disciplina della casta e del «bagwar». «Costoro» diceva sin da’ suoi tempi Arriano «attendono solo
alle cose militari, poiché altri ha cura dei loro cavalli, delle armi, delli elefanti e dei carri. Quando
[800] è da combattere combattono; ma tornata la pace, fanno gioconda vita, provvisti di sì generoso
stipendio publico da sopperir largamente anche ai loro seguaci.» (15).
Esterminati i figli del sole, cacciati fuori della penisola o nella sua meridionale estremità li austeri
oppositori Buddisti e Giaini, che richiamavano le cose all’antica purità, spogliati e legati alla gleba i
possessori, relegati nel commune li artefici, i trafficanti, e persino i cultori della musica e della
poesia, interdette colli scrupoli d’un’impura convivenza le lunghe navigazioni, chiusi colle castella
delle tribù militari i pochi accessi che non erano cinti d’alpi e di mari, mancava solo per rendere
perpetuo quel dominio che si cancellasse nei popoli ogni notizia d’uno stato anteriore, e ogni idea
d’una diversa esistenza. Laonde si proscrisse ogni studio del passato, e per sommergere ogni data
istorica si divisò un’imaginaria tessitura di più millioni d’anni, divisi in quattro età; delle quali l’età
presente, o «cali yuga», deve durare per 4320 secoli; quella che decorse innanzi a questa, o «dwapar
yuga», ebbe un numero duplo di secoli (8640); e prima ancora era spirato il «treta yuga» con un
numero triplo di secoli (12960); e il «satya yuga» con un numero quadruplo (17280); e prima di
queste si erano volte altre età divine, nel cui novero la mente si smarrisce. Per mezzo dei poeti
officiali imposti ad ogni commune s’intruse nella memoria dei popoli una congerie di legende
confuse, che narravano apparizioni e figliazioni d’innumerevoli divinità, e combattimenti contro i
selvaggi e li empii, figurati come orride belve. Un immenso apparato poetico divenne l’allettevole
involucro di perverse e insocievoli dottrine, le quali ammorzarono in cento millioni d’uomini il
senso del vero e del falso, l’intendimento dei communi interessi, il lume della ragione e della
coscienza. Ma questo dominio dell’imaginazione su le altre più severe facoltà produsse quello
splendido edificio di poesia, i cui frammenti con dotte fatiche estorti al geloso bramino, e tradutti
nelle nostre lingue, empirono d’ammirazione li studiosi. Al tempo medesimo, entro il recinto dei
collegi braminici, la dottrina poté esercitare [801] per secoli tutte quelle meditazioni che, non
toccando il vietato terreno dei publici interessi, contemplavano l’essere umano al di fuori
dell’esperienza naturale e civile, e sopratutto nella potenza astratta del pensiero; e poté compiere
quell’immensa elaborazione di filosofie, che ad alcuni parvero ripetere, tutto ciò che le altre nazioni
pensanti vennero poi divisando. Ma noi crediamo semplicemente che l’identità dei produtti
metafisici nasca dall’identità della forza contemplativa e dall’identità delli argumenti e dei dati, che
vengono a raccogliersi entro la camera oscura dell’interna riflessione e della scienza a priori.
Un altro campo in cui la società braminica diede largo corso all’umana attività si fu quello dell’arte;
poiché un suolo fecondo, coltivato da un popolo frugale e devoto, tributò nel corso del tempo
prodigiosi tesori, con cui ella poté istoriar di sculture vasti sotterranei, trasformare in labirinto di
santuarii più d’una rupe di basalto, inalzare in giro di più milia i sette chiostri di Seringham, elevare
sopra legioni di colonne le sette pagode di Mavalipura. Il popolo indiano scolpì ne’ suoi templi tutto
ciò che aveva contemplato nelle sue astrazioni filosofiche, e personificato e verseggiato nei grandi
suoi poemi. L’industriose plebi intanto, trattando con mirabile agilità e gentilezza di mano li
imperfetti arnesi d’un’arte primitiva, seppero fornire al barbarico fasto delle caste dominatrici una
tale squisitezza di tessuti, di colori, di profumi, di ricami, di gioie, che i tesori dell’India divennero
il sogno delle altre genti della terra. E intanto il povero viveva, come ancor vive, in angusti tugurii
coperti di paglia, fra pareti d’argilla che le assidue piogge stemprano in fango, dove fra l’ardore del
cielo e il lezzo della povertà, male abbeverato coll’aque fangose dei sacri suoi fiumi, divide colla
seminuda prole un pugno di riso sottratto sovente alla messe immatura. L’unico suo conforto è nella
magnificenza delle sacre sue pompe, nel clangore dei sacri strumenti, nelle notturne illuminazioni,
nelle sacre danze delle baiadere, nelle peregrinazioni ai lontani santuarii, e nella coscienza d’aver
compiuto in ogni ora del giorno e in ogni giorno dell’anno quelle prescrizioni rituali, che gli
conservano l’onore della casta, e che sollevandolo sopra l’impuro paria, e mettendo sotto a’ suoi
piedi un’esistenza più misera della sua, gli rendono cara quella catena che da tanti secoli lo stringe.
[802] Un ordine di cose che aveva troppo ingiustamente distribuiti i beni e i mali, e aveva abusato la
sapienza dei pochi e la potenza medesima delle arti e della poesia per eternare l’ignoranza dei più,
era destinato a succumbere al primo assalto che una mano deliberata avesse portato alle sue
fondamenta. Ma perché l’impero braminico era posto in un angolo del mondo, fra mari non navigati
e impervie alpi, tenuto in gelosa oscurità d’ogni cosa straniera se non aveva fatto sentire la sua