompagnato da uno che portava moneta da distribuirsi in
elemosina; fermandosi sotto le finestre, alle porte dei poverelli per informarsi dei bisogni, e
sovvenire, per ascoltare le querele, e dar consolazioni e coraggio: visitava il lazzeretto, dava
consigli, e colla sola presenza ratteneva per qualche momento almeno la sfrenatezza dei ribaldi, ed
eccitava i ministri publici ad adempire coraggiosamente agli uficj loro. Rimaso quasi unico
superstite di tutta la sua famiglia vescovile, consigliato, tempestato dagli amici, dai parenti, dai
medici, da uomini potenti, perché non si esponesse a tanti rischj, e si ritirasse in qualche sua villa,
non fu scosso un istante dal suo proposito; tanto che ne ebbe taccia di ostinato: fatto notabile
davvero, e che può esser di esempio e di consolazione a quegli che si rammaricano di veder
censurate le loro azioni. Rimase egli dunque fino alla fine; ma non per questo lasciò di trarre
profitto dalle sue ville: scelse tra i giovanetti che si educavano al ministero ecclesiastico alcuni
distinti per morigeratezza e per diligenza; e gli mandò quivi per sottrarli al comune pericolo, e in
tanta strage serbare almeno il meglio ad un migliore avvenire.
La condotta del clero non fu difforme dall'esempio del pastore: non vi fu appestato che desiderasse
invano l'assistenza del sacerdote: preti e frati nel lazzeretto, nelle case, nelle vie accorrevano al
bisogno, ne andavano in cerca; e il cardinale stesso, e nei pubblici sermoni, e nel suo trattatello
della peste, loda con gratitudine i molti che in quell'opera avevano perduta la vita, e i superstiti, che
non l'avevano però risparmiata.
Fra quel nobile volgo si distinse un uomo che avrebbe un nome storico, se la storia fosse consecrata
a descrivere lo stato delle società nei diversi tempi, e a segnalare i fatti e i caratteri che più servono
a far conoscere la natura umana. Nei molti cappuccini che si offersero ad assistere gli appestati,
v'era un Padre Felice Casati di grande autorità presso ogni sorta di persone per la severa santità
della vita, per una straordinaria potenza d'animo, e per fama di sapere. I Decurioni impacciati
com'erano, pensarono che un tanto frate poteva essere impiegato a più vasta opera che egli stesso
non pensasse; e lo scongiurarono d'assumere il governo del lazzeretto. Egli andò a chiedere il
consiglio di Federigo, il quale abbracciatolo a più riprese, lo animò ad accettare l'incarico. Il
Presidente della Sanità, che era più impacciato d'ogni altro, condusse nel giorno di Pasqua, il Padre
Felice con altri capuccini al lazzeretto, e quivi, chiamati gli uficiali, lo presentò ad essi dicendo:
«questi è il presidente del lazzeretto, anche sopra il presidente». Mirabile spettacolo! vedere un
magistrato, avvezzo alle gare ansiose e agli ostinati puntigli delle preminenze, abbassarsi
volontariamente, discendere al secondo grado, mettere un altro sopra di sè. Ma vi voleva la peste.
Col crescere della mortalità, col popolarsi del lazzeretto, andavano scemando le mormorazioni e le
beffe del popolo; la parola peste era profferita più sovente e fuor di scherzo: al vedere infermi
condotti al lazzeretto, e case sequestrate, molti che dapprima avevano schiamazzato contra quei
provvedimenti, cominciavano a trovar ben fatto che si allontanasse da loro ciò che finalmente
sentivano essere un pericolo.
Per qualche tempo il contagio aveva serpeggiato soltanto nelle case dei poveri; finalmente,
dilatandosi, attinse quelle dei nobili; e questi esempj, perché più esposti alla osservazione,
produssero una impressione più generale e più forte. E più d'ogni altro caso fè specie l'udire che era
caduto infermo di contagio quel Ludovico Settala che lo aveva da tanto tempo segnalato indarno, e
con suo pericolo. Avranno eglino detto allora: «il povero vecchio aveva ragione»? Probabilmente
l'avranno detto quei soli, che fino da principio gli avevano creduto; perché essi soli potevano dar
ragione al povero vecchio, senza dar torto a se stessi. Il povero vecchio, e un suo figliuolo
guarirono: la moglie, un altro figliuolo, e sette persone di servizio morirono di peste.
A malgrado d'una sì terribile evidenza, v'era ancora alcuni ostinati: per far capaci anche costoro, il
tribunale della Sanità ricorse ad uno strano espediente, usò un linguaggio tipico, adattato veramente
all'intelletto di chi doveva esser persuaso e di chi voleva persuadere, degno insomma dei tempi. Era
morta di peste una famiglia intera: la Sanità diede ordine che un giorno festivo in cui il popolo era
solito concorrere alla chiesa di San Gregorio posta dietro il lazzeretto, tutti quei morti vi fossero
trasportati sovra un carro, ignudi. La lurida pompa attraversò la folla; alcuni torcevano con orrore e
con fastidio gli sguardi, altri accorrevano a guatare con ansiosa curiosità; e questi videro su quei
cadaveri i lividori, e i buboni pestilenti, comune cagione ad una famiglia di quelle comuni esequie.
Non restò finalmente chi dubitasse che il male era contagioso.
Ma il ricredersi fu più fanatico, più funesto che non era stata l'ostinazione: da una verità
riconosciuta cominciò un periodo di demenza e di atrocità publica, non inaudito certamente nella
storia dei traviamenti umani, ma per durata e per casi, notabile e spaventoso.
Riconosciuta una volta l'esistenza del contagio in Lombardia, non pare che si dovesse scrutiniar
molto, andar molto lontano a cercarne la causa: ell'era in pronto, immediata, naturale, manifesta; la
calata delle truppe alemanne. Ma non fu così. Quegli uomini avevano disputato, riso, e sbuffato per
sei mesi; non avevano mai voluto ammettere, né sofferire che altri supponesse relazione tra la
venuta dell'esercito, e il nuovo malore che regnava in Lombardia: confessare ora finalmente questa
relazione, sarebbe stato un confessare d'essere stati bestialmente ostinati e ciechi. Non vollero
quindi né ricordarsi, né parlare, né udir parlare di quella circostanza; e rifiutando la causa naturale,
ne immaginarono, come suole avvenire, una stravagante, una che sarebbe ridicola, se quella
immaginazione non avesse avute conseguenze, che udite o lette, rendono altrui ritroso al riso, per
qualche tempo ancora da poi che il racconto è cessato. S'immaginarono che la peste fosse
disseminata con unguenti, non so, né essi pur sapevano quali, da uomini perversi, collegati sotto
qualche capo potente e nascosto, e tutti in società di patti col demonio. A diffondere questa insana
credenza contribuiva la disposizione universale a supporre cause soprannaturali, che ammesse una
volta spiegano tutto senza difficoltà, stornando gli ingegni dall'esame delle cose e delle relazioni
reali, il quale fa nascere dubbj spinosi da ogni parte. E fra queste cause soprannaturali una che più
facilmente si ammetteva era l'intervenzione del demonio: ogni fenomeno che uscisse dalla sfera
angusta delle cognizioni, e della esperienza comune, era opera del demonio, non solo nel male, ma
nelle cose innocue, ma nelle pregevoli, ma nelle buone: del che rimane tuttavia un vestigio in più
d'un dialetto e d'una lingua che, per dinotare un uomo di abilità straordinaria in qualunque genere,
hanno tuttavia questa formola: <I>egli è un diavolo; ha il diavolo addosso</I>. Contribuiva
l'opinione universale, congenere a questa che abbiam detta, sulla esistenza, sulla frequenza delle
streghe e degli stregoni: opinione che applicata poi a tanti infelici, faceva nascere dei sospetti che
nella persuasione divenivano fatti, e davano così alla opinione stessa la forza e l'autorità della
esperienza. Contribuiva la facilità a credere delitti enormi, strani, intenzioni e disegni di una
perversità infernale, gratuita capricciosa: facilità nata in parte da una esperienza troppo reale: non
eran rari gli uomini che a forza di conceder delitti alle passioni loro eran giunti a segno, di farsi una
passione e una gloria del delitto stesso. Dei veleni poi l'uso era tanto frequente, come attesta il
cardinal Federigo in un suo trattatello su quella peste il quale si conserva manoscritto nella
biblioteca ambrosiana, che ne eran comuni gli artefici e le officine.
L'ignoranza e l'irriflessione portavano poi leggiermente una tale corrività a creder misfatti, al di là
delle nozioni dell'esperienza; e specialmente in ciò che risguardava le nazioni straniere; l'orgoglio,
una stolta rivalità, talvolta una infame politica facevano inventare alla giornata le più atroci
imputazioni, o le interpretazioni più assurde di fatti reali: queste erano gettate in mezzo ad una
popolazione che non aveva né le notizie di fatto, né le idee generali necessarie per farvi sopra un
esame, né l'abitudine di esaminare: erano credute, ripetute, e disponevano le menti a crederne altre,
formavano un criterio publico falso, corrivo, ed avventato. Contribuivano certe tradizioni confuse,
ma ridette con asseveranza fra il popolo, di simili trame scoperte nella peste del 1576, e in altri
tempi d'eguale sciagura. Contribuivano le stolte, e ancor più inescusabili erudizioni di molti dotti
d'allora, che andavano a pescare nelle storie, e in narrazioni ancor più favolose, ogni menzione di
pesti propagate con sortilegj, e con veleni, o come dicevano manofatte: materia pur troppo
abbondante; giacché da quella peste che, al dir di Tucidide, gli Ateniesi supponevano cagionata da
veleni gettati nei loro pozzi dai Peloponesi, fino alla peste di Roma che nel consolato di P. Cornelio
Cetego, e di M. Bebio Tamfilo, cominciò, al dir di Livio, da un pianto del simulacro di Giunone
Lacinia in Lanuvio, e da altri simili avvenimenti, non vi fu peste, quasi fino ai nostri giorni, della
quale il popolo che la pativa non desse cagione in gran parte a frodi umane, o a prodigj
superstiziosi. Ma quello che fissò ad un punto d'errore questa vagabonda ed inquieta credulità, fu
una lettera sottoscritta dal re Don Filippo Quarto, spedita fino dall'anno antecedente al Marchese
Ambrogio Spinola, nome ancor celebre per le spedizioni di Fiandra, che era stato surrogato al
Cordova nel governo di Milano. In quella lettera si dava avviso al governatore che quattro Francesi
sorpresi nell'atto di spargere unguenti pestiferi nella Corte di Madrid, erano sfuggiti, né dove si
sapeva: dovesse egli quindi stare all'erta se mai fossero capitati a Milano.
Al primo divolgarsi di quell'avviso non vi si badò più che tanto: ma il contagio che nelle credule
menti, era stato associato alla idea di quelle unzioni come un effetto di esse, comparendo ora
realmente, risvegliò tosto la ricordanza della sua immaginata cagione; l'idea di unzioni venefiche,
che era rimasta infeconda, mise radici, si svolse, fruttificò, come un germe maligno profondamente
sepolto, se il vomero lo solleva, e lo appressa alla superficie del terreno. Unguenti, polveri, comete,
malie, trame, congressi, demonio, erano le parole che tornavano in tutti i discorsi. Si venne tosto a
sapere che il demonio aveva pigliata a pigione una casa in Milano; si disegnava il quartiere, si
ripeteva il nome del locatore. Che più? Un uomo e si diceva chi, fermatosi un giorno su la piazza
del duomo aveva veduto giungere in carrozza a tiro sei con gran corteggio un gran signore col volto
fosco ed abbronzato, cogli occhi infiammati, coi capegli ritti, col labro superiore teso alla minaccia,
un viso insomma di quei che il buon milanese non aveva mai veduti. Mentre questi guatava, il
cocchio era ristato, e a colui fatto invito di salire: egli aveva condisceso; e dopo un certo giro il
cocchio s'era fermato a quella tal casa, ed ivi egli era smontato con gli altri. La casa era degna del
fittajuolo: andirivieni, deserti, luce, tenebre, là solitudine, qui larve sedute a consiglio, amenità di
giardini, e orrore di caverne. Quivi al galantuomo erano stati mostrati grandi tesori, e promessi, se
volesse servire a quel signore nella grande impresa ch'egli macchinava. Ma il galantuomo, avendo
ricusato, era stato rimesso nel cocchio, e ricondotto alla piazza del duomo. Questa storia non fu
soltanto creduta in Milano dov'era nata, ma si diffuse per tutta Europa, e in Germania se ne incise
un disegno. L'arcivescovo elettore di Magonza chiese per lettera al cardinale Federigo Borromeo
che fossero tutti codesti portenti che si narravano di Milano: il buon cardinale riscrisse che erano
sogni e delirj.
Quand'ecco, il mattino del 17 maggio i primi che uscirono di casa alle loro faccende, videro le
muraglie sparse di macchie viscide, giallastre, ineguali, come impresse da spugne lanciate; le porte
pure imbrattate della stessa materia, e intrisi i martelli. Per quanto sia da diffidare delle
affermazioni di quel tempo, questo fatto però sembra indubitabile; giacché i contemporanei lo
riferiscono come testimonj di veduta; e nessuno lo pone in dubbio; e fra que' testimonj si trova il
Ripamonti il quale non poteva essere illuso dalla prevenzione, poiché da tutte le sue parole traspare
chiaramente ch'egli non partecipava alla persuasione comune. D'altronde è ovvia una spiegazione
naturale di quel fatto. V'ha in ogni tempo degli uomini pei quali il terrore pubblico è un
divertimento; e che studiano le occasioni di crearlo, o di accrescerlo; e ve n'aveva una trista
abbondanza a quei tempi, in cui gli animi erano esercitati singolarmente ad ogni cosa ostile, avvezzi
a cercare una superiorità propria nell'abbattimento altrui, una gloria nel fare il male con destrezza,
con audacia, e con pericolo. È probabile che uomini di questa bella indole abbiano vegliata una
notte a quelle gloriose pitture, per vedere nel giorno l'effetto che produrrebbero sulle fantasie dei
loro concittadini, e per ridere sicuramente d'una paura, della quale essi conoscevano l'illusione. E in
quel trattatello del Cardinal Federigo è scritto che alcuni ebbero poi a confessare di avere unti più
luoghi per farsi beffe della gente. È poi anche probabile che le fantasie insospettite ingrandissero la
realtà, e vedessero unzioni artificiali e recenti in ogni macchia, anche in quelle sulle quali più volte
prima di quel giorno saranno passati i loro sguardi distratti e inavvertiti.
I primi scopritori delle macchie chiamarono tosto altri ad osservarle: in un momento le vie
brulicarono di gente che accorreva, e si addensava innanzi a quelle macchie come ora ai quadri più
lodati in una esposizione publica. Il terrore e lo sdegno invasero tutti gli animi: il sospetto, errante
ed incerto alla prima, si determinò tosto a varie certezze; giacché la moltitudine si accontenta bensì
dell'indeterminato nei ragionamenti; ma nei fatti vuole del positivo, e lo vuol tosto. Per alcuni il
capo degli <I>untori</I> (il bisogno creò allora il vocabolo) era senza dubbio il tal principe, che
voleva far morire gli abitanti del ducato, per impossessarsene a man salva; per altri era il Cordova
che voleva vendicarsi degli urli e dei fischj con che nel suo partire l'aveva accomiatato il popolo
memore della fame durata nel suo governo; altri nominava D. Giovanni Padilla figlio del Castellano
di Milano; altri il duca di Friedland, Vallenstein; altri disegnava un nobile che si trovava a Roma; e
questa voce crebbe tanto, che fu detto e creduto che egli era stato preso, ed era mandato a Milano
per subirvi il supplizio: l'universale lo aspettava con ansietà, i parenti tremando e nascosti; e tutto
era un sogno. Alcuni disegnavano altri nobili come complici, alcuni disegnavano uomini
sconosciuti; alcuni accertavano che tutto veniva dai Francesi. Il furore era al colmo, nessun
supplizio si stimava troppo crudele pel capo e pei complici. Nè è da farsene maraviglia; un tal
sentimento è troppo facile a nascere in un popolo il quale crede che v'abbia degli uomini che
tentano di avvelenarlo in massa. Dal che si vede, che a volere impedire gli effetti talvolta tanto
iniqui e tanto crudeli di simili esacerbazioni popolari, è scarso, e tardo rimedio l'intercedere, il
predicare la moderazione, il perdono, quando gli animi sono persuasi della realtà dell'attentato;
bisogna cercare di prevenire la persuasione, e sopra tutto guardarsi dal secondarla ripetendo
ciecamente i primi romori publici. Ho detto si vede, e dovetti dire: si dovrebbe vedere; giacché
osservando le piaghe dei nostri maggiori non dobbiamo chiuder gli occhi alle nostre; e questa
corrività a credere senza prova attentati contra il publico, contra una parte di esso, ad attribuire alle
persone fatti e parole immaginarie è una piaga viva tuttodì; e dico viva nei popoli più colti, e dico
anche negli uomini più colti di questi popoli. È cosa strana e trista che nelle cose contemporanee
anche molti uomini colti si accontentino di ragioni che gli farebbero ridere applicate in una storia ad
avvenimenti lontani. Nei nostri tempi in cui i fatti si sono affoltati con una terribile celerità, è
incredibile l'influenza che hanno avuta in essi queste opinioni così leggermente ricevute: le più
inverisimili son divenute spesso norma infallibile, impulso potente di condotta e di azioni: effetti
terribili di cause immaginarie, furono poi cagioni di azione pur terribile, vasta, e prolungata. Su
questa corrività non posso trattenermi dal trascrivere alcune parole d'oro da un libro d'un uomo
singolarmente osservatore, il quale si trovò ravvolto in avvenimenti d'una terribile complicatezza:
«<I>Si je ne l'avois pas vu moi-meme, et plusieurs fois, je ne le croirois pas: il a été fait par des
hommes de bien à des hommes atroces, des inculpations qui n'ètoient ni vraies ni
vraisemblables.</I>»
Tornando al nostro proposito, v'ebbe pure alcuni i quali pensarono, e dissero che tutto
quell'infardamento doveva essere una burla; e l'attribuirono a scolari dello studio di Pavia. Ma
questa opinione non fece presa: quella che supponeva una intenzione più rea, una intenzione atroce
era troppo conforme alle altre idee dell'universale: e del resto nelle grandi sciagure gl'ingegni si
pascono volentieri di supposizioni orribili. Quegli che opinavano per la burla non osarono troppo
insistere, per non esser presi essi stessi in sospetto di complici o di fautori dell'attentato. Dal non
credere un delitto all'approvarlo il salto è grande; ma la logica delle passioni è agile, e sa farne
senza difficoltà anche dei maggiori. Il suo modo di procedere in questo caso è tale. Quando a
persone inebbriate d'odio e di indegnazione contra il supposto autore d'una grande iniquità contra il
pubblico, voi negate che quegli ne sia colpevole, l'idea che rimane nei vostri uditori è che voi
intendete di scusarlo. Ora nelle menti loro, atrocità del delitto, certezza del delitto, reità del tale o
dei tali sono idee affatto indivisibili; e quindi scusare la persona è per essi scusare la cosa. Scusare
poi, approvare, favorire, esser complice, esser capo, sono salterelli, che la logica fa quasi senza
avvedersene.
Ma ciò che reca maraviglia anche a chi avendo letti i libri di quel tempo ha potuto avvezzarsi al
ragionare dei loro autori, si è l'udire taluno di quei medici stessi che avevano sostenuto, insegnato,
osservato alla giornata come il contatto trasmettesse e diffondesse rapidamente la peste, udirli dico
poi attribuirne la diffusione alle unzioni. Ai 19 di Maggio, il tribunale della sanità con publica
grida, offerse premio ed impunità a chi rivelasse gli autori delle unzioni. Altre consimili furono poi
publicate d'ordine del governatore e del senato.
In mezzo alle suspicioni, ai furori, alle accuse avventate e crudeli, in mezzo pure alla licenza che né
le sventure, né le ire avevano frenata, sorse una smania generale di placare la collera di Dio con una
processione publica nella quale si portasse per la città il corpo di San Carlo. Il Vicario e i Dodici di
Provvisione, i sessanta decurioni fecero di ciò richiesta al Cardinale Federigo; il quale ricusò da
prima, adducendo motivi, che da un tal labbro pare che dovessero portare la persuasione; ma
talvolta la ragionevolezza, o l'opportunità delle parole toglie ogni forza anche alla autorità. Allegava
l'uomo savio che il popolo aspettava da quella supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non
con una speranza condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa,
quando fosse delusa, succederebbe una incredulità egualmente superstiziosa, una indegnazione
empia. Un altro motivo da lui addotto era anche conforme ai più cari pregiudizj del publico: e pur
non valse. «Una tale ragunata di popolo», diceva egli, «potrà essere una troppo comoda occasione
per questi untori, quando sia pur vero che ve n'abbia». Giacché Federigo, quantunque fosse lontano
dall'ammettere tutte le ragioni che persuadevano su quel punto la maggior parte dei suoi
contemporanei, quantunque anche in iscritto abbia mostrato la frivolezza, e l'illusione di alcune, e
segnate le cagioni e i modi dell'errore, pure sbalordito da tante grida, sopraffatto da tante
testimonianze non ebbe il coraggio di pensare che il delitto era tutto immaginario: e con tutta la
nostra riverente propensione per quell'uomo, non possiamo dargli una tal lode, che pur fu meritata
da alcuni suoi contemporanei, dei quali non già i nomi, ma una memoria confusa ci è stata
conservata dagli scrittori. E, cosa singolare! tutti quegli scrittori, meno il Ripamonti, insorgono
contra quei pochi increduli; di modo che se noi posteri sappiamo che alcuni uomini furono esenti da
un funesto errore comune, lo sappiamo soltanto per l'accusa di cecità e di stranezza che gli scrittori
credettero di portare contro di quelli al nostro riverito tribunale.
Un'altra ragione, e savia davvero, allegava il buon vescovo: che un pericolo ben più certo, e ben più
funesto sarebbe la frequenza, l'addensamento, e la mistura di tante persone: e che era troppo da
temersi che un mezzo cercato per ottenere la liberazione della peste, ne divenisse un terribile
propagatore. Ma le insistenze, le importunità furono tali ch'egli acconsentì. Su di che noi non
osiamo né assolvere, né censurare la sua memoria: perché non possiamo sapere quali sarebbero
state le conseguenze d'una ripulsa diffinitiva. Quegli uomini avrebbero potuto fare a furore la loro
processione senz'altro permesso; e farla meno ordinata e di più funesto effetto, avrebber potuto fare
Dio sa che. A chi volesse giudicare a rigore il nostro Federigo, noi non auguriamo di aver mai a
competere con un qualche migliajo di furiosi ostinati.
Tre giorni furono spesi in preparamenti: si ornarono in fretta le vie per cui doveva passare la
processione: i ricchi cavarono fuori le più preziose suppellettili; le fronti delle case povere furono
addobbate dai vicini doviziosi, o per cura del publico. Il tribunale della sanità bandì che nessuna
persona di terra sospetta potesse entrare quel giorno in Milano; anzi per accertare l'esecuzione del
bando, fece chiudere le porte della città. E parimenti, perché nessuno dei cittadini infetti o sospetti
potesse in quel giorno uscire e mischiarsi alla folla, fece inchiodare le porte delle case già
sequestrate. Con questi ordini si credette che fosse bastantemente ovviato ai pericoli di una accolta
così numerosa. Un momento di riflessione avrebbe dovuto bastare a sbandire una tale fiducia da
qualunque intelletto umano: e tanto più fa stupore come ell'abbia potuto prevalere in coloro i quali
avevano dovuto vedere e sperimentare quanto rapidi, facili, moltiplici fossero i modi per cui il
contagio si comunicava; e quanto scarsi in paragone i mezzi di riconoscere tosto le persone, le cose
a cui si era comunicato. Certo non potevano nutrire la pazza lusinga di aver saputo discernere e
sequestrare tutti gli infetti; dovevano anzi tenersi pur troppo certi che molti giravano liberamente,
molti si sarebbero trovati in quella folla i quali avevano già nei loro corpi, o nelle vesti appiccato il
contagio; non ignoravano che un solo di questi sarebbe bastato ad infettare una città intera: e si
fidarono a quei loro provvedimenti.
All'alba del giorno 11 di giugno, festivo a quei tempi nella diocesi milanese pel nome di San
Barnaba, il clero e il popolo, ragunatosi parzialmente nelle diverse chiese, convenne in drappelli al
Duomo, donde tutti poi insieme si mossero a processione. Andava innanzi una gran troppa di
popolo misto di età, di condizione, e di sesso; quali portando un cero, quali un rosario; molti in
segno di penitenza, scalzi. Venivano quindi con ceri le confraternite vestite di fogge varie di colori
e di forme, poi le arti distinte, e precedute ognuna dal suo confalone; poi le varie congregazioni dei
frati, neri, bigi, e bianchi, poi il clero secolare, distinto in parrocchie e in capitoli, con varie divise;
quindi fra lo splendore di folti ceri, e tra un nembo incessante d'incenso, portata da quattro canonici,
l'arca dove giacevano le reliquie invocate di San Carlo. Dai cristalli che chiudevano i lati traspariva
il corpo coperto di splendidi abiti pontificali, e il teschio mitrato, in cui fra lo squallore delle vuote
occhiaje, del ringhio spolpato, delle forme mutilate, della cute abbronzata, aggrinzata su l'ossa,
traluceva ancora qualche vestigio della faccia antica, esplorato con angosciosa venerazione dai
vecchj che avevano veduto vivo il santo pastore. Gli altri cercavano di raffigurare in quelle reliquie
una immagine più presente e più reale di quella faccia che dalla infanzia avevano osservata e
venerata nelle imitazioni dell'arte. Dietro le spoglie del morto pastore, veniva il suo cugino ed
imitatore Federigo, consunto egli pure e pallido di vecchiezza, di penitenza, e di accoramento, in
quell'aspetto di compunzione che nessuna ipocrisia può contraffare, poiché è l'effetto involontario
d'un sentimento che non conosce i modi pei quali si esprime. Le affezioni temporali pel parente,
appena si facevano sentire in quell'animo, assorbite dalla riverenza del santo, e dalla invocazione
all'intercessore; il nome comune, tutte le memorie dei tempi vissuti insieme, si perdevano nella
fede: non era più che un vescovo che pregava l'uomo vivente presso Dio perché pregasse pel suo
popolo. Colui che aveva cercato di stornare quella cerimonia, vi portava ora forse l'animo il più
fervente: le ragioni che l'avevano renduto ritroso ad approvare una risoluzione imprudente non
venivano ora a distrarre con ricordi superbi e dispettosi la sua mente dall'intento ragionevole e santo
di quella risoluzione: il culto, e la preghiera. Perché, egli era di quei pochi che adoperano le loro
ragioni sol tanto quanto possono sperare di ottenere con esse una utile persuasione; avuto o
disperato questo intento non le vanno più rivangando con un inquieto brontolamento: rodersi, o
insuperbirsi d'essere stati saggi indarno, non pare ad essi un esercizio ragionevole dell'intelletto; far
vedere, e far confessare agli altri che essi avevano meglio pensato di loro, non pare ad essi uno
scopo. Certo anche quei pochi sono soggetti all'errore; ma di quanto scemerebbero in numero gli
errori, e quanto meno sarebbero funesti nell'effetto quegli che rimarrebbero, se tutti gli uomini
osservassero le cose con una mente disinteressata d'orgoglio.
Dopo l'arcivescovo venivano i magistrati, e i nobili, quali rivestiti di ricche divise, come a
dimostrazione solenne di culto, quali in segno di penitenza a piè nudo, coperti di sacco coi cappucci
rovesciati sul volto, forati come a finestra dinanzi agli occhi, e cadenti in acuta punta sul petto.
Quindi ancora un'altra gran frotta di popolo; e alla coda i vecchj stanchi, le donne rimaste addietro
coi fanciulli, gli attratti, i zoppi, i deboli; molti ritardati dal fermento della peste che già covavano
senza saperlo, o senza volerlo sapere, e che toglieva loro a grado a grado le forze.
La processione sboccata dalla porta maggiore del Duomo, s'incamminò per la via de' cappellaj, al
crocicchio detto il Bottonuto, dove allora era una croce, e quindi con un giro interno, toccando tutti
i quartieri, e sostando a tutti i crocicchj dove erano allora le croci, alcune delle quali rimangono
tuttavia, tornò al Duomo per la piazza dei mercanti. Tutta la via era adombrata da una striscia
perpetua di tele, sostenuta da pali e da correnti composti come a pergolato; i pali rivestiti di rami
frondosi tagliati di fresco; e tra gl'intervalli, drappelloni di varie stoffe rannodati e pendenti; le
pareti tutte coperte di tappeti, di strati, di quadri; i davanzali delle finestre ornati di fiori o a mazzi,
o vegetanti nei vasi, e di arredi antichi, o preziosi, e da per tutto ceri ardenti che restituivano la luce
esclusa da quei folti adornamenti. Fra tanta pompa si vedevano alle finestre molti di quei poveri
sequestrati, alcuni scarnati, e coi segni della morte in volto, tendere a stento le braccia supplichevoli
all'arca che passava. Da quelle case usciva un ronzio di voci che accompagnavano gli inni dei
passeggeri; e di tratto in tratto un risalto di gemiti, uno sclamar di preghiere che terminavano in
singhiozzi ed in guaj. Nè alle finestre soltanto, ma sui tetti delle case vicine e soprastanti si
vedevano di quegli spettatori ai quali non era stato concesso di mescersi alla supplicazione comune;
e sur alcuni tetti si distinguevano all'abito drappelli di monache ivi tirate dalla curiosità e dalla
divozione. Gli altri quartieri della città deserti, muti, se non dove giungeva a poco a poco il
mormorio della processione che passava non lontano, e pure a poco a poco diveniva più fievole, e
moriva. Quegli abitanti tendevano l'orecchio appoggiati alle finestre, o sollevati sul letto mortale;
per distinguere il suono della preghiera nella quale erano ricordati anch'essi, quasi per udire in quel
muto abbandono un romore che gli assicurasse che altri pure viveva e si moveva in quella città di
cui non vedevano che la solitudine. La processione tornò al duomo dopo un giro di dodici ore.
L'arca rimase esposta sull'altare maggiore del duomo per otto giorni.
Il tristo presagio del Cardinal Federigo non tardò ad avverarsi. Prima della processione le case
chiuse erano intorno a cinquecento; pochi giorni dopo, si notavano quelle dove il contagio non fosse
entrato. V'era due mille persone nel lazzeretto; in breve crebbero a dodici mila: non bastando le
stanze e i portici, furono in fretta, costruite capanne di legno nel vasto ricinto: né quelle pure
bastando furono eretti tre altri lazzeretti in diversi punti fuora delle mura della città. La mortalità
comune che era prima di cento trenta persone alla giornata, per rapidi salti venne a mille ottocento.
Due fosse erano state scavate pei cadaveri, ampie, si diceva, enormi, quasi per lusso di previdenza;
sperando che in giorni non lontani, lieti per un gran timore cessato, quella stessa terra, che ne era
stata cavata servirebbe in gran parte a ricolmarle: ma i cadaveri deposti, poi ammucchiati, poi
gettati a fascio, venivano rapidamente adeguandosi al terreno: convenne scavarne cinque altre.
La cagione d'un così subito e portentoso aumento del male fu data a voce di popolo agli
<I>untori</I>: si disse con asseveranza, e si ripetè con furore, che quegli uomini congiurati allo
sterminio della città, prendendo il destro della processione, che l'aveva posta tutta unita per così dire
in loro balìa, avevano unti in quel giorno quanti avevano potuto, e sparso tutto il cammino di
polveri venefiche, per le quali il contagio s'era appiccato alle vesti, ai piedi scalzi, anche alle scarpe
dei divoti e inavvertiti pellegrinanti. L'opinione delle unzioni che fino allora non aveva prodotta che
una vaga inquietudine, e ciarle, dopo questo, ch'ella prendeva per un gran fatto, cominciò a partorire
ben altri effetti. Due principali furono distinti, e notati dal Ripamonti, uomo, che in molti punti
liberandosi, e segregandosi dalla opinione publica dei suoi tempi, volse la mira delle sue
osservazioni alle cose appunto che nessuno, o quasi nessuno avvertiva, esaminò quella opinione
stessa, mutò sovente i termini della questione, fu solo a discernere e a dire molte verità, e fece
intendere che molte ancora ne dissimulava, molte ne indeboliva per non irritare il giudizio pubblico,
il quale, come traspare chiaramente dalla sua storia, gli faceva una gran paura e una gran
compassione nel tempo stesso. Un effetto fu che i magistrati, tutti i potenti, ingolfati in
ispeculazioni politiche, divagati e avviluppati colla mente nei segreti delle corti, per arzigogolare
quale dei principi, quale dei re stranieri potesse essere il capo della trama, non pensavano a quello
che era da provvedersi nelle urgenti congiunture della peste; e spaventati poi dalla vastità supposta,
e dalla oscurità stessa delle insidie si abbandonavano sempre più a quella stanca trascuratezza che è
compagna della disperazione. L'altro effetto più deplorabile, atroce, fu di estendere, di facilitare, di
irritare i sospetti e di giustificare di santificare, tutte le offese più crudeli che quei sospetti potevano
suggerire. Non solo dallo straniero, dal nimico, dalla via publica si temeva, ma si guardava alle
mani dell'amico, del servo, del congiunto, ma si poneva il piede con sospetto per la casa, ma orribil
cosa! si tremava al contatto della mensa, del letto nuziale. Il viandante straniero che non ben
sapendo fra che uomini si trovava, si rallentasse a baloccare sul cammino, o che stanco si sdrajasse
per riposare, il mendico che per città si accostava altrui tendendo la mano, colui che
inavvertentemente toccasse la parete d'una casa, l'affrettato che urtasse altri per via, erano
<I>untori</I>; al terribile grido d'accusa accorrevano quanti avevan potuto udirlo; l'infelice era
oppresso, straziato, talvolta morto dalle percosse, o strascinato alle carceri tra gli urli e sotto le
battiture, benediceva nel suo cuore affranto quelle porte, e vi entrava come dalla tempesta nel porto.
E quante volte saranno accorsi alle grida, avranno partecipato al furore comune, di quegli stessi che
più tardi poi dovevano esser vittime d'un simile furore.
Così l'irreligione esacerbava la sciagura che una applicazione falsa ed arbitraria della religione
aveva estesa ed accresciuta. Dico l'irreligione, perché se l'ignoranza e la falsa scienza delle cose
fisiche, e tutte le altre cagioni di cui abbiamo parlato di sopra poterono far ricevere comunemente
l'opinione astratta di unzioni e di congiure, furono certamente le disposizioni anti-cristiane di quel
popolo corrotto che rendettero quella opinione attiva, e feroce nell'applicazione. Nessuna ignoranza
avrebbe bastato a così orrendi effetti, quando fosse stata congiunta con quel sentimento pio che
dispone gli animi alla tranquillità ed alla riflessione, che avverte a pensar di nuovo quando il
pensiero diventa un giudizio, una azione su le persone; se fosse stata insomma congiunta con quella
carità che è paziente, benigna, che non s'irrita, che non pensa il male, che tutto soffre. Ma
l'intolleranza della sventura, la disistima e l'obblio delle speranze superiori a tutte le sventure del
tempo, l'orrore pusillanime e furioso della morte, erano le cagioni che mantenevano negli animi una
irritazione avida di sfogo e di vendetta, e quindi sempre in cerca di fatti che ne dessero l'occasione,
quindi ancora pronta a trovar questi fatti ad ogni momento.
Il Ripamonti riferisce due esempj di quel furor popolare, avvertendo bene i suoi lettori di averli
trascelti, non già perché fossero dei più atroci fra quegli che accadevano alla giornata, ma perché di
quei due egli fu testimonio.
Tre giovani francesi, un letterato, un pittore, e un meccanico in mal punto venuti per istudio, e per
guadagno, stavano contemplando il duomo al di fuori. «È tutto marmo», dicevano; e come per
accertarsi, stesero la mano a toccare la liscia superficie. Bastò! la folla agglomerata in un istante
gl'involse; furono stretti, tenuti, percossi con tanto più di furore, perché le vesti, la chioma, il volto,
le grida stesse gli accusavano stranieri, e quel che era peggio, francesi. A calci, a pugni, a strascichi,
furono menati in carcere. Per buona sorte le carceri eran vicine, e vi giunsero vivi; e per una sorte
ancor più felice, i giudici gli trovarono innocenti, e gli rilasciarono. L'altro caso fu più funesto. Un
giorno solenne, nella chiesa di Sant'Antonio, frequente di popolo quanto poteva comportare quel
tempo, un vecchio più che ottogenario aveva orato lungamente ginocchioni. E forse, pensando agli
anni suoi, e al contagio che minacciava ogni persona, egli avrà offerto a Dio il sacrificio d'una vita
ormai tanto caduca. Ma un destino più maturo della vecchiezza, più sollecito della peste, il furore
degli uomini gli stava sopra. Stanco egli volle sedersi; e prima con la cappa spolverò alquanto la
panca. «Il vecchio unge le panche!» gridarono alcune donne che videro quell'atto. Il vecchio! e a
quel nome che richiama pensieri di compassione e di riverenza, il sospetto in quel momento non
lasciò associare altre idee che di una più fredda malizia, d'una perversità incallita. Il grido passò di
bocca in bocca; tutti si levarono; una turba fu addosso al vecchio. Lo presero, gli stracciarono i
capegli bianchi, gli acciaccarono di pugni il volto e le membra: avrebbero ficcati i pugnali in quel
corpo quasi esanime; se un furore più pensato non gli avesse consigliati di serbarlo alle carceri, ai
giudici, alle torture. «Io lo vidi, così strascinato», dice il Ripamonti, «né altro seppi della fine; ma
stimo ch'egli sia tosto morto dagli strazj. E alcuni» aggiunge questo scrittore, «che mossi a pietà di
così indegno caso, chiesero contezza dell'essere di quello sventurato, riseppero che egli era un
uomo dabbene».
I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo imitarono e lo
sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con
carnificine più lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe
ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci
condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero.
Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo
ora; e davvero.
<B>CAPITOLO V</B>
Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano, dove era sempre
rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di fuggitivo. A quella villa non voleva
ricomparire se non in aspetto di vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo
spavento, e l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati propizj.
Quella elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta aveva prodotti gli
sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un fermento di disperazione: erano cani
tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti ad accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran
passati i lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste; non v'era
insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo avesse potuto farsi sentire. La sera di
cui ora parliamo, tornava egli da uno stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli
cercato di sommergere le malinconie e i terrori della peste. E siccome le idee di quella entravano
per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si associavano per forza ad ogni suo
intendere, sicché non era possibile farne astrazione; in quelle idee stesse s'erano essi sforzati di
trovare qualche soggetto d'ilarità. Avevano ricapitolate burlescamente le virtù di qualche loro amico
defunto; e Don Rodrigo in ispecie aveva molto divertita la brigata con l'orazione funebre del conte
Attilio.
Si raccontavano o anche s'inventavano prodezze d'ogni genere compiute col favore della
confusione, e dello spavento publico; si disegnavano nuove vittime; e la vile e impunita sfrenatezza
si vantava anticipatamente dei nuovi trionfi che meditava. Tornando da tutta questa allegria, Don
Rodrigo sentiva però una gravezza di tutte le membra, una difficoltà crescente nel camminare, una
ansietà di respiro, una inquietudine, un grande abbattimento; ma cercava di attribuir tutto questo al
sonno. Sentiva un'arsura interna, una noja, un peso degli abiti, ma cercava di attribuirlo alla
stagione, ed al vino. Giunto a casa, chiamò il fedel Griso, uno dei pochi famigliari che gli erano
rimasti, e gli comandò che gli facesse lume alla stanza dove sperava di finir tutto con un buon
sonno. Il Griso vide la faccia del suo signore stravolta, d'un rosso infiammato e splendente, e gli
occhi luccicanti; e si tenne lontano con una certa aria di sospetto; perché ogni mascalzone aveva in
quel tempo dovuto farsi l'occhio medico.
«Ho bevuto, ho bevuto», disse Don Rodrigo, che non potè non avvedersi di quell'atto e del pensiero
nascosto; «siamo stati allegri: sto bene, benone, Griso: ho sonno: oh che sonno! Levami un po'
dinanzi quel lume che mi abbaglia. Diavolo, che quel lume mi dia tanto fastidio! Debb'essere quella
vernaccia certamente, che te ne pare? eh Griso? Domani sarò vispo come un pesce». «Sicuro», disse
il Griso tenendosi sempre discosto: «ma si corichi presto, che il dormire gli farà bene».
«Hai ragione; ma sto bene ve' Griso: levami quel lume dinanzi». Il Griso non se lo fece ripetere, e
partì col lume, al momento che Don Rodrigo si gettava sul letto.
Quando vi fu, la coltre gli pareva un monte, e se la rigettò da dosso: sentiva un sopore come
invincibile, e quando stava per assonnare, si risentiva come se un importuno venisse a scuoterlo per
non lasciarlo dormire: il caldo cresceva, cresceva la smania, e il terrore rispinto ritornava più forte:
così passò qualche ora. Finalmente, presso al mattino s'addormentò. E tosto gli parve di trovarsi in
quella chiesa dei capuccini di Pescarenico, dinanzi alla quale, se vi ricorda, egli sogghignò in
passando, nella sua gita al Conte del Sagrato. Gli pareva d'essere innanzi innanzi nella chiesa,
circondato e stretto da una gran folla; non sapeva come gli fosse venuto il pensiero di portarsi in
quel luogo, e si rodeva contra se stesso. Guardava quei circostanti; erano sparuti e lividi, con gli
occhi spenti, incavati, colle labbra pendenti, come insensati; e gli stavano addosso, e lo stringevano,
quasi col loro peso, e sopra tutto gli pareva che o con le gomita, o come che fosse lo premessero al
lato sinistro al di sopra del cuore, dove sentiva una puntura spiacevole, dolorosa. Voleva dire:
«largo canaglia», faceva atti di minaccia a coloro perché gli dessero passaggio ad uscire; ma quegli
né parevano muoversi, né mutare sembianza, né risentirsi in alcun modo: stavano tuttavia come
insensati. Alcuni su la faccia, su le spalle che nude uscivano dalle vesti lacere, mostravano macchie,
e buboni. Don Rodrigo si ristringeva in sè, ritirava le mani, le membra, per non toccare quei corpi
pestilenti; ma ad ogni movimento incappava in qualche membro infetto. E non vedendo la via
d'uscire, strepitava, ansava, l'affanno l'avrebbe destato; quand'ecco gli parve che tutti gli occhi si
volgessero alla parte della chiesa dov'era il pulpito: guatò anch'egli, e vide spuntare in su dal
parapetto, un non so che di liscio e lucido; poi alzarsi e comparir più distinto un cocuzzolo calvo,
poi due occhi, una faccia, una barba lunga e bianca, un frate ritto ed alto: era Fra Cristoforo. Tanto
più Don Rodrigo avrebbe voluto fuggire; ma la folla degli incantati era fitta ed immobile. Gli parve
allora che il frate girando gli occhj su l'uditorio senza fermarli sopra di lui, sclamasse ad alta voce:
«Per li nostri peccati, la fame! Per li nostri peccati, la guerra! Per li nostri peccati, la peste! La
peste! Povera gente! ella vi rode tutti, dal primo fino all'ultimo: tutti avete i segni della morte in
volto: beati quelli fra voi che sono preparati a riceverla. Ma...» e qui pareva a Don Rodrigo che il
frate ristesse, come sopraffatto da un pensiero repentino e profondo: ed egli stava ansioso
attendendo. Gli pareva che gli uditori non facessero pur vista di scuotersi, e che il frate tutto ad un
tratto, guardando a lui, e come ravvisandolo, fermandolo col guardo e con la mano alzata, come un
bracco sopra una pernice, dicesse ad alta voce: «Tu sei quell'uomo! Or ci sei giunto; ascolta. Quanto
ti sarebbe costato il rinunziare a quel capriccio infame? Torna indietro con la mente e dillo. Un
picciolo pensiero di pietà; ma tu non hai voluto. Tu hai messo da una parte su la bilancia l'angoscia,
l'obbrobrio, il crepacuore, il terrore, d'un'anima innocente; hai pesato; e hai detto - non è niente:
pesa più il mio capriccio -. Ora le bilance sono rivolte: l'angoscia si versa sopra di te: prova se è
niente». A queste parole Don Rodrigo, voleva gridare, nascondersi, fuggire, e si destò spaventato.
Stette un momento a ravvisarsi; vide che era un sogno; ma aprendo gli occhi sentì ancor più vivo il
ribrezzo e il dolore della luce; forzandosi di guardare intorno, vide il letto, le scranne, i travicelli
della soffitta confondersi in forme strane; sentì nelle orecchie un ronzio nojoso e violento, al cuore
un battito accelerato, affannoso; si sentì più spossato e più arso che alla sera antecedente, sentì più
viva quella puntura che aveva provata in sogno; esitò qualche tempo, senza osare di vedere che
fosse; finalmente sorse a sedere, scoperse tremando la parte dogliosa, cercò di fissarvi lo sguardo, e
a stento, ma con qual raccapriccio Dio 'l sa, scorse un sozzo gavocciolo, d'un livido pavonazzo; il
segnale manifesto del contagio.
L'uomo si vide perduto: il terrore della morte lo invase; ma con un senso ancor più vivo, il terrore di
cadere in balìa altrui, d'essere preso, maneggiato, tratto intorno come un cencio, senza potersi far
sentire, d'essere portato al lazzeretto, gittato e confuso fra tanti oggetti d'orrore, oggetto d'orrore
egli stesso. Voleva deliberare sul modo di evitar questa sorte toccata a tanti altri; ma sentiva le sue
idee confondersi e intenebrarsi, divenir tanto più incerte quanto più erano atterrite; sentiva
avvicinarsi sempre più il momento, in cui egli avrebbe avuto sol tanto di coscienza, quanto bastava
a disperare: provò un bisogno di soccorso istantaneo; afferrò un campanello che teneva presso al
letto, e lo scosse con violenza. Ed ecco comparire il Griso che stava all'erta. Si fermò egli presso
all'uscio, guatò attentamente il padrone, e il sospetto divenne certezza.
«Griso», disse Don Rodrigo sollevandosi, «tu sei sempre stato il mio fido».
«Signor sì», rispose il Griso, col laconismo, e col tuono ambiguo del tristo che dal preambolo
s'accorge che l'uomo avvezzo a proteggerlo, gli vuol domandare protezione, e fargli far qualche
cosa per riconoscenza.
«Sto male, Griso».
«Me ne accorgo, Signore».
«Se guarisco, ti farò star meglio che tu non sia mai stato».
Il Griso non rispose nulla, ed aspettò che Don Rodrigo continuasse.
«Non voglio fidarmi d'altri che di te. Fammi una carità, Griso».
Erano forse anni che Don Rodrigo non aveva proferita questa parola.
«Vediamo», disse il Griso.
«Sai tu dove abita il Chiodo, chirurgo?»
«Lo so benissimo».
«È un galantuomo, che se è ben pagato, tien segreti gli ammalati. Vallo a cercare; digli che lo
pagherò bene, meglio di chi che sia, quanto vorrà, e fammelo venir qui segretamente, che nessuno
se ne avvegga».
«Ben pensato», disse il Griso: «vado e torno».
«Senti, Griso, dammi prima un bicchier d'acqua: mi sento arso che non ne posso più».
«No, signore», disse il Griso: «niente senza il parere del medico; non c'è tempo da perdere: stia
quieto, aspetti un momento, son qui col Chiodo».
Così dicendo, tolse la chiave dalla toppa, uscì, chiuse Don Rodrigo in istanza e se ne andò.
Don Rodrigo rimase in una agitata aspettazione, in una incertezza sospettosa, e iraconda, col terrore
crescente.
L'abbominevole Griso aveva già fatto nella notte i suoi conti pel caso che ora si era avverato.
Allontanò tosto di casa con un ordine finto del padrone, l'altro servo; e corse al posto più vicino di
monatti. Ivi, tratti in disparte due che erano suoi conoscenti e insieme dei più scellerati, propose ad
essi una occasione di dividere spoglie opime. Quegli accettarono prima d'intendere le condizioni:
ma il Griso le espresse tosto; non si trattava d'altro che di venire a prendere Don Rodrigo, e di
portarlo al lazzeretto. Dieder tosto di mano ad una bussola, delle quali era provvigione a quel posto,
se la caricarono, e seguirono il Griso.
Don Rodrigo stava con l'orecchio teso, spiando ogni romore per sentire se il chirurgo giungeva; e
questo sforzo d'attenzione sosteneva alquanto il vigore delle sue membra, sospendeva il senso del
male, e teneva in sesto la sua mente. Tutto ad un tratto intese egli uno squillo acuto, continuo, che si
avvicinava: erano le campanelle che i monatti portavano legate ai piedi a foggia di sproni. Un
orrendo sospetto corse al suo pensiero; si levò egli a sedere in furia; e in quel momento sentì la
chiave girar nella toppa, e vide aprirsi, entrare i monatti, col Griso.
«Ah traditore! via canaglia!» urlò Don Rodrigo; e tosto si gettò dall'altra parte per afferrare le
pistole che teneva appese a fianco del letto. Ma un monatto gli fu sopra, lo fece raccosciare sul
covile, gli tenne le mani, e gridò con un orribile ghigno di collera:
«Ah! birbone! contra i ministri del tribunale!»
«Tienlo ben saldo», disse il compagno, «finché lo portiamo via: egli è frenetico».
Lo sventurato Rodrigo lo divenne: si divincolava, mandava urli, lanciava bestemmie contra i
monatti, e più contra il Griso, ch'egli vedeva frugare insieme con quel compagno nei cassettoni,
spezzar le serrature dello scrigno, cavarne il danaro, e far le parti; mentre colui che teneva il
padrone dava un'occhiata a questo per tenerlo bene, e una occhiata a quegli altri, dicendo: «fate le
cose da galantuomini, altrimenti...»
Il corpo e la mente di Don Rodrigo, già dissestati dal male, non ressero allo sforzo, al dibattimento,
e a tanta passione: il meschino cadde tutto ad un tratto come sfinito e stupido; guardava però come
un incantato; e di tratto in tratto dava qualche scossa, o usciva in qualche imprecazione. Fatte le
parti, i monatti lo posero nella bussola, e lo portarono al lazzeretto.
Il Griso rimase a scegliere quel di più che poteva essere il caso suo; fece un fardello, e sfrattò. Ma
in quella furia del frugare, egli aveva presi presso al letto i panni del padrone, e scossigli per vedere
se vi fosse denaro; né in quel momento aveva badato a quello che si facesse. Se ne accorse però il
giorno dopo, che preso dagli stessi accidenti che, con occhio così spietato, aveva mirati nell'infelice
suo padrone, cadde infermo in una osteria, dove era andato a gozzovigliare; abbandonato da tutti, fu
spogliato dai monatti anch'egli, trattato come aveva trattato altrui, e strascinato sur un carro al
lazzeretto, dove finì.
Lasciando ora Don Rodrigo nel suo tristo ricovero, ci conviene andare in cerca d'un personaggio
separato da lui per condizione, per abitudini, e per inclinazioni, e la storia del quale non sarebbe
mai stata immischiata alla sua, se egli non lo avesse voluto a forza.
Fermo, del quale intendiamo parlare, aveva campucchiato quell'anno della carestia, parte col suo
lavoro, parte coi soccorsi di quel suo buon parente; alla fine per non essergli troppo a carico,
intaccò i cento scudi di Lucia, ma col proposito di restituire, se mai Lucia non fosse più quella per
lui. Il passaggio della soldatesca interruppe quelle scarse, e imbrogliate comunicazioni di pensieri e
di notizie che passavano tra lui ed Agnese. Dietro la soldatesca venne la peste, ai primi avvisi della
quale i magistrati di Bergamo interdissero il commercio col territorio milanese finittimo,
mandarono commissarj ad invigilare al confine, fecero por guardie e cancelli. Pure, come era
accaduto nel milanese, la disobbedienza fu più attenta, più destra, più ingegnosa che la vigilanza;
gli abitanti del confine bergamasco non credevano né pur essi molto alla peste, e trattavano di
soppiatto coi loro vicini: e con molta fatica e con molto pericolo ottennero di potere avere anch'essi
la peste in casa. Entrata che fu, invase poco a poco il contado, poi i sobborghi di Bergamo, poi la
città. La peste di Bergamo, e nei modi con cui si propagò, e in tutti i suoi accidenti, presenta molti
tratti di somiglianza notabile con quella del Milanese. Come in questo paese, così nel bergamasco,
dopo scoverta la peste si trovò ch'ella si sarebbe dovuta prevedere per evidenti segni astrologici, e
per inauditi portenti; v'ebbe pure la incredulità di molti abitanti, e la negligenza delle precauzioni,
v'ebbero i dispareri fra i medici, l'inesecuzione degli ordini, e il rilasciamento nei magistrati stessi,
nato da una falsa fiducia che il male fosse cessato. Quivi pure una processione contrastata con
ragioni savie, e voluta con fanatismo, diffuse rapidamente il contagio nella città; quivi pure molte
vite generosamente sagrificate in pro' del prossimo da cittadini, e particolarmente da ecclesiastici;
quivi pure licenza, e avanie degli infermieri e becchini che ivi erano chiamati <I>nettezzini</I>
come in Milano <I>monatti</I>; quivi pure preservativi e rimedii strani o superstiziosi. Quivi pure
come in Milano subitanei spaventi per voci sparse di sorprese nemiche sognate dalla paura, o
inventate dalla malizia; e finalmente, per non dir tutto, quivi pure all'udire che in Milano v'era gente
che disseminava il contagio con unzioni, nacque un terrore che il simile non avvenisse, anzi parve
di vedere unti i catenacci e i martelli delle porte, e le pile delle Chiese. Ma la cosa non andò oltre; e
come in questo particolare, così nel resto gli accidenti tristi che abbiam toccati furono in Bergamo
men gravi, meno portentosi: l'incredulità fu meno ostinata, men clamorosa, la trascuranza men
crassa, la superstizione meno feroce, la violenza meno bestiale, e meno impunita. Di questa
differenza v'era molte cagioni, alcune presenti, altre antiche, quale nelle persone, e quale nelle cose;
la ricerca delle quali cagioni è fuori affatto del nostro argomento.
Quello che ora importa di sapere si è che Fermo contrasse la peste, e la superò felicemente. Tornato
alla vita, dopo d'averla disperata, dopo quell'abbandono e quell'abbattimento, sentì egli rinascere più
che mai fresche e rigogliose le speranze, le cure e i desiderj della vita; cioè pensò più che mai a
Lucia, alle antiche affezioni, agli antichi disegni, alla incertezza in cui era da tanto tempo dei
pensieri di essa, e alla nuova terribile incertezza della salute, della vita di lei in quel tempo dove il
vivere e l'esser sano era come una eccezione alla regola. Tutte queste passioni crescevano
nell'animo di Fermo di pari passo che il vigore nelle sue membra; e quando queste furono ben
riconfortate, egli con la risolutezza d'un giovane convalescente, disse in se stesso: - andrò, e vedrò
io come stanno le cose -. Il pericolo della cattura gli dava poca molestia; da quello che si passava in
Bergamo, egli vedeva che la peste assorbiva o affogava tutte le sollecitudini, ch'ella era come
un'obblivione o un giubileo generale per tutte le cose passate; vedeva che i magistrati avevano ben
poca forza e poca voglia d'agire contra i delitti della giornata, e tanto meno contra reati ormai
rancidi; e sapeva per la voce pubblica che in Milano il rilasciamento d'ogni disciplina buona e
cattiva era ancor più grande. Oltre di che, egli si proponeva di cangiar nome, di procedere con
cautela, e di scoprir paese, e prender voce nel suo paesetto natale, prima che avventurarsi in Milano.
Con questo disegno, egli lasciò in deposito presso un buon prete (quel suo fidato parente era morto
di peste) gran parte degli scudi che gli rimanevano, ne prese pochetti con sè, si tolse un pajo di pani,
un po' di companatico e un fiaschetto di vino pel viaggio, e si mosse da Bergamo sul finire di
Luglio, pochi giorni da poi che Don Rodrigo era stato portato al lazzeretto.
I pochi che erano guariti dalla peste, si trovavano in mezzo all'altra popolazione, come una razza
privilegiata. Una grandissima parte della gente languiva inferma, moriva, e quegli che non avevano
contratto il male ne vivevano in un continuo terrore; come ogni oggetto poteva col tocco esser
cagione di morte, così di tutto si guardavano; i passi erano misurati e sospettosi, i movimenti ritrosi,
irresoluti, fretta ed esitazione in un tempo, un allarme incessante, una disposizione a fuggire; e con
tutto questo il pensiero sempre vivo che forse tante precauzioni erano inutili, forse il male era già
fatto. I pochi risanati invece, non temendo più del contagio, camminavano ed operavano senza tutte
quelle precauzioni, e l'aspetto della incertezza altrui cresceva in molte occasioni la fiducia e la
scioltezza loro; erano come i cavalieri dell'undecimo secolo coperti d'elmo, di visiera, di corazza, di
cosciali, di gambiere, con una buona lancia nella destra, un buon brocchiere alla sinistra, una buona
spada al fianco, una buona provvigione di giavellotti, sur un buon palafreno agile all'inseguimento
ed alla ritratta, in mezzo ad una marmaglia di villani a piede, ignudi d'armatura, e poco coperti di
vestimenti, che per offesa e per difesa non avevano che due braccia e due gambe, e il resto delle
membra non atto ad altro che a toccar percosse. L'immunità dal pericolo ispira il sentimento, e dà il
contegno del coraggio; è la parte meno nobile, ma spesso una gran parte di esso; e questa verità si è
sapientemente trasfusa nella nostra lingua, dove il vocabolo <I>sicuro</I>, che in origine vale fuor
di pericolo, fu traslato a significare anche ardito. Con questa baldezza temperata però dalle
inquietudini che noi sappiamo, e dalla pietà di tanti mali altrui, camminava Fermo in un bel mattino
d'estate, per coste amene donde ad ogni tratto si scopre un nuovo prospetto, per verdi pianure, sotto
un cielo ridente, tra il fresco e spezzato luccicare della ruggiada, all'aria frizzante dell'alba, e al
soave calore del sole obbliquo, appena comparso sull'orizzonte. Ma dove appariva l'uomo, dove si
vedevano i segni della sua dimora, del suo passaggio, spariva tutta la bellezza di quello spettacolo:
erano villaggi deserti, animati soltanto da gemiti, attraversati da qualche cadavere che era portato
alla fossa, senza accompagnamento, senza romore di canto funebre: qua e là uomini sparuti che
erravano, infermi che uscivano disperati dal coviglio, per morire all'aria aperta, birboni, che
agguatavano dove fosse da spogliare impunemente. Fermo cercò di schivare tutte le parti abitate,
venendo pei campi: sul mezzo giorno si riposò in un bosco, vicino ad una sorgente, ivi si rifocillò
col cibo che aveva portato seco; lasciò passare le ore più infocate; riprese la sua strada; cominciò a
riveder luoghi noti, misti alle memorie della sua fanciullezza, e due ore circa prima del tramonto
scoperse il suo paesetto. Alla prima vista Fermo ristette un momento, come sopraffatto dalle
rimembranze, e dai pensieri dell'avvenire, e ripreso fiato procedette, entrò nel paese. L'aspetto era
come quello di tutti gli altri che Fermo aveva dovuti vedere; ma la tristezza fu ben più forte che egli
non l'avesse ancor provata. Guardò se vedeva attorno qualche suo conoscente, qualche persona
viva: nessuno; le porte chiuse, o abbandonate; avanzando, scorse un uomo seduto sul limitare, lo
guardò, durò fatica a riconoscerlo, travisato com'era dal male; ma non fu riconosciuto da esso che
gli piantò in faccia due occhj insensati, e non fece motto. Fermo lo chiamò per nome, non ne ebbe
risposta, e più che mai accorato si avviò alla sua casa. Ella era, quale l'avevano lasciata i
lanzichenecchi: senza imposte, diroccata qua e là, qua e là affumicata, e dentro vuota ma non già
pulita, che vi rimaneva ancor lo strame che era stato letto ai soldati. Ne uscì Fermo in fretta
inorridito, ritraendo l'occhio dallo spettacolo, e la mente dai pensieri e dai ricordi che quello
spettacolo faceva nascere, e si incamminò alla casa d'Agnese, con l'ansia di rivedere un volto amico,
di udire da lei ciò che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi
gli sapesse dire s'ella viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato.
Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una
finestra aperta, e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura
immobile appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche
togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al
muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo che aveva sospettato chi doveva
essere, arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle
cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle passar di lungo. Ma tosto l'antico
rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle
circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di
Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor
curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era
sembrato di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del
cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste parti? Dio vi guardi! Vi pare egli, con quella
poca bagattella di cattura...?»
«Oh via, signor curato», disse Fermo non senza dispetto: «mi vuol ella fare anche la spia?»
«Parlo per vostro bene», disse Don Abbondio, «che nessuno ci sente. Chi volete che ci senta? Non
vedete che son tutti morti? Che venite a cercare fra queste belle allegrie? Andate, tornate dove siete
stato finora; non venite a porre in imbroglio voi e me; perché quando si tratti di castigar voi, e di
tormentare me pover uomo vi sarà dei vivi ancora».
«Signor curato, mi saprebbe ella dar qualche nuova di Lucia?»
«Oh Dio benedetto! ancor di questi grilli avete in capo? Oh poveri noi! Che serve che vengano i
flagelli, se gli uomini non voglion far giudizio! E la peste, figliuolo, la peste? Non sapete che c'è la
peste?»
«Ella deve ricordarsi, signor curato», disse Fermo, con voce alquanto risentita, «che Lucia ed io...
non erano grilli...»
«Oh!» disse Don Abbondio, «figliuol caro, voi avete sempre avuto il timor di Dio, spero che non
sarete cangiato. Per questo vi parlo con libertà, da vero padre, perché vi ho sempre voluto bene. So
io quel che dico, questo non è paese per voi: se vi dovesse accadere qualche disgrazia, (e già pur
troppo non la schivereste) che crepacuore per me! La cattura è terribile; v'è un fuoco contro di voi!
E poi la peste...»
«La peste l'ho avuta», disse Fermo: «son guarito, e non ho più paura».
«Vedete che avviso vi ha mandato il cielo; per farvi pensare al sodo... Anch'io l'ho avuta, e son qui
per miracolo».
«Ma di Lucia non mi sa ella dir nulla?»
«Figliuol caro, che volete ch'io vi dica? Non ne so nulla: è in Milano; cioè v'era: di chi può dirsi
ora, v'è? Sarà morta: muojono tutti».
«Ma noi siam pur vivi, e...»
«Per miracolo, figliuolo, per miracolo. E il frutto che ne dobbiam trarre, è di cacciar tutte le
bazzecole dalla testa. In Milano, figliuolo! chi vive in Milano? questo è un purgatorio, ma quello è
l'inferno. Non vi passasse mai pel capo...»
«E Agnese, signor curato?»
«Agnese è qui: e per miracolo non ha contratta la peste finora; ma si guarda, si guarda; ha giudizio,
non vuol vedere nessuno; non le andate fra piedi, che le fareste dispiacere».
«Sia lodato Dio; ma ella né mi vuole ajutare, né vuole che altri m'ajuti».
«Che dite figliuolo? io son tutto per voi, e parlo perché vi voglio bene; e perciò vi torno a dire: non
vi passasse mai pel capo... Dio guardi! In Milano! Sapete come state! Una cattura di quella sorte! un
impegno! e con tanti nemici che avete! Dio liberi! e poi, so io quel che dico, potreste trovare... chi
sa? gente che vuol bene, ma... gente che si piglia impegni di proteggere, e poi... Sostenere...
cozzare... basta parlo con tutto il rispetto... ma Dio solo è da per tutto... Si vuole, si comanda, si
promette, si fa l'impegno... si scompiglia la matassa, e si dà in mano al curato perché la riordini... e
chi ne va col capo rotto è il curato... Fate a modo mio, tornate dove siete stato finora». «Basta»,
disse Fermo: «non mi aspettava da lei più soccorso di quello che mi abbia avuto. Io non intendo
tutti questi suoi discorsi; ma poi che ella non ha altri consigli da darmi, si contenti ch'io faccia a
modo mio».
«No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi.
Abbiate compassione d'un pover uomo che ha bisogno di quiete; e sarebbe giusto finalmente che la
godesse. Quello che ho patito io, vedete, non lo ha patito nessuno. Ne ho passate d'ogni sorte:
spaventi, crepacuori, fatiche: è venuta la carestia, e m'è toccato di veder persone morirmi di fame su
gli occhi. Ho dovuto fuggire di casa, e nessuno mi volle ajutare; ho trovato cuori duri come selci; e i
soldati m'hanno sperperato ogni cosa. E sono stato... e ho dovuto... e basta... sono stato ricoverato
da un degno signore... basta so io quello che ho patito. E poi la peste! ho dovuto assistere agli
appestati... e... ne ho avute io delle cure, sa il cielo! ma l'ho presa anch'io, e son qui vittima della
mia carità: d'allora in poi non son più quello. Perpetua è morta, mi ha abbandonato in questi guaj; e
mi tocca servirmi da me povero vecchio e malandato, come sono. Ecco che appena cominciava a
star bene, e voi venite per darmi nuovi travagli...»
«Signor curato», disse Fermo, «io le desidero ogni bene; e del travaglio ella ne può bene aver dato a
me, ma non io a lei, in fede mia. La spia ella non me la vorrà fare; del resto io mi rimetto nelle mani
di Dio. Attenda a guarir bene, signor curato».
«Sentite, sentite», continuava Don Abbondio, ma Fermo aveva già fatta una riverenza di risoluto
congedo, e camminava verso la casetta di Lucia.
- Oh povero me! questo vi mancava! - continuò a borbottare fra sè Don Abbondio, ritirandosi dalla
finestra. - Povero me! Se costui va a Milano, se trova Lucia, se tornano alle loro antiche pretese,
ecco rinnovato l'imbroglio. Un cardinale che dirà: «voglio che si faccia il matrimonio», un signore
che dice: «non voglio»: ed io tra l'incudine e il martello.
Basta... - disse poi soffiando dopo d'avere alquanto pensato -... muore tanta gente... che dovessero
rimanere al mondo tutti quelli che si divertono a mettere le pulci nell'orecchio di me pover uomo!
Intanto Fermo arrivò alla casetta d'Agnese, la quale casetta, se il lettore se ne ricorda, era fuori del
villaggio, solitaria. Alla vista di quel luogo una nuova tempesta sorse nel cuore di Fermo; diede egli
un gran sospiro, e bussò.
«Chi è là gridò da dentro la voce d'Agnese: «state lontano; non bazzicate intorno alla porta; verrò
a parlarvi dalla finestra». «Sono io», rispose Fermo; ma Agnese, non aspettando a basso la risposta
aveva fatte in fretta le scale, e apriva la finestra. «Son io; mi conoscete?» disse ancor Fermo,
quando la vide. «Oh Madonna santissima!» sclamò Agnese: «voi!» «Io», rispose Fermo; «sono il
benvenuto?»
«Oh figliuolo!» sclamò di nuovo Agnese, «quanto vi avrei desiderato se non avessi avuto paura per
voi! Ma ora che venite voi a fare?»
«A saper nuove di Lucia, e di voi», rispose Fermo. «A vedere se tutti si sono scordati di me. Che n'è
di Lucia?»
«Figliuolo, sono mesi che non ne ho notizia: prima di quel tempo ella stava bene di salute; ma ora
chi può sapere...?»
«Io andrò a vedere, io vi porterò nuova di vostra figlia», disse Fermo risolutamente.
«Voi?» disse Agnese: «ma e... mi capite. Basta...»
«Volete aprirmi e parleremo più liberamente?»
«E la peste, figliuolo?»
«Grazie al cielo ella non ha ammazzato me, ed io ho ammazzato lei, e son sano e salvo come mi
vedete. Aprite con sicurezza».
«Scendo ad aprire», rispose Agnese; «oh con quanta consolazione v'avrei riveduto. Ma ora, bisogna
ch'io vi preghi di starmi lontano».
«Come vorrete», rispose Fermo.
«State ad aspettarmi nel mezzo della strada; quando aprirò, non vi affacciate alla porta; lasciatemi
rientrare, poi entrerete, e vi porrete in un angolo lontano da me, e ci parleremo; le parole non hanno
bisogno di toccarsi. Oh quante cose ho da dirvi!»
«Ed io a voi», rispose Fermo.
Agnese calò in fretta le scale, giunta alla porta, avvisò ancora Fermo che stesse discosto, aprì,
rientrò fino in fondo alla stanza; Fermo entrò pure, prese un trespolo, lo portò in un angolo, vi si
pose a sedere, guardando intorno, ricordandosi di tanti momenti passati in quel luogo, e sospirando;
Agnese andò a richiuder la porta, e venne a sedersi nell'angolo opposto. E subito cominciò come
una sfida d'inchieste.
«Come vi siete fidato di venir da queste parti?»
«Perché Lucia non mi ha mai risposto?»
«Come avete potuto fuggire?»
«E perché non venire dove io era in sicuro, piuttosto che mandarmi denari?»
«Chi v'ha strascinato in quei garbugli?»
«Quanto tempo Lucia è stata in quello spavento? e come è andata propriamente la cosa?»
Fatte le prime interrogazioni più pressanti ognuno cominciò a rispondere brevemente a quelle del
compagno. Fermo finalmente pregò Agnese ch'ella raccontasse per disteso tutta la sua storia,
promettendo di soddisfarla egli poi della propria. Così Fermo conobbe per la prima volta daddovero
le triste vicende di Lucia, e l'esito inaspettato. Tremò, fremè, impallidì cento volte a quel racconto;
ora diede dei pugni all'aria, ed ora giunse le mani in atto di ringraziamento; maledisse la Signora,
benedisse il Cardinale, diede maledizioni e benedizioni al Conte del Sagrato, invocò ora la vendetta,
ora il perdono del cielo sopra Don Rodrigo. Ma un punto rimaneva tuttavia oscuro, né Agnese
sapeva dilucidarlo. Perché non è venuta con me? con me suo promesso? con me che doveva, che
poteva divenir suo marito? che ostacolo v'era più? non sarebbero mancati che i denari; e il cielo gli
aveva mandati. Agnese non seppe dire, se non ciò ch'ella aveva pur pensato: che Lucia fosse
rimasta tanto stordita e sgomentata da quegli orribili accidenti, che non le rimanesse più forza da
voler nulla, e fosse disgustata d'ogni cosa.
«Oh! andrò io a saperlo da lei», disse Fermo, «voglio vederne l'acqua chiara. Ella era mia; mi si era
promessa; io non ho fatto niente per demeritarla; e se non mi vuol più...» e qui avrebbe pianto se gli
uomini non si vergognassero di piangere, «se non mi vuol più; me lo ha a dire di sua propria bocca;
e mi deve dire il perché».
Agnese cercò di racconsolarlo, e lo chiese della sua storia, che Fermo le narrò sinceramente. Questa
storia fece molto piacere ad Agnese, e le rimise Fermo nell'antico buon concetto. «Voleva ben dire
io!» sclamava ella di tratto in tratto. «Se sapeste come la raccontavano qui, in cento maniere l'una
peggio dell'altra. Ma voi non me l'avete mai fatta scrivere ben chiara».
«E voi, madonna», disse Fermo, «non mi avete mai data soddisfazione sopra quello che io voleva
sapere».
«Basta», disse Agnese, «lodato Dio che abbiam potuto parlarci una volta; valgon più quattro parole
sincere di due ignoranti che tutti gli scarabocchj di questi sapienti. Ma voi come vi fidate di andare
a Milano, dove vi hanno tanto cercato, dove...?»
«Chi mi conoscerà rispose Fermo, «non m'hanno visto che un momento; e il nome... ne piglierò
un altro; non ci vuol gran lettera per questo; e poi chi volete che pensi a me ora? Hanno da pensare
alla peste. Sono tutti in confusione. Muojono come le mosche, a quel che si dice... Ah! pur che viva
Lucia!»
«Dio lo voglia!» sclamò Agnese; «e lo vorrà, io spero. Quella poveretta innocente ha tanto patito!
Dio gli conterà tutto quel male, per salvarla ora. Ah! Fermo, io ho buona speranza; andate pure; mi
sento tutta riconfortata dell'avervi veduto. Sento una voce che mi dice che i guaj sono alla fine; e
che passeremo ancora insieme dei buoni momenti».
Fermo chiese del Padre Cristoforo, e Agnese non le seppe dir altro se non ch'egli era a Palermo che
è un sito lontano, lontano, di là dal mare. Scontento, e perché sperava da lui ajuto e consiglio, e
perché desiderava di raccontare a lui pure la storia genuina; e perché avrebbe riveduto volentieri
quell'uomo pel quale sentiva tanta venerazione e tanta riconoscenza. Disse però: «brav'uomo! vero
religioso! è meglio ch'egli sia fuori di questi guai e di questi pericoli».
Agnese offerse a Fermo l'ospitalità per quella notte, con molte prescrizioni sanitarie però di
lontananza, di cautela, di non toccar questo, di non avvicinarsi a quell'altro luogo.
Fermo accettò l'ospitalità ben volentieri e promise tutti i riguardi che Agnese desiderava. Era venuta
l'ora della cena; e la massaja si diede ad ammanirla. Pose al fuoco la pentola per cucinarvi la
polenta: Fermo, da giovane ben educato, voleva risparmiare la fatica alla donna, e fare egli il
lavoro: ma Agnese, levando la mano: «guardatevi bene dal toccar nulla», disse; «lasciate fare a
me». Fermo ubbidì; ed ella prese la farina, la gettò nell'acqua, la rimenava, dicendo: «Eh! altre volte
era Lucia! basta il cuor mi dice che la mia poveretta verrà con me, e presto; e che staremo tutti in
buona compagnia». Fermo sospirava. Agnese versò la polenta, raccomandando sempre a Fermo di
non si muovere, di non toccare; poi andò a mugnere la vacca, tornò con una brocca di latte,
dicendo: «vedete: quella povera bestia da sei mesi è la mia unica compagnia». Prese un bel pezzo di
polenta, lo ripose sur un piattello, lo sporse a Fermo, stando più lontana che poteva, e stringendosi
con l'altra mano la gonna d'intorno alla persona perché non istrisciasse agli abiti di Fermo; quindi
allo stesso modo gli sporse una scodella di latte. Nel tempo della cena si parlò dei disegni di Fermo,
Agnese gli diede istruzioni sul nome dei padroni di Lucia, gli comunicò le notizie confuse ch'ella
aveva sul luogo della loro dimora; e questi discorsi gli tennero a veglia qualche ora dopo la cena.
Finalmente Agnese indicò all'ospite la stanza, dov'egli doveva coricarsi: era quella di Lucia: Fermo
amò meglio di andarsi a gettare sul picciolo fenile, adducendo motivi di precauzione per la salute.
Prima dell'alba erano entrambi in piedi. Agnese diede a Fermo due pani, e due raviggiuoli, fattura
delle sue mani, gli riempì di vino il fiaschetto ch'egli aveva portato con sè , dicendo: «in questi
tempi potreste morir di fame, prima di trovare chi vi desse da mangiare». Il congedo fu quale
ognuno può immaginarselo, pieno di tenerezza, di accoramento, e di speranza. Fermo partì, viaggiò
tutto quel giorno, e avrebbe potuto la sera entrare in Milano, ma pensò che avrebbe trovato più
facilmente un ricovero al di fuori. Ristette di fatti in una cascina deserta, a un miglio dalla città.
Dormì su le stoppie, e all'alba, levatosi, si avviò, e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli
comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta.
<B>CAPITOLO VI</B>
S'io avessi ad inventare una storia, e per descrivere l'aspetto d'una città in una occasione importante,
mi fosse venuto a taglio una volta il partito di farvi arrivare, e girar per entro un personaggio, mi
guarderei bene dal ripetere inettamente lo stesso partito per descrivere la stessa città in un'altra
occasione: che sarebbe un meritarsi l'accusa di sterilità d'invenzione, una delle più terribili che
abbian luogo nella repubblica delle lettere, la quale, come ognun sa, si distingue fra tutte per la
saviezza delle sue leggi. Ma, come il lettore è avvertito, io trascrivo una storia quale è accaduta: e
gli avvenimenti reali non si astringono alle norme artificiali prescritte all'invenzione, procedono con
tutt'altre loro regole, senza darsi pensiero di soddisfare alle persone di buon gusto. Se fosse
possibile assoggettarli all'andamento voluto dalle poetiche, il mondo ne diverrebbe forse ancor più
ameno che non sia; ma non è cosa da potersi sperare. Per questo incolto e materiale procedere dei
fatti, è avvenuto che Fermo Spolino sia giunto due volte in Milano appunto in due epoche,
diversamente singolari, e che l'una e l'altra volta abbia ricevuta dall'aspetto di quella città una
impressione, che noi dobbiamo pur riferire, trattandosi d'uno dei nostri protagonisti. Nè in questo
solo ma anche fra i due soggiorni di Fermo in Milano, anche fra le due partenze v'è un principio
singolare di somiglianza: cui ella spiacesse, se la pigli con le cose, che hanno voluto essere a quel
modo.
Per una via deserta, fiancheggiata da campi imboschiti, giunto a piè delle mura, Fermo sostette
pensoso, e preso da quella specie di spavento che si prova al trovare una vasta, ostinata solitudine in
mezzo alle tracce dell'abitato: tese l'orecchio, girò gli occhi intorno: nessun indizio d'uomini, nessun
segno di vita, nessun movimento; se non che d'in su la mura, ad intervalli, sorgevano colonne di
fumo, che s'allargavano in globi scuri, bigi, folti, e quindi abbattute dal vento si curvavano,
scendevano giù al di fuori, diradandosi e diffondendosi nell'aria, e si stendevano sul piano esteriore
in nebbia lenta, crassa, fetente. Erano i mucchj di vesti infette, di cenci, di letti, di spazzature d'ogni
sorta che si facevano portare al bastione, e quivi abbruciare. Tale era il fastidio che quella nebbia
diffondeva nell'aria, che Fermo, benché avvezzo a sensazioni di quel genere si turò le nari, con
ribrezzo; ma ben tosto ritirò la mano, pensando che all'entrare e all'avanzarsi nella città, non solo il
lezzo, ma ogni sorta di fastidio l'avrebbe assalito da tutte le parti, e che bisognava risolversi ad
affrontarlo, non pensare a ripararsene. Fuori della porta era una capannuccia di legno, stazione delle
guardie e d'un deputato che doveva guardare a chi entrava ed usciva, richiedere le bollette,
escludere i sospetti. Ma in quella comune disperazione ogni disciplina era dismessa; il deputato a
quella porta era caduto di peste il giorno antecedente, le poche guardie stavano nella capanna,
badando più a tener lontani i passeggieri dalle loro persone che ad esaminarli. Dinanzi alla porta era
un cancello, ma spalancato, e Fermo vi passò senza che alcuno lo chiedesse di nulla. Procedendo
per quel primo spazio della città tra i bastioni, e il canale chiamato naviglio, spazio occupato da orti
(o se volete da ortali, che sarà più vicino al proprio vocabolo municipale, ortaglie) con entrovi
sparso qualche convento, e qualche casipola, nulla vide Fermo per qualche tempo che desse indizio
esser quello un luogo abitato da uomini. Il primo indizio di persona viva gli venne, mentre egli
passava tutto costernato per quella stradaccia che dal Ponte di Santa Teresa, correndo tra il naviglio,
e alcune casuccie, va alla piazza di San Marco. Un gemito che si sforzava d'essere una chiamata
uscì d'una di quelle case; Fermo alzò gli occhj, e vide un tapino alla finestra che scuoteva una
funicella alla quale era appeso un sacchetto che scendeva presso al pavimento della strada. Fermo si
fece vicino, e udì una voce fioca: «carità ai poveri sospetti». Cavò egli una moneta, e la ripose nel
sacchetto; ma colui invece di tirar la fune a sè, disse con un tuono misto di supplica e d'impazienza:
«un po' di pane: ci hanno chiusi in casa come sospetti, e ci hanno dimenticati; e moriamo di fame».
Fermo aveva ancora uno dei pani di Agnese: lo cavò tosto, e lo legò alla fune. Il rinchiuso,
benedicendolo, la trasse in fretta, e Fermo lo vide afferrare quel pane, con ambe le mani, porselo a
bocca, e addentarlo avidamente. Dopo due passi udì un romore confuso che si avvicinava, e
cominciò a distinguere un cigolar di ruote, un calpestio di cavalli, uno squillare di cento campanelli,
un baccano di grida; guatò dinanzi a sè, ed ecco in capo alla strada dov'egli camminava spuntare
due uomini a piede (eran chiamati apparitori) che con le mani alzate accennavano, e ad alta voce
gridavano ai passeggeri di ritirarsi. Dietro a questi vide comparire cavalli che allungando la cervice,
e puntando le zampe, avanzavano a stento; e ad ogni passo le campanelle che essi avevano appese
intorno alle teste e ai colli, mandavano un tintinnio acuto e assordante: e a fianco dei cavalli, vide
monatti in lacere divise rosse, essi pure con le campanelle ai piedi, che a forza di punte e di flagelli
e di bestemmie li forzavano a camminare, a proseguire la corsa ritardata dal peso crescente dei
cadaveri che raccolti sul passaggio erano gettati sui carri. I cadaveri v'erano ammonticati, e
intrecciati insieme, quasi come un gruppo di serpi che lentamente si svolga al tepore della
primavera: nudi la più parte, o male avviluppati in lenzuola cenciose. Dopo un carro che attraversò
la via, ne venne un altro, e poi un altro: dieci ne contò Fermo. Di tratto in tratto, si vedevano i
cadaveri, ad una forte scossa, tremolare sconciamente, e scompaginarsi; le gambe, le braccia, le
teste con le chiome arrovesciate si svincolavano dal mucchio, e spenzolavano dal letto del carro,
talvolta involte nelle ruote traevano seco i cadaveri sotto di quelle, come per mostrare che quello
spettacolo poteva divenire ancor più disonesto e più miserando. Fermo ristette alquanto, fin che il
convoglio fosse passato; e ripresa da poi la via, e giunto in capo a quella su la piazza di San Marco,
presso il ponte che ne piglia il nome, vide di nuovo per di dietro quel sozzo corteggio, che per la via
del pontaccio, si avviava alla fossa scavata fuori della porta comasina.
Ma un altro spettacolo, su quella piazza, attirò i suoi sguardi, e gli diede a pensare: erano due travi
alzate e infisse nel suolo, e una corda passava dall'uno all'altro capo fra due carrucole. Fermo
riconobbe (ella era cosa famigliare a quel tempo) l'abbominevole stromento della tortura; ma non
sapeva perché fosse collocato in quel luogo. La sua maraviglia crebbe da poi quando ne incontrò
uno per ogni piazza, in ogni via spaziosa. V'erano posti, affinché i deputati delle porte e delle
parrocchie, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria, potessero, immediatamente farvi
tormentare chi loro paresse, o sequestrati che uscissero, o ministri disubbidienti, o violenti di
qualunque sorta. Era uno di quei rimedii immoderati e inefficaci di cui principalmente in quel
tempo si faceva scialacquo: era un dispotismo che non toglieva l'anarchia. Dopo avere inutilmente
guardato su quella piazza, se potesse scorgere alcuno a cui chiedere conto della via dove abitavano i
padroni di Lucia, il nostro pellegrino si volse a mano manca, e costeggiando il convento di San
Marco, giunse al Ponte al quale Ludovico il Moro diede il nome di Beatrice sua moglie; e per quello
entrò nella città propriamente detta. Quale città! Non istropiccìo di passeggeri, non romore di
carrozze, non grida di venditori, né stridore di officine, ma in quella vece gemiti, lamenti, urli che
uscivano dalle case, strepito di carri funebri, bestemmie, minacce, o quel che dava un suono ancor
più atroce, il baccano festoso, e la ilarità infernale dei monatti. Lo spazzo sparso e talvolta
ingombro di mobili, di coltrici, di vesti, di strame appestato, di cenci, di fasce saniose e sanguinate;
e a quando a quando di cadaveri abbandonati! Radi per le vie si vedevano camminare i cittadini che
qualche necessità faceva uscire di casa: una parte era fuggita; un'altra parte, al numero circa di
quattordici mila, abitava, o moriva nel lazzeretto; un'altra languiva nelle case; e forse cento venti
mila erano i morti a quell'ora; prima della peste la popolazione della città era stimata dugento mila
persone; numero al quale non risalì mai più dopo quel disastro. Andavano quei pochi, scompagnati,
in silenzio, con la faccia lurida, coi capegli lunghi ed incolti, con le barbe arruffate, perché da
quando nella casa dell'infelice barbiere Giangiacomo Mora s'era creduto scoprire la fucina
principale delle unzioni, ognuno fuggiva i barbieri divenuti tutti sospetti. Andavano quei viandanti
succinti in farsetto, deposte le cappe, le toghe, le cocolle, ogni ampio vestimento che svolazzando,
potesse moltiplicare coi casi di contatto, i rischj della contagione. Ognuno cercava di tenere il
mezzo della via; si aveva orrore delle pareti che potevano esser unte; si temeva che dalle finestre si
gettassero sui passeggeri polveri venefiche; e troppo spesso realmente si gettavano i letti, le vesti, le
suppellettili dei morti di contagio; talvolta, orribil cosa! i morti stessi; talvolta gli infermi trasportati
dalla frenesia del morbo, o spinti dalla disperazione, si gettavano da sè. Nessuno che parlasse,
nessuno che stesse a musare: non v'era creatura ferma fuor che i cadaveri. Il solo vivente che il
nostro pellegrino vedesse immoto nella via presso al muro, fu un uomo che sedeva a canto ad una
porta in atto di chi assorto in qualche cura non badi a ciò che accade intorno a lui. Era un prete che
posato sur un trespolo, udiva, dalla porta socchiusa la confessione d'un appestato. I viandanti
portavano per lo più in mano certe palle crivellate di piccioli fori con entro spugne intinte di aceti
medicati, di spiriti, e ad ogni momento le fiutavano; e si aveva gran fiducia in quei preservativi:
tenevano nell'altra mano un bastone, non tanto per appoggiarsi, come per rimuovere chi avesse
troppo voluto accostarsi; alcuni perfino tenevano invece del bastone, una pistola, accennando ai
sopravvegnenti che dessero luogo; con quello stromento atto ad ottenere una più certa e più pronta
obbedienza. Se due amici s'incontravano a caso, il saluto era uno stringersi nelle spalle, un alzar
delle mani, un sospiro, una occhiata quasi di maraviglia, che voleva dire: - voi siete ancor vivo! -
ogni altra più intima accoglienza era dismessa, e in due mesi non accadde forse mai che due mani si
stringessero ad espressione di amicizia. I medici, i chirurghi si distinguevano per un capuccio che
portavano come da disciplinati, per calarlo sul volto quando s'appressassero ad un infermo, avevano
guanti alle mani per preservarle nel toccare dei polsi, nel medicare; e sospeso a cintola un fiaschetto
d'aceto per lavarsi ad ogni visita, e per lavare i danari che erano loro dati in mercede, e che molti
con crudele avarizia imponevano esorbitante, non volendo toccare un polso a meno d'uno zecchino.
Su quelle poche facce che si vedevano in volta era per lo più scolpito, compenetrato, e come
divenuto fisonomia, l'accoramento, lo stupore, la sfidanza; le forme irrigidite, e come stagnanti in
una trista quiete; e gli sguardi non avevano vita che dal terrore e dal sospetto. Pochissimi però fra
quei pochi andavano con passo più alacre, e mostravano una fronte men costernata: erano i guariti
dalla peste; altri che portavano al collo o amuleti dai quali speravano d'esser preservati, o una
boccetta di vetro con entro argento vivo, persuasi che questo metallo avesse la virtù di assorbire
ogni influsso maligno; altri che prima d'uscire avevan mangiata una noce, due fichi secchi, e un po'
di ruta, che da essi era riputato efficacissimo preservativo. E pur troppo tutti questi rimedii
producevano un effetto; ma era di crescere la mortalità, rendendo men guardinghi in tutto il resto
coloro che avevan fede nell'uno o nell'altro di essi. Fermo, benché ansioso di giungere al luogo
dov'era, dov'egli sperava ancor tremando che fosse colei per cui sola aveva intrapreso quel viaggio,
desideroso anche di abbreviare il più che fosse possibile un così tristo cammino, non aveva mai
però scorto un volto che gli facesse animo ad interrogare. Finalmente essendo capitato in uno di
costoro, si risolse di rivolgersi a lui, e fece atto di accostarglisi. Ma costui, che a malgrado del
preservativo, era però dei cauti, levò il suo bastone che terminava in uno spiedo, e appuntandolo in
dirittura alla pancia di Fermo, disse con voce risoluta: «lontano!» Fermo non si mosse; ma a quella
distanza pregò il cittadino che volesse udire una parola, soltanto una parola; e gli chiese dove fosse
la tal via, la tal casa. Non era molto lungi di là; e il cittadino diede brevemente a Fermo l'indirizzo
ch'egli desiderava; ma quando questi, dopo averlo ringraziato, si mosse per andare innanzi, l'uomo
cauto ripetè: «lontano»; girò il bastone descrivendo intorno a sè un quarto di cerchio a mezz'aria, e
segnando così a Fermo la giravolta che doveva fare per non passargli troppo vicino. Fermo proseguì
il suo cammino con un'ansia e con una sospensione d'animo cresciuta dal saper vicino il termine
dov'egli sarebbe uscito d'un terribil forse. Ma per quanto la sua mente tendesse a ricadere in quel
pensiero, ne era pure ad ogni momento stirata via dagli oggetti fra i quali egli doveva scorrere.
Dove che i suoi sguardi cadessero non incontravano che dolore e ribrezzo. Le porte o chiuse per
guardia, o spalancate per desolazione; molte segnate d'una croce rozzamente tirata col carbone: quei
segni eran posti dai commissarii della Sanità, per indicare ai monatti che vi eran morti da prendere.
Dove lo sgombro era già fatto, le croci si vedevano cancellate; e mettevano ancor più ribrezzo le
tracce del segno di salute e di morte, guaste e confuse con le tracce delle palme impure dei monatti,
o dei sozzi arredi che egli avevano adoperato a quell'uso. Qualcheduno pur si mostrava alle finestre,
qualche voce si udiva; erano guai di languenti, o urla di frenetici; erano chiamate e suppliche ai
monatti, perché venissero a togliere qualche cadavere. Nei principii della peste, il terrore di vedersi
in casa quegli uomini senza legge, aveva fatto che molti nascondessero i cadaveri, gli seppellissero
negli orti, nelle cantine, dove, come che fosse; ma poi crescendo il funesto da farsi, e il fastidio
vincendo il terrore, si desideravano i monatti per liberarsi da uno spettacolo intollerabile, da una
infezione talvolta invecchiata. E quegli scellerati che da prima usavano introdursi a forza dove non
erano richiesti, ora negavano talvolta di entrare pregati, se alle preghiere non si aggiungeva la
ricompensa. Posto il piede nelle case, vi si portavano non da padroni, da guastatori: ma era venuto il
tempo che delle ribalderie e delle nefandità loro, già temute più della peste, non si faceva più caso:
la disperazione aveva ottuso nei più ogni altro sentimento. Pure, dinanzi a qualche casa, dove la
sciagura non aveva estinto affatto ogni coraggio, né confusi tutti i pensieri, stavano distesi cadaveri,
deposti ivi ad aspettare il passaggio del carro funebre; e alcuni pur piamente composti, ravvolti in
qualche lenzuolo e celati al ribrezzo dei passeggieri. E tali depositi, che, in tempi ordinarii,
farebbero altrui torcere il guardo, erano allora quasi un conforto pel guardo, troppo offeso dallo
spettacolo di altri corpi, che pure avevano ricettata un'anima immortale, e giacevano gettati
brutalmente dalle finestre, travolti dalle cadute, o caduti dai carri, mostrando tutte le più diverse e
dolorose immagini della morte, salvo l'immagine del riposo.
Aveva Fermo già scorse due vie, e passata la metà del viaggio, quando presso alla rivolta d'un
canto, udì un frastuono, e vide due o tre che camminavano dinanzi a lui, dare addietro l'un dopo
l'altro, e riprendere la strada donde erano usciti. Giunto al canto, guardò che fosse la cagione di
questi lor pentimenti, e vide nel mezzo di quella via quattro carri fermati; e come in un mercato di
grani si vede un andare e venire di gente dai mucchj ai carri, un caricare, un rovesciare di sacca;
così era la pressa in quel luogo; monatti che entravano nelle case, monatti che uscivano recandosi
un carico su le spalle; e lo ponevano su l'uno o su l'altro carro: talvolta ripigliavano il peso già
deposto, sul carro degli infermi, e lo gettavano su quello dei morti; era uno che preso semivivo su le
loro spalle, aveva esalato l'ultimo respiro su quel letto abbominato. Alle finestre, o presso ai carri si
vedeva qualche congiunto pio e animoso piangere i suoi morti che partivano, o dare un tristo addio
agli infermi. Il resto della via era sgombro, e muto; se non che da qualche finestra partiva di tratto
in tratto una voce sinistra: «qua monatti»: e con suono ancor più sinistro da quel lurido e
affaccendato bulicame si sentiva venire per l'aria morta un'aspra voce di risposta: «adesso».
Fermo a quello spettacolo, stette in forse se dovesse egli pure tornare indietro; ma egli era presso al
termine della via, d'una via che a stento aveva potuto farsi indicare; se l'abbandonava, chi sa quando
avrebbe trovato chi volesse rimetterlo su quella, e chi sa quali inciampi dello stesso genere avrebbe
trovati anche in tutt'altra: con questi pensieri e con animo già agguerrito a tali viste, egli proseguì.
Giunto a paro del convoglio, accelerava il passo, e cercava di non guardar quegli orrori se non
quanto era necessario per cansarli; ma il suo sguardo vagabondo si abbattè in un oggetto dal quale
usciva una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; e quasi senza avvedersene egli rallentò il
passo. Sur una di quelle soglie stavasi ritta una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza
matura ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata ed offuscata da un lungo patire, ma non
iscomposta; quella bellezza molle e delicata ad un tempo, e grandiosa, e, per così dire, solenne, che
brilla nel sangue lombardo. I suoi occhi non davano lagrime, ma portavan segno di averne tante
versate; come in un giardino antico e trasandato, una fonte di bianchissimi marmi che inaridita, tien
tuttavia i vestigi degli antichi zampilli. V'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo,
che raffigurava al di fuori un'anima tutta consapevole, e presente a sentirlo, e quel solo aspetto
sarebbe bastato a rivolgere a sè gli sguardi anche fra tanta miseria; ma non era il solo aspetto della
donna che ispirasse una sì rara pietà. Tenevasi ella in braccio una fanciulletta di forse nove anni,
morta, ma composta, acconcia, con le chiome divise e rassettate in su la fronte, ravvolta in una
veste bianca, mondissima, come se quelle mani l'avessero ornata per una festa promessa da tanto
tempo, e concessa poi come un premio. Nè era tenuta a giacere in abbandono, ma sorretta fra le
braccia, col petto appoggiato a petto, come se vivesse; se non che il capo posava su le spalle della
madre con un abbandono più forte del sonno: della madre, perché se anche la somiglianza di quei
volti non ne avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente l'affetto che si dipingeva su quello che
era ancora animato. Fermo ristette senza quasi avvedersene con gli occhi fissi in quello spettacolo.
Ed ecco un turpe monatto avvicinarsi alla donna, e far vista di prendere dalle sue braccia quel peso;
ma pure con una specie d'insolito rispetto, con una esitazione involontaria. Ma la donna, ritraendosi
alquanto, in atto però che non mostrava né sdegno né dispregio: «no», disse, «non la mi toccate per
ora; io, deggio comporla su quel carro: prendete». E così dicendo, aperse una mano, mostrò una
borsa, e la lasciò cadere nella mano che il monatto le tese. Poscia continuò: «promettetemi di non
torle un filo dattorno, né di lasciar che altri s'attenti di farlo, e di porla sotterra così. L'avrei ben
posta io; ma ella deve riposarsi nel luogo santo; né io posso portarvela, v'è lassù chi mi aspetta».
Mentre la donna parlava il monatto, divenuto ubbidiente forse più per una nuova riverenza, che pel
guadagno, aveva fatto sul carro un po' di luogo al picciolo cadavere. La donna diede un ultimo
bacio alla figlia, la collocò ivi come sur un letto, ve la compose; e rivolta al monatto disse:
«ricordatevi: Dio vedrà se mi tenete la promessa; e ripassando di qua sta sera, salite a prender me
pure, e non me sola».
Così detto rientrò in casa, e un momento dopo comparve alla finestra, con un'altra più tenera
fanciulla nelle braccia viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare la figlia giacente
sul carro, fin che il carro si mosse, finché rimase in vista; e allora ritiratasi depose sul letto
quell'altra cara innocente, e vi si sdrajò poi al suo fianco a morire insieme; come la pianta s'inchina
col fiore appena sbucciato, al radere della falce che, dove passa, agguaglia tutte l'erbe del prato.
Fermo si mosse pur egli, più altamente compunto che non fosse mai stato in tutto quel viaggio, e
per la prima volta, molle di lagrime. «O Signore!» diss'egli, «esauditela! pigliatela con voi, sarà una
ventura per quella travagliata l'uscire di tanti guai... Una ventura! E Lucia!» Con questa parola in
sul cuore egli s'affrettò su quella via, alla quale, se il cittadino lo aveva bene indirizzato, metteva
capo quell'altra a cui egli agognava e tremava di arrivare. Ed ecco, da quella parte appunto venire
un frastuono sordo, poi più risuonante, ma confuso, un suono diverso di voci alte, brevi, e
imperiose, di fiochi lamenti, di guai lunghi, di singhiozzi femminili, di garriti fanciulleschi.
A quel suono, al pensiero del luogo donde partiva, Fermo si sentì colpito d'una tristezza più nera
che mai, d'una tristezza sospettosa, atterrita, tanto che non potè tenersi, e quasi smarrito andò a
corsa verso il crocicchio che faceva la via nella quale egli si trovava con quella a cui era avviato.
Quando fu presso, vide nella via a mano diritta, per quella appunto ov'egli doveva entrare, una
torma di gente guidata o cacciata al lazzeretto da un commissario, e da molti monatti.
A misura che quella trista processione passava dinnanzi a Fermo, il suo occhio inquieto, quasi
appannato, correva e ricorreva per la moltitudine, trasceglieva e spiava con terrore ogni volto
femminile, si spingeva verso quelli che arrivavano, tornava a quegli che erano passati... Lucia non
v'era. Fermo su le prime respirò come uscito d'un grande spavento; ma tosto ricadde nella sua
ambascia, pensando che egli andava non a veder forse, ma ad udire di peggio. Erano languidi che si
strascinavano a stento, alcuni sostenuti dalle braccia di figli, di padri, di fratelli, di mogli, che per
pietà o per disperazione sprezzavano il pericolo del contatto; alcuni spinti a forza, resistenti in vano,
gridanti in vano che volevano morire sul loro letto, e rispondendo bestemmie impotenti alle
bestemmie imperiose dei conduttori; altri che, appoggiati ad un bastone, andavano in silenzio dove
erano comandati, senza dolore, senza speranza, insensati; donne coi pargoli in collo; fanciulli
spaventati dalle grida, da quei comandi, da quello spettacolo più che dal pensiero oscuro della
morte, i quali ad alte strida imploravano la madre, e le sue braccia fidate, e di restare nel noto
soggiorno. Ahi! e forse la madre, che essi credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, vi
s'era gittata oppressa tutt'ad un tratto dal morbo, priva di senso, per esser portata sur un carro al
lazzeretto, o alla fossa, se il carro giungeva più tardi. Talvolta, oh sciagura degna di lagrime ancor
più amare! la madre tutta occupata dei suoi patimenti, si stava dimentica d'ogni cosa, anche dei
figli, e non aveva più che un amore: di morire in riposo. Pure in tanta confusione si vedeva ancora
qualche esempio di costanza; e di pietà: parenti, fratelli, figli, consorti che sostenevano i cari loro, e
gli accompagnavano con parole di conforto; né adulti soltanto, ma garzoncelli, ma giovinette
appena adolescenti che facevano scorta a fratellini più teneri; e con senno e con misericordia virile
li confortavano ad essere obbedienti, promettevano di accompagnarli in luogo ove si terrebbe conto
di loro per farli guarire.
Quando Fermo vide la processione quasi tutta passata, e sgombra la sua via, si volse ad uno dei
monatti che chiudeva il corteggio, e gli chiese conto della casa di Don Ferrante. Il monatto non
rispose se non: «va in malora, tanghero». Fermo aveva tutt'altro in testa che di risentirsi, e non
replicò: guardò al commissario, gli parve un volto più cristiano; fece a lui la stessa inchiesta; e il
commissario, accennando con un bastone la via dalla quale egli veniva disse: «l'ultima casa nobile,
a destra»; e passò.
Quelle parole per sè indifferenti, e che non esprimevano se non la nuda notizia che Fermo aveva
desiderata, lo colpirono però, come se fossero una sentenza ambigua e temuta. Egli impallidì dopo
d'averle intese, e tremò d'esser giunto al termine che aveva tanto bramato, pel quale aveva
intrapreso quel viaggio doloroso, e sostenuto di passare per tanta gramezza. S'avanzò per quella via
a passo interrotto, giunse dinanzi alla casa, la distinse tosto fra le case vicine più umili, e più
disadatte, si appressò alla porta che era chiusa, pose la mano al martello, ve la tenne sospesa, come
avrebbe fatto se la tenesse in un'urna, prima di cavarne la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la
sua morte. Finalmente alzò il martello, e bussò.
Si apre una finestra, e vi compare una donna: era la signora Ghita, che guardò con sospetto se
fossero monatti, malandrini, qualche cosa di tristo, di quello che girava in quel tempo: vide quello
sconosciuto, e prima ancora d'intendere che egli volesse, disse, o rispose: «Qui non c'è niente».
«Signora», disse Fermo con voce tremante, «sta qui una forese, che si chiama Lucia Mondella?»
«Non c'è più; andate», rispose la Signora Ghita.
«Non c'è più gridò Fermo, spaventato da quella ambigua risposta. «Dov'è ella? per amor del
cielo».
«Al lazzeretto grande».
«Con la peste!»
«Con la peste: che maraviglia? andate».
«Da quando v'è ella? e come si può trovarla? Oh Dio! era ella molto aggravata?»
«Non è tempo da rispondere a tante cose», disse col suo tuono agro la signora Ghita. «V'ho detto
anche troppo pel tempo che corre. Vi replico, andate». E così dicendo, fece vista di chiudere la
finestra.
«No, no», disse Fermo: «che carità è questa? voglio saper nuove di questa creatura; non parto di qui
se prima...» Ma mentre egli parlava, la finestra era stata chiusa.
«Quella signora! una parola, una parola!» gridò Fermo, ma non ebbe risposta.
Costernato da un tale annunzio di sventura, smanioso del non aver potuto né pur conoscere quanta
ella fosse, incerto qual fosse il più pronto mezzo per trovar conto di Lucia, se insister quivi con
preghiere o con minacce, o andare a dirittura al lazzeretto, Fermo stava appoggiato alla porta,
tenendo la mano sul martello, talvolta lo alzava, per picchiare alla disperata, poi pentito, lo riteneva,
lo stringeva nella mano come se volesse storcerlo, come per isfogare la sua passione. In questa
agitazione, egli per quell'istinto che in qualunque angustia muove l'uomo a cercar soccorso
all'uomo, si rivolse alla strada, per vedere se mai gli cadesse sott'occhio qualche vicino, a cui
chiedere informazione, indirizzo, consiglio. Ma quel che vide fu una vecchia, dietro a lui forse a
venti passi, la quale con un volto che esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, sbarrando la
bocca come se volesse gridare, ma tenendo anche il respiro, sollevando due braccia scarne,
allungando e ritirando due mani grinze e adunche, come s'ella traesse a sè qualche cosa, accennava
manifestamente di voler chiamar gente in modo che un qualcheduno non ne fosse avvertito. Alla
guardatura della vecchia, Fermo s'accorse tosto ch'egli era quel tale; e più stupito che atterrito dal
vedersi oggetto di tante passioni, voleva gridare: «che diamine...», quando la vecchia, vedendo
ch'egli s'era accorto di lei, e disperando di poterlo sorprendere, lasciò uscire il grido che aveva
compresso fin allora: «Ajuto! Ajuto! L'untore! L'untore! dalli! dalli!»
«Taci, bugiarda strega», sclamò Fermo alla vecchia, e le si mosse incontro per farle paura e metterla
in fuga. Ma nello scostarsi dalla porta vide che la fuga diveniva necessaria per lui: lo strillo della
vecchia era stato inteso, e dalla parte verso la quale ella lo aveva mandato, usciva gente, e guardava
dove fosse l'untore, gente, che forse a qual fosse più pietoso chiamar di soccorso non sarebbe uscita
dalle tane dove si stava rimpiattata per paura; ma per graffiare e per prendere un untore era pronta;
tanto era il furore contra quegli che si credevano la cagione primaria di tanti mali. Nello stesso
istante s'aperse di nuovo la finestra, e di quivi la signora Ghita gridava a testa: «cacciate quel
garritore, che dev'essere un di quei ghiotti, che vanno facendo le poltronerie alle porte e alle
muraglie».
Alcuni cominciavano già a correre verso Fermo, urlando: «piglia, piglia, dalli, dalli». Fermo vide la
mala parata; per buona sorte il lato della strada dove stava la vecchia, era quasi sgombro d'altra
gente: uno che era accorso per di là volle gittarglisi addosso, ma egli lo stramazzò a terra d'un urto;
e a gambe. Allora la folla vie più ad inseguirlo. E non era ancora giunto al capo della via che già
sentiva quelle grida amare risuonar più forti all'orecchio, sentiva appressarsi il calpestio dei più
leggieri ad inseguirlo. In quell'estremo, egli che sapeva, come ognuno lo sapeva, qual fosse la sorte
di chi cadeva nelle mani del popolo o dei giudici col nome di untore, risolse di non lasciarsi pigliare
alle spalle da quei furibondi, ma di rivolgersi, di mostrar loro il viso, e di difendere disperatamente
la sua vita.
<B>CAPITOLO VII</B>
Così disposto, volse indietro, ma senza però ristarsi ancora dal correre, il volto più torvo e più
cagnesco che avesse ancor fatto in vita sua per guatare quali, quanti, a che distanza fossero quei
suoi persecutori; ma con maraviglia, e con un sentimento confuso di gioja gli vide tutto ad un tratto
restar sui due piedi, in grande esitazione e su quelle figuracce alle brutte contrazioni del furore
succedere le brutte contrazioni della paura. E tosto più presente a se stesso, scerse dinanzi a sè e
non lontano, un apparitore, e dietro lui un carro coperto di cadaveri, intese i campanelli, lo scalpito,
le ruote, le canzonacce dei monatti, tutto quello strepito che un momento prima percoteva le sue
orecchie senza saputa della mente. Il terrore degli inseguenti per quella comparsa, fece tosto
pensare a Fermo che per lui ella era salute: sentì egli che non era momento da far lo schifo: affrettò
la corsa verso il carro, tolse la mira ad un picciolo spazio sgombro che vide in quello; spiccò un
salto; ed eccovelo ritto, piantato sul destro piede, col sinistro in aria, e con le braccia alzate tuttavia
dal lancio di tutta la persona.
«Bravo! bravo!» sclamarono ad una voce i monatti, altri che seguivano il convoglio a piedi, altri,
seduti sui carri, altri, per dire la orribile cosa come ella era, seduti sui cadaveri trincando d'un gran
fiascone che andava in giro. «Bravo! bel colpo!»
Gl'insecutori all'avanzare del carro avevano per la più parte volte le spalle, e fuggivano, gridando
pure «dalli! all'untore!» se mai qualcheduno più coraggioso di essi, volesse venire a compiere la
buona opera; e a quei gridi rispondevano dalle finestre uomini e donne accorse al romore: «dalli!
all'untore!» Alcuni però dei primi tentennavano, quasi non potessero rassegnarsi a vedere la fiera
uscir salva dalla loro caccia, e digrignavano i denti, facevan gesti di minaccia a Fermo che gli
guardava immobile dal carro.
«Lascia fare a me» gli disse un monatto; e strappato di dosso a un cadavere un laido cencio, lo
rannodò in fretta, e presolo per un dei capi lo alzò verso quei feroci, come una fionda, fece atto di
gittarlo, gridando: «aspetta canaglia». A quell'atto tutti dieder di volta inorriditi, e Fermo non vide
più che schiene di nimici, e calcagna che ballavano rapidamente per aria. Fra i monatti si sollevò un
urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnare quella
fuga.
«Ah ah! vedi tu se noi sappiamo proteggere i galantuomini», disse a Fermo quel monatto: «val più
uno di noi che cento di quei poltroni».
«Certo io vi debbo la vita», disse Fermo: «e vi ringrazio di tutto cuore».
«Niente, niente», disse un altro di quei demonii: «te lo meriti, si vede che sei un bravo giovane. Fai
bene d'ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro che non son buoni a qualche cosa che morti,
o birboni; che hanno bisogno di noi, e ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moria, ci
vogliono fare impiccar tutti. Hanno a finire prima essi che la moria; e rimarremo noi soli a
gavazzare in Milano».
«Viva la moria, e muoja la marmaglia», sclamò un altro, e con questo bel brindisi, si pose il fiasco a
bocca, e tenendolo con ambe le mani fra i trabalzi del carro, ne tracannò un lungo sorso, indi porse
il fiasco a Fermo, dicendogli: «bevi alla nostra salute».
«Ve l'auguro di buon cuore», disse Fermo; «ma non ho sete; non potrei bere in questo momento».
«Tu hai avuto una bella paura, a quel che pare», disse quel monatto: «m'hai cera d'un pover'uomo;
altri visi voglion essere a far l'untore».
«Ognuno s'ingegna come può» disse un altro.
«Dammi quel fiasco», insorse un terzo; «voglio vuotarlo io, che l'ho conquistato nella cantina di
quel vecchio avaro lì...» e così dicendo prese il fiasco dalle mani di quell'altro; e prima di bere, si
volse a Fermo, gli affissò gli occhi in faccia con un'aria di pietà sprezzante, e gli disse: «Convien
credere che il diavolo col quale tu hai fatto il patto, sia ben giovane, ben dappoco, poiché se non
eravamo noi a salvarti, egli ti dava un bell'ajuto». E ridendo del suo bel tratto, levò il fiasco, e se lo
appiccò alle labbra. Lo vuotò, e poscia tenendolo con la destra pel collo, lo mosse rapidamente in
giro al di sopra del capo, quindi lo gittò lontano a fracassarsi su le pietre del pavimento, gridando:
«viva la moria». Quindi intonò di nuovo la canzone che l'accidente di Fermo aveva interrotta; e
tosto a quella voce si accompagnarono tutte le altre di quel turpe coro. La musica infernale mista al
tintinnio dei campanelli, e allo strepito del carro rimbombava orrendamente pel vôto silenzioso
delle vie, e stringeva amaramente il cuore dei pochi rinchiusi nelle case dinanzi alle quali il carro
trascorreva.
Fermo vi stava ritto tuttavia ansante per la corsa, e per la tema avuta, agitato di dentro in una
successione fluttuante di passioni e di pensieri. Da prima provò un vivo ristoro del vedersi in salvo,
quindi dabbene come egli era, ringraziò Dio che lo avesse scampato da un tanto pericolo; ma non
lasciò per questo di sentire un gran rancore per quei bestiali suoi persecutori; qualche momento
dopo cominciò a parergli ben fastidiosa la compagnia di quei morti da cui era circondato, e di quei
vivi pei quali sentiva ad un punto riconoscenza, e orrore.
Pensò da poi che, se ben salvo, era pure ancor bene impacciato, pensò al modo di uscire dal fastidio
senza incappare di nuovo nel pericolo e di trovare il lazzeretto, dal quale egli era lontano forse chi
sa quanto; e forse se ne andava sempre più allontanando. Domandarne a quei suoi ricettatori, il
cuore non glielo diceva; sarebbe stato un esporsi a mille inchieste, attirarsi Dio sa quali parole,
impegnarsi in un colloquio né aggradevole, né troppo sano. Fermo era già anche troppo
imbarazzato in quella poca conversazione, che aveva dovuto fare con essi; vedeva che quegli che lo
avevano salvato erano sul conto suo nello stesso inganno di quelli che lo volevano morto; non si
curava di sgannare coloro, e nello stesso tempo sentiva troppa ripugnanza a dir cosa che gli
confermasse nel loro errore. Cercava quindi di lasciar cadere i discorsi, senza però mostrare né
ripugnanza, né sospetto, né fare atto che gli alienasse l'animo di quegli che alla fine erano i suoi
protettori in quel momento. Chi poteva sapere a che filo tenesse quel loro favore e la loro
condiscendenza; forse alla sola idea che Fermo fosse un propagatore della peste; il favore degli
uomini benevoli è talvolta così fragile, così permaloso, la buona gente si stanca talvolta per sì poca
cosa di proteggere un disgraziato; pensate poi una feccia di ribaldi come quelli. Per tutte queste
ragioni Fermo fu molto contento quando vide che essi non lo stimavano degno della loro
attenzione; e fu grato alle sue orecchie (che cosa non può divenir grata in questo mondo!) quel
canto, che lo toglieva dall'intrigo di quella conversazione. Intanto il carro s'era già allontanato
abbastanza, perché Fermo non temesse più di esser raggiunto dai suoi nemici; i quali del resto s'eran
dispersi; non restava che il pericolo di abbattersi in uno di quelli che lo riconoscesse, e gli aizzasse
di nuovo la gente addosso; pericolo lontano, ma che poteva crescere in proporzione della strada che
Fermo avrebbe ancora a percorrere. In questa tempesta di pensieri egli girava attorno uno sguardo
sospettoso e irresoluto, quando gli parve di riconoscere il luogo per dove passava, richiamò le sue
memorie, guardò più fisamente... - questa via non mi è nuova, di qua son passato certamente -.
Fermo non s'ingannava: il carro diretto alla gran fossa scavata dietro il lazzeretto e denominata il
Foppone di san Gregorio, scorreva nella via chiamata allora il borgo ed ora il corso di porta
orientale, per cui Fermo era entrato con molta maraviglia, ed uscito con molta paura un anno e
mezzo prima. Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta veduti, rendevano più vivo e più chiaro il
riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe la perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento
dei capuccini. Allora riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era il
lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce fosse l'affare che lo strascinava in
quel luogo, pure il povero giovane si sentì tutto rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio,
sicuramente, in carrozza, quale ella si fosse; questo gli parve un buon principio, e un buon augurio.
Oltrepassato il convento, Fermo pensò che sarebbe meglio spacciarsi da quella compagnia e uscir
dalla porta a piede. Vide che i monatti invasati nel loro canto non badavano a lui, fece un cenno di
saluto e di ringraziamento ad uno che gli era più vicino, e balzò dal carro in sul pavimento. Quel
monatto lo accompagnò con un saluto schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va, va,
povero untorello: tu non sarai quello che spianti Milano». Per buona sorte non v'era anima vivente
nella via che potesse udire quelle parole. Fermo s'indugiò, tirando presso al muro, tanto che il carro
si allontanasse; e a passo lento giunse presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove
erano addensati più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli aveva percorsa: passò
il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena esteriore del lazzeretto; il principio appena, e come la
mostra dei guai, e già una vasta, diversa, inenarrabile scena.
A noi, come certamente al lettore, incresce ormai un così lungo avvolgerci tra tanto dolore, e tanto
fastidio: quindi ci guarderemo dal tentare anche di descrivere a parte a parte quella scena: bastino
alcuni tratti generali a dare un'idea comunque dello spettacolo che s'offerse agli sguardi di Fermo.
Fin dove il suo occhio poteva giungere nello spazio che circonda al di fuori il lato meridionale e
l'orientale del lazzeretto, quello spazio era sparso di languenti, a cui non erano bastate le forze per
giungere fino al lazzeretto, di morti che ivi giacevano, era percorso da gente che entrava, da infermi
che ne uscivano, e che erravano sbandati, la più parte fuori di sè, quale imperversato, quale
istupidito. Altri pareva tutto infervorato a raccontare le sue sciaurate fantasie al tapino che giaceva
oppresso dal male, o ad un altro infelice, preoccupato da altre fantasie; un altro si mostrava assorto
e tranquillo in un immaginato contento; e quella apparenza di gioja e di serenità in mezzo a tanta
miseria, pure ne accresceva l'orrore; tanto è terribile all'uomo il vedere in altri oscurato quel lume
divino che lo fa esser uomo. Altri per un trasporto che fu notato in altre pestilenze, vogliosi
d'immergersi nell'acque, si gettavano nel fossato che gira attorno al lazzeretto; e vi morivano
affogati, o vi rimanevano disensati; taluno canticchiando, le ore, i giorni interi. Tra quella
confusione giravano monatti a prendere i morti, a contenere, a rispingere, a guidare nel lazzeretto i
miseri così vivi, giravano commissarj, delegati, a dare ordini, a dirigere come si poteva i monatti. E
Fermo scorrendo tra quella folla per avviarsi alla porta di quel lato che tira lungo la strada maestra,
Fermo doveva pure per quanto intollerabili gli fossero quegli oggetti, fissare sovr'essi lo sguardo
perché fra essi, uno di essi, poteva essere quello di ch'egli andava in traccia. Giunto su quella porta,
ristette sopraffatto dal nuovo spettacolo che gli si parava dinanzi e dattorno. Dinanzi, il vasto campo
interno del lazzeretto, ingombro qua e là di trabacche, di capanne, coperto e animato da un popolo,
del quale il veduto al di fuori non era che un saggio; e a destra e a sinistra le due interminate fughe
di porticato spesse pure, e gremite, e brulicanti a quel modo: uno sciame, un trambusto, un
rimescolamento da far vertigine, da offendere con subita fatica lo sguardo, quando fosse pure stata
una festa. Il cuore di Fermo fu soverchiato a quella vista; ed egli stette un momento in fra due se
dovesse tornarsene, e abbandonare una ricerca che superava le sue forze. Ma l'affetto dal quale egli
era stato tratto su quel limitare, aveva pigliato ancor più forza dalla incertezza, e l'immagine di
Lucia, forse inferma quivi, abbandonata, era divenuta più forte e più pietosa nell'animo di lui. Pensò
che se egli si ritraeva allora da quel luogo, vi sarebbe stato ben tosto sospinto di nuovo da tutti i
suoi pensieri: partirsi senza aver nulla saputo di Lucia, aspettarne le novelle, fin quando, da chi?
partir dal luogo dove soltanto si poteva sperare di trovarla: fuggire da dove ella era forse a pochi
passi di distanza... Fermo si mosse, rivolse una viva preghiera al Signore e si gittò in mezzo a quella
confusione, abbandonandosi alla scorta di Lui. Non aveva alcun filo per dirigersi, né una ragione
per cominciare la sua ricerca più tosto a destra che a sinistra, nel campo che sotto il portico; ma il
campo gli era in faccia, e s'ingolfò in quello alla ventura.
Nei principii della pestilenza il lazzeretto era stato scompartito in quartieri pei ministri e per quelli
che entravano ad esser curati: le femmine separate dai maschj, e ogni sesso suddiviso in sospetti, in
infetti, in quarantenanti. E già fin d'allora quell'ordine, come abbiam detto non s'era potuto
interamente serbare; ma nel bollore della peste, e nel crescere della moltitudine, tutto s'era
rimescolato, come una botte fecciosa nella furia del temporale. Oltre di che quello scompartimento
non era stato fatto che nel fabbricato, in tempo che nessuno prevedeva che questo non sarebbe
bastato, che l'immenso circuito interno sarebbe divenuto spesso, traboccante, insufficiente
anch'esso, e quando questo cominciò a popolarsi, (e cominciò con una folla) non fu possibile
applicare ad esso le divisioni già stabilite. Pure le sollecitudini dei sopraintendenti e principalmente
del Padre Felice, per mantenere quel primo ordine, nel fabbricato, ne facevano se non altro
rimanere qualche traccia; la massa principale e il fondo per così dire degli abitatori di ciascun
quartiere era del sesso e della condizione a cui quello era stato destinato. Se Fermo fosse stato
informato di ciò, si sarebbe diretto a destra, al lato settentrionale che guarda al cimitero di san
Gregorio; il qual lato era assegnato alle donne. Ma Fermo, come abbiam detto, era nuovo affatto di
quella bolgia, e non aveva una guida; quindi procedeva a caso, mettendo il piede dove scorgeva un
passaggio, dove il passaggio era meno intricato d'inciampi compassionevoli o ributtanti. Andava
d'una capanna nell'altra, s'appressava ad ogni giaciglio, dove vedesse una donna; guatava, e seguiva
la sua strada. Da per tutto lo stesso spettacolo così terribilmente variato, e così terribilmente
conforme: corpi immobili nella morte, o dibattuti nelle angosce mortali; miseri che brancolavano a
stento, o balzavano di luogo in luogo infuriati. I soli che si vedessero camminar ritti, e con un passo
regolare erano monatti, e religiosi, varii di vesti e di età: gli uni e gli altri intrepidi, occupati delle
loro faccende, come se fossero faccende ordinarie, con una fortezza che certo era cresciuta negli uni
e negli altri da una circostanza comune, la consuetudine ormai antica di quegli orrori; ma era nata
da principii, quanto lontani! negli uni una selvaggia ed empia durezza, negli altri una carità più forte
della commozione. La più parte di essi s'era conservata a quei servigi, non per ubbidienza, (e certo
un volonteroso e pronto obbedire in tali circostanze non è una virtù volgare) ma per un impulso
spontaneo: molti avevan fatto broglio per esser deputati al lazzeretto; avevan reputato guadagno la
perdita della vita, e questo guadagno era già toccato ad un buon numero di essi: taluno perfino,
passando dal disprezzo della morte al desiderio, e dal desiderio alla ricerca, trascurò le cautele che
pure erano compatibili con l'opera, quasi per non lasciarsi sfuggire il premio. Il che si chiamerebbe
volentieri un bell'eccesso, chi non riflettesse che la religione proscrive tutti gli eccessi; perché il
saggio, il temperato, il ragionevole ch'ella comanda o consiglia, è più nobile e più bello di
qualunque esaltazione fantastica.
Nel suo tristo giro, Fermo s'abbattè in un luogo dove quella carità offriva uno spettacolo singolare.
Vide nel campo un picciol parco, una steccaja, come per tenervi ragunato un gregge. Si avvicinò;
v'era in fatti un gregge di capre; e il vecchio pastore, con una lunga barba bianchissima, succinto e
affaccendato, era un capuccino. Le capre davano la poppa; ma quali erano i piccioli lattanti!
bambinelli che raccolti in quel recinto presso la madre spirata, o staccati dal petto inanimato eran
quivi portati a vivere. Quel nuovo pastore sprimacciava un letticciuolo di paglia ad un bambino, ne
accostava un altro alle mamme; i belati rispondevano ai vagiti; e alcune di quelle nuove nutrici già
avvezze a tali allievi si avvicinavano, e si acconciavano ad essi come con senso umano; alcune
perfino distinguevano quello che era loro toccato il primo, distinguevano il suo grido, e si
ritraevano, strepitavano se un altro bambino veniva presentato alle loro poppe.
Fermo ristette ivi alquanto a contemplare la novità dello spettacolo, e a riposarvi gli occhi affaticati
d'orrore. Ma movendosi di quivi vi si trovò ingolfato di nuovo; e rifinito dalla lunga costernazione,
dalla fatica e dal digiuno, egli pensava già ad uscire di là, per riprendere se non altro nuove forze
col riposo, per andare in traccia di cibo. Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di
movimenti un altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le
portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto.
Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento, persuaso
ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano. Camminando sempre verso quel luogo,
e tenendo di mira il pentolone, perché il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi
per gli oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia, e
recarsi in mano una scodella, e mangiare. Era il frate rivolto con la faccia verso Fermo che veniva;
e questi guardandolo più attentamente credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona,
perché non era tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto. In quel baleno sentì egli
una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che Agnese gli aveva detto di
Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella speranza come una illusione. E pure ad ogni
passo la somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo.
Era proprio il Padre Cristoforo. Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo della peste
dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di tonaca e di capuccio non avevan
potuto togliere dalla mente una rimembranza del tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva
desiderato per quarant'anni di finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella
occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati. Fu esaudito:
il Conte Zio del Consiglio segreto era morto, e del resto in quella confusione, e in quel bisogno di
soccorsi, anche un puntiglio avrebbe potuto essere posposto, o dimenticato.
Fra Cristoforo, ricevuta l'obbedienza, venne a dirittura a Milano, si presentò al convento, fu
mandato al lazzeretto, e vi stava da un mese. Aveva quivi una sua capannuccia, e s'era fatto
all'intorno come un picciolo distretto, pel quale girava, facendo il confessore, l'infermiere, il cuoco,
agli appestati che si succedevano in quello spazio; e in quel mese aveva forse veduta rinnovarsi otto
o dieci volte la popolazione di quel suo distretto.
«Padre Cristoforo!» gridò Fermo con un tuono tra l'esclamazione e la chiamata, a quaranta passi di
distanza, quando fu certo che vedeva realmente quell'uomo che egli avrebbe tanto desiderato, se
non avesse creduto cosa impossibile che un tal desiderio potesse essere soddisfatto.
«Vengo», rispose tosto il Padre, credendo d'esser chiamato come gli accadeva ad ogni istante, per
qualche servizio dei suoi infermi; e messa a terra la scodella, levò la testa, per vedere se qualche
altro segno gl'indicasse il canto donde era venuta la chiamata. Ma vide invece un giovane sano e
diritto che s'avvicinava; e riconobbe tosto Fermo, il quale giunto a lui, tra la consolazione e la
maraviglia non seppe dir altro che: «Padre Cristoforo!»
«Tu qui!» sclamò questi: «che vieni a cercare in questo luogo? la peste? la morte?»
Mentre il frate proferiva queste parole, Fermo lo guardava fisamente, e sentiva amareggiarsi la
consolazione, che aveva provata nel primo istante di quel ritrovamento. Il volto del frate era mutato,
ben più, e bene in altro modo che non avessero potuto fare per sè quei venti mesi cresciuti alla sua
vecchiezza, né le fatiche. Gli occhi già così vivaci erano spenti, le guance scarne, sparute, tinte d'un
pallore cadaverico, la voce aveva un non so che di crocchiante; e in tutto si vedeva una natura
sopraccaricata, e quasi esausta, sostenuta e alimentata da una costanza interiore. Fermo con la trista
pratica che aveva dovuta acquistare, s'addiede tosto che il suo buon protettore era colpito dalla
peste, sicché invece di rispondere lo richiese ansiosamente: «Ma ella, padre, come sta ella?»
«Come Dio vuole», rispose il vecchio, «non parliamo di questo. Ma tu, dimmi, come, perché sei tu
in questo luogo? Perché vieni così ad affrontare la peste?»
«L'ho avuta, e ne sono uscito salvo, grazie a Dio. Vengo a cercare... Lucia».
«Lucia!» sclamò il Padre: «Lucia è qui?»
«È qui», rispose Fermo, «se pure... v'è ancora».
«È ella tua moglie?» domandò il Padre.
«Ah no!» rispose Fermo con un sospiro; «ma s'ella vive... lo sarà, spero;... ne son certo... perché
no? Oh padre! quante cose avrei da raccontarle!»
«Padre Vittore!» gridò il vecchio ad un suo giovane confratello che girava quivi poco distante; e
che accorse tosto: «Padre Vittore, fatemi la carità di attendere a questi miei poveretti mentre io me
ne sto ritirato un quarto d'ora; se però alcuno mi volesse, compiacetevi di chiamarmi». Il Padre
Vittore accettò l'incarico, e il Padre Cristoforo disse a Fermo: «Vien qua dentro con me: sii breve:
le faccende son molte, come tu vedi, e il tempo è scarso, misurato... Ma che? tu sei ben rifinito: hai
tu bisogno di cibo?»...
«A dire il vero...», rispose Fermo.
«Piglia di quello che dà il convento», disse il frate con una frase usuale capuccinesca. E tolta una
scodella, la riempì della minestra del pentolone, e la porse a Fermo: soggiungendo: «Quando la
provvigione è finita, Iddio ne manda: più volte quando ci siam trovati lì lì per rimanere in secco, ci
son venute le carra di roba, senza che sapessimo da chi mandate; né ancora lo sappiamo. Entra, e
mangia questa carità; e avrai anche uova e pane, e un bicchiere di vino: tu ne hai bisogno, a quel
che veggio». Così dicendo raccolse anch'egli la scodella che conteneva il resto del suo pranzo, ed
entrò con Fermo nella capannuccia, e sedette con lui sul saccone che gli serviva di letto.
Fermo, tra un cucchiajo e l'altro raccontò succintamente la storia di Lucia, o la parte che gli era
nota; come il frate di Monza l'aveva posta in guardia della Signora, come ella era stata rapita...
«Gran Dio!» sclamò a quel punto il padre Cristoforo: «ed io... io l'ho indirizzata in quel paese! Ma
voi sapete ch'io la toglieva da un pericolo evidente, e credeva di porla a salvamento. Parla», seguì
poi con voce animata, «finisci questa storia dolorosa».
Fermo, in poco più parole che noi non ve ne impieghiamo, proseguì a narrare come Lucia fu
condotta al castello del Conte del Sagrato, come mirabilmente da questo renduta alla madre, come
collocata poi in casa di Don Ferrante. E qui il frate respirò più liberamente. Fermo narrò pure le sue
imprese, non senza vergogna; la sua fuga, e la sua dimora in Bergamo, la sua risoluzione di venire a
sapere che accadesse di Lucia, il suo viaggio a Lecco, le sue ricerche di quella mattina, e la notizia
ch'egli aveva ricevuta da quella signora alla finestra, che Lucia era al lazzeretto. «Onde»,
conchiuse, «vengo a cercarla qui; vengo a vedere s'ella è viva, se si ricorda di me, se mi vuole
ancora...»
«O giovane!» disse il Padre Cristoforo, «e in questi tempi, fra questi oggetti, tu hai potuto, tu puoi
ancora occuparti di tali pensieri?»
«Ma, caro padre mio...» cominciò per rispondere il giovane; e non seppe dir più: perché sentiva egli
bene una grande importanza in quei suoi pensieri; erano per lui un affare molto serio; ma era
impacciato a trovar le parole convenienti per esprimere una tale idea ad un vecchio capuccino, che
era venuto quivi a vivere, a morire, nel ribrezzo, e nelle fatiche per servire a sconosciuti. Parlar
d'amore, accennarlo pure con circollocuzioni, addurre l'amore come un motivo importante, come
una faccenda, in quel luogo, ad un tal uomo, pareva a Fermo una vergogna: e in fatti però non
avrebbe potuto parlar d'altro, perché l'amore era il motivo che l'aveva condotto lì. Ma il buon frate
lo cavò tosto d'impaccio, rispondendo per lui. L'interrogazione mista quasi di rimprovero che gli era
uscita, non veniva dal fondo della sua mente: erano di quelle parole volgari, che precedono la
riflessione, e delle quali anche gli uomini avvezzi a riflettere contraggono l'uso dalla conversazione
comune.
«Tu hai ragione», diss'egli a Fermo che esitava: «tu hai ben fatto. Quei che stanno per morire,
debbono pensare alla morte, non altro; ma l'uomo che è nel vigore della salute e dell'età, l'uomo che
può vivere ancora, deve, pensando alla morte, provvedere alla vita; non per cercare in essa un
contento che non v'è, ma per condurla, secondo l'ordine di Dio, fino alla morte. Tu seguivi
quest'ordine quando cercasti una compagna della vita, una compagna d'affetto, di occupazioni, di
travagli, di consolazioni e di preghiere. Iddio permise che il mondo vi separasse. Fu ella una prova?
o era volere di Dio che voi vi santificaste divisi, che dopo esservi avviati insieme, giungeste a Lui
per diverse strade? Egli lo sa. Tu intanto ben fai di stare in quel proposito ragionevole da cui la sola
violenza ti aveva allontanato: ben fai di andare in cerca di quella creatura alla quale tu hai promesso
d'essere un compagno e un appoggio. Ma come sei tu indirizzato a trovar qui Lucia? hai qualche
indizio della parte dov'ella fu riposta, del quando venne?»
«Nulla, caro padre, nulla, se non che ella è stata condotta al lazzeretto».
«Oh poveretto!» disse il padre Cristoforo: «egli è come se ti fosse stato detto che un anello è caduto
nel lago, e tu vi ti attuffassi a caso per ripigliarlo».
«Girerò, cercherò, guarderò», disse Fermo.
«Ascolta», disse il frate; «gli appestati che son guariti in questo luogo (ahi che picciola parte di
quelli che vi sono entrati!) quegli fra loro che ponno reggersi e camminare, debbono oggi esser
condotti al Gentilino, al di là della città, fuori di porta Ticinese, a fare la quarantena: v'era ben
destinata qui una parte del fabbricato a tale uso; ma il fabbricato e il recinto non bastano come vedi
agli infermi. Questi che debbon partire si vanno ora ragunando intorno alla Chiesa che è nel mezzo,
per moversi di là tutti insieme: jeri sono stati avvertiti e... sta: odi tu una squilla tra questo doloroso
mormorio? è il terzo tocco della campanella che li chiama. Va dunque colà; osserva tra quella
brigata, se tu vedi colei che tu cerchi; se ella è fra le spighe rimaste in piedi dopo la messe. Se non
ve la scorgi; fa cuore tuttavia, e cammina innanzi verso questa banda (e accennò a mano manca).
Quella banda del fabbricato», seguì poi, «è stata da principio destinata alle donne. Ora, a dir vero,
tutto è confuso; pure quella poveretta certamente, sarà rimasta al luogo dove l'avranno collocata; e
se v'è ancora speranza di trovarla, è da quella parte. Cercala ivi; Dio ti conduca: e che che avvenga
delle tue ricerche, prima d'uscire da questo recinto, vieni ancor qui a darmene conto: anch'io vorrei
saper s'ella vive!»
Il padre Cristoforo proferì queste parole con una commozione compressa, e presa la mano di
Fermo, che aveva finito di ristorarsi, e s'alzava, lo condusse su la porta della capanna, e gli segnò
più distintamente il lato dove doveva fare le sue ricerche.
«Vado», disse Fermo; «lo scorrerò tutto, guarderò di stanza in stanza, di capanna in capanna; se non
è quivi, girerò tutto il lazzeretto, e se non la trovo...»
E a questa sospensione tutto ad un tratto s'oscurò in volto, stravolse gli sguardi, e mandò un soffio
di furore dalle labbra tremanti.
«Se non la trovi?» disse il padre in contegno di gravità, e di aspettazione, tenendolo forte per mano.
«Se non la trovo, farò di trovare qualche altro. O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo
del mondo o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante, che ci ha separati: quel birbone, che se non
fosse stato egli, Lucia sarebbe mia da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo
morti insieme, almeno avremmo potuto soccorrerci; essa non sarebbe qui abbandonata, io non sarei
qui mezzo disperato. Lo troverò colui, e se la peste non ha fatto già una giustizia...»
«E se lo trovi?» disse il padre, con una gravità fatta più severa e quasi sdegnosa.
«Non è più il tempo», continuò Fermo, sempre più cieco di collera, «non è più il tempo che un
poltrone coi suoi bravi, coi suoi giudici, coi suoi amici prepotenti faccia tremare: è venuto il tempo
che gli uomini s'incontrino da solo a solo...»
«Sciaurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripigliata tutta l'antica pienezza e
sonorità: «sciaurato!» e il suo capo gravato sul petto s'era sollevato, le guance si coloravano
dell'antica vita e gli occhi mandavano le antiche faville. «Guarda, sciaurato!» e così dicendo,
mentre con una mano stringeva e scoteva forte la mano di Fermo, girava l'altra distesa in cerchio
dinanzi a sè, verso la scena dolorosa che li circondava. «Guarda chi è Colui che castiga! Colui che
giudica, e non è giudicato! Colui che percote e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far
giustizia! Tu sai, tu, quale sia la giustizia? Va, sciaurato, vattene! Io sperava... sì, ho sperato che,
prima di morire, Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentire che la mia povera Lucia fosse
viva, forse di vederla, e di sentirmi promettere ch'ella manderebbe una preghiera là verso quella
fossa dov'io sarò. Va; tu m'hai tolta la mia speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo
non hai l'ardimento di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei; poiché ella era
di quelle anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va; non ho tempo di più darti retta».
E, così dicendo, gettò da sè la mano di Fermo, e si mosse verso una capanna d'infermi.
«Ah padre!» disse Fermo con voce affranta, «mi vuol ella mandar via a questo modo?»
«Come!» riprese con voce non meno severa il capuccino: «ardiresti tu di pretendere ch'io rubassi il
tempo a questi afflitti, che aspettano ch'io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di
rabbia, i tuoi disegni di vendetta? Ti ho ascoltato quando tu potevi aver bisogno di conforto,
chiedevi consolazione, e indirizzo; mi son tolto alla carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta
in cuore; che vuoi da me? Vattene; ho veduti morire qui degli offesi che perdonavano; degli
offensori, che avrebber voluto potersi umiliare dinanzi all'offeso: ho pianto con gli uni e con gli
altri; ma con te che posso fare?... se tu non gli perdoni da vero, e...»
Il suono di queste ultime voci era raddolcito, e l'aspetto del vecchio nel proferirle, pure in mezzo
alla severità annunziava una tenerezza pronta a scoppiare.
«Ah gli perdono!» disse Fermo piangendo: «così Dio perdoni a me! così possa io tornar qui a dirle
che Lucia è viva, che Lucia vivrà».
«Vien qua» disse il padre, pigliandolo per mano; e lo ricondusse nella capannuccia, e lo fece seder
come prima presso di sè. Fermo stava tutto intento e commosso.
«Sai tu», disse il padre, «perché io porto quest'abito?»
Fermo esitava: «Lo sai tu?» riprese il padre.
«Lo so», rispose Fermo.
«Tu sai che questa mano ha ucciso!»
«Sì, ma un prepotente che l'aveva aizzato, uno di quei...»
«Taci», interruppe il frate. «Credi tu che se vi fosse stata una buona ragione, io non l'avrei trovata
in quarant'anni? perché, son quarant'anni ch'io vi penso, e grazie a Dio, per quarant'anni ne ho avuto
dolore, e mi sono accusato: e ho pregato Dio che in segno del suo perdono eterno, Egli mi punisse
in questa vita, che pigliasse la mia in sacrificio, come io aveva ardito disporre di quella d'un uomo;
che mi facesse morire in servizio d'altrui; e spero d'essere esaudito. Non creder tu ora dunque di
poter consolarmi: consolati piuttosto di essere tu in tempo a perdonare: non ispender vane parole;
ascolta piuttosto le mie; v'è dentro il pensiero di tutta la mia vita, della men trista parte di essa. Sai
tu perché io ho ucciso? Perché v'era una cosa ch'io amava troppo. Sì, figliuolo, ciò ch'io chiamava il
mio onore, io lo amava ardentemente, sopra ogni cosa, come avrei dovuto amar Dio. E quando la
vita d'un uomo... gran Dio! la vita d'uno fatto a vostra immagine! si trovò in confronto col mio
onore, io gliel'ho sagrificata. M'hai tu inteso!»
Fermo tutto commosso, rispose sinceramente: «padre sì». In fatti egli intendeva qualche cosa di
molto ragionevole, che bisogna amar Dio sovra ogni cosa, e non ammazzare. Ma l'intento di quel
discorso non passava nel suo intelletto: l'uomo che esprime le idee che sono state per lui soggetto
d'una lunga e ripetuta meditazione, è oscuro, senza volerlo, anche per gente più colta che non fosse
il nostro giovane montanaro.
Il padre Cristoforo continuò: «Il mio affetto era stolto, e superbo: il tuo è ragionevole e buono; la
mia era passione non solo d'uomo furioso, ma di ragazzo stolido; perché che voleva io? che voleva
io ad ogni costo? camminar rasente il muro, e non pigliare il mezzo della via; e tu, tu pensi da uomo
savio a desiderare per tua compagna una di quelle donne che il cielo destina come un premio ai
buoni; quella che tu scegliesti, e che ti scelse. Ma il tuo affetto diventa ingiusto, diventa stolido
com'era il mio, se tu non lo sottometti al volere di Colui che solo può renderlo santo. E un tale
amore, bada bene alle mie parole, un tale amore, quando tutto ti andasse a seconda, quando tu
ottenessi ciò che più desideri, un tale amore tosto, o tardi, più tosto che tardi, ti tornerebbe in
amaro: come; io non lo so, ma senza dubbio: e parlo dal tetto in giù. Or pensa che bel conforto
avresti di questo amore, se, perduto ciò che te lo fa parer tanto dolce, non te ne rimanesse che un
odio, nessuna speranza che d'una vendetta, nessun frutto che un omici...»
«Non lo dica», interruppe Fermo, come atterrito.
«Rendi grazie a Dio», riprese il padre, «che tu non abbi a pentirti che d'un pensiero. Ma il pentirsi
del fatto... ah! è ben amaro! E il non pentirsi è orrendo, orrendo più che non si possa comprendere
in questa vita. Fermo! giuri tu il perdono?»
«Ah! lo giuro», rispose Fermo in tuono solenne.
«A chi giuri tu di perdonare?»
«A quell'uomo...»
«A chi?»
«Sì, padre, a Don Rodrigo».
«Sì, Fermo, a Don Rodrigo: è un nome che fu posto sul fonte della rigenerazione ad una creatura
redenta col Sangue d'un Dio; è un nome che forse è scritto sul libro della vita: perché Dio perdona;
guai a te, se non fosse!» Dette queste parole, il vecchio stette pensoso un momento, tenendo tuttavia
la mano di Fermo, poi abbandonatala, prese la sua sporta, ne trasse dal fondo un pezzo di pane
arido, e scolorato, lo mostrò a Fermo, e disse:
«Vedi tu questo pane? Lo conservo da quarant'anni; l'ho mendicato nella casa di quello sventurato...
l'ho avuto dai suoi come un pegno di pace, e di perdono. Ah! se avessi potuto prenderlo dalle sue
mani! Prendi», - e porse il pane a Fermo - «conservalo ora tu: è il dono ch'io posso lasciarti per mia
memoria. E se, come spero, Iddio ti vuol condurre per quella via alla quale pare che Egli ti avesse
chiamato, se tu sarai padre; mostra questo pane ai tuoi figli, conta loro la mia trista storia, di' loro
che preghino pel povero capuccino, che morì pentito. Saranno provocati, saranno offesi; di' loro che
perdonino sempre, sempre, tutto, tutto. Tu rimani a vivere in un secolo doloroso: i giorni che noi
veggiamo son cattivi; quei che si preparano saranno peggiori: i figli dei provocatori, dei superbi, dei
violenti, lo saranno più dei padri loro. Gran Dio! questo flagello non corregge il mondo: è una
grandine che percuote una vigna già maledetta: tanti grappoli abbatte; e quei che rimangono, son
più tristi, più agresti, più guasti di prima. Tu stesso, o Fermo, tu stesso, qui dove l'uomo non
dovrebbe aver cuore che per la misericordia, tu odiavi ancora!»
Fermo non disse nulla, ma il suo volto esprimeva il pentimento.
«Or va», disse il padre alzandosi, «Iddio benedica le tue ricerche».
«Vuol dire, padre, ch'io la troverò richiese Fermo ansiosamente, come se parlasse ad uomo che
ne potesse saper più di lui.
«Cercala con perseveranza», rispose il padre, «cercala con fiducia, e con rassegnazione. Iddio può
fare che tu la trovi, ma non te l'ha promesso. Ti ha promesso di perdonare tutti i tuoi falli, se tu
perdoni a chi t'ha offeso, ti ha promesso di renderti felice per sempre al fine di questa vita, se tu
osservi la sua legge. Non ti basta? Va; e qualunque sia il frutto della tua ricerca, vieni a darmene
contezza: noi ringrazieremo Dio insieme».
Così dicendo, egli pose le mani su le spalle di Fermo, e stette un momento colla faccia elevata in
atto di preghiera e di benedizione. Poi staccandosi, disse; «Intanto io pregherò per voi; assistendo a
questi vostri fratelli, io pregherò per voi». Fermo si prostrò ginocchioni, stette un momento con le
mani compresse al volto piangendo, e pregando; s'alzò, guardò intorno, uscì dalla capanna, e si
diresse alla Chiesa, come gli aveva indicato il capuccino. Egli era scomparso, e andava cercando
intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza.
<B>CAPITOLO VIII</B>
All'intorno del picciolo tempio v'era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi,
lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran
silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio. Questo,
elevato d'alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte
in circolo; nel mezzo v'era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo
agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati. Ritto, su la predella dell'altare stava un capuccino,
alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che
gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l'altra mano accompagnava di gesti il discorso
che andava facendo. Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto. Fermo, giunto
sull'orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a
cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto
quello dell'oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l'ordine; quella quiete
generale, quell'attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni
movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità
della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.
«Diamo adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di misericordia,
pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono,
quanto pochi al paragone siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne
Iddio. L'anima nostra ha guadato il torrente; l'anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici:
benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte,
benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch'Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì
smisurato eccidio! Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta
da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di guaj, diamo uno
sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah
quanto pochi, potranno come noi afferrare un porto terreno. Ci vedano uscirne, rendendo grazie per
noi, ed elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì popolosa, noi scarsa restituzione
dell'immenso tributo ch'essa mandò in questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo
scemato sì, ma rigenerato. Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le labbra.
Quegli che son ritornati nella pienezza dell'antico vigore, porgano un braccio soccorrevole ai
fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali
la salute ritornata non apporta che pochi giorni di stento. E se in questo soggiorno di prova, in
questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se
abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità; ebbene! non
abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.
Per me...»
E qui l'oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che gli stava ai piedi,
se la avvinghiò al collo come ad un malfattore, cadde ginocchioni, e proseguì:
«Per me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per una ineffabile
degnazione trascelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; se, come è pur troppo, non abbiamo
degnamente corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande
ministero... perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri
bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha
fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela
d'Adamo ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza, e di scandalo,
perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che delle sue proprie colpe!»
Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l'umile e cordiale suo prego era
accetto ed esaudito. Un singhiozzo, un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a
rispondere. Dopo qualche momento il frate s'alzò, prese la croce ad ambe mani, e l'inalberò; scese
dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo in pace»; poi intonò il
<I>Miserere</I>; e scalzo, portando dinanzi a sè quell'alta croce pesante, scese gli scaglioni del
tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura della
città; e s'incamminò verso quella. Dietro lui s'avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che
potevano reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali tenevan per mano, o
nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi
gli uomini pur cantando; poi carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle
che in tanta confusione s'eran potuto serbare, e raccogliere. Ultimo veniva quell'altro capuccino che
abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con gli occhi e con la
voce, teneva in sesto il convoglio. Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più
autorevole, e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.
Fermo, tosto ch'ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte s'avviava, entrò di
nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi, senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di
nuovo su la strada per dove la processione doveva passare. Dalla porta meridionale al tempio v'era
infatti come una strada, uno spazio che s'era lasciato sgombro di capanne per dar passaggio ai carri
degli infermi che per lo più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta
e a sinistra, come si poteva. Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il vecchio
crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran battito al cuore, esaminò le
donne che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due. Passa,
passa; guarda, guarda: qui non v'è, qui né pure; più che la metà è passata; poche ne rimangono;
compajono le ultime della fila femminile; ecco gli uomini: Lucia non v'era. Quanta speranza
svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne.
Stette dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri.
Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come accade nelle processioni e nelle marce d'ogni
genere; di modo che Fermo potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla
sua vista; e che Lucia non v'era. Le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l'unico, o
almeno il più forte filo delle sue speranze. Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista
rassegna, egli sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei tanti
portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma pure, come si suole egli metteva il
suo desiderio sul guscio della speranza, e faceva traboccare le bilance da quella parte. Ma ora, egli
credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la contingenza
più lieta per lui, l'unica sua speranza (quale speranza!) era ormai ch'ella fosse ivi languente, ma
viva.
Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo pensare dove
andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio.
Quivi gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: - Se non ve la scorgi, fa cuore
tuttavia... Cercala con rassegnazione. - Si prostrò su gli scaglioni del tempio, fece a Dio una
preghiera, o per dir meglio, un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di
domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non
hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza
grandi per sentirne compassione senza disprezzo. Si levò di là più rincorato e si avviò. Dal tempio
alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta,
un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano
capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni
giorno nel lazzeretto. Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il
passo alla meglio, tra l'incontro continuo dei carri e l'inciampo frequente di altri tristissimi
ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta. Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che
entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché
affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al
fabbricato. Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d'una
in altra, guardando. Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l'una delle quali
aveva l'apertura sul suo passaggio, e l'altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella
prima, sentì venire dall'altra, per lo fesso delle assacce ond'era connessa, sentì venire una voce...
una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una
modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse
in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non
dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai».
Se Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di
farsi troppo scorgere e d'essere preso o cacciato; fu perché gli mancò la voce. Le ginocchia gli
tremarono sotto, la vista gli s'appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una
gran sorpresa rimane qualche cosa d'importante da farsi o da sapere, l'animo gli ritornò tosto, e più
concitato di prima. In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto,
che andava assestando.
«Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»
Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide
che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e
Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in
compendio le sue vicende dal punto in cui l'abbiamo lasciata.
Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza
severa di Donna Prassede. Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le
altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava
tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune. Pensò ella
che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa.
Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli
comunicasse la pestilenza. Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non
avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le
conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e
contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò. Donna Prassede s'era ritirata con la signora
Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di
dovere andare a spasso, pensava a farsi un po' di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo
esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di
prestargli qualche servigio. Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran
sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse
portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto. Così fu fatto, e
così avvenne. Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender
cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l'uso delle
sue facoltà se non quando il male fu superato. Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in
quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure,
in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l'aspettazione continua dei
mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran
ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero
avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì. La capannuccia non capiva
che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia. Finalmente,
quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d'un
ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via. Questa
rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della
sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e
gli aveva raccomandata sè e la sua casa. Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece
portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze.
Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra
quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue,
s'era formata una strettissima amicizia. La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta
nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo
publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di
facile smercio. Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè,
come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che
glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua
madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile. Ciò ch'ella aveva promesso alla sua compagna
era di non abbandonarla finch'ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s'era unita
ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice. Ma la buona vedova
avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione,
esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui
trovava la quiete dell'animo suo. E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette
le soavi parole che colpirono l'orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.
Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s'era rivolto su la persona alla quale
quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.
«Ah! siete viva; e v'ho trovata!» diss'egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna.
«Voi!» sclamò Lucia.
«Son venuto qui per cercarvi, e v'ho trovata!» rispose Fermo.
«E la peste?»
«L'ho avuta».
«Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: - me ne rallegro
infinitamente -. «Ma come... qui?»
«Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m'hanno detto che eravate qui; ci son venuto».
«Oh Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e con una voce che
i singhiozzi stavano per interrompere. Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese
ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia madre?»
«L'ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere... era tutta in pensiero per voi, e sospira di
vedervi».
Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.
Fermo continuò: «sospira di vedervi, e crede... tiene per sicuro... Ma voi,... voi, mi parete stupita...
ch'io sia venuto a cercarvi. Io... son sempre lo stesso... non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»
«Tante cose!» rispose ella sospirando.
«Ecco!» disse Fermo: «sa il cielo che cosa v'avranno detto di me!»
«Che importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»
«Dunque...»
«Dunque... io credeva... che dopo tanto tempo... dopo tanti guai... non avreste più pensato a me».
«L'avete creduto? e me lo dite? quando son qui...»
«L'ho creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo, «l'ho creduto,
perché sarebbe stato meglio... è meglio».
Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste parole, chinò
anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per riposarsi d'un grande sforzo.
«È meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso nel volto di Lucia
per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure parole. «È meglio! che cosa v'ho fatto io? è
colpa mia se... Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un
momento... e... ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto
pensare a voi! dopo... Parlate chiaro: dite che non mi volete più; dite il perché; non mi fate...»
«Fermo», disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava, aveva cercato di
raccogliere tutte le sue forze. «Fermo! ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete
questa buona creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi. Io non sarò mai di nessuno... e non
posso più esser vostra».
«No non l'avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l'ascolto: che ho fatto io?
perché? chi ve l'ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi c'è entrato? voglio saperlo».
«Zitto zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia. «Quando lo saprete, se siete
ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte così».
«Parlate per amor del cielo!»
«Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»
«Lo so, lo so, e... gli ho perdonato».
«Ora sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia bocca. In una
notte... Vergine santissima! qual notte!... lontana da ogni soccorso... senza speranza di liberazione...
sola... io sola, in mezzo... all'inferno, ho guardato in su, ho domandato l'ajuto di quel Solo che può
fare i miracoli... ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una promessa... mi son votata alla
Madonna, che se per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo, non... sarei mai stata sposa
d'un uomo».
«Ahi! che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»
«Ho ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».
«Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata. Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate fate un tal
voto».
«L'ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio liberi! Egli pure è
sempre a tempo a pentirsi d'avermi salvata. Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi
pregherò io? che promessa potrei fare?»
«Lucia!» disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»
«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire delle
parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbe forse peccati, sareste voi
contento? Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù». Dopo queste parole,
le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch'io son guarita, che
ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero ch'ella sarà preservata da questi
guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo. Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate
di me, che quando pregate il Signore».
«Lucia!» disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri figliuoli senza
studio: quel brav'uomo, quel gran religioso, quel nostro padre, il padre Cristoforo...»
«Ebbene?»
«È qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».
«È qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la sua voce! È egli
sano?»
«È in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto... Dio voglia che sieno gli anni, e le fatiche!»
«Voi l'avete veduto!» disse Lucia.
«L'ho veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi, mi ha fatto
promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche. Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati;
e spero che ci ajuterà anche in questa occasione».
«Che dite voi? che volete ch'egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti... che vi ajuti a sopportare.
Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga a trovarmi, a consolarmi, e voi... voi...» -
Non tornate più qui per amor del cielo, - voleva ella dire, ma non lo disse. Dopo fatto quel voto,
Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che
alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il pensiero
stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto. Ma quando Fermo parlò d'una
speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò
nella mente un: - chi sa? -, intravide come non impossibile che il Padre Cristoforo potrebbe trovar
qualche mezzo... e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate».
Egli partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e s'avviò alla capanna
del buon frate.
La vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel personaggio
sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia, la quale, come si è potuto vedere
in altre parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di
matrimonio, né per conseguenza delle vicende conseguenti. Ma ora non potè scusarsi di fargliene il
racconto; e a dir vero, la disposizione d'animo di Lucia in quel momento s'accordava assai bene con
le voglie curiose e benevole ad un tempo della vedova. Quelle memorie compresse e rispinte per
tanto tempo, s'erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all'animo di Lucia, che il
parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario. Dopo aver dunque risposto alla meglio ai
rimproveri che la vedova le fece di un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu
spesso interrotto dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.
Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto lì fuori presso,
che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era ritirato nella capannuccia senza dar voce né
far segno che turbasse quel pio e doloroso uficio. Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si
mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch'egli aveva
fatta di Lucia viva e sana, e quell'altra scoperta che era venuta, come a tradimento, a guastargli una
tanta consolazione. Benché egli in questa parte del racconto volesse aver l'aria di chi propone un
dubbio superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d'un sapiente, pure non lasciò scappare nessuna
occasione di qualificare d'imprudenza e di pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito.
Così faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell'e fatto; e intanto guardava attentamente al
volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero, dal quale avrebbe potuto dipendere la sua
sorte. Ma non potendo leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il
Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di consolarla forse,
e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche tempo i suoi infermi.
Dopo essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che era
stato tra i suoi pensieri. «Ho un dovere con quella creatura», diss'egli. «Dio l'aveva in altri tempi
indirizzata a me, ed ora non me l'ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle utile.
Andiamo».
Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse con Fermo.
Questi andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi al viale per cui
era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva dietro.
Gli oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato l'animo di
quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che
scendesse e pesasse una mestizia più cupa e più grave dell'ordinario.
Una nuvola comparsa all'occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e alla oscurità
crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il sole lontano ancor forse due ore dal tramonto
non avesse mostrato come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro,
donde partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che mandava una
caldura morta e gravosa. L'aria non dava un soffio: non si vedeva muovere una tenda delle
trabacche, né piegar la cima d'un pioppo nelle campagne d'intorno. Solo si vedeva la rondine,
sdrucciolando rapidamente dall'alto, rasentare con l'ali tese, per un picciol tratto la superficie
ingombra e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l'aria in cerchii veloci, e
piombar di nuovo. Un'afa faticosa prostrava gli animi con una oppressione straordinaria: la lotta del
morire era più affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall'ambascia; il movimento delle
opere era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della morte e della
infermità un non so che di più livido; un non so che di più squallido all'abbattimento ond'erano
atteggiate le figure dei sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un'ora amara
al par di questa.
Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell'ora con gioja per tutta la vita; era la
preparazione d'una burasca, che scoppiò la notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua,
dopo la quale il contagio cessò quasi ad un tratto.
Sotto il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa il
primo e con l'animo diviso fra lo studio della via, fra l'orrore delle cose che vedeva, e l'ansietà del
suo destino futuro; e l'altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare un
più libero respiro, e per secondare con quell'atto una speranza interna.
«È qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v'entrarono che Lucia col volto
lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.
Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia ov'era
seduta, e gli si gettò incontro su la porta.
«Oh Padre!... Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni della morte in
volto.
«Come Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò bene affatto».
«Come?...» disse Lucia.
«Come Dio vorrà», riprese egli tosto. «Parliamo ora di voi, per cui son venuto».
«Oh Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.
«Quante cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti, seduti in su la porta della
casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar volentieri a farne lunghi discorsi. Ma qui il tempo
è misurato». E tosto trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:
«Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».
«È vero», rispose Lucia, arrossando.
«Avete voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno solenne di
matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della quale avevate già disposto? E che
riprendevate una parola già data, senza sapere se quegli che l'aveva ricevuta avrebbe consentito a
restituirvela?»
«Ho fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso.
«Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo il Frate: «avete
chiesto consiglio?»
«Non ho ardito», rispose Lucia.
«Ed ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»
«Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e chiudendo quasi del tutto
gli occhi ch'erano già chini a terra.
«Se non lo aveste fatto, lo fareste?»
«Se... non fossi in quel pericolo... in un grande pericolo... e poi, se non è permesso... non lo farei».
«Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell'uomo a cui avevate promesso?»
«Io credeva... che fosse male il pensarvi... ma poi ch'Ella me ne domanda... ah Padre sì
Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell'angolo, e la vedova anch'essa stava in una tacita
aspettazione. Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi.
Allora egli con voce spiegata le rivolse questa nuova interrogazione:
«Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l'autorità di sciogliere e di legare?»
«Lo credo», rispose Lucia.
«Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti che gli son
fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che
tiene da Lui?»
«Lo credo», rispose ancora Lucia.
«Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto, o inteso di fare
alla Madre santissima di Dio?»
«Lo domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e
che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato presente a quell'atto, non rifletta che la
solennità della richiesta, l'aria autorevole di chi l'aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti
leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.
«Ed io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego umilmente la Vergine
regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato
sacrificio, e lo offra al suo e nostro Signore; e con l'autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi sciolgo
dal voto, annullando ciò che vi potè essere d'inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se
ne avete contratta».
Non parleremo dell'effetto, che queste parole produssero nell'animo dei due giovani: la buona
vedova era tutta commossa. Il Frate continuò rivolto a Lucia: «Siate moglie pudica, moglie
affettuosa moglie contenta di quella contentezza che conduce all'eterna. Questo Iddio ha voluto e
vuole da voi». Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue. Essi caddero
ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell'atto, stese le mani su
le loro teste, e stette un momento pensoso. Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e
il letto della vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la fronte bassa,
e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.
«Figliuoli», disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la Chiesa vi assolve
da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di questa vita che deve esser tutta un
sacrificio; ma per mettervi su la via della santificazione. Amatevi, come compagni di viaggio, col
pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre. Rendete grazie al
cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi
travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja raccolta temperata, e continua. E nei vostri
discorsi qualche volta, e sempre nelle vostre preghiere, ricordatevi...»
Queste parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell'animo
di Lucia l'impressione dolorosa che le aveva prodotta l'aspetto di chi le proferiva. Levò ella gli
occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l'oggetto
che cercava il suo sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista
del quale ella mandò uno strido repentino. Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte donde le era
venuta quella subita commozione.
<B>CAPITOLO IX</B>
Ritto sul mezzo dell'uscio, stava un uomo smorto, rabbuffato i capegli e la barba, scalzo, nudo le
gambe, le braccia, il petto, e nel resto mal coperto di avanzi di biancheria pendenti qua e là a brani e
a filaccica; stava con la bocca semi-aperta guatando le persone raccolte nella capanna con certi
occhi nei quali si dipingeva ad un punto l'attenzione e la disensatezza; dal volto traspariva un misto
di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto,
una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire. Ma in quello
sfiguramento Lucia aveva tosto riconosciuto Don Rodrigo, e tosto lo riconobbero gli altri due.
Quell'infelice da una capanna, posta lungo il viale, nella quale era stato gittato, e dove era rimasto
tutti quei giorni languente e fuor di sè, aveva veduto passarsi davanti, Fermo, e poi il Padre
Cristoforo; senza esser veduto da loro. Quella comparsa aveva suscitato nella sua mente sconvolta
l'antico furore, e il desiderio della vendetta covato per tanto tempo, e insieme un certo spavento, e
con questo ancora una smania di accertarsi, di afferrare distintamente con la vista quelle immagini
odiose che le erano come sfumate dinanzi. In una tal confusione di passioni, o piuttosto in un tale
delirio s'era egli alzato dal suo miserabile strame, e aveva tenuto dietro da lontano a quei due. Ma
quando essi uscendo dalla via s'internarono nelle capanne, il frenetico non aveva ben saputa ritenere
la traccia loro, né discernere il punto preciso per cui essi erano entrati in quel labirinto. Entratovi
anch'egli da un altro punto poco distante, non vedendo più quegli che cercava, ma dominato tuttavia
dalla stessa fantasia, era andato a guardare di capanna in capanna, tanto che s'era trovato a quella in
cui mettendo il capo su la porta aveva rivedute in iscorcio quelle figure. Quivi ristando
stupidamente intento, udì quella voce ben conosciuta che nel suo castello aveva intuonata al suo
orecchio una predica, troncata allora da lui con rabbia e con disprezzo, ma che aveva però lasciata
nel suo animo una impressione che s'era risvegliata nel tristo sogno precursore della malattia.
Quella voce lo teneva immobile a quel modo che altre volte si credeva che le biscie stessero
all'incanto; quando Lucia s'accorse di lui. Dopo la sorpresa il primo sentimento di quella poveretta
fu una grande paura; il primo sentimento del Padre Cristoforo e di Fermo: bisogna dirlo a loro
onore, fu una grande compassione. Entrambi si mossero verso quell'infermo stravolto per
soccorrerlo, e per vedere di tranquillarlo; ma egli a quelle mosse, preso da un inesprimibile
sgomento, si mise in volta, e a gambe verso la strada di mezzo; e su per quella verso la chiesa. Il
frate e il giovane lo seguirono fin sul viale, e di quivi lo seguivano pure col guardo: dopo una breve
corsa, egli s'abbattè presso ad un cavallo dei monatti che sciolto, con la cavezza pendente, e col
capo a terra rodeva la sua profenda: il furibondo afferrò la cavezza, balzò su le schiene del cavallo,
e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagna, e spaventandolo
con gli urli, lo fece muovere, e poi andare di tutta carriera. Un romore si levò all'intorno, un grido di
«piglia, piglia»; altri fuggiva, altri accorreva per arrestare il cavallo; ma questo spinto dal demente,
e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s'inalberava, e scappava vie più verso il
tempio.
I due dei quali egli era stato altre volte nemico tornarono tutti compresi alla capanna, dove Lucia
stava ancora tutta tremante.
«Giudizii di Dio!» disse il padre Cristoforo: «preghiamo per quell'infelice». Dopo un momento di
silenzio, il pensiero che venne a tutti fu di concertare insieme quello che era da farsi: e i concerti
furon questi: che Fermo partirebbe tosto, giacché ivi non v'era ospitalità da offerirgli, cercherebbe
un ricovero per la notte in qualche albergo, e all'indomani si rimetterebbe in via pel suo paese,
porterebbe ad Agnese le nuove della sua Lucia, andrebbe poi a Bergamo a disporre la casa dove
intendeva di stabilirsi con la moglie e con la suocera; e tornerebbe poi ad aspettare Lucia nel suo
paese, dove dovevano celebrarsi le nozze: ne avvertirebbe intanto Don Abbondio, il quale era da
sperarsi che invece di frapporre nuove difficoltà, sarebbe vergognoso di quelle che aveva frapposte
altra volta. Quanto a Lucia, ella protestò prima d'ogni cosa che non si staccherebbe dalla sua buona
compagna, finché questa non fosse affatto guarita, e ristabilita nella sua casa. Il Padre la lodò,
Fermo non v'ebbe nulla a ridire, e la vedova tutta commossa, promise che accompagnerebbe essa
Lucia a casa, e la consegnerebbe a sua madre.
«E voglio farle il corredo», aggiunse all'orecchio del Padre a cui aveva fatto cenno di avvicinarsi.
«Dio vi benedica», le rispose il buon vecchio.
«E tu», disse poi a Fermo, «che stai qui tardando? il tempo, come vedi, si fa più nero, e la notte si
avvicina: affrettati di cercare un ricovero».
Convien dire ancora ad onore di Fermo, che in quel momento non gli doleva tanto lo staccarsi da
Lucia appena trovata, è vero, ma ch'egli contava di riveder presto, quanto dal Padre Cristoforo, che
restava lì a morire.
«Ci rivedremo, padre?» disse il buon giovane.
«Se Dio vorrà, e quando Egli vorrà» rispose il frate, vincendo una commozione che andava
crescendo. «Va, va che non c'è tempo da perdere».
Fermo, disse con voce accorata; riverisco, al Padre che lo benedisse, e gli strinse la mano: disse
addio a Lucia e alla vedova, sopprimendo un: - a rivederci presto -, che gli veniva su le labbra; poi
spiccatosi in fretta, partì.
«Vi raccomando l'una all'altra, buone creature», disse, il frate; e fece atto pure di andarsene: ma nel
dare a Lucia uno sguardo di commiato, vide nell'aspetto di lei mista alla commozione una grande
inquetudine; s'avvisò tosto di ciò che poteva esserne la cagione, e disse: «Di che state inquieta?»
«Quell'uomo...!» disse Lucia.
«Poveretto!» rispose il frate, «non è più in caso di far paura a nessuno: non lo vedrete più, siatene
certa. Pure», soggiunse, dopo d'aver pensato un momento, «per ogni altro evento, sarà meglio ch'io
vi raccomandi a qualcheduno dei nostri».
Così detto, uscì, girò un poco in ronda, finché trovò un capuccino, e condottolo alla capanna, gli
mostrò le due donne, e gli disse: «sono due derelitte; vi prego di averne una cura particolare. Vi
lascio con Dio», disse poi alle donne, e uscì dalla capanna. Lucia lagrimando lo seguiva, ed egli le
imponeva che tornasse, e così si trovarono entrambi sulla grande strada, dove videro una folla di
monatti, che accorreva in tumulto, gridando «aspetta, aspetta», ad altri monatti che guidavano un
carro verso la porta. Il carro si fermò quasi davanti ai nostri due amici: quei monatti sopraggiunsero
tosto ansanti; e due che portavano un morto lo gittarono sul carro, dicendo un d'essi: «mettetelo
bene in fondo costui, che non torni a cavallo, a farci tribolare».
«Che diavolo è stato», disse più d'uno di quei carrettieri.
«Il diavolo», rispose il monatto, «l'aveva in corpo costui: è andato su e giù finch'ebbe fiato: se
durava ancora, faceva crepare il cavallo: ma è crepato egli, e allora per amore o per forza ha dovuto
scendere».
Il Padre Cristoforo, rivolto allora a Lucia le disse: «ricordatevi di pregare per questa povera anima
voi, e vostro marito, per tutta la vita, e di far pregare i vostri figliuoli, se Dio ve ne concede. Tornate
alla vostra compagna. Iddio sia sempre con voi». Dette queste parole, prese in fretta il viale, per
andarsene alla sua stazione; Lucia, compunta di quella separazione, e atterrita dallo spettacolo,
tornò a capo basso e col petto ansante alla sua capanna; e Don Rodrigo su la cima d'un tristo
mucchio, fra lo strepito e le bestemmie, usciva dal lazzeretto per andarsene alla fossa.
Usciamone una volta anche noi; e teniam dietro a Fermo, il quale alloggiò la notte come potè, il
giorno seguente benché la pioggia venisse a secchie si rimise in cammino, e si condusse fin presso
al suo paese, dove giunse il terzo dì, molle, affaticato, sciupato, ma pure più lieto che non fosse
stato da un gran pezzo. Il rivedersi di lui e d'Agnese, la gioja di questa alle novelle che gli eran date,
sono di quelle cose che i narratori passano in silenzio, nel supposto ragionevole, che il lettore se le
può immaginare. Con Don Abbondio le cose non furono così chiare. Prima di tutto egli si fece
pregare alquanto prima di aprire la porta a Fermo; anzi non vi si ridusse che allorquando la voce di
questo gli parve un po' alterata, e le parole tinte un po' di minaccia. Apertogli, lo accolse con quella
cera che un uomo imbrattato di debiti mostra ad un creditore che vorrebbe sapere mille miglia
lontano, ma che pure non vorrebbe irritare al segno che quegli gli desse un libello.
«Siete qui voi!» disse Don Abbondio.
«Son qui», rispose Fermo, «grazie a Dio, e sono ad avvertirla che presto sarà qui anche Lucia
Mondella, con la quale ella avrebbe dovuto sposarmi, è un anno e dieci mesi, e con la quale ora ella
mi sposerà. Meglio tardi che mai».
«Oh santo Dio benedetto!» sclamò Don Abbondio.
«Signor curato», ripigliò Fermo: «quel signore che diede tanto fastidio a noi poveretti ed anche a
lei, non ne darà più a nessuno».
«Che vuol dire?» chiese Don Abbondio.
«Vuol dire», rispose Fermo, «che Don Rodrigo a quest'ora debb'esser all'altro mondo».
«Chi lo dice? chi lo dice?»
«Lo dico io», rispose Fermo, «che l'ho veduto al Lazzeretto, col male addosso, acconciato pel dì
delle feste, che faceva pietà».
«Eh figliuolo! si guarisce, si guarisce dalla peste. Siam guariti anche noi».
«Le dico, che a quest'ora sarà morto sicuro».
- Se fosse la vacca d'un pover'uomo, - disse Don Abbondio fra sè e sè.
«Basta», soggiunse Fermo con quel tuono risoluto che spiaceva tanto al suo ascoltatore; «basta,
quel che è stato, è stato, ma finalmente quel che si doveva fare prima s'ha a fare ora, e si farà».
«Ma un parere, un parere d'amico», disse con una amabile modestia Don Abbondio, «non ha da
potervelo dare un vecchio, che vi vuol bene?»
«Che parere?»
«Con quella cattura che avete su le spalle, compatitemi, non vi conviene star qui: maritatevi altrove;
e Dio vi benedica».
«Le torno a dire che nessuno pensa né alla cattura, né a me: ho girato il mondo, e so anch'io che
impicci porta, e che tempo domanda il maritarsi lontano da casa sua: qui abbiamo le nostre case, qui
si può concluder tutto in un momento, senza impicci; basta che ella voglia; e le dico io ch'ella
vorrà».
«Ma figliuolo, ma figliuolo...»
«La riverisco», rispose il figliuolo, e lasciando Don Abbondio in quei pensieri che il lettore
conosce, gli volse le spalle; e se ne andò a Bergamo a disporre le sue faccende, e la casa per la
sposa.
Questa frattanto, guarita la vedova, era uscita con essa dal lazzeretto, il quale di giorno in giorno si
andava spopolando. Perché come abbiamo accennato, dopo quella dirotta, il contagio mollò, come
suol dirsi, repentinamente; e così venne a cessare la trista trasmigrazione della cittadinanza al
lazzeretto; quei che v'erano, in poco tempo morirono, o risanarono. La vedova trovò la sua casa
intatta, v'entrò con Lucia: ivi stettero insieme a fare un po' di quarantena; deposero ed arsero i panni
della malattia; il fondaco somministrò la materia dei nuovi vestimenti: e la vedova attenendo quello
che aveva promesso al padre Cristoforo volle ad ogni costo provvedere Lucia d'un bel fornimento
d'abiti, con tutto il lusso contadinesco; e vi lavorarono insieme per tutto quel tempo che stettero
rinchiuse. Il giorno stesso dell'arrivo in casa, la vedova per servire alle giuste premure della sua
ospite mandò ai capuccini a chieder conto del Padre Cristoforo. Come il lettore l'avrà indovinato, il
nostro buono e caro amico, era morto al lazzeretto. Lasceremo pure che il lettore s'immagini il
dolore di Lucia; e senza più perderci in lungaggini, diremo che un bel giorno ella giunse alla sua
casetta, in compagnia della vedova, in una delle più belle carrozze che usassero i mercanti d'allora.
In quel frattempo, il contagio era cessato quasi da pertutto, e tutte le precauzioni erano dismesse.
Agnese non istette dunque alla lontana dalla figlia, come aveva fatto con Fermo, ma le gettò le
braccia al collo, e fece tosto una grande amicizia con la vedova. Fermo che era tornato e che stava
quivi aspettando l'arrivo desiderato, si trovava in casa d'Agnese in quel momento. Le accoglienze, il
tripudio di tutti non è da dirsi, e i discorsi, i racconti non sono da ripetersi: son cose che il lettore in
parte sa, in parte può immaginarsi. Il giorno seguente, andarono tutti e quattro da Don Abbondio, il
quale al tocco della porta accorse alla finestra, e veduta quella brigata, scese gemendo, e grattandosi
in capo, ad aprire.
Le accoglienze furon fredde, e imbarazzate: e a dir vero faceva proprio rabbia a vedere quella faccia
svogliata e soffusa per dir così d'un mal umore e d'una stizza repressa, in mezzo a tanti aspetti
allegri. Ma Fermo che conosceva il male del pover uomo, gli amministrò tosto la medicina con
queste parole: «Quel signore è poi morto davvero». Don Abbondio non si abbandonò alla gioja da
spensierato, ma volle sapere con che fondamento si affermasse una tale... notizia.
«L'ho veduto io pur troppo», disse Lucia, raccapricciando ancora al ricordarsene. Don Abbondio
volle sentire il racconto, si fece ripetere molte circostanze, e quando fu ben certo che Don Rodrigo
era veramente passato all'altra vita, mise un gran respiro, i suoi occhi s'animarono, tutti i lineamenti
del suo volto si spiegarono come un fiore che sbuccia al raggio di primavera.
«È morto!» sclamò egli: «Oh provvidenza! provvidenza! Ecco se Domeneddio arriva certa gente. È
morto senza successione, per un giusto giudizio, e anche per un gran benefizio della provvidenza;
perché se colui avesse lasciato gente della sua razza, bisognerebbe dire: è morto un buon cavaliere:
peccato! un degno gentiluomo. Così, si può finalmente dire il suo cuore. Ah! Non c'è più quel
burbero, quel soperchiatore, quello spaventacchio. Questa pestilenza è stata un flagello, figliuoli, un
flagello; ma è stata anche una scopa: ha spazzato via certa gente, che, figliuoli miei, non ce ne
liberavamo più: birboni, freschi, verdi, vigorosi, che sperare di far loro le esequie, sarebbe stata una
prosunzione peccaminosa; si sarebbe detto che il prete destinato ad asperger loro la cassa stava
ancora facendo i latinucci; e in un batter d'occhio sono iti: <I>requiescant</I>. Ah!... Ma, che
facciamo noi qui», soggiunse poi, come ravvedendosi, «qui in piedi, in questo andito? venite
figliuoli, venite nella mia saletta; venga signora mia, ben venuta in queste parti; andiamo a sedere, e
a discorrere tranquillamente dei fatti nostri. Perché», continuò egli camminando, «quello che s'ha da
fare voglio che lo facciamo presto; che è troppo giusto. Non mi piace, vedete, far penare la gente. E
principalmente voi, figliuoli cari»,: e qui eran giunti nella sala, e fatti sedere da Don Abbondio, che
proseguì: «principalmente voi, ai quali ho sempre voluto bene. Ma che volete? Alle volte bisogna
far bella cera a quegli che si vorrebbero veder lontani le mille miglia, e cera brusca a quelli che si
amano: si pare amici dei birboni, e nemici dei galantuomini; ma, santo cielo! bisogna vestirsi dei
panni d'un povero galantuomo. Basta; è finita; veniamo a noi. Figliuoli, non bisogna perder tempo;
oggi, che giorno è?... Venerdì: posdomani rinnoveremo le pubblicazioni; perché quelle altre già
fatte, dopo tanto tempo, non valgono più nulla; e poi voglio avere io la consolazione di maritarvi; e
subito subito, voglio darne parte a Sua Eminenza».
«Chi è Sua Eminenza?» domandò Agnese.
«Il nostro arcivescovo», rispose Don Abbondio, «quel degno prelato: non sapete che il nostro santo
padre Urbano ottavo, che Dio conservi, fino dal mese di Giugno, ha ordinato che ai cardinali si dia
il titolo di Eminenza?»
«Ed io», replicò Agnese, «che gli ho parlato, come parlo a Vossignoria, ho inteso che tutti gli
dicevano: Monsignore illustrissimo».
«E se gli aveste a parlare ora», replicò Don Abbondio, «dovreste dirgli: Eminenza, sotto pena di
passare per malcreata, o per ignorante. Così ha voluto il papa: è ben vero che alcuni principi sono in
collera, e non vorrebbero questa novità: ma, tra loro magnati se la strighino: io povero pretazzuolo
non ho di questi affanni. Torniamo al fatto nostro. Voglio che stiamo allegri: abbiamo avuto tanto
tempo di malinconia. Farete un po' di banchetto: eh?»
«Da poveri figliuoli», rispose Fermo.
«Ed io verrò a stare allegro con voi; verrò, vedete», disse Don Abbondio.
«Oh signor curato», rispose Fermo, «intendevamo bene di pregarla...»
«Ed io vi ho prevenuti», riprese Don Abbondio, «per farvi vedere che vi sono amico; che vi voglio
bene, quantunque m'abbiate dato anche voi qualche travaglio: non parlo di te che sei un
malandrinaccio», disse rivolto a Fermo, sorridendo, «ma anche voi con quell'aria di quietina»: e qui
rivolto a Lucia, e alzata la mano con l'indice teso, e stretto il rimanente del pugno la moveva verso
di essa in atto di amichevole rimbrotto; e continuò: «bricconcella, anche voi mi avete voluto fare un
tiro: quella sera: quella sorpresa: quel clandestino: basta non ne parliamo più; quel ch'è stato è stato:
non è colpa vostra; è un mio destino, che tutti più o meno debbano darmi qualche fastidio: tutto è
finito: pensiamo a stare allegri».
Lucia sorrise; Agnese stava per aprir la bocca ad argomentare contra Don Abbondio, e provargli
che il torto era suo; ma Fermo le fece cenno di tacere; e rispose egli in vece con un complimento al
curato; e con qualche altro complimento, il congresso finì con universale soddisfazione.
Il tempo che scorse tra le pubblicazioni e le nozze, fu impiegato dagli sposi ai preparativi pel
traslocamento a Bergamo, e pel trasporto colà del loro modico avere, e Agnese, la quale come il
lettore se n'è avveduto, pareva sempre voler dominare nei discorsi, ma in fatto, povera donna,
viveva per gli altri, e faceva a modo dei suoi figlj, anche in questo caso si arrabbattò per la causa
comune: la vedova anch'essa non lasciava di dare una mano.
Forse taluno di quegli che credono di veder meglio negli affari altrui, a prima giunta, che non vegga
colui di chi sono gli affari, dopo avervi molto pensato, domanderà per qual motivo quella famiglia
volesse abbandonare il luogo natale, la sua casuccia, il suo picciol fondo, ora che era tolto di mezzo
colui che gl'impediva di posarvisi tranquillamente. Per tre ragioni principalmente. La prima:
quantunque Fermo allora non ricevesse alcuna inquietudine per quella sua impresa di Milano, e la
cattura fosse un titolo inoperoso; pure un sospetto, una reminiscenza, un mal uficio, poteva far
risorgere l'antica querela, e rimetterlo in Dio sa quale impiccio.
La seconda, è una di quelle ragioni che nel parlare astratto non si contano quasi per nulla, ma che
nel caso concreto sono più potenti a determinare che molte altre. Ciò che Fermo aveva sofferto, e
temuto nel suo paese, gliel'aveva reso spiacevole: il suo paese gli ricordava le angherie d'un
soverchiatore, i pericoli della prigione, e di peggio, poi il furore del popolo, che lo cercava a morte.
Memorie di questo genere disgustano l'uomo dai luoghi che le richiamino, e se quei luoghi sono la
patria, ne lo disgustano tanto più, appunto perché gli guardava prima con fiducia, e con affezione.
Anche il bambolo riposa volentieri sul seno della nutrice, rifugge a quello da tutti i terrori, cerca
con avidità la poppa che lo ha nutricato fin allora, e s'accheta quando l'ha presa: ma se la nutrice,
per divezzarlo, intinge la poppa d'assenzio, il bambino torce con dolore e con pianto il labbro da
quella nuova amaritudine, e desidera un cibo diverso.
Finalmente, i nostri sposi erano entrambi lavoratori di seta: triste circostanze gli avevano costretti a
dismettere per molto tempo la loro professione; ma né l'uno né l'altro aveva amore all'ozio; e il loro
disegno era di ripigliare tosto il lavoro per vivere tranquillamente e onestamente, e per nutrire ed
allevare i figliuoli che speravano, come tutti gli sposi fanno. Ora l'industria della seta, come tutte le
altre era già decaduta spaventosamente nel milanese, prima di quelle recenti sciagure; e queste le
avevan poi dato l'ultimo crollo. Non è questo il luogo di descrivere quello stato di cose, e di
toccarne le cagioni. Già molte nemiche d'ogni industria e d'ogni prosperità appajono anche troppo
in questa lunga storia: chi volesse conoscere le più immediate legga, se non le ha lette, le belle
memorie storiche del conte P. Verri sulla economia pubblica dello Stato di Milano; e se vuol
conoscere più a fondo, frughi nei documenti originali, da cui quel valentuomo ha cavate le sue
memorie. Basti a noi il dire che l'uomo il quale aveva abilità e voglia di lavorare, stentava nel
Milanese, e che nel Bergamasco, come in altri stati vicini si offerivano esenzioni, privilegii, ed altri
incoraggiamenti ai lavoratori che volessero trasportarvisi. Questa differenza fece uscire una folla di
operaj, e rivivere in quegli stati molte manifatture che perirono nel milanese dove avevano fiorito.
Differente per conseguenza era anche l'aspetto dei due paesi. In Bergamo (non vogliam dire che
fosse il paradiso terrestre) dopo la pestilenza, si vedevano tuttavia i tristi segni, e i tristi effetti di
quella: la spopolazione, le terre incolte, l'ardire cresciuto nei ribaldi, le abitudini dell'ozio, e del
vagabondare: ma in quella petulanza stessa v'era una certa aria di allegria nata se non dalla
abbondanza, almeno dalla sufficienza dei mezzi e dei capitali: quegli poi che avevano voglia di far
bene trovavano in quei capitali una facilità grande e pronta. Ma nel Milanese una cagione viva e
incessante di miseria sopravviveva alle miserie della peste; un sistema che onorava l'orgoglio
ozioso, che favoriva la soverchieria perturbatrice, che alimentava tutti gli studj del raggiro, e delle
ciarle, un sistema oppressivo e impotente, insensato e immutabile, un sistema di rapine e di ostacoli,
impediva l'industria, la pace, e l'allegria.
Scelta dunque un'altra patria, i nostri eroi, erano però impacciati del come convertire in danaro i
pochi beni che dovevano lasciare nel paese dove erano nati: ma la fortuna - non osiamo dire la
provvidenza - la fortuna che voleva favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar
lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a questo. I beni di Don Rodrigo
erano passati per fedecommesso ad un parente lontano; il quale era un uomo di ben diverso conio;
un galantuomo, un amico del cardinal Federigo. Prima di andare a prender possesso di quella
eredità, trovandosi egli col cardinale gliene parlò. «Avrete forse una occasione di far del bene e di
riparare il male che ha fatto Don Rodrigo», gli disse il cardinale, e gli raccontò in succinto la
persecuzione fatta da quello sgraziato ai nostri sposi, e il danno di ogni genere che ne avevan patito.
«Se son vivi tuttora», soggiunse, «non vi prego di far loro del bene, che con voi non fa bisogno; ma
di darmi notizia di loro, e di dire a quella buona giovane ch'io mi ricordo sempre di lei, e mi
raccomando alle sue orazioni». Il galantuomo, appena giunto al castellotto, si fece indicare il
villaggio degli sposi, e si presentò al curato. Don Abbondio al vedere il nuovo padrone di quella
altre volte caverna di ladroni, umano, cortese, affabile, rispettoso verso i preti, voglioso di far del
bene, non si può dire quanto ne fosse edificato. E quando quel signore lo richiese di Fermo e di
Lucia, e gli manifestò le sue intenzioni benevole, Don Abbondio, non solo si prestò volentieri, a
secondarle, ma lo fece con una ispirazione molto felice.
«Signor mio», diss'egli «questa buona gente è risoluta di lasciar questo paese; e il miglior servizio
ch'ella possa render loro è di comperare quei pochi fondi che tengono qui. A lei potrà convenire di
aggiungerli ai suoi possessi; e quella gente si troverà fuori d'un grande impiccio».
Il signore gradì la proposta, anzi con molto garbo richiese Don Abbondio se non sarebbe dispiaciuto
di condurlo a vedere quei fondi, e insieme a conoscere quella brava gente.
«È un onore immortale», disse Don Abbondio facendo una gran riverenza; e andò in trionfo alla
casa di Lucia con quel signore, il quale fece la proposta, che fu molto gradita. Il prezzo fu rimesso a
Don Abbondio, a cui il signore disse all'orecchio, che lo stabilisse molto alto. Don Abbondio così
fece; ma il signore volle aggiungere qualche cosa: e per interrompere i ringraziamenti dei venditori,
gli invitò a pranzo nel suo castello pel giorno dopo quello delle nozze.
Quel giorno benedetto venne finalmente: gli sposi promessi, furono marito e moglie; il banchetto fu
molto lieto. Il giorno seguente ognuno può immaginarsi quali fossero i sentimenti degli sposi e
quelli di Don Abbondio, entrando non solo con sicurezza, ma con accoglimento ospitale ed
onorevole nel castello, che era stato di Don Rodrigo: a render compiuta la festa, mancava il Padre
Cristoforo: ma egli era andato a star meglio.
Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè;
allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh
miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani:
egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia. Tanto anche a
chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di
pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno
anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a
Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato
da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e
s'avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al Conte
del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell'assistere ai primi appestati.
La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta. Dopo
nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo
«cattivaccio». Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per
sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.
Fermo pigliava sovente piacere a contare le sue avventure, e aggiungeva sempre: «d'allora in poi ho
imparato a non mischiarmi a quei che gridano in piazza, a non fare la tal cosa, a guardarmi dalla tal
altra». Lucia però non si trovava appagata di questa morale: le pareva confusamente che qualche
cosa le mancasse. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarvi ad ogni volta, ella disse
un giorno a Fermo: «Ed io, che debbo io avere imparato? io non sono andata a cercare i guaj, e i
guai sono venuti a cercarmi. Quando tu non volessi dire», aggiunse ella soavemente sorridendo,
«che il mio sproposito sia stato quello di volerti bene e di promettermi a te». Fermo quella volta
rimase impacciato, e Lucia pensandovi ancor meglio conchiuse che le scappate attirano bensì
ordinariamente de' guai: ma che la condotta la più cauta, la più innocente non assicura da quelli; e
che quando essi vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio gli raddolcisce, e gli rende
utili per una vita migliore. Questa conclusione benché trovata da una donnicciuola ci è sembrata
così opportuna che abbiamo pensato di proporla come il costrutto morale di tutti gli avvenimenti
che abbiamo narrati, e di terminare con essa la nostra storia.
<I>17 settembre 1823</I>
Livros Grátis
( http://www.livrosgratis.com.br )
Milhares de Livros para Download:
Baixar livros de Administração
Baixar livros de Agronomia
Baixar livros de Arquitetura
Baixar livros de Artes
Baixar livros de Astronomia
Baixar livros de Biologia Geral
Baixar livros de Ciência da Computação
Baixar livros de Ciência da Informação
Baixar livros de Ciência Política
Baixar livros de Ciências da Saúde
Baixar livros de Comunicação
Baixar livros do Conselho Nacional de Educação - CNE
Baixar livros de Defesa civil
Baixar livros de Direito
Baixar livros de Direitos humanos
Baixar livros de Economia
Baixar livros de Economia Doméstica
Baixar livros de Educação
Baixar livros de Educação - Trânsito
Baixar livros de Educação Física
Baixar livros de Engenharia Aeroespacial
Baixar livros de Farmácia
Baixar livros de Filosofia
Baixar livros de Física
Baixar livros de Geociências
Baixar livros de Geografia
Baixar livros de História
Baixar livros de Línguas
Baixar livros de Literatura
Baixar livros de Literatura de Cordel
Baixar livros de Literatura Infantil
Baixar livros de Matemática
Baixar livros de Medicina
Baixar livros de Medicina Veterinária
Baixar livros de Meio Ambiente
Baixar livros de Meteorologia
Baixar Monografias e TCC
Baixar livros Multidisciplinar
Baixar livros de Música
Baixar livros de Psicologia
Baixar livros de Química
Baixar livros de Saúde Coletiva
Baixar livros de Serviço Social
Baixar livros de Sociologia
Baixar livros de Teologia
Baixar livros de Trabalho
Baixar livros de Turismo