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TITOLO: Della tirannide
AUTORE: Vittorio Alfieri
NOTE: scritto a Siena nel 1777 all'età di 28 anni;
stampato per la prima volta nel 1790 presso
Baumarchais a Kehl (Strasburgo) con la falsa
data 1809, ma non reso pubblico; pubblicato
in realtà nel 1800 all'insaputa e con
dispetto dell'autore, per iniziativa di
un libraio parigino.
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Vittorio Alfieri, "Della tirannide;
Del principe e delle lettere; La virtù
sconosciuta" [testi fissati criticamente
da Pietro Cazzani nell'Edizione Astense
del Bicentenario, vol. III: V.Alfieri,
"Scritti politici e morali", I, Casa
d'Alfieri, Asti 1951, a cura di P.Cazzani]
Rizzoli BUR, 1996
CODICE ISBN: 88-17-17139-5
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 10 marzo 1998
INDICE DI AFFIDABILITA': 2
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Enzo Zanier, [email protected]
REVISIONE:
Giulio Cappa, [email protected]
Roberto Gagliardi, [email protected]
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Livros Grátis
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DELLA TIRANNIDE
LIBRI DUE DI VITTORIO ALFIERI DA ASTI
Cuncti se scire fatentur
Quid fortuna ferat populi, sed dicere mussant.
VIRGILIO, Eneide, lib. XI
Impune quaelibet facere id est regem esse
SALLUSTIO, Guerra Giugurtina, cap. XXXI
PREVIDENZA DELL'AUTORE
Dir più d'una si udrà lingua maligna,
(Il dirlo è lieve; ogni più stolto il puote)
Che in carte troppe, e di dolcezza vuote,
Altro mai che tiranni io non dipigna:
Che tinta in fiel la penna mia sanguigna
Nojosamente un tasto sol percuote:
E che null'uom dal rio servaggio scuote,
Ma rider molti fa mia Musa arcigna.
Non io per ciò da un sì sublime scopo
Rimuoverò giammai l'animo, e l'arte,
Debil quantunque e poco a sì grand'uopo.
Né mie voci fien sempre al vento sparte,
S'uomini veri a noi rinascon dopo,
Che libertà chiamin di vita parte.
LIBRO PRIMO
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi
lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti i
moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni
dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il
pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun
suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi
non è meraviglia, se tu disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e
di favorire in quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi
oscuri ed ambigui, ed inorpellate dall'adulazione.
Io, che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non
perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità,
abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a
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te sola dedicar questi fogli. Non farò in essi pompa di eloquenza, che in vano forse il vorrei;
non di dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo, precisione, semplicità, e chiarezza,
anderò io tentando di spiegare i pensieri, che mi agitano; di sviluppare quelle verità, che il
semplice lume di ragione mi svela ed addita; di sprigionare in somma quegli ardentissimi
desiderj, che fin dai miei anni più teneri ho sempre nel bollente mio petto racchiusi.
Io, pertanto, questo libercoletto, qual ch'egli sia, concepito da me il primo d'ogni altra mia
opera, e disteso nella mia gioventù, non dubito punto nella matura età (rettificandolo
alquanto) di pubblicar come l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più in me stesso a
quest'ora il coraggio, o, per dir meglio, il furore necessario per concepirlo, mi rimane pure
ancora il libero senno per approvarlo, e per dar fine con esso per sempre ad ogni mia
qualunque letteraria produzione.
Capitolo Primo – COSA SIA IL TIRANNO
Il definire le cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle fossero inalterabilmente
durabili quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il
vero, dee i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni tempo e
contrada, niuna definizione può essere più permanente di esse; ma giusta sarà, ogni qualvolta
rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era sotto quel dato nome in quei dati tempi
e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era già posta insieme una definizione
bastantemente esatta e accurata del tiranno, e collocata l'avea in testa di questo capitolo: ma,
in un altro mio libercolo, scritto dopo e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi
di dover definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene) a rubare a me stesso la mia
definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la ommetterò qui in parte; altro vi
aggiungerò, che quelle particolarità principalmente spettanti al presente mio tema, diverso
affatto da quell'altro DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE; ancorché tendente pur questo allo
stesso utilissimo scopo, di cercare il vero, e di scriverlo.
TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo
noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi,
otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti
indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea.
Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si
offendono di essere nominati tiranni. Questa sì fatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto
una tale differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più
raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e così presso noi, un
Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi
agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe, o re. E tanta è la
cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai
semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli
che a sopportare gli aveano.
Tra le moderne nazioni non si dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e
tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli
averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte
potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono
almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano
questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto
ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il
nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a
coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una
facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne abusassero, fattamente assurdo e
contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si
possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro, essendo finora di
qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati
dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data società che i primi e
legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi.
Questa semplice e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad
essere la prima aurora di una rinascente libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini
riesce permanente e perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la libertà pendendo tuttora
in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in
tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io stenda in
Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai
la universale oppressione più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane cose
appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni, ogni uomo buono dee credere, e sperare, che
non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare al fin debba
all'universale servaggio una quasi universal libertà
Capitolo Secondo – COSA SIA LA TIRANNIDE
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è
preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle,
impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o
questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo;
uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni
società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le
leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli
scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà
dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti
al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano
costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o
niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come
alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell'esservi o il non esservi delle leggi
stabilite; ma nell'esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa,
le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto
all'eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create.
Ma, tante specie di tirannidi essendovi, che sotto diversi nomi conseguono tutte uno stesso
fine, non imprendo io qui a distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle dai tanti altri
moderati e giusti governi: distinzioni, che a tutti son note.
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica assai. La
lascierò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella tirannide d'un solo,
ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e con minore imperizia mi
avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe' miei cotanti conservi. Osserverò
soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché per sua natura maggiormente durevole
(come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la sopporta ella sembra assai men dura e
terribile, che quella di un solo. Di ciò ne attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in
cui l'odio ch'egli divide contro ai molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti,
non agguaglia mai quello che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì
essere continuamente ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato
capriccio, dei diversi individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere
scambiato ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in
codesti governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa
apparenza di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor
quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza.
Ma, tornando io alla tirannide di un solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti. Ereditaria
può essere, ed anche elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i moderni, lo stato pontificio,
e molti degli altri stati ecclesiastici. Il popolo, in tali governi, pervenuto all'ultimo grado di
politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del celibe tiranno, ricadere in sua mano la
propria libertà, che egli non conosce, cura; quindi se la vede tosto ritogliere dai pochi
elettori che gli ricompongono un altro tiranno, il quale ha per lo più tutti i vizj degli ereditarj
tiranni, e non ne ha la forza effettiva per costringere i sudditi a sopportarlo. E questa tirannide
pure tralascerò, come toccata in sorte a pochissimi uomini; e, per la loro smisurata viltà,
indegni interamente di un tal nome.
Intendo io dunque di ragionare oramai di quella ereditaria tirannide, che da lunghi secoli in
varie parti del globo più o meno radicata, non mai, o rarissimamente o passeggeramente,
ricevea danni dalla risorta libertà; e non veniva alterata o distrutta, se non se da un'altra
tirannide. In questa classe annovero io tutti i presenti regni dell'Europa, eccettuandone
soltanto finora quel d'Inghilterra e la Pollonia ne eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi
dallo smembramento, e persistendo pure nel volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi ne
divenissero i nobili, e libero il popolo.
MONARCHIA, è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno a
questi fatti governi. A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice
interpretazione del nome. O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità d'un
solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di un solo,
raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono necessariamente
anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo meno a quella del monarca; e in
quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in bilancia fra loro, egli
manifestamente cessa tosto di essere monarchia. Questa greca parola non significa altro in
somma, fuorché Governo ed autorità d'uno solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società
esiste senza alcuna legge tal quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle
leggi; perché niuno è monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella tirannide, dal
governo e autorità d'un solo nella monarchia. Mi si risponde: "Nell'abuso". Io replico: "E chi
vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle
forza ed autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a
questa obiezione mi replica. Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando
annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine) ogniqualvolta le
leggi e costui non concordano, che faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla
potestà assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in fatti, soggiacciono. Ma,
se una qualunque legittima forza effettiva verrà intromessa nello stato per creare, difendere, e
mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non sarà più monarchia; poiché al
fare o disfare le leggi l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde, questo titolo di monarchia,
perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così abborrito finora, non viene adattato ai nostri
governi per altro, che per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per ingannare i
sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni
re. Si gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel di tiranni; ma nel
tempo stesso reputano assai minori di loro quegli altri pochi principi o re, che ritrovando
limiti infrangibili al loro potere, dividono l'autorità colle leggi. Questi assoluti re sanno
dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa differenza nessuna. Così lo
sapessero i popoli, che pure tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi
europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro,
spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono.
Ma i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura non tengano a vile del paro i
principi tutti; i monarchi, come tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a
divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più
importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo d'uomini, che
il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia
limitata non vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni
monarchia non limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando egli
in nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia. E tali prove tralascio, per amor di
brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir tutto. Passerò quindi
ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per cui, così ben radicatasi
nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo Terzo – DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del
cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti,
e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto
antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i
cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la
virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non
conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che base
e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, nella cagione
che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro
limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore. Da un
così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata
risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi concordemente in
tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al
contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo temere nasce vie più
sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la
sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria
debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce
nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa
egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare
nel cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o,
per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, i popoli, non
emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler
più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della
forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva,
pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili
limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non
diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita;
così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare,
se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza
illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del
tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad
offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito. Egli perciò
crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria
autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o
intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa
solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi,
argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura
dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e
custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini
che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo
conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei
pochi uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion
d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far
conoscere più il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e
quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali
siano ed esser debbano poi gli altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte,
veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze,
menare una vita stentata e infelice. Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai
loro tugurj per portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo maggior nemico, e
contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle città, l'una me mendico, ricchissimo
l'altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù
dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio
sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l'onore di tutti nella mano di un
solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di
arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono
palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e
in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma, perché si tacciono? per sola paura.
Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe
almeno risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) l'uno l'altro si
ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri?
qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli antichi governi
cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto gli scrittori per dimostrarci, che il
caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual
modo si possano dominare il caso e le circostanze, fino a qual punto questa diversità
intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori più vili
di essi, nel persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie antica. E, certo, finché
sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in
ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti,
qual più qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale
efficacissima molla di un tal governo; e questo è il solo legame, che tiene i sudditi col
tiranno.
Si esamini ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il legame che
lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne
conosce i vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni; e tutti in somma i
tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso. Vede costui, che le troppe gravezze di
giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie; perché da quelle
enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati,
spie, e cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede anch'egli
benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti
cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai
il tiranno. E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed
onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il
nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e
senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce
all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia
si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché
nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque società
nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella
propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero
lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i
buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente
ben sua; cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una
gente più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente,
ch'egli nol sia.
"Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio,
e non lasci trionfare rimuneri altro, che la sola virtù". Al che rispondo io, col domandare:
"Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si
creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni
individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé,
fuorché a Dio?" Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando
avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli
altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per
impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche
altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e
impunemente quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso
suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo,
dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno. Ma, come potrà egli chiamarsi
buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare un così gran bene a un fatto numero
d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe
diminuire ai suoi venturi figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con
impunità? E si noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso,
in vece di quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e
non mai finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo;
di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo intero.
Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno intronando gli
orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in
tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè
che non siano nudi, mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un
solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in
somma che bruti. Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque
possiede una usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona
chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come
dall'altro ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il
servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua
prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto
agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E
si può egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura,
poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli
costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi all'ombra di leggi in
nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti
capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei
all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura una miglior indole, riescano,
quanto all'effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una prova. Gli uomini buoni suppongono
sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più niente affatto conoscono gli uomini, presi
universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e
pochissimo quelli che vedono. Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro
son sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro,
la presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa,
può anche per l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono.
Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro
pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo ingannano. E
questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma
nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de'cortigiani. Ma,
dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi,
più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele
riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde
di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli
tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere
legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico
e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro. Ma, anche supponendo
che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei
pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano.
Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche
sotto l'ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre
pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla
paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la
dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi
annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché
convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno dunque di
costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla
non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli
eserciti. Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un
uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e
dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno
(potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui:
gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro
quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli
non lasciano. sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi.
La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero (quali
esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti
virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente
governo sarebbe il principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è stata estrema e
terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si
chiama e si reputa un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e
libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti
milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido
affatto. Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può
egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in
somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre
il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e sperimentato
amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal
uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e
odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo
amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla
viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più non
conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle
ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non
istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida
moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una stravagante autorità, non potea
essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla. Ogni illimitata autorità
è dunque sempre, o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima
usurpazione sul dritto naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la
esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di
poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque
onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo
amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra
costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché
giustamente gli nuoca. Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono
eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore,
disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli. Quindi è, che il nuocere giustamente a chi
male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i
magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche
si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a
rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e
tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto
l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega
che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire
che ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si
curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza,
non si lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque coraggio contra coraggio, ma
paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: " E
quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano
per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?" Rispondo; che di questa
specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer
nostro non conoscono onore, e che riputiamo di gran lunga inferiori a noi, gli orientali
anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne
attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei
pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol
parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che
ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA. Questa terribilissima passione, sotto
tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire
in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono
dalla battaglia, ne possono fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi
bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del
nemico, si trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso
anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino
coraggio da fronte. Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una
morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
Capitolo Quarto – DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più. Ma i vili in supremo grado
necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e
passiva paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura. Può
l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e temerà costui
con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di
quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di
temere, e la impossibilità d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore. All'incontro,
l'uomo già vile per propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di
un finto amore ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà,
col tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di
centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non
perciò tutti son vili.
Capitolo Quinto – DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi
maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le
più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua
attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite
rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i
fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte
della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e
virtuose repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto
diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se
stesso lo vede. Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e
assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se
non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in
somma, attestato coi fatti. Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri
premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile. È vero nondimeno, che possono i tutti
alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre.
Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente
diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è
utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente
tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene
di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza,
egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E così colui, che avrà per
caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non
liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il
tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno
stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si
dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di
aver premiato i servigj prestati a lui stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava
sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae
Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de
republica, donatum millibus ducentis, etc. Si vede in questo passo dalle parole, DE SE
meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di
se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente
alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per
formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i tiranni,
allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir
nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta. Ora, che
penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di
morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque
sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur
sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse
esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui,
mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente
risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli,
attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere
a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da
vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e
virtù. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una
parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e
doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo
stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj. Erano già molto corrotti i Romani, e
già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a i suffragj del popolo, si facea
console a dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario;
quali e quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il
popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue
soverchiavano di molto i suoi vizj. Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai nostri non
lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i
giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo
dei Francesi un secolo dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne
godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual
fosse la politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully, ebbe
egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni
inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di e dei
suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe
conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo, non si può
assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; si può (molto meno)
per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il
difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane
elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro
sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non
dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne
l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di
ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le
altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa
debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa. Ed una tal verità è impossibile a dirsi da
chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo
abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno
impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a
soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se
stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha
intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader
vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente
offesi dalla di lui insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti,
non può allignare altra compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e tutte le
tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni
tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita. Il
tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si
avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia,
vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere
nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non
meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino,
può vuole compatirne un grande. Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato
in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno,
all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa
obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente
esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella
esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella
finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte
virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di
tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private
passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di
vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero
eguali, o superiori, a colui che la esercita. si può in verun modo dubitare, che nella
repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già
prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla;
che non potabusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla
acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi.
Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà
nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per
conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla
chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo. Eppure codesti due
ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del
pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia
per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra
meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno e
nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i
semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno
senza potenza onori. E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa
differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si
ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo
merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se
onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla
nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca
obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore
contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi,
sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol
rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o
altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci
fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli
spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e
non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li
riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle
repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi
essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del
pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per
questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede.
L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed
estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del
pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono
i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro
governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le
ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per
godersele nei vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità
di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove
in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande. In vece che nei governi
assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e
dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe,
iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide. Conchiudo;
che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste
si fa dei non liberi.
Capitolo Sesto – DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus:
neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come
atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo
soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la
incapacità del tiranno, che la comparte. Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad
un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e
capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli
rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella
capacità desiderio e necessità del far male. I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi
ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con
maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti. E questo
abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale,
rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità,
che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire
altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha
offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e
chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò facilmente
persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e
crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un
tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare
benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio
novello al misero soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore,
benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia
quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo
far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel
giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna, che lo stato si prepari a
sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del
predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita
dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile. Eppure costui vuole, e dee volere (come
il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere,
ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non
è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa
piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla
stessa facilità si dimostra. Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo
vincerlo in cattività e accortezza. Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che
alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non
sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per
assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e
felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei
moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze,
ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: soffrono costoro alcun
altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che
maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la
sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono
stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli
uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, può
essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io
volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può essere stato mai, divenire, un
filosofo. Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno
non è mai, può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica
onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al
bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa. E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di
aver largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il
vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria
potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo
rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un
capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà
la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni
invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto ce lo provano assai meglio che
nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste ministro
nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo
ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se stessa
possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e
all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la
prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso. Crescono la potenza e l'abuso
ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e
casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una
persona di più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più
illegittima, richiede mezzi più illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di questo
personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di
ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale,
odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto
ingiurie private, gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano
di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma, tosto ch'egli cede questo
prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali, e dei
superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere
odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare che costui non
ferisca?
Capitolo Settimo – DELLA MILIZIA
Ma, o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro
inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj
soldati. Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un medesimo fine
destinate.
In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e
maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o
(per meglio dire) ciò che essi stoltamente chiamano di tal nome. Costoro s'inducono a questo
traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di
soverchiare ed opprimere i loro eguali. Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo alcune
milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano. E, per una strana contraddizione, che
molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa, si
lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla persona di quasi tutti i tiranni di
essa.
Ma, o straniere siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il
braccio, la molla, la base, la ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni. Un tiranno di
nuova invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e
perpetuo in armi. Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori,
ampiamente provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova, che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo
neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor
sudditi ad obbedire e tremare. Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi
entrano i sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto. Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava
disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi
sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli, pensava che
gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere. Ma ai tempi nostri, quell'autorità
e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì d'avere, ma non se la vedeano
sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da
quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma che ad
offenderli nuovamente lo invitano. Onde, fra l'idea del potere nei passati tiranni, e la effettiva
realità del potere nei presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la
possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa
del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal segno, che cose
politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli fare, dire, ascoltar,
pensare. Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci
nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici, nasce il mortale
abuso dell'esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha
opinioni ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua
illegittima e viziosa istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben
vivere. L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non essere
oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai
interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia vezzeggia; i
soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché
quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e temuti.
Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano
ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà.
Ogni diversità di interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la
universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si
insuperbisca oltre ogni misura. Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli
nulla.
Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto
ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e gli uni che gli altri, appena hanno
investita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi
che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro
eguali, e li reputano assai da meno di loro. E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide
si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genia militante,
che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed opprimerli. E a questa fatta genia
potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere un solo istante la loro
forza, poiché si troverebbero tuttavia mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare
questi loro oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli;
che quel loro valore sta per chi meglio lo paga. Ma da un fatto mezzo ne ridonderebbero in
appresso più mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una gran
moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero)
divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce
il tiranno, e non quanto costoro sel meritano. Questa non è una delle più leggiere prove, che il
popolo nella tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti
soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da
quest'odio estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver
detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui. Coll'accrescere i mezzi
di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal modo, che se ora quei mezzi
scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la
tirannide affatto. Perciò quegli eserciti, che non erano necessarj prima che si oltrepassassero
certi limiti, e prima che il popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e
palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque
per molti anni ha avuto davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più
intimorire da una forza ideale. Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei
perpetui eserciti, immantinente cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo
continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle
sue proprie viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami. Ma il
popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli
stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà ad
altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se
ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo. Sono costoro il vero e primo giojello
delle loro corone: e, mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a
beverne il sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno. Si accorda, in ragione del numero dei
loro soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni. E siccome non possono essi
diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e siccome una
persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si dileggia da prima, e
tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto
disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che sempre dissangueranno il popolo
per mantenere coi molti soldati se stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in
Europa, ed hanno effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come
nobili, che ella sia onorevole cosa la loro milizia. E col portarne essi stessi la livrea,
coll'impostura di passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative
insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i magistrati tutti,
hanno con c offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di questo mestiere
esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a distruggere questa loro scurrile impostura. O tu reputi i
soldati come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti
onorevol cosa lo esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza
illimitata ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per
tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà
nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo fatto
paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più, che nol
farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di liberarti dal tuo? Che ti può egli
togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo
tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo adunque; Che, non si potendo dir patria dove non ci è libertà e sicurezza, il
portar l'armi dove non ci è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché
altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il
proprio interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
Capitolo Ottavo – DELLA RELIGIONE
Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli
non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo
più uno dei saldissimi sostegni della tirannide. L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene
talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che
se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte,
ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una
idea, qual ch'ella si fosse, della divinità. Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa
veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi
sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi
repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte
celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero. La giudaica, e quindi la
cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa,
doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che
della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse
religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al
viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero.
A voler provare la prima di queste proposizioni, basterà, credo, il dimostrare che essa in
nessun modo non induce, persuade, esorta gli uomini al viver liberi. Ed il primo, e
principale incitamento ad un effetto così importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla
lor religione; poic non vi è cosa che più li signoreggi; che maggiormente imprima in essi
questa o quella opinione; e che maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese. Ed in
fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti
comandavano ai diversi popoli e l'amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata
in un popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già intieramente soggiogato dai
sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina pure mai libertà; ed il
tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a Dio.
Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà che sempre si procacciò più facilmente
l'ingresso nelle tirannidi, che nelle repubbliche. Al cadere dell'imperio romano, (in cui ella
non poté trovar seggio, se non quando la militare tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni
vivere civile) quelle tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia, nelle
Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi condottieri abbracciarono indi a non
molto la religion cristiana. E la ragione mi par ne sia questa. Quei loro condottieri volendo
rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando non erano in guerra, non
volendo obbedire se non come soldati a capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa
disparità di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva introduttore di una certa via
di mezzo, per cui si andava persuadendo ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si
veniva assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità divider volessero coi
sacerdoti. In prova di che, si osservi quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi
povera, semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo popolo d'Europa che
ricevesse, più assai per violenza che per via di persuasione, la religion cristiana.
Le poche nazioni che fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte dal timore e
dalla forza, come le diverse piagge di America e d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo
fanatismo con cui veniva abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può manifestamente
dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi, nelle tirannidi.
I troppi abusi di essa sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a
raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni. E costoro, distinti poi col nome di
eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo
essere stata lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò; come gli Svizzeri, la
Olanda, molte cit di Germania, la Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano. Ma i
popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata
predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l'aveano i suoi
successori trasfigurata) si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà. Addurrò
ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato
cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non
saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero
politico. Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL
MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI
RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano
la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile. E, dalla prima di queste sei
cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti
immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido.
Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza
superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per
timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità. Ecco in qual guisa un popolo che rimane
cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo,
servissimo, e stupidissimo.
Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono pure nella trinità; e questa al senso umano pare una
cosa certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono dunque gli eretici meno
stupidi dei cattolici". Rispondo; che anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli
augelli, cosa assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e non divennero stupidi
e vili, se non quando, spogliati della lor libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di
Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni. Quindi, la trinità nostra, per non essere cosa
soggetta ai sensi, si creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico: ma, l'autorità
più o meno di un uomo; l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro
ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze; tali in somma, che ogni
popolo che crede od ammette una tale autorità, si rende schiavo per sempre.
Lo ammetterla senza crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta l'Europa cattolica, mi
pare una di quelle umane contraddizioni stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle
non possono essere gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne. Ma i
popoli che l'autorità del papa ammettono perché la credono, come erano i nostri avi, ed alcune
presenti nazioni, necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità. Se per
queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una nazione stupida ed ignorante affatto, non
può, nel presente stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i popoli, da chi
vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle papali scomuniche certamente, poiché in
esse non hanno fede costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed indotti a
finger di credere. E da quali armi mai? da qual vera forza? dalle armi e forza del tiranno, che
politicamente e religiosamente gli opprime. Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li
governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il crederla o no, ne risulta che
chi governa tai popoli, di necessità è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza,
non sono, possono farsi mai liberi. Ed in fatti, Atene, Sparta, Roma, altre vere
ed illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere nella infallibilità degli
oracoli; né, molto meno, a rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano
sacerdozio.
LA INQUISIZIONE, quel tribunale iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare
d'orrore, sussiste pur tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici. Il tiranno se ne
prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui
giova. Ma, questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della classe la più crudele, la più
sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza avrebbe ella
per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei popoli, se il tiranno non la assistesse e
munisse colla propria sua forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e
tirannico, non è certamente giusta legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna
indubitabilmente la tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante
l'Inquisizione: non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e
un popolo libero.
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la
certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone
che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento
manifestamente ogni giorno derivano. Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che
confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a
Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori,
ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma
discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo.
La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed effetto della confessione,
contribuisce non poco altresì ad invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici
popoli. Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti
dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta
il lor necessario. Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor
connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù. Onde, di
povero che suol essere in ogni qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo
mezzo di più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal modo avvilito, che non
penserà ardirà mai tentare di farsi libero. I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché non
mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor purgatorio ricchissimi, e quindi
moltiplicati e superbi, sono sempre in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro
illegittime sterminate ricchezze, a collegarsi con gli oppressori del popolo, e a divenire essi
stessi oppressori per conservarle.
Dalla indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne risultano
palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi
mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché quella sforzata
indissolubilità non ristringe i legami domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli,
interamente li corrompe e dissolve.
E finalmente poi, siccome dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non
sogliono esser essi fra loro mariti veri, mogli, padri; così, dall'essere i preti cattolici
sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi fratelli, figli, cittadini;
che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere per
esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito.
Da queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente (oltre la maggior ragione
di tutte, che sono i fatti) che un popolo cattolico già soggiogato dalla tirannide,
difficilissimamente può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico. E per addurne un solo
esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione delle Fiandre, quelle provincie povere, che
non avendo impinguati i lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e
ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e serve. Vediamo ora, se un
popolo che già si ritrovi libero e cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro.
Che un popolo soggiogato da tanti e fatti politici errori, quanti ne importa il viver cattolico,
possa essere politicamente libero, ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo
fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile. Un popolo, che crede nella
infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che
con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo
persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo
papa nelle religiose. Un popolo, che trema della Inquisizione, quanto più non dovrà egli
tremare di quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si confessa di
cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi può assolverlo o no? Dico di più; che dal
ceto stesso dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe uno religioso ben
tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno, lo approverebbero e seconderebbero i
sacerdoti, sperandone il contraccambio da lui. Ed è cosa anche provata dai fatti; si veda
perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi saliti assai meno in ricchezza e in
potenza, che nelle tirannidi espresse di un solo. Un popolo finalmente, che si spropria
dell'aver suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi figli, per darlo ai
sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico,
che egli sarà preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo.
Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il
politico impero, o se l'impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio. Questa reciproca e
simulata idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico testamento a vicenda
sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo
chiamare, o reputare mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane società. Il vero
si è, che quasi tutti i popoli della terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti
in mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono andate vicendevolmente
conoscendo inique, e che con tutto ciò si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che
dai popoli sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure adorate.
È il vero altresì, che in questo nostro secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che
pochissimo potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto gl'idioti; che non si
comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri religiosi e volgari: ma, al papa, alla
Inquisizione, alla confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i presenti
cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi spiego. Il tiranno ottiene ora dal terrore
che a tutti inspirano i suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per l'addietro
otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei popoli. Poco gl'importa oramai che in
Dio non si creda; basta al tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto
più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano mallevadori continui gli eserciti suoi.
Vi sono nondimeno in Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte
l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per farsi pii reputare, e per piacere al
maggior numero che pur tuttora la rispetta, e la crede. Ogni savio tiranno, ed accorto, così dee
pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità di un così prezioso ramo
dell'autorità assoluta, quale è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua,
amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe egli avvenirsi in un qualche
fanatico di religione, il quale facesse le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e
più assai incalzanti, che questi. E perché mai sono quelli men rari? attribuir ciò si dee
all'essere il nome di religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore quasi a
nessuno, il nome di libertà.
Il più sublime dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne ridonderebbero degli
uomini maggiori di quanti ve ne siano stati giammai, sarebbe pur quello, che creasse e
propagasse una religione ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero
agli uomini di esser liberi. Ma, coloro che inspiravano il fanatismo negli altri, non erano per lo
più mai fanatici essi stessi; e pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un
Dio, che agli uomini severamente comandassero di essere servi.
Capitolo Nono- DELLE TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Le cagioni stesse hanno certamente in ogni tempo e luogo, con piccolissime differenze,
prodotto gli stessi effetti. Tutti i popoli corrottissimi hanno soggiaciuto ai tiranni, fra' quali ve
ne sono stati dei pessimi, dei cattivi, dei mezzani, e perfino anco dei buoni. Nei moderni
tempi i Caligoli, i Neroni, i Dionigi, i Falaridi, ecc., rarissimi sono: e se anche vi nascono,
assumono costoro fra noi una tutt'altra maschera. Ma meno feroce d'assai è anche il popolo
moderno: quindi la ferocia del tiranno sta sempre in proporzione di quella dei sudditi.
Le nostre tirannidi, in oltre, differiscono dalle antiche moltissimo; ancorché di queste e di
quelle la milizia sia il nervo, la ragione, e la base. so, che questa differenza ch'io sto per
notare, sia stata da altri osservata. Quasi tutte le antiche tirannidi, e principalmente la romana
imperiale, nacquero e si corroborarono per via della forza militare stabilita senza
nessunissimo rispetto su la rovina totale d'ogni preventiva forza civile e legale. All'incontro le
tirannidi moderne in Europa sono cresciute e si sono corroborate per via d'un potere, militare
e violento, ma pure fatto, per così dir, scaturire da quell'apparente o reale potere civile e
legale, che si trovava già stabilito presso a quei popoli. Servirono a ciò di plausibil pretesto le
ragioni di difesa d'uno stato contro all'altro; la conseguenza ne riuscì più sordamente tirannica
che fra gli antichi; ma ella ne è pur troppo più funesta e durevole, perché in tutto è velata
dall'ammanto ideale di una legittima civile possanza.
I Romani erano educati fra il sangue; i loro crudeli spettacoli, che a tempo di repubblica
virtuosamente feroci li rendevano, al cessar d'esser liberi non li faceano cessare per ciò di
essere sanguinarj. Nerone, Caligola, ecc., ecc., trucidavano la madre, la moglie, i fratelli, e
chiunque a lor dispiacesse: ma Nerone, Caligola, e i simili a loro, morivano pur sempre di
ferro. I nostri tiranni non uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano
senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno se non sotto il manto della giustizia: ma
anche i tiranni nostri se ne muojono in letto.
Non negherò, che a raddolcire gli universali costumi non poco contribuisse la religione
cristiana; benché da Costantino fino a Carlo VI tanti tratti di stupida ignorante e non grandiosa
ferocia si possono pur leggere nelle storie di tutti quei popoli intermediarj, che storia a dir
vero non meritavano. Nondimeno attribuire si debbe in qualche parte il raddolcimento
universale dei costumi, e una certa urbani nella tirannide diversamente modificata, alla
influenza della cristiana religione. Il tiranno, anch'egli ignorante per lo più e superstizioso, e
sempre codardo, il tiranno anch'egli si confessa; e benché sempre vada assolto dalle
oppressioni e dalle angarie fatte ai suoi sudditi, non lo sarebbe forse poi in questi nostri tempi
dell'aver trucidato apertamente la madre e i fratelli, o dell'aver messo a fuoco e a sangue una
propria città e provincia, se non se ricomprando con enorme prezzo, e con una total
sommissione ai sacerdoti, la disusata enormità di un tanto misfatto.
Se sia un bene od un male, che dall'essere raddolciti tanto gli universali costumi ne risultino
queste nostre tirannidi assai meno feroci, ma assai più durevoli e sicure che le antiche, ne può
esser giudice chiunque vorrà paragonare gli effetti e le influenze di queste e di quelle. Quanto
a me, dovendone brevissimamente parlare, direi; che difficilmente può nascere ai tempi nostri
un Nerone ed esercitar l'arte sua; ma che assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto,
e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno.
Capitolo Decimo – DEL FALSO ONORE
Ma, se le antiche tirannidi e le moderne si rassomigliano nell'aver esse la paura per base, la
milizia e la religione per mezzi, differiscono alquanto le moderne dalle antiche per aver esse
nel falso onore, e nella classe della nobiltà ereditaria permanente, ritrovato un sostegno, che
può assicurarne la durata in eterno. Ragionerò in questo capitolo del falso onore; e alla
nobiltà, che ben se lo merita, riserberò un capitolo a parte.
L'onore, nome da tanti già definito, da tutti i popoli, e in tutti i tempi diversamente inteso, e a
parer mio indefinibile; l'onore verrà ora da me semplicemente interpretato così: La brama, e il
diritto, di essere onorato dai più. Ed il falso distinguerò dal vero, falsa chiamando quella
brama d'onore, che non ha per ragione e per base la virtù dell'onorato, e l'utile vero degli
onoranti; e vera all'incontro chiamerò quella brama di onore, che altra ragione e base non
ammette se non la utile e praticata virtù. Ciò posto, esaminiamo qual sia questo onore nelle
tirannidi, chi lo professi, a chi giovi, da qual virtù nasca, e qual virtù ed utile egli promuova.
L'onore nelle tirannidi si va spacciando egli stesso come il solo legittimo impulso, che spinge
tutti coloro che pretendono di non operar per paura. Il tiranno, contento oltre ogni credere, che
la paura mascherata sotto altro titolo venga nondimeno a produrre un medesimo, anzi un
maggior effetto in suo pro, straordinariamente seconda questa volgare illusione. Col semplice
nome di onore, che sempre gli sta tra le labbra, egli riesce pure a spingere i suoi sudditi a
coraggiose e magnanime imprese, le quali veramente onorevoli sarebbero, se fatte non fossero
in suo privato vantaggio, ed in pubblico danno. Ma, se onore vuol dire; Il giusto diritto di
essere veramente onorato dai buoni ed onesti, come utile ai più; e se la virtù sola può essere
base a un tal dritto; come può egli il tiranno profferire mai un tal nome? Lo ripetono anche i
sudditi a gara; ma se la loro brama e diritto d'essere onorati si fondasse su la pratica della vera
virtù, potrebbero eglino servire, obbedire, e giovare a un tiranno che nuoce a tutti? E noi stessi
schiavi moderni, ove ricordare pure vogliamo la memoria d'un uomo giustamente onorato per
molte età da molti e diversi popoli, e che quindi moltissimo onore abbia avuto nel cuore,
facciamo noi menzione di un Milziade, di un Temistocle, di un Regolo, ovvero d'uno
Spitridate, di un Sejano, o di altro prepotente schiavo di tiranno? Noi stessi dunque (e senza
avvedercene) sommamente onorando quegli uomini liberi, grandi, e giustamente onorevoli ed
onorati, veniamo manifestamente a mostrare, che il vero onore era il loro; e che il nostro, il
quale in tutto è l'opposto di quello, è il falso; poiché niente onoriamo la memoria di quei
pretesi grandi in tirannide.
Ma, se l'onore nelle tirannidi è falso, e se, immedesimatosi colla paura, egli è pure la
principalissima molla di un tal governo, da un falso principio falsissime conseguenze risultar
ne dovranno; e ne risultano in fatti. L'onore nella tirannide impone, che mai non si manchi di
fede al tiranno. Impone l'onore nella repubblica, che chiunque volesse farsi tiranno, sia spento.
Per giudicare qual sia tra questi due onori il verace, esaminiamo alla sfuggita questa fede, che
il servo non dee rompere al tiranno. Il rompere la data fede, è certamente cosa, che dee
disonorar l'uomo in ogni qualunque governo: ma la fede dev'essere liberamente giurata, non
estorquita dalla violenza, non mantenuta dal terrore, non illimitata, non cieca, non ereditaria;
e, sovra ogni cosa, reciproca dev'esser la fede. Ogni moderno tiranno, al riappiccarsi in fronte
la corona del padre, anch'egli ha giurato una fede qualunque ai suoi sudditi, che già rotta e
annullata dal di lui padre, lo sarà parimente e doppiamente da esso. Il tiranno è dunque di
necessità sempre il primo ad essere spergiuro, e fedifrago: egli è dunque il primo a calpestarsi
fra' piedi il proprio onore, insieme con le altrui cose tutte. Ed i suoi sudditi perderebbero l'onor
loro, nel romper essi quella fede che altri ha manifestamente già rotta? La pretesa virtù, in
questo caso frequente pur tanto nelle tirannidi, sta dunque direttamente in opposizione
coll'onor vero; poiché, se un privato ti manca di fede, anche l'onore stesso delle tirannidi
t'impone di fargliela a forza osservare, per vendicare in tal modo il disprezzo ch'egli ha
mostrato espressamente di te nell'infrangerla. Manifestamente dunque falso è quell'onore che
comanda di serbar rispetto, ed amore, e fede a chi non serba, o può impunemente non serbare,
alcuna di queste tre cose a nessuno. Da questo falso onore nasce poi la falsissima
conseguenza, che si venga a credere legittima infrangibile e sacra quell'autorità, che l'onore
stesso costringe a mantenere e difendere.
A questo modo, nella tirannide, guasti essendo e confusi i nomi di tutte le cose, i capricci del
tiranno messi in carta, col sacro nome di leggi s'intitolano; e si rispettano, ed eseguiscono,
come tali. Così, a quella terra dove si nasce, si dà nella tirannide risibilmente il nome di patria;
perché non si pensa che patria è quella sola, dove l'uomo liberamente esercita, e sotto la
securtà d'invariabili leggi, quei più preziosi diritti che natura gli ha dati. Così, si ardisce nella
tirannide appellare senato (col nome cioè dei liberi scelti patrizj di Roma) una informe
raccolta di giudici trascelti dal principe, togati di porpora, e specialmente dotti in servire. Così
finalmente, si viene a chiamare nella tirannide col titolo sacro d'onore la dimostrata
impossibilità di essere giustamente onorato dai buoni, come di essere utile ai molti.
Ma, per maggiormente accertarci, che l'onor nostro sia il falso, paragoniamolo alquanto più
lungamente a quello delle repubbliche antiche, nelle sue cagioni, mezzi, ed effetti; e certo
arrossiremo noi tosto di profferire un tal nome; che se dicessimo non essere egli a noi noto
affatto, con una tale ignoranza escuseremmo almeno la infamia nostra in gran parte.
Comandava l'onore antico a quei popoli liberi, di dar la vita per la libertà; vale a dire pel
maggior vantaggio di tutti: ci comanda il moderno onore di dar la vita pel tiranno; vale a dire
per colui che sommamente nuoce a noi tutti. Voleva l'antico onore, che le ingiurie private
cedessero sempre alle pubbliche: vuole il moderno che si abbiano le pubbliche per nulla, e che
atrocemente si vendichino le private. Voleva l'antico, che i suoi seguaci serbassero amore e
fede inviolabile alla patria sola: il nostro la vuole e comanda pel solo tiranno. E non finirei, se
i precetti di questo e di quello, in tutto contrarj fra loro, annoverare volessi.
Ma i mezzi per essere onorato, non meno dai popoli servi che dai liberi, sono pur sempre il
coraggio e una certa virtù: colla somma differenza nondimeno, che l'onore nelle repubbliche,
scevro da ogni privato interesse, riesce di pura ricompensa a se stesso; ma nelle tirannidi
questo onore impiegatosi in pro del tiranno, vien sempre contaminato da mercedi e favori, che
più o meno distribuiti dal principe, accrescono, minorano, o anche, negati, spengono affatto
l'onore nel cuore de' suoi servi.
Le conseguenze poi di questi due diversi onori, facilissime sono a dedursi. Libertà, grandezza
d'animo, virtù domestiche e pubbliche, il nome e il felice stato di cittadino; ecco quali erano i
dolci frutti dell'antico onore: tirannia, ferocia inutile, vil cupidigia, servaggio, e timore; ecco
innegabilmente quali sono i frutti del moderno. I Greci e' Romani erano in somma il prodotto
del vero onor ben diretto; i popoli tutti presenti d'Europa, (meno gl'Inglesi) sono il prodotto
del falso onore moderno. Paragonando fra loro questi popoli, la diversa felicità e potenza da
essi acquistata, le diverse cose operate da loro, la fama che ottengono, e quella che meritano,
si viene ad avere un'ampia e perfetta misura di ciò che possa nel cuor dell'uomo questa divina
brama di essere giustamente onorato, allorché dai saggi governi ella è bene indrizzata e
accresciuta, o allorché dai tirannici ella viene diminuita, o traviata dal vero.
Mi si dirà che, o buono sia o cattivo il principio, a ogni modo il sagrificar la propria vita, il
mantenere la data fede a costo di essa, l'esporla per vendicare le ingiurie private, tutto ciò
suppone pur sempre una somma virtù. io imprendo stoltamente a negare, che nelle
tirannidi vi sia moltissima gente capace di virtù, e nata per esercitarla: piango solamente in me
stesso di vederla falsamente adoprarsi nel sostenere, e difendere il vizio, e quindi nello
snaturare, e distruggere se stessa. E niuno politico scrittore ardirà certamente chiamare virtù
uno sforzo, ancorché massimamente sublime, da cui, in vece del pubblico bene, ne debba poi
ridondare un male per tutti, e la prolungazione del pubblico danno.
Ora, perché dunque quella stessa vita, che tanti e fatti uomini ripieni di falso onore vanno
così prodigamente spendendo pel tiranno, perché quella vita stessa non vien ella da loro
sagrificata, con più ragione e con ugual virtù, per togliere a colui la tirannide? E quel valore
inutile (poiché non ne ridonda alcun bene) quell'efferato valore, con cui nelle tirannidi si
vendicano le private offese, perché non si adopera tutto contro al tiranno, che tutti, e in più
supremo grado, non cessa pur mai un momento di offendere? E quella fede che così
ostinatamente cieca si osserva verso il nemico di tutti, perché, con egual pertinacia e con più
illuminata virtù, non si giura ella ed osserva inverso i sacri ed infranti diritti dell'uomo?
Nelle tirannidi dunque, a tal segno ridotti son gl'individui, che, qualunque impulso dalla
natura abbiano ricevuto all'operar cose grandi, essi edificano pur sempre sul falso,
ogniqualvolta non sanno o non osano calpestare il moderno onore, e riassumere l'antico.
Capitolo Undecimo – DELLA NOBILTÀ
Havvi una classe di gente, che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre,
ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei
sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei più feroci e
permanenti sostegni della tirannide.
E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch'elle in questo
ceto, è da osservarsi, che già lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertà; che questo
ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinj; che i Romani non accordarono
d'allora in poi nobiltà, se non alla sola virtù; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtù di
quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizj di assumere la tirannide; e
che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo credendo di
abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma erano patrizj, che mascheratisi da
Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque; che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch'elle nascano, o tosto o
tardi le distruggeranno, e faran serve; ancorché non vi siano da prima più potenti che il
popolo. Ma, in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dee mai creare
nel proprio seno un sì fatale stromento di servitù, né mai staccare dalla causa comune nessuno
individuo, (molto meno) staccarne a perpetuità, nessuna intera classe di cittadini. Pure, per
altra parte moltissimo giovando alla emulazione, e non poco alla miglior discussione dei
pubblici affari, l'aver nella repubblica un ceto minore in numero, e maggiore in virtù al ceto di
tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a
vita od a tempo, ma non ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella
repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltà, senza poterne operare mai niuno dei
mali, che ella tutto giorno pur vi opera.
Natura dell'uomo si è, che quanto egli più ha, tanto desidera più, e tanto maggiormente in
grado si trova di assumersi più. Al ceto dei nobili ereditarj, avendo essi la primazìa e le
ricchezze, altro non manca se non la maggiore autorità, e quindi ad altro non pensano che ad
usurparla. Per via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur sempre di tanto
minori del popolo. Per arte dunque, per corruzione, e per fraude, tentano di usurparla. Ma, o
fra loro tutti si accordano, e, per invidia l'uno dell'altro, rimanendo la usurpata autorità nelle
mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide aristocratica: ovvero tra quei nobili se ne
trova uno più accorto, più valente, e più reo degli altri, che parte ne inganna, parte ne
perseguita o distrugge, e fingendo di assumere le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto
signore di tutti; ed ecco, come sorge la tirannide d'un solo. Ed ecco, come ogni tirannide ha
sempre per origine la primazìa ereditaria di pochi: poiché la tirannide importando
necessariamente sempre lesione e danno dei più, ella non si può mai originare lungamente
esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione ed il danno di se stessi.
Conchiudo adunque, quanto alla ereditaria nobiltà, che quelle repubbliche, in cui ella è già
stabilita, non possono durar libere di vera politica libertà; e che nelle tirannidi questa vera
libertà non vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi rimangono de' nobili ereditarj:
e le tirannidi nelle loro rivoluzioni non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non
abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltà. Così Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinj,
rimanendovi pure, dopo svanito il comune pericolo, assai più potenti i patrizj che il popolo,
Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazione dei tribuni. Questo popolar
magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per
tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a
gareggiare col popolo in virtù; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti. Ma il mal
seme pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò più che
mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la
repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace verità osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche
maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltà ed il popolo erano
state per più secoli il nerbo, la grandezza, e la vita, di Roma: ma la sacra verità comandava pur
anco, che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi
la intera rovina; e il come, e il perché, ampiamente da essi indagar si dovea. Ed io mi fo a
credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato spingere alquanto più oltre il loro
riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima
cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà. Che se le dissensioni, o per dir meglio le
disparità di opinioni, sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà,
bisogna pur confessare che le dispari d'interessi dannosissime vi riescono, e di necessità
mortifere ogniqualvolta l'uno dei due diversi interessi interamente la vince. Ora, mi pare
innegabile, che ogni primazìa ereditaria di pochi genera per forza in quei pochi un interesse di
conservazione e di accrescimento, diverso ed opposto all'interesse di tutti. Ed ecco il vizio
radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà una classe di nobili e di sacerdoti, a parte
dal popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti: e i nobili, per essere
ereditarj, riusciranno quasi più dannosi che i sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto: ma, per
dire il vero, abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro ereditarie impolitiche
massime, che da ogni loro individuo in un colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che,
per maggiormente perfezionare questo comune danno, le più cospicue sacerdotali dignità
sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei nobili: dal che ne risulta, che i sacerdoti
doppiamente dannosi riescono al pubblico bene.
E benché in Inghilterra vi siano per ora, e nobili e libertà, non mi rimuovo io perciò in nulla da
questo mio su mentovato parere. Si osservi da prima, che in Inghilterra i veri nobili antichi,
nelle spesse e sanguinose rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti di
fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero assumere in una in
due generazioni quella superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi ancora
i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien bevuta col latte dai nobili antichi,
interamente staccati nelle nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono
lungamente stati gli oppressori e tiranni. Si osservi in oltre, che i nobili in Inghilterra, presi in
se stessi, sono meno potenti del popolo; e che, uniti col popolo, sono più che il re; ma che,
uniti col re, non sono però mai più che il popolo. Si osservi in oltre, che se in alcuna cosa la
repubblica inglese pare più saldamente costituita che la romana, si è nell'essere in Inghilterra
la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma
accesa bensì fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si oppone. Quindi, non
essendo questa dissensione generata da disparità di ereditario interesse, ma da disparità di
passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere; poiché nessuno
talmente aderisce a una parte, ch'egli non possa spessissimo passare dalla contraria; nessuna
delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di
tutti. Una nobiltà dunque così felicemente rattemperata, come la inglese lo pare, per certo
riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse
non le mancherebbe che di non essere ereditaria. Una classe di uomini principali, e non
amovibili membri del governo, ov'ella fosse creata dalla vera virtù e dai liberi suffragj di tutti,
vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e grandissima emulazione di virtù
si verrebbe ad accendere fra i concorrenti ad essa. Ma, se disgraziatamente ereditaria una tal
classe si ammette, ancorch'ella si creasse da liberi e virtuosi suffragj, tuttavia ad ogni
individuo inglese che verrà creato nobile ereditario, si perderà per tal mezzo una intera stirpe,
che così viene staccata dall'interesse comune, deviata dal vantaggio di tutti, e privata di ogni
emulazione al ben fare. Quindi è, che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno dannosi
che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal re ad arbitrio suo, e senza alcun
limite; credendosi essi maggiori del popolo; essendovi e più ricchi, e più sazj, e più oziosi, e
più guasti assai che non è il popolo; i nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo
maggiormente propensi all'autorità del re, il quale creati gli ha e spegnerli non potrebbe, che
non all'autorità del popolo, il quale non può creargli e li potrebbe pure distruggere. In
Inghilterra perciò (come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o già sono, i corrompitori
della libertà; ove, prima di ciò, abbattuti maggiormente non siano dal popolo. Ma, non
essendo la repubblica il mio tema, abbastanza, e troppo lungamente forse, ho io parlato fin qui
dei nobili nelle repubbliche. Mi convien dunque ora lungamente ragionare dei nobili nelle
moderne nostre tirannidi.
Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa, divise le provincie fra diversi popoli;
ed infiniti stati da quell'immenso stato nascevano. Ma, in tutti insorgeva una nuova specie di
governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni rendendo omaggio ad un solo e
maggiore, teneano, sotto il titolo di feudatarj, nella oppressione e servitù i varj lor popoli.
Alcuni di questi tiranni feudatarj divennero così potenti, che ribellatisi al loro sovrano, si
crearono stato a parte; e non pochi dei presenti tiranni d'Europa son della stirpe di quei
signorotti. E, per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresì col tempo
abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto quei secondi tiranni, e rimanere essi
soli sovrani. Comunque ciò fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non
sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene: anzi, è verisimile che, assicurato ed ingrandito
il loro stato, i tiranni maggiori, avendo meno rispetti, più illimitata potenza, e minori nemici,
ne divennero con molta più impunità e sicurezza oppressori del loro misero gregge.
Ma, quanto erano stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatarj, finché aveano avuto
autorità e forza; quanto erano stati ostacolo, e in un certo modo freno, alla compiuta tirannide
di quel solo, altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che rimasero spogliati
dell'autorità e della forza. I tiranni si prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i
signorotti; ed il popolo che avea da vendicar tante ingiurie, volonteroso seguitò l'animosità di
quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e minori. Allora, qual dei signorotti si dette per
accordo al tiranno, e quale contr'esso rivolse le armi. Ma, o patteggiati, o vinti ch'ei fossero,
tutti, od i più, coll'andar del tempo soggiacquero. Non si estinse tuttavia interamente mai quel
male che ridondava da questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la servitù per
il popolo; notabilmente si accrebbe bensì l'autorità e la forza del tiranno. Conobbero i tiranni
la necessità di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che paresse alquanto più potente che
il popolo, e fosse assai meno potente di loro: e benissimo conobbero che distribuendo fra
costoro gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questi col tempo i più feroci e saldi satelliti
della loro tirannide.
s'ingannarono in tal fatto i tiranni. I nobili, spogliati affatto della loro autorità e forza, ma
non interamente delle loro ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano
essi nella tirannide continuare ad essere tenuti maggiori del popolo, se non se risplendendo
della luce del tiranno. L'impossibilità di riacquistare l'antica potenza li costrinse ad adattare la
loro ambizione alla necessità ed ai tempi. Dal popolo, che non s'era certamente scordato delle
loro antiche oppressioni; dal popolo, che gli abborriva perché li credeva ancora troppo più
potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli ancor che il volesse,
videro chiaramente i nobili che non v'era luogo a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro.
Si gittarono dunque interamente in braccia al tiranno; ed egli non li temendo oramai, e
vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della tirannide, li prelesse ad essere i
depositarj e il sostegno.
E questa è la nobiltà, che nelle tirannidi d'Europa tutto giorno poi vedesi così insolente col
popolo, e così vil coi tiranni. Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la più corrotta; ella è
perciò l'ornamento principalissimo delle corti, il maggior obbrobrio della servitù, e il giusto
ludibrio dei pochi che pensano. Degeneri dai loro avi nella fierezza, i nobili sono gl'inventori
primieri d'ogni adulazione, d'ogni più vile prostituzione al tiranno: ma non tralignano già essi
nella superbia e crudeltà contro al popolo. Anzi, vie più inferociti per la loro perduta potenza
effettiva, lo tiranneggiano quanto più sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno, se egli
lo permette; e se egli lo vieta, (il che di rado accadeva fino allo stabilimento della perpetua
milizia) non lasciano pure di opprimere il popolo di furto con quanta prepotenza più possono.
Ma, dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in Europa, i tiranni vedendosi armati e
effettivamente potenti, hanno incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltà, e a
sottoporla anch'essa alla giustizia non meno che il popolo, allor quando ad essi così giova, o
piace, di fare. La vista politica del tiranno nel volersi mostrare imparziale pe' nobili, è stata di
riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili l'odiosità degli antecedenti governi. Ed io mi
fo a credere, che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi, ove fossero
egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli pure inclinerebbe più per il popolo;
ancorché pur sempre sentisse, che a tenere il popolo a freno egli è, in un certo modo,
necessarissimo il naturale argine della nobiltà, cioè, dei più ricchi ed illustri. E di questo
semiamore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la seguente ragione. La
nobiltà, per quanto sia ignorante e mal educata, pure, come alquanto meno oppressa e più
agiata, ella ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto più che il popolo; ella si avvicina
molto più al tiranno; ella ne studia e ne conosce più l'indole, i vizj, e la nullità. Si aggiunga a
questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede di aver talvolta dei nobili; e da
questo tutto si verrà facilmente ad intendere quell'innato odio contr'essi, che sta nel cuor del
tiranno; il quale non può né dee voler che si pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo
spia e conosce. Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolarità, che molti dei
moderni tiranni europei van facendo; come anche le tante mortificazioni, che vanno
compartendo ai lor nobili. Il popolo, soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne
sopporta più volentieri il comune oppressore, e la divisa oppressione. I nobili rodono la
catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono, per romperla. Il tiranno se ne sta fra'
due, distribuendo ad entrambi a vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze;
e così vie più sempre corrobora egli e perpetua la tirannide. Non distrugge egli i nobili, se non
se a minuto i più antichi, per riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma più
soggetti e arrendevoli a lui: e non li distrugge il tiranno, perché li crede (ed il sono)
essenzialissima parte della tirannide. Non gli teme, perch'egli è armato: non gli stima, perché
li conosce: non gli ama, perché lo conoscono. Il popolo non mormora dei gravosi eserciti,
perch'egli non ragiona, e ne trema: ma con molta gioja bensì per via degli eserciti vede i nobili
starsi non meno soggetti e tremanti di lui.
I nobili ereditarj son dunque una parte integrante della tirannide, perché non può allignar
lungamente libertà vera, dove esiste una classe primeggiante, che tale non sia per virtù ed
elezione. Ma la milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide più integrante ancora di
quel che lo sia la nobiltà, ha tolto ai nobili la possibilità di far fronte al tiranno, e diminuita in
loro quella di opprimere il popolo.
Capitolo Duodecimo - DELLE TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EU-
ROPEE
Pare, che molte tirannidi d'oriente smentiscano quanto ho detto finora circa alla necessità dei
nobili inerente all'essenza della tirannide; non vi essendo in esse alcuna nobiltà ereditaria;
ammettendo esse a prima vista altra distinzione di ordini, che un signor solo e tutti gli altri
servi egualmente. E, a dir vero, l'Asia in ogni tempo non solo non conobbe libertà, ma
soggiacque quasi sempre tutta a tirannidi inaudite, esercitate in regioni vastissime; in cui non
si scorge nessun viver civile, nessuna stabilità, e nessune leggi, che non soggiacciano al
capriccio del tiranno, eccettuatene tuttavia le religiose. Ma io, con tutto ciò, non dispero di
poter dimostrare che la tirannide in ogni tempo e luogo è tirannide; e che usando ella gli stessi
mezzi per mantenersi, produce, ancorché sotto diverso aspetto, gli stessissimi effetti.
Non esaminerò perché siano tali i popoli dell'oriente; le ragioni, che riuscirebbero assai più
congetturali che dimostrative, o ne sono state assegnate, o lo verranno da altri più dotti e
profondi che non son io. Ma, partendo dal dato, io dico; che la paura, la milizia, e la religione,
innegabilmente sono esse pure le tre basi e molle delle tirannidi asiatiche, come delle europee;
e che sono esse il più saldo appoggio di quelli e di questi tiranni. Il falso onore, di cui
ampiamente ho parlato, non pare da prima occupare alcun luogo nella mente e nel cuore degli
orientali; ma pure, se bene si esamina, si vedrà che lo conoscono anch'essi e lo praticano. Per
quei popoli il tiranno è un articolo vero di fede; essi tengono la religione assai più in pregio di
noi: quindi in tutto ciò che spetta all'uno o all'altra dimostrano d'avere moltissimo onore. Non
ci è esempio di maomettani che si facciano cristiani come tutto v'è esempio di cristiani che
rinnegano.
In tal modo, a tutto ciò che la nobiltà ereditaria, e la milizia perpetua (quali le abbiamo in
Europa) potrebbero operare di più in favore delle orientali tirannidi, vi suppliscono dunque
ampiamente le asiatiche religioni; e massime la maomettana, ch'è più creduta, più osservata, e
assai più potente ancora, che non lo sia oramai in nessun luogo la nostra.
Ma, ancorché la nobiltà ereditaria non sussista in gran parte d'oriente (toltine però la Cina, il
Giappone, e molti stati dell'Indie, il che certamente non è picciola parte dell'Asia) nondimeno
nei paesi maomettani gli strumenti principali della tirannide sono, come nella cristianità, i
sacerdoti, i capi della milizia, i governatori delle provincie, e i barbassori di corte: e costoro
tutti, benché non vi siano nati nobili, si debbono pure riputare come una classe, che essendo
più che il popolo e meno che il tiranno, e accattando dal tiranno il lustro e l'autorità, viene per
l'appunto ad occupare lo stessissimo luogo nelle tirannidi asiatiche, che occupa la nobiltà
ereditaria nelle europee. Vero è, che fra quei nobili d'Asia, morendo essi di morte naturale o
violenta, cessa nei loro figli la nobiltà: ma tosto pure alle loro cariche ne sottentran degli altri,
e quanti mai ne verranno, tutti, ancorché d'origine plebea, assumeranno tosto il pensare dei
nobili; il quale non è altro che di opprimere i popoli, e tenersi col tiranno. Ed anzi, questi
nobili recenti, di tanto più feroci saranno, quanto l'uomo che è nato più vile, che è stato più
oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più superbo e feroce ogniqualvolta
egli, per altra via che quella della virtù, perviene ad innalzarsi sovr'essi. Ma certamente la
virtù non potrà essere mai la scala agli onori e all'autorità, in nessuna tirannide.
L'effetto vien dunque ad essere lo stesso in oriente come in occidente; poiché fra il popolo e il
tiranno entrano pur sempre di mezzo i nobili (o ereditarj siano o fattizj) e la permanente
milizia: due classi, senza di cui non v'è vi può esser tirannide; e colle quali non v'è, vi
può essere lungamente mai libertà.
Ma mi si dirà forse, che in ogni democrazia, od in qualsivoglia mista repubblica, i sacerdoti, i
magistrati, ed i capi della milizia, sono parimente sempre maggiori del popolo. A ciò è da
rispondersi, distinguendo: Costoro nella repubblica sono ciascuno maggiori d'ogni privato
individuo; ma minori dell'universale, essendo eletti da tutti, o dal più gran numero; essendo
eletti per lo più a tempo, e non a vita; sottoposti alle leggi, e costretti a dare, quando che sia,
un rigido conto di se stessi. Ma costoro, nella tirannide, sono maggiori, e d'ogni individuo, e
dell'universale; perché sono eletti da un solo che può più di tutti; perché non danno conto del
loro operare, se non a lui; e perché in somma niun'altra cosa vien loro apposta a delitto dal
tiranno, fuorché l'aver dispiaciuto, o arrecato danno a lui solo: il che chiaramente vuol dire per
lo più, l'aver giovato, o tentato di giovare, a tutti od ai più.
Ma, se io abbastanza ho dimostrato (come a me pare) che nelle tirannidi dell'oriente i tiranni
adoperano gli stessi mezzi che in queste, esaminiamo ora quali siano le apparenti differenze
tra gli effetti; perché vi siano; e se elle siano in favore o in disfavore degli europei.
Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e inaccessibili sono in privato; i nostri
veggiamo ogni giorno: ma il vederli non scema però in noi la paura, in essi la potenza; e
benché lo avvezzarci a quell'oggetto diminuisca alquanto la stupida venerazione per esso,
l'odio nondimeno dee pur sempre rimanere il medesimo, e di gran lunga maggiore il fastidio e
la noja.
Difficilissimo è l'accostarsi ai tiranni d'oriente; ai nostri, a qual con lettere o suppliche, a quale
in persona, possiamo assai facilmente ogni giorno accostarci: ma, e che ne ridonda? son forse
fra noi meno oppressi gl'innocenti ed i buoni? son forse più conosciuti i rei, allontanati, o
puniti?
Gl'impieghi, gli onori, le dignità si conferiscono in oriente agli schiavi più graditi al padrone.
Il solo capriccio li dona, e il solo capriccio li ritoglie; ma un ministro o qualunque altro, che
spogliato venga di alcuno importante impiego, viene altresì privato per lo più della vita. E lo
stesso capriccio conferisce nel nostro occidente gli stessi onori e dignità a quegli schiavi più
dotti nell'arte di piacere e compiacere al tiranno: e tanto più vili schiavi costoro, e degni in c
veramente di esserlo, quanto, non essendo gli europei, come gli orientali, nati nella servitù
effettiva dei serragli, di buon animo spontaneamente vanno porgendo le mani ed il collo al più
obbrobrioso di tutti i gioghi. Ma, se i nostri tiranni, nel toglier loro la carica non li privano a
un tempo della vita, ciò forse non accade per altra ragione, se non perché questi scelti servi
europei, a manifeste prove si sono dimostrati per vili, che i tiranni nostri in nessun modo
non possono, né debbono, in nulla temerli.
Nelle tirannidi dell'oriente, pochissime leggi, oltre alle religiose, vi sussistono: moltissime se
ne ha nelle nostre; ma ogni giorno si mutano, s'infrangono, si annullano, e per fin si deridono.
Qual è men vergognosa ed infame a soffrirsi delle due seguenti usurpazioni? o d'uno che ti
oltraggia e ti opprime, perché tu, non credendo che altrimenti una società esistere potesse, glie
ne hai conceduto illimitatamente la signoria, hai provveduto in nessuna maniera a
moderargliela; o d'uno che ti fa lo stesso e anche peggio, benché tu abbi provveduto con
impotenti leggi, e con gl'inutili suoi giuramenti, che egli opprimere ed oltraggiare non ti
potesse?
Negli orientali governi nulla vi ha di sicuro, se non la sola servitù: ma, che v'ha egli di sicuro
nei nostri? I tiranni europei sono di gran lunga più umani? cioè, hanno i tiranni europei molto
minore il bisogno di essere crudeli. Nell'oriente, le scienze e le lettere proscritte, i regni
spopolati, la stupidità e miseria del popolo, nessuna industria, nessun commercio; non son
tutte queste, e tante altre, le innegabili prove del vizio distruttivo, che sta in quei governi?
Rispondo, distinguendo di nuovo. La religion maomettana, come più inerte e meno curante
della nostra, riesce altresì molto più distruttiva di essa. Ma in quelle parti d'oriente, dove non
ci è maomettismo, come specialmente alla Cina e al Giappone, tutti questi soprammentovati
lagrimevoli effetti, che stoltamente noi assegniamo alla sola orientale tirannide, in un'altra
orientale e niente minore tirannide, vi si vedono cessare; o almeno non v'esistere maggiori che
nelle tirannidi europee.
Parmi adunque, che sia da conchiudere; che la tirannide nell'Asia, e principalmente nel
maomettismo, suol riuscire più oppressiva che nell'Europa: ma bisogna ad un tempo stesso
confessare; che il tiranno e quelli che fan le sue parti, assai meno sicuri vivono in Asia che
non in Europa. Quindi dall'essere le nostre tirannidi alquanto più miti, se a noi ne ridonda pure
qualche vantaggio, amaramente ci vien compensato dalla maggiore infamia che sta nel servire,
sapendolo; e dalla quasi impossibilità, in cui il nostro effemminato vivere ci pone, di
distruggere, di mutare o di crollare almeno d'alquanto le nostre tirannidi. Noi coltiviamo le
scienze, le lettere, il commercio, le arti tutte, ed ogni civile costume; negar non si può: ma noi
colti, noi dotti, noi in somma che siamo il fiore degli abitanti di questo globo, noi soffriam
pure tacitamente quello stesso tiranno, che soffrono vero) ma che pur anche talvolta
robustamente distruggono quegli asiatici popoli, rozzi, ignoranti, e, a parer nostro, di tanto più
vili di noi. Chi non sa che vi è stata, e che vi può essere libertà, non conosce e non sente la
servitù; e chi questa non sente, scusabilissimo è se la soffre. Ma che direm noi di que' popoli,
che sanno, e sentono, e fremono di essere servi; e la servitù pure si godono, e tacciono?
La differenza dunque, che passa fra l'Asia e l'Europa, si è; che i tiranni orientali tutto possono,
e tutto fanno; ma sono anche spesso privati del trono ed uccisi: gli occidentali tiranni possono
tutto, fanno soltanto ciò che a loro occorre di fare, e stanno quasi sempre inespugnabili, securi,
e impuniti. I popoli d'Asia di niuna loro cosa sicuri possessori sen vivono; ma credono in parte
che così debba essere; e dove in certo modo contro all'universale si ecceda, si vendicano
almeno del tiranno, benché mai non ispengano, minorino, la tirannide. I popoli d'Europa
niuna cosa possedono con maggior sicurezza che quelli dell'Asia, benché vengano spogliati
del loro in una diversa e più cortese maniera; ma questi sanno quali siano i dritti dell'uomo; ed
ignorar non li possono, poiché li vedono felicemente esercitati da alcune pochissime nazioni,
che vivono libere in mezzo alla universal servitù: e benché ogni giorno si veda nelle tirannidi
europee (massime in quanto spetta alle pecuniarie gravezze) eccedere dal tiranno ogni modo,
nondimeno per codardia e viltà dei nostri popoli non si ardisce mai tentare nessuna lodevol
vendetta, non che si ardiscano tentare di riassumere i naturali diritti, così inutilmente da lor
conosciuti.
Capitolo Decimoterzo – DEL LUSSO
Non credo, che mi sarà difficile il provare, che il moderno lusso in Europa sia una delle
principalissime cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai
nostri popoli, i quali perciò non pensano si attentano di scuoterla veramente. intendo io
di trattare la questione, oramai da tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o
no. Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa diseguaglianza di ricchezze fra'
cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e
corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa disuguaglianza, sarà inutilissimo e forse anche
dannoso il voler proscrivere il lusso: altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare
d'indirizzarlo per vie meno ree ad un qualche scopo men reo. M'ingegnerò io bensì di provare
in questo capitolo; che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle
tirannidi riesce anch'egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso
non vi può sorgere durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso,
questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla.
Il primo e il più mortifero effetto del privato lusso, si è; che quella pubblica stima che nella
semplicità del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido
vivere vien trasferita al più ricco. Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù, in tutti quei
popoli, fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna
essendo presso ai presenti europei una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che
non vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle
non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che
difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, dove la disparità delle
ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando (dove ella
già fosse allignata) in mezzo a una tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto la
libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà, che le buone leggi abbiano provveduto, o
provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal
commercio, e dall'arti, che non dall'inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in
pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che
infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso le ricchezze
dei pochi non occasionando allora la povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato
di mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in
pochi pezzenti. Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se
non in una repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti,
dee nascere, e tutto si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si
corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la maligna influenza sul
dritto vivere civile, sarà di non permetterlo nelle cose private, e d'incoraggirlo e onorarlo nelle
pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche d'Europa si vanno pur prevalendo, ma
debolmente ed invano; come quelle che sono corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero
vivere delle vicine tirannidi. E questi altresì sono i due mezzi, che i nostri tiranni non
adoprano, e non debbono adoprar mai contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno
dei più fidi satelliti della tirannide. Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere
drappi d'oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo
viene a stimar maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più guadagno. Così,
viceversa, il popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra
lui distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui
vittorie più larghi campi gli venivano compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto;
un popolo, che onora e stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo
insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo,
potrà egli avere idea, desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà?
E que' grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per
vana pompa assai più, che per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluità
si son fatte insipide, ma necessarie; que' ricchi in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a
letto, traggono fra gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed inutile vita; que'
ricchi, potrann' eglino, più che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a
pregiare, desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne piangerebbero; e assumere non
saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno, che perpetuando il
dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e necessario è il lusso nelle tirannidi. E crescono in esse tutti i vizj in
proporzione del lusso, che è il principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che
a tal segno confonde i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi chiamasi fra' ricchi,
galanteria; l'adulare, un saper vivere; l'esser vile, prudenza; l'essere infame, necessità. E di
questi vizj tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti per base, e per immediata
cagione il lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava più manifesto e immenso il
vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il pacifico
ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei; L'immoderato amore ed uso degli agj superflui e pomposi)
corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi. Il popolo, che ne ritrae anch'egli
qualche apparente vantaggio, e che non sa e non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non
è altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi
profuse fra questi secondi oppressori; il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo
esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il suo
vitto. Perciò quel fasto dei grandi che dovrebbe ferocemente irritarlo, al popolo piace non
poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi dal lusso che
praticano, inutile mi pare il dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri
mai libera, se da prima il lusso che è il più feroce corruttore di essa, non si sbandisce.
Principalissima cura perciò del tiranno debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta
ostentazione del contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare, ed accarezzare il lusso, da
cui egli ritrae più assai giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui, basti per
provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più lietamente sopportare e
anche assaporare la servitù, che l'uso continuo e smoderato del lusso: come pure, a provare ad
un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar libertà.
Si esamini ora, se là, dove già è stabilita una qualunque libertà, possa allignare il lusso; e qual
dei due debba cedere il campo. S'io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo
sempre sparire la libertà da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e
mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli, che son già corrotti dal lusso. Ma,
siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova innegabile di tutto
ciò che può essere; a me pare, che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non ancora
interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui possono essi mantenersi tali, i
governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre più efficace che la semplice opinione.
Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo
circolare le faccia, e non distrugga del tutto la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in
opere pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un'idea di disprezzo a
qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e
quegli agj ragionevoli, richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza. I liberi
governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire, ai pezzenti)
che non è delitto infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a questi
non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj. E non per insultare alla miseria
escludo io principalmente i necessitosi; ma perché costoro, come troppo corrottibili, e per lo
più vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilità del dritto pensare e operare, di
quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi.
Ma queste saggie cautele riusciranno pur anche inutili a lungo andare. La natura dell'uomo
non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee
sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti. Questa servitù
difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e
poverissimi i più; ma quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i
ricchissimi quanto la universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si
adoprano affinch'ella non si possa più scuoter mai.
Sarebbe dunque mestieri, a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non
solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché
costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Capitolo Decimoquarto – DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come in un mostruoso governo, dove niun uomo vive sicuro del suo, di se stesso, ve ne
siano pure alcuni che ardiscano scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare
ardiscano la propria e l'altrui servitù col procrearvi dei figli, difficil cosa è ad intendersi,
ragionando; ed impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo. Dovendone addur le
ragioni, direi; che la natura, in ciò più possente ancora che non è la tirannide, spinge
gl'individui ad abbracciar questo conjugale stato con una forza più efficace di quella con cui la
tirannide da esso gli stoglie. E non volendo io ora distinguere se non in due soli ceti questi
uomini soggiogati da un tale governo, cioè in poveri e ricchi; direi, che si ammogliano nella
tirannide i ricchi, per una loro stolta persuasione che la stirpe loro, ancorché inutilissima al
mondo e spesso anche oscura, vi riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui
ornamento componga; i poveri, perché nulla sanno, nulla pensano, e in nulla possono oramai
peggiorare il loro infelicissimo stato.
Lascio per ora da parte i poveri; non già perché sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce
assai meno il far come fanno. Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra ragione, se non
perché essendo, o dovendo costoro essere meglio educati; avendo essi in qualche picciola
parte conservato il diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro servitù;
debbono i ricchi, quando non siano del tutto stolidi, moltissimo riflettere alle conseguenze del
pigliar moglie nella tirannide. E per fare una distinzione meno spiacente, o meno oltraggiosa
per gli uomini, che non è quella di poveri e ricchi, la farò tra gli enti pensanti, ed i non
pensanti. Dico dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi il vitto, non dee mai
pigliar moglie nella tirannide; perché, pigliandovela, egli tradisce il proprio pensare, la verità,
se stesso, e i suoi figli. Non è difficile di provare quanto io asserisco. Suppongo, che l'uomo
pensante dee conoscere il vero; quindi indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di
esser nato nella tirannide; governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre la faccia. Ora, colui
che si duole di esservi nato, avrà egli il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi
rinascere in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se stesso, l'avere a temere per la
moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò un moltiplicare i mali a tal segno, che io non potrò pur
mai credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca pienamente il vero.
Il primo oggetto del matrimonio egli è, senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna
delle private vicende, la quale dalla morte soltanto ci possa esser tolta. Supponendo ora il non
supponibile, cioè che in una tirannide non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna
potesse non aver altra cura desiderio, che di piacere al marito; chi può assicurare costui,
che ella dal tiranno, o dai suoi tanti potenti satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche
tolta? Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per dimostrare la possibilità di un tal
fatto: ma gli alti effetti che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai meno
sperabili, benché le cagioni tutto ne sussistano. Mi odo già dire; Che il tiranno non può
voler la moglie di tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti costumi, ch'egli cerchi a
sedurne due o tre; e che questo farà egli con promesse, doni, ed onori ai mariti, ma non mai
con l'aperta violenza. Ecco le scellerate ragioni che rassicurano il cuore dei presenti mariti, i
quali niun'altra cosa temono al mondo, che di non esser essi quei felici che compreranno a
prezzo della propria infamia il diritto di opprimere i meno vili di loro. Molti secoli dopo
Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e quindi non molto corrotte, un altro regio stupro ne
facea cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de' nuovi stranieri. Ma nei tempi nostri illuminati
e dolcissimi, uno stupro con violenza accader non potrebbe, perché non v'è donna che si
negasse al tiranno; e la vendetta qualunque, se egli pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile;
perché non v'è padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal disonore. E la
verità qui mi sforza a dir cosa, che nelle tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma che in
qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà rifugiati si siano, moverà ad un
tempo dolore, maraviglia, e indegnazione; ed è, che se pure ai nostri vi fosse quel tale
insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta facesse ripentire il tiranno di avergli
fatto un così grave oltraggio, l'universale lo tratterebbe di stolido, d'insensato, e di traditore; e
stranezza chiamerebbero in lui il non voler con molti manifesti vantaggi sopportar dal tiranno
quella ingiuria stessa, che tutto si suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai privati.
Inorridisco io stesso nel dover riferire queste argute viltà, che sono il più elegante condimento
del moderno pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO: ma nella
forza del vero talmente confido, che io ardisco sperare che tornerà pure un tal giorno, in cui,
non meno ch'io nello scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli.
Se nell'ammogliarsi dunque il primo scopo si è d'aver moglie; ove non si voglia pure
confondere (come di tante altre cose si fa) il mantenerla coll'averla; avere non si può, perché
se non la tolgono al marito il tiranno, o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai quali invano si
resisterebbe, gliela tolgono infallibilmente i corrotti scellerati universali costumi,
conseguenza necessarissima dell'universal servitù.
Ora, che dirò io dei figli? Quanto più cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto più grave
e funesto è l'errore di chi procreandoli somministra al tiranno un possente mezzo di più per
offenderlo, intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un mezzo di più per esserne
offeso ed oppresso. E da una delle due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi.
O i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò, senza dubbio,
infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno. Nati per le
triste loro circostanze al servire, non si possono, senza tradirgli, educare al pensare; ma, nati
pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato padre, senza tradire la verità il suo
onore e se stesso, educargli al servire.
Qual partito rimane adunque nella tirannide all'uomo pensante, quando egli, per somma
sfortuna e inescusabile sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di tal sorta
l'errore, che il pentimento non vale; così terribili ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie
di mezzo non bastano. Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i proprj figliuoli
appena son nati, o abbandonargli alla pubblica educazione ed al volgar non-pensare. Questo
partito da quasi tutti i moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma molto è più
vile bensì. E, a chi mi dicesse (ciò che anch'io pur troppo so, ancorch'io padre non sia) che
troppo alla natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli, risponderei; che ripugna alla natura
nostra non meno il ciecamente servire all'arbitrio e alla violenza d'un solo: e se poi così bene
al servir ci avvezziamo, questo infame pregio in noi non si accresce, se non se in proporzione
che si scemano in noi tutti gli altri naturali e veri pregi dell'uomo. Quindi è, che i filosofi
pensatori fra i popoli liberi nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la vita d'un
bruto, e quella d'un uomo, che non sia per aver mai libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed
onore verace. E tali pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente procreati si sono
nella tirannide; a cui se il padre non toglie la vita del corpo, necessariamente toglie loro una
più nobile vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente l'una e l'altra in
essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero padre, che educar vittime per la tirannide.
Conchiudo; che chi ha moglie e prole nella tirannide, tante più volte è replicatamente schiavo,
e avvilito, quanti più sono gl'individui per cui egli è sforzato sempre a tremare.
Capitolo Decimoquinto – DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella sconvolge, indebolisce, od annulla
nell'uomo presso che tutti gli affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché ella
non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco
sicure; non vi sono veri amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose importanti,
può sempre trasmutare un amico in un delatore premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un
delatore onorato. L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere amar
queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso. E parmi, che ne sia questa
una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo
temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per
quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e
per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a
poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni meno per quelle cose nostre, che non
fanno parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi
la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all'incontro, sempre si ama la propria esistenza
sopra ogni cosa. Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei proprj diritti,
della propria gloria, del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale. E
questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più
cara dai vecchj, i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto
più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno.
Capitolo Decimosesto – SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che
sia, sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti. Ma costui potendo
altresì beneficare, arricchire, onorare chi più gli piace, chiunque riceve favori da lui non può
senza una vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo. Rispondo a ciò,
che il tutto è verissimo; e più d'ogni cosa vero è, che chiunque riceve favori dal tiranno suol
essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai peggiore di lui.
Dovendone assegnar le ragioni, direi; che il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno
può dare e quelle che può togliere, rende necessario ed estremo lo abborrimento nei molti
oltraggiati, e finto e stentato l'amore nei pochi beneficati. Egli può dare ricchezze, autorità, e
onori supposti; ma egli può togliere tutto ciò ch'ei dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che
non è in sua possanza di dare egli mai a nessuno.
Con tutto ciò, la totale ignoranza dei proprj diritti può benissimo far nascere in alcuni uomini
questo funesto errore, di amare in un certo modo colui che spogliandoli delle loro più sacre
prerogative d'uomo, non toglie però loro la proprietà di alcune altre cose minori; il che, a parer
di costoro, egli potrebbe pur anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare. E certo
uno stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto paragonabile
a quell'amore che si verrebbe ad aver per una tigre, che non ti divorasse potendolo. Cadranno
in questo stupido affetto le genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non quella di
non vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e costoro assai poco verranno a temerlo,
perché pochissimo a loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo loro
amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa loro credere, che senza il tiranno
neppur quella semi-giustizia otterrebbero. Ma non potranno certamente mai pensare in tal
modo coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono l'incapacità o la reità; ancorché
ne ritraggano essi splendore, onori, e ricchezze. Troppo è nota a questi pochi la immensa
potenza del tiranno, troppo care tengono essi quelle ricchezze che ne han ricevute, per non
temere sommamente colui che le può loro nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare
sono interamente sinonimi.
Ma pure, il timore, pigliando nelle corti la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un
misto mostruosissimo affetto, degno veramente dei tiranni che lo ispirano, e degli schiavi che
lo professano. Quello stesso Sejano, che nella grotta crollante e vicinissima a rovinare,
salvava la vita a Tiberio con manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti
infiniti altri favori, congiurava pur contro lui. Sejano, amava egli Tiberio in quel punto in cui
pose se stesso a un così evidente pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva
dunque alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo nei nostri
eserciti i più splendidi e molli e corrotti officiali di essi affrontare la morte, non per altro se
non per far progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la grazia del
tiranno. Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che quando
il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose da lui ricevute,
gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità, più grande ancora, delle
cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere. Quindi, non si credendo Sejano in sicuro,
se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò
poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a togliersi il tiranno dagli occhi.
ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri
amici se non i Sejani. Se dunque il tiranno è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli
benefica, che sarà egli poi da quei tanti che direttamente o indirettamente egli offende o
dispoglia?
La sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato)
amare il tiranno, appunto perché nessuno di questi lo vede lo conosce; e questo amarlo va
interpretato, il non affatto abborrirlo. Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può
fingere bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai. Questa
servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò, i
quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
Capitolo Decimosettimo - SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E
COME
Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno,
perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna
fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il
dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto
smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo,
riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli. E si noti così alla
sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o
d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima
uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui. Ammessa
questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se niuna di tutte queste cose
sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il
tiranno ed i sudditi. Questi, come tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale
indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno,
tutti lo abborriscono per lo più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile
dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non
se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se
costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad
estinguerne l'odio. Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi
non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d'indole mite ed
umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; in tal caso, da altro una tal fama
proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se stessa, men rea di quel che lo sia
per se stessa l'autorità e la possibilità impunita del nuocere, che è posta in lui. Ma io,
sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non
poco) se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede
abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca
di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo
una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto. Quanto alla parte ch'egli non
conosce vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno
dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che
può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non
si può assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e
cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù. Ma certamente
assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che
ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi. Cotesto suo amore per
essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli uomini.
Capitolo Decimottavo - DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE
RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese tirannidi, come assai più potenti, la
intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che gli schiavi
delle ristrette, parmi esser questo il più espresso delirio che possa entrare nella mente
dell'uomo; ed una evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano.
Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe
certamente in favore del minor gregge. Quanti più sono gli uomini che ciecamente
obbediscono ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre
scemandosi la proporzione tra l'oppressore e gli oppressi. Quindi nell'udire io le millanterie
d'un Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese,
o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un
contadino, perché questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà nella
essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno. Qualunque di
essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più
prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze molto minori rispetti
adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di sudditi, più importanti affari, più onori
da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno)
quella sua autorità riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta,
ed assai più gravosa, nelle importanti. Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti
rispetti co' suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi
sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più
guardingo. Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante, facilmente verrà ad
impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo sportello di ogni
casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette
più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non arreca minor danno
e dolore la noja, che l'oppressione.
LIBRO SECONDO
Capitolo Primo - INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della
tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano. Non intendo
io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e
meno detto da altri. Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con
cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
Capitolo Secondo - IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in
sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della
umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, voglio insegnare i precetti;
ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte. Ciascuno per
li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e
fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
Capitolo Terzo - COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si
trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di
coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell'uomo conoscendo,
o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo
nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora
contrarj alla libera loro e magnanima natura. Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e
governi, m'ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma,
poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio,
facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un
qualche sollievo.
Dico per tanto; che allorché l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova
capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un
tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto
star sempre lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue
cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli
respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai
esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria
sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe
sempre, o più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque modo si avvicina alla
pestilenziale atmosfera delle corti.
Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà
ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché
liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile. Se costui, oltre ciò, non si trova nella
funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria
non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de' suoi tempi, non potendo egli
assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella
del pensare, del dire, e dello scrivere. Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un
mostruoso governo, in cui l'una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per
proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla
umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni, e come tali, degnissimi di
compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio
sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sagrificare alla
lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato,
sarà da quasi tutti i suoi conservi o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da
quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro
chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato
da quegli altri, che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile vil
d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio. Ma, e quello sprezzo di una
gente per se stessa disprezzabilissima, sa una convincente prova, che un tal uomo è
veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà,
che egli merita e l'amore e la stima de' buoni. Quindi non dee egli punto curare né lo sprezzo,
né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo
uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere
sommamente avvilito nella tirannide; e, per via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e
inevitabil pericolo. Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi. Coloro, che con una condotta
di mezzo fra la viltà e la prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella
loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali
ch'ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma
che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli.
Capitolo Quarto - COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai
concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive;
nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di
morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad
altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come
rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma. Alla eroica
morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro
primi tiranni, altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù
di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e dei Regoli. E siccome, là dove ci è patria e libertà, la
virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata
tirannide non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi
debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti,
ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa. Un cotal poco verrà ammendata così,
con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
Capitolo Quinto - FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma, fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico governo, difficile riesce
a prefiggersi: poiché non a tutti i popoli, a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano un
egual colpo. Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non meritando oltraggio nessuno,
vivissimamente quindi sentono nel più profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo
costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico
oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro
gli averi, perché nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne
potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta. Così perversi sono i presenti tempi, che da una
privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero
permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì moltissimo il danno. Onde,
volendo io che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e
volendo, che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai buoni non
darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta
delle loro tolte sostanze.
Ma le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od amici, allorch'elle siano
manifestamente ingiuste, ed atroci; e così, le offese nel proprio verace onore; io non ardirei
mai consigliare a chi ha faccia d'uomo di tollerarle. Si può vivere senza le sostanze, perché
nessuno muore di necessità; e perché l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a
se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma non si può sopravvivere alla
perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita
del proprio onore. Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la
ingiuria ricevuta, non può egli dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne
possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione, che di quante tirannidi sono
state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale
necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno
nell'onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere. Questo insegnamento non è
dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti. Ma pure, a chi dovesse, e volesse,
vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di omettere
interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non alto, e come vano, e come sempre
dannoso ad ogni magnanima importante vendetta. E chi non si sente capace di questa totale
omissione di se stesso, non si reputi stoltamente capace, degno, di eseguire una alta
vendetta; e si persuada, che meritava egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e
pazientemente quindi sel goda. Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e
d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la
universale permanente libertà; tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al compiere
la prima e la più importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria
salvezza; tutte quelle risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per e per l'impresa,
egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo
importantissimo, tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee
necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino
ogni cura della propria salvezza abbandoni. Ma cogli esempli più estesamente mi spiego.
Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr'essi, e la tirannide al
tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal
compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano
svenata. Ma, se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta,
egli è da credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo,
avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai
commossi, per me pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e
compiuta vendetta; massimamente, allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile
e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota. Se dunque
Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il più fieramente oltraggiato, avrebbe
dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in tale impresa
periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione,
il popolo a libertà e a furore. Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante quest'ultimo
tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata oramai
matura la liberazione del popolo di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse
congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri,
avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso;
e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato gravemente nella tirannide,
non dee mai da prima congiurare con altri che con se stesso; perché almeno assicura egli così
la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini,
lascia in qualche aspetto di probabilità, e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e
sapesse eseguirla. All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle
si perdono spessissimo entrambe. Quell'uomo dunque, che capace si reputa di ordire e
spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà, non la
imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e
immediatamente dopo una qualche privata atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da
uno dei gravemente oltraggiati. E così, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare
un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e
pienamente lo vendichi; e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a
buon fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo; bench'egli rimanesse spento già
prima: e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà a lui
privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui
solo ottenuto un pienissimo effetto.
Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo più funestissime conseguenze, perché elle
si fanno quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide. Onde, per vendicare una
privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o
sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e centuplicar
la tirannide, e la pubblica calamità.
Quell'uomo dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell'onore, si dee
figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella
impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene
prima, e di non morir quindi infame del tutto. Né altro deve egli pensare in quel punto, se non
che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di
quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato
offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d'altrui.
Capitolo Sesto - SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI,
O NO
Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce
alcuna idea di politica libertà. Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non
proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che son giunte a
segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al
loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e
disprezzabili. Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi, donde oramai, donde
potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo
ella è, mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno naturali, dalla educazione,
dall'uso, e dalla violenza, non vengono in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno?
Nella romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi libero, vi nasceano
pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi, che non poteano ignorar di esser tali, ogni
giorno vedendo davanti a i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di esser servi,
e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi
tali. Ora, se nel seno stesso della più splendida politica libertà che siasi mai vista sul globo,
quegli uomini ignoranti e avviliti credeano di dover essi soli esser servi, non sa maraviglia
che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce il nome pure di libertà, veri servi si
credano quei che vi nascono; o, per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non
conoscano né anche servaggio.
Parmi perciò, che i popoli nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o sprezzare;
essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza, complici senza saperlo del delitto di
servire, di cui ben ampia già e terribile ne van sopportando la pena. Ma l'odio, lo sprezzo, e se
altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si debbono bensì dai pochi enti pensanti
fieramente rivolgere contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi affatto
inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi nella tirannide, sfacciatamente pure ogni
giorno il vero, se stessi, e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno, ad
onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi lacci; e ciò, col sol patto che
doppiamente da essi avvinto ed oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso
cui, per ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia si fanno di ogni
dannosa ignoranza.
E, spingendo io più oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che nella
tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza saperne il perché) si fa vittima,
ardisco asserire una cosa che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure verissima. Ed
è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide
difendono il loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più sforzi per la
libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa
sacra avessero udito sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica.
Il vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù, non risiede nel popolo;
che in ogni governo è sempre la classe la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi
che il popolo ingannano. Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno eccede quel modo
comportabile dalla umana stupidità, il primo sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi
ardisca delle estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale pure, nella pienissima sua
ignoranza, stoltamente reputa il tiranno essere quasi un Dio. All'incontro, gli ultimi sempre ad
offendersi e a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal tiranno, son quelli della
più illustre classe, ed i suoi più famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli
è assai meno che un uomo.
Onde conchiudo; che nella tirannide meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in
la idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare almeno di riacquistarla per ,
facendola ad un tempo riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù; ed anzi
se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi costringono il rimanente dei loro simili.
Capitolo Settimo - COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la tirannide: la volontà e l'opinione
di tutti o dei più, può sola veramente distruggerla. Ma, se nelle nostre tirannidi l'universale
non ha idea d'altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo
nuovo pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr
tale effetto, nessuno ve ne ha; e che ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso
radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.
E già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità, mi perdonano i tiranni europei tutto ciò
che finora intorno ad essi mi è occorso di ragionare. Ma, per moderare alquanto questa loro
non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò; che ancorché non vi siano efficaci e
pronti rimedj contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo,
rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni.
Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato: ma i più
efficaci e brevi e certi rimedj contra la tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello
stesso tiranno: e mi spiego. Un animo feroce e libero, allor quando è privatamente oltraggiato,
o quando gli oltraggi fatti all'universale vivissimamente il colpiscono, può da solo in un
istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi
animi allignassero nelle tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero,
e si verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide. Ma, siccome gli animi di una
tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo
spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide; io sono
costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle
continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà del tiranno, sta posto il più breve, il
più efficace, il più certo rimedio contra la tirannide. Quanto più reo e scellerato è il tiranno,
quanto più oltre spinge manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità; tanto più
lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e
s'infiammi del vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così feroce e
sragionevol governo. È da considerarsi, che la moltitudine rarissimamente si persuade della
possibilità di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli
uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o più
successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi
eccessi inauditi. Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d'un
tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di
più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non
avrebbe altro migliore più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di
secondare e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad
ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità
odiosissima e insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole; La sua
persona, la sua autorità, e a tutti; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se
non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore
movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li
potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere. Questo infame ed
atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come
sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa così importante e
difficile. Inorridito ho nel dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi governi,
ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevità il sommo bene
di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a
desistersi dall'altramente ineseguibile impresa. Quindi è, che un tal uomo non si può mai
ritrovare; e che questo sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può
aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero. Ma questi, non volendo perdere del
proprio altro che la fama (che già per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente
conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi lascierà bensì diventare il tiranno
crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell'eccesso
che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta.
Da ciò proviene, che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del
tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e così ben
velate e varie e saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i
modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche
velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno.
Or ecco, ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste tirannidi moderate e
soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più
crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente; perché si debbono misurare i mali
dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma, colui che ti
cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad
un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai più. Tutte le facoltà dell'animo nostro intorpidite; tutti
i diritti dell'uomo menomati o ritolti; tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero;
e mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei, se
qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e
nell'intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva
all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare altamente, di conservare tremante la vita del
corpo, gli averi, e l'altre sue cose (e queste anco sicure) per poi perdere, senza speranza di
riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i più nobili e veri pregi dell'anima?
Capitolo Ottavo - CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA
TIRANNIDE
Ma, già già mille altre obbiezioni non meno importanti m'insorgono d'ogni intorno: e queste
saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere. "Più facil cosa è il
biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare. Che la tirannide sia un governo
esecrabile e vizioso in se stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono;
e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo. Le storie tutte fanno fede della
massima instabilità dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che
non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano per eternare la libertà".
Queste, o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle,
e non così facile l'impugnarle. Quanto alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente
inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide sia un governo esecrabile e
vizioso in se stesso, poich'essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui
essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non
è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante
e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più saldamente
fondata, e assai più durevole quindi, e fatale.
Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più lungamente. Il dimostrare qual
sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere
un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che in tutto è il contrario del male.
"Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di
Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb'egli
introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?"
Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a
questo importante quesito, dico; che quando si ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò
necessarie, quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto
ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno
viziosa forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle
diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le
passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che
operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel meno male.
Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di
farlo col pormi ad un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale
individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia. Ma, quando pur anche mi
credessi io di avere e senno, e lumi, e dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno
sempre, che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un
tal libro mi protestassi, ch'ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e
d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo
e virtù, (atteso il contrario e continuo impulso della umana natura, che assai più è propensa al
bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni
giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse. E sarei anche sforzato in quella mia
prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno stato, disconvengono
spessissimo all'altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non
operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare; che il
cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto
necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo. E mille e
mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella REPUBBLICA mia; le
quali cose per essere già state dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel
nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma
pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della
inutilità di un tal libro. E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia,
ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni, opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe
tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima
ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni, che
necessarie sarebbero per quella data effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa
differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale legislatore. Ma quando anche poi una tale
scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la
umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo
un governo, che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo
inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o mutarlo, o affatto
distruggerlo.
Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già
prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno
inutile riuscirebbe il mio libro. Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia
sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta un tal
libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente
un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non
riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe
frattanto, s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica insorgente in questi, o
nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare
quanto più le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitù
da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente
repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità. Che se io minutamente ho dimostrato
come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere
costituita una repubblica. E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide, ancorché tacito e
lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché
oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla.
Ma, quanto è necessario l'impeto, l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare,
combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata
prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto
egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché similissime nella lor meta.
Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche
(come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si
adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente
severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non
desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli. Aggiungerò,
che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e
qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d'uno ingiusto
e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà. La ragione, a parer mio,
è patente. La tirannide non sottentra alla libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente
preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l'universale. E mentre
con l'una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha
colla spada estorquito. Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri più, che
già guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace. Ma, la nascente
libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della tirannide,
freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla
egli ancora gustata, poco l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina
impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che da quei soli
pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per
qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l'occasione
di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti
rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o
guastarne. Deplorabile necessità, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe
pur anche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario
spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e
generoso impulso di libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire; che non vi
essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non
potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi
che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più
umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll'eccedere
ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal
volontà e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo, e perfino
scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli
uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto
pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire
all'essere liberi, più ancora, che dall'esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque,
senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al
troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee nascere
un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro
fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure
quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero felice e potente, benedice
poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di
servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e
virtuosi uomini.
PROTESTA DELL'AUTORE
Non la incalzante povertade audace,
Scarsa motrice a generosa impresa;
Non l'aura vana, in cui gli stolti han pace
D'ogni lor brama in debil fuoco accesa;
Non l'ozio servo, in che la Italia giace;
Cagion, ah! no, queste non fur, ch'intesa
M'ebber la mente all'alto onor verace
Di far con penna ai falsi imperj offesa.
Un Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua, i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vergo
Aspre carte in eccidio dei tiranni.DELLA TIRANNIDE
LIBRI DUE DI VITTORIO ALFIERI DA ASTI
Cuncti se scire fatentur
Quid fortuna ferat populi, sed dicere mussant.
VIRGILIO, Eneide, lib. XI
Impune quaelibet facere id est regem esse
SALLUSTIO, Guerra Giugurtina, cap. XXXI
PREVIDENZA DELL'AUTORE
Dir più d'una si udrà lingua maligna,
(Il dirlo è lieve; ogni più stolto il puote)
Che in carte troppe, e di dolcezza vuote,
Altro mai che tiranni io non dipigna:
Che tinta in fiel la penna mia sanguigna
Nojosamente un tasto sol percuote:
E che null'uom dal rio servaggio scuote,
Ma rider molti fa mia Musa arcigna.
Non io per ciò da un sì sublime scopo
Rimuoverò giammai l'animo, e l'arte,
Debil quantunque e poco a sì grand'uopo.
Né mie voci fien sempre al vento sparte,
S'uomini veri a noi rinascon dopo,
Che libertà chiamin di vita parte.
LIBRO PRIMO
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi
lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente affatto in tutti i
moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni
dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle carte, ai di cui autori altro non manca che il
pienamente e fortemente volere, portano spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun
suo satellite; e ad ogni modo pur sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi
non è meraviglia, se tu disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e
di favorire in quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi
oscuri ed ambigui, ed inorpellate dall'adulazione.
Io, che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun'altra cagione scriveva, se non
perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità,
abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a
te sola dedicar questi fogli. Non farò in essi pompa di eloquenza, che in vano forse il vorrei;
non di dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo, precisione, semplicità, e chiarezza,
anderò io tentando di spiegare i pensieri, che mi agitano; di sviluppare quelle verità, che il
semplice lume di ragione mi svela ed addita; di sprigionare in somma quegli ardentissimi
desiderj, che fin dai miei anni più teneri ho sempre nel bollente mio petto racchiusi.
Io, pertanto, questo libercoletto, qual ch'egli sia, concepito da me il primo d'ogni altra mia
opera, e disteso nella mia gioventù, non dubito punto nella matura età (rettificandolo
alquanto) di pubblicar come l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più in me stesso a
quest'ora il coraggio, o, per dir meglio, il furore necessario per concepirlo, mi rimane pure
ancora il libero senno per approvarlo, e per dar fine con esso per sempre ad ogni mia
qualunque letteraria produzione.
Capitolo Primo – COSA SIA IL TIRANNO
Il definire le cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle fossero inalterabilmente
durabili quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato. Chi dunque ama il
vero, dee i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste variando in ogni tempo e
contrada, niuna definizione può essere più permanente di esse; ma giusta sarà, ogni qualvolta
rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era sotto quel dato nome in quei dati tempi
e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era già posta insieme una definizione
bastantemente esatta e accurata del tiranno, e collocata l'avea in testa di questo capitolo: ma,
in un altro mio libercolo, scritto dopo e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi
di dover definire il principe, mi son venuto (senza accorgermene) a rubare a me stesso la mia
definizione del tiranno. Onde, per non ripetermi, la ommetterò qui in parte; altro vi
aggiungerò, che quelle particolarità principalmente spettanti al presente mio tema, diverso
affatto da quell'altro DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE; ancorché tendente pur questo allo
stesso utilissimo scopo, di cercare il vero, e di scriverlo.
TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che appelliamo
noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi,
otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano delle leggi, tutti
indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi dovea.
Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si
offendono di essere nominati tiranni. Questa sì fatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto
una tale differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più
raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser chiamato tiranno; e così presso noi, un
Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi
agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe, o re. E tanta è la
cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai
semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli
che a sopportare gli aveano.
Tra le moderne nazioni non si dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e
tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli
averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte
potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono
almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano
questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto
ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior distinzione. Il
nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dee dare se non a
coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l'abbiano, una
facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne abusassero, fattamente assurdo e
contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si
possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il nome di re, all'incontro, essendo finora di
qualche grado meno esecrato che quel di tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati
dalle leggi, e assolutamente minori di esse, altro non sono in una data società che i primi e
legittimi e soli esecutori imparziali delle già stabilite leggi.
Questa semplice e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad
essere la prima aurora di una rinascente libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini
riesce permanente e perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la libertà pendendo tuttora
in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in
tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io stenda in
Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai
la universale oppressione più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane cose
appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni, ogni uomo buono dee credere, e sperare, che
non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare al fin debba
all'universale servaggio una quasi universal libertà
Capitolo Secondo – COSA SIA LA TIRANNIDE
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è
preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle,
impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o
questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo;
uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni
società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.
E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto al creare le
leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le leggi, cioè gli
scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice prodotto della volontà
dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi eletti del popolo. Se dunque gli eletti
al ridurre in leggi la volontà dei più le possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano
costoro tiranni; perché sta in loro soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o
niente eseguirle. Che la differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come
alcuni stoltamente, altri maliziosamente, asseriscono) nell'esservi o il non esservi delle leggi
stabilite; ma nell'esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o chi le fa,
le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi è preposto
all'eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha create.
Ma, tante specie di tirannidi essendovi, che sotto diversi nomi conseguono tutte uno stesso
fine, non imprendo io qui a distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle dai tanti altri
moderati e giusti governi: distinzioni, che a tutti son note.
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica assai. La
lascierò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella tirannide d'un solo,
ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e con minore imperizia mi
avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe' miei cotanti conservi. Osserverò
soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché per sua natura maggiormente durevole
(come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la sopporta ella sembra assai men dura e
terribile, che quella di un solo. Di ciò ne attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in
cui l'odio ch'egli divide contro ai molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti,
non agguaglia mai quello che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì
essere continuamente ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato
capriccio, dei diversi individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere
scambiato ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in
codesti governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa
apparenza di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor
quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza.
Ma, tornando io alla tirannide di un solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti. Ereditaria
può essere, ed anche elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i moderni, lo stato pontificio,
e molti degli altri stati ecclesiastici. Il popolo, in tali governi, pervenuto all'ultimo grado di
politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del celibe tiranno, ricadere in sua mano la
propria libertà, che egli non conosce, cura; quindi se la vede tosto ritogliere dai pochi
elettori che gli ricompongono un altro tiranno, il quale ha per lo più tutti i vizj degli ereditarj
tiranni, e non ne ha la forza effettiva per costringere i sudditi a sopportarlo. E questa tirannide
pure tralascerò, come toccata in sorte a pochissimi uomini; e, per la loro smisurata viltà,
indegni interamente di un tal nome.
Intendo io dunque di ragionare oramai di quella ereditaria tirannide, che da lunghi secoli in
varie parti del globo più o meno radicata, non mai, o rarissimamente o passeggeramente,
ricevea danni dalla risorta libertà; e non veniva alterata o distrutta, se non se da un'altra
tirannide. In questa classe annovero io tutti i presenti regni dell'Europa, eccettuandone
soltanto finora quel d'Inghilterra e la Pollonia ne eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi
dallo smembramento, e persistendo pure nel volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi ne
divenissero i nobili, e libero il popolo.
MONARCHIA, è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno a
questi fatti governi. A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice
interpretazione del nome. O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità d'un
solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di un solo,
raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza, debbono necessariamente
anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo meno a quella del monarca; e in
quel punto stesso in cui si trovano in un governo due forze e autorità in bilancia fra loro, egli
manifestamente cessa tosto di essere monarchia. Questa greca parola non significa altro in
somma, fuorché Governo ed autorità d'uno solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società
esiste senza alcuna legge tal quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle
leggi; perché niuno è monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella tirannide, dal
governo e autorità d'un solo nella monarchia. Mi si risponde: "Nell'abuso". Io replico: "E chi
vi può impedire quest'abuso?" Mi si soggiunge: "Le leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle
forza ed autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a
questa obiezione mi replica. Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando
annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine) ogniqualvolta le
leggi e costui non concordano, che faranno le misere, per se stesse impotenti, contro alla
potestà assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto giorno, in fatti, soggiacciono. Ma,
se una qualunque legittima forza effettiva verrà intromessa nello stato per creare, difendere, e
mantenere le leggi, chiarissima cosa è che un tale governo non sarà più monarchia; poiché al
fare o disfare le leggi l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde, questo titolo di monarchia,
perfettissimo sinonimo di tirannide, ma non così abborrito finora, non viene adattato ai nostri
governi per altro, che per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per ingannare i
sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi continuamente la prova nella opinione stessa dei moderni
re. Si gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel di tiranni; ma nel
tempo stesso reputano assai minori di loro quegli altri pochi principi o re, che ritrovando
limiti infrangibili al loro potere, dividono l'autorità colle leggi. Questi assoluti re sanno
dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa differenza nessuna. Così lo
sapessero i popoli, che pure tuttora colla loro trista esperienza lo provano! Ma i principi
europei, di tiranni tengono caro il potere, e di monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro,
spogliati, avviliti, ed oppressi dalla monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono.
Ma i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura non tengano a vile del paro i
principi tutti; i monarchi, come tiranni; ed i principi limitati, come perpetuamente inclinati a
divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più
importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo d'uomini, che
il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia
limitata non vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni
monarchia non limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando egli
in nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia. E tali prove tralascio, per amor di
brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir tutto. Passerò quindi
ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi per cui, così ben radicatasi
nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo Terzo – DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del
cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti,
e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto
antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n'è l'idolo; i
cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la
virtù, l'onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non
conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che base
e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, nella cagione
che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro
limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio dell'oppressore. Da un
così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l'uom ragionasse) una disperata
risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena verrebbe a procrearsi concordemente in
tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al
contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal continuo ed eccessivo temere nasce vie più
sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la
sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui giustamente il timore della coscienza della propria
debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce
nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa
egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare
nel cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o,
per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli, i popoli, non
emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i popoli, col non voler
più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler più sovrastare a tutti per via della
forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva,
pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili
limiti, almeno coll'addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non
diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita;
così, neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare,
se non la fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza
illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l'intelletto del
tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad
offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito. Egli perciò
crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria
autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor quando eseguito sia, o
intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa
solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi,
argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno: della paura
dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e notte li servono e
custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini
che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo
conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei
pochi uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion
d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far
conoscere più il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e
quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali
siano ed esser debbano poi gli altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte,
veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze,
menare una vita stentata e infelice. Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai
loro tugurj per portar l'armi; e non già per la patria, ma pel loro e suo maggior nemico, e
contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle città, l'una me mendico, ricchissimo
l'altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù
dispregiata, i delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio
sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l'onore di tutti nella mano di un
solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di
arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi: tutto ciò veggono
palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e
in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma, perché si tacciono? per sola paura.
Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe
almeno risultarne, che in vece di parlare, si operasse; ma (pur troppo!) l'uno l'altro si
ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri?
qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli antichi governi
cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto gli scrittori per dimostrarci, che il
caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual
modo si possano dominare il caso e le circostanze, fino a qual punto questa diversità
intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori più vili
di essi, nel persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie antica. E, certo, finché
sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in
ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti,
qual più qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale
efficacissima molla di un tal governo; e questo è il solo legame, che tiene i sudditi col
tiranno.
Si esamini ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il legame che
lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo più gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne
conosce i vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni; e tutti in somma i
tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso. Vede costui, che le troppe gravezze di
giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie; perché da quelle
enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati,
spie, e cortigiani; rimedj tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede anch'egli
benissimo, che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti
cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai
il tiranno. E perché non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed
onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il
nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e
senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce
all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera giustizia
si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui: appunto perché
nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque società
nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest'uno nella
propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema: ogni vero
lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità luminosa lo adira; lo spaventano i
buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni più importante carica a gente
ben sua; cioè venduta e simile a lui, e ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una
gente più assai ingiusta, più tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente,
ch'egli nol sia.
"Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli uomini, aborrisca il vizio,
e non lasci trionfare rimuneri altro, che la sola virtù". Al che rispondo io, col domandare:
"Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si
creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni
individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé,
fuorché a Dio?" Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando
avrò visto un solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli
altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per
impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche
altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi commettere illimitatamente e
impunemente quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso
suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell'uomo,
dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno. Ma, come potrà egli chiamarsi
buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare un così gran bene a un fatto numero
d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe
diminuire ai suoi venturi figli o successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con
impunità? E si noti di più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso,
in vece di quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e
non mai finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo;
di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo intero.
Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno intronando gli
orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è; ma in
tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè
che non siano nudi, mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un
solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in
somma che bruti. Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque
possiede una usurpata, illegittima, illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona
chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come
dall'altro ridondano? e, come tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il
servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua
prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto
agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E
si può egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura,
poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli
costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi all'ombra di leggi in
nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di niuno de' suoi assoluti
capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei
all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura una miglior indole, riescano,
quanto all'effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una prova. Gli uomini buoni suppongono
sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo più niente affatto conoscono gli uomini, presi
universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e
pochissimo quelli che vedono. Ora, non v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro
son sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro,
la presenza d'ogni altro uomo, la cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa,
può anche per l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono.
Ne avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un l'altro
pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e lo ingannano. E
questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella persona del tiranno, ma
nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de'cortigiani. Ma,
dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi,
più dura riesce per l'universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele
riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde
di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che infin ch'egli
tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere
legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico
e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro. Ma, anche supponendo
che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei
pochi pessimi che, usurpata sotto l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano.
Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche
sotto l'ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre
pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla
paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria persona; e non la
dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo: nessuno di essi
annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra autorità che alla propria; perché
convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno dunque di
costoro era pienamente certo in se stesso, che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla
non voleva alle leggi; e che illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli
eserciti. Domando, se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un
uomo buono? colui, che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e
dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno
(potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui:
gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro
quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli
non lasciano. sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi.
La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero (quali
esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti
virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il più eccellente
governo sarebbe il principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è stata estrema e
terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si
chiama e si reputa un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e
libera benignità possa e debba dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti
milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido
affatto. Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può
egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in
somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre
il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e sperimentato
amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed onore; né, se un tal
uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un così strano pericoloso e
odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per sé solo al suo più intimo
amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla
viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo più non
conoscono; a cui pochissimi si avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle
ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non
istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida
moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una stravagante autorità, non potea
essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla. Ogni illimitata autorità
è dunque sempre, o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima
usurpazione sul dritto naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la
esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di
poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque
onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo
amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra
costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal dritto.
La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere, ancorché
giustamente gli nuoca. Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e maritale sono
eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della ingratitudine, disamore,
disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli. Quindi è, che il nuocere giustamente a chi
male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i
magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche
si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a
rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e
tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto
l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega
che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire
che ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si
curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor non curanza,
non si lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque coraggio contra coraggio, ma
paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni intorno: " E
quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano
per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver dall'onore?" Rispondo; che di questa
specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer
nostro non conoscono onore, e che riputiamo di gran lunga inferiori a noi, gli orientali
anch'essi animosissimamente combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne
attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei
pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol
parere minore di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che
ad ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA. Questa terribilissima passione, sotto
tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può per anco travestire
in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono
dalla battaglia, ne possono fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi
bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà, appresentati dai loro condottieri a fronte del
nemico, si trovano avere alle spalle i loro proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso
anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino
coraggio da fronte. Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una
morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.
Capitolo Quarto – DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più. Ma i vili in supremo grado
necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di ogni attiva e
passiva paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la viltà e la paura. Può
l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi costretto a temere; e temerà costui
con una certa dignità; vale a dire, egli temerà tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di
quell'uno che tutti atterrisce, e fra se stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di
temere, e la impossibilità d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore. All'incontro,
l'uomo già vile per propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di
un finto amore ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà,
col tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e di
centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian tutti, non
perciò tutti son vili.
Capitolo Quinto – DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno di farsi
maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e le più gloriose e le
più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non perde punto della sua
attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal governo intorpidite
rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi intercette tutte le vie e tutti i
fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore, altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una qualunque parte
della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le tirannidi e le più libere e
virtuose repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia quell'autorità parimente desiata, quanto
diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se
stesso lo vede. Si perviene ad un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e
assomigliandosi al tiranno: un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se
non se a una certa virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in
somma, attestato coi fatti. Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né altri
premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile. È vero nondimeno, che possono i tutti
alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta in essi pur sempre.
Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un interesse non solamente
diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti: egli dee dunque rimunerare chi è
utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e punire debb'egli chiunque veramente
tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte il bene
di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico; ma, in essenza,
egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E così colui, che avrà per
caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai stato, e se giovar si può ai servi, non
liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù) colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il
tiranno; svelando con queste parole o il vile suo animo, o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno
stesso, ove la paura sua, e la dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si
dee pur nominare, almeno per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di
aver premiato i servigj prestati a lui stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si lasciava
sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato Scaevae
Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus et de
republica, donatum millibus ducentis, etc. Si vede in questo passo dalle parole, DE SE
meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non parlar di
se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla prima; e talmente
alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE SE, quasi per
formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo di tutti i tiranni,
allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in dubbio se potrebbe riuscir
nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a ben oltre gli anni quaranta. Ora, che
penserà e dirà egli su tal punto un volgare tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di
morire sul trono, se ne vive fino alla sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque
sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo attesta pur
sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo accorda, potesse
esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o mostrarsi utile a lui,
mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile al pubblico. E parimente
risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo libero, ancorché corrotto sia egli,
attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene, alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere
a molti ed ai più, bisogna manifestamente essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da
vera o da finta intenzione ella nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e
virtù. In vece che il mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una
parte della di lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e
doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti per lo
stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj. Erano già molto corrotti i Romani, e
già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a i suffragj del popolo, si facea
console a dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri bene quale si fosse codesto Mario;
quali e quante virtù egli avesse già manifestate e nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il
popolo giustamente lo favoriva, poiché (secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue
soverchiavano di molto i suoi vizj. Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai nostri non
lo sono pur mai) ma in una crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i
giusti limiti di un ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo
dei Francesi un secolo dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne
godeva in quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual
fosse la politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully, ebbe
egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza di ragioni
inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi sopra di e dei
suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli presumere, che avrebbe
conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno anche ottimo, non si può
assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica virtù; si può (molto meno)
per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle repubbliche, sono il
difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria; l'assicurarne la libertà, ove sane
elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro
sempre la verità, per quanto spiacevole ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai sudditi che non
dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e la forza; l'assicurarne
l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo assicurarglielo sotto apparenza di
ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le
altre, questa importantissima verità: Che sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa
debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa. Ed una tal verità è impossibile a dirsi da
chi vuol mantenersi il favor del tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo
abbia ricercato mai, e ottenuto. Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno
impossibile a tacersi da chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a
soffrirsi dal tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se
stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il caso vi ha
intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o tardi costui cader
vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo abborriscono, perché sono vivamente
offesi dalla di lui insopportabil virtù. Quindi è, che dove un solo è signore di tutto e di tutti,
non può allignare altra compagnia, se non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e tutte le
tirannidi, han fatto e faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni
tirannide, da tutti i popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita. Il
tiranno, ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si
avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si spoglia,
vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal più temere
nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato non
meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo cittadino,
può vuole compatirne un grande. Perciò pare ai molti scusabile colui, che essendo nato
in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi più grande che lo stesso tiranno,
all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non curanza. Risponda ciascuno a questa
obiezione, col domandare a se stesso: "Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente
esercitata sotto il nome d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella
esercitarsi mai, senza nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella
finalmente mai conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede di molte
virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria gloria coll'util di
tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi di soddisfare alle private
passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le ingiurie e di farne, senza timor di
vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di fare in somma tremare quei tanti che nacquero
eguali, o superiori, a colui che la esercita. si può in verun modo dubitare, che nella
repubblica, e nella tirannide, gli ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già
prima di acquistare l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla;
che non potabusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che l'averla
acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i competitori suoi.
Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità ch'egli ambisce, non avrà
nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo abusarne è necessario per
conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del candidato; che l'ottenerla
chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il più reo. Eppure codesti due
ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto arrestarsi corrono entrambi del
pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire che l'ambizioso in repubblica non abbia
per meta la gloria più assai che la potenza? e che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra
meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno e
nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui bastano i
semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno
senza potenza onori. E milita anche per costoro, nell'uno e nell'altro governo, la stessa
differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll'ingannare un solo, ma si
ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo
merita affatto; perché facendolo, disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se
onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla
nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca
obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore
contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi,
sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol
rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o
altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno schiavicello; perché questi onorucci
fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perché egli
spera, non già che il popolo l'onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e
non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li
riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle
repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi
essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del
pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo, nondimeno per
questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede.
L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed
estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del
pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono
i vizj del tiranno, e di chi lo governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e nell'altro
governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle si cercano le
ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar l'uguaglianza; in queste, per
godersele nei vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur sempre assai più escusabile l'avidità
di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove
in somma lo scopo (ancorché più reo) può essere almeno più grande. In vece che nei governi
assoluti, quelle ricchezze che sono il frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e
dell'assoluto capriccio di un solo, possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe,
iniquità e viltà, o dal capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide. Conchiudo;
che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi stati, la più esecrabil peste
si fa dei non liberi.
Capitolo Sesto – DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus:
neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si dee, come
atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel precedente capitolo
soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo, il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è maggiore la
incapacità del tiranno, che la comparte. Ma siccome il solo favore di esso la crea; siccome, ad
un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un ministro illuminato e
capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al governare che lo stesso tiranno, gli
rassomiglia interamente nella impossibilità del ben fare, e di gran lunga lo supera nella
capacità desiderio e necessità del far male. I tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi
ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti; ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con
maggiore estensione e in più supremo grado, che il giusto abborrimento di tutti. E questo
abborrimento sta nella natura dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale,
rapisca ed eserciti quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità,
che per altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad abborrire
altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila chiunque l'ha
offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato, il pensiero; e
chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio. Il primo ministro perciò facilmente
persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima egli, che tutte le violenze e
crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso, necessarie siano per assicurare il tiranno.
Accade alle volte, che, o per capriccio, o per debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un
tratto il favore e l'autorità al ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare
benignità, le predate ricchezze e la vita. Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio
novello al misero soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore,
benché convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia
quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli ha saputo
far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in somma quel
giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna, che lo stato si prepari a
sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre essere di alcun poco più reo del
predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore, innova e sovverte ogni cosa stabilita
dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare dissimile. Eppure costui vuole, e dee volere (come
il predecessore) ed arricchirsi, e mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere,
ed atterrire. Ogni mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non
è ad un popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa
piaga insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore, colla
stessa facilità si dimostra. Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente, egli è pur d'uopo
vincerlo in cattività e accortezza. Un ministro di tiranno per lo più non precipita, senza che
alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori della sua rovina, a lui non
sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti ripari, che avea fatti quel primo per
assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per fortuna lo vinse, ma per arte maggiore.
Domando: "Se nelle corti una maggior arte possa supporre minori vizj in chi la possiede e
felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della non-ferocia dei
moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e neppure le ricchezze,
ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e rapine: soffrono costoro alcun
altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che
maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni di questi vicetiranni smessi, hanno la
sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo nella loro avversa fortuna; e ardiscono
stoltamente arrogarsi il nome di filosofi disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli
uomini savj, che ben sapendo cosa sia un filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, può
essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se dimostrar io
volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può essere stato mai, divenire, un
filosofo. Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo ministro del tiranno
non è mai, può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io da prima per politica
onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica antepone il bene di tutti al
bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa. E, nell'avere io definita la politica onestà, parmi di
aver largamente provato il mio assunto. Se il tiranno stesso non vuole, e non può volere, il
vero ed intero ben pubblico, il quale sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria
potenza, è egli credibile che lo potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo
rappresenta? colui, che un capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un
capriccio ed un cenno ne lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata onestà
la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni
invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto ce lo provano assai meglio che
nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste ministro
nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della sua; che niun uomo
ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere: ora, se la virtù per se stessa
possa in un governo niente virtuoso resistere con una forza non sua al vizio, al raggiro, e
all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a produrre la
prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso. Crescono la potenza e l'abuso
ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché questo tiranno elettivo e
casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il tiranno ereditario e se stesso. Una
persona di più da difendersi, richiede necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più
illegittima, richiede mezzi più illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di questo
personaggio nella tirannide, si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di
ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto nessun eguale,
odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli mai ricevuto
ingiurie private, gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin ch'egli stesso la tiene, in mano
di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire. Ma, tosto ch'egli cede questo
prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito, che si è veduto degli eguali, e dei
superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo ed odioso, dee sommamente essere
odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere allora, o asserire, o sperare che costui non
ferisca?
Capitolo Settimo – DELLA MILIZIA
Ma, o regni il tiranno stesso, o regni il ministro, a ogni modo sempre i difensori delle loro
inique persone, gli esecutori ciechi e crudeli delle loro assolute volontà, sono i mercenarj
soldati. Di questi ve ne ha nei moderni tempi di più specie; ma tutte però ad un medesimo fine
destinate.
In alcuni paesi d'Europa si arruolano gli uomini per forza; in altri, con minor violenza, e
maggior obbrobrio per quei popoli, si offrono essi spontaneamente di perdere la lor libertà, o
(per meglio dire) ciò che essi stoltamente chiamano di tal nome. Costoro s'inducono a questo
traffico di se stessi, spinti per lo più dalla lor dappocaggine e vizj, e lusingati dalla speranza di
soverchiare ed opprimere i loro eguali. Molti tiranni usano anche d'avere al lor soldo alcune
milizie straniere, nelle quali maggiormente si affidano. E, per una strana contraddizione, che
molto disonora gli uomini, gli Svizzeri, che sono il popolo quasi il più libero dell'Europa, si
lasciano prescegliere e comprare, per servir di custodi alla persona di quasi tutti i tiranni di
essa.
Ma, o straniere siano o nazionali, o volontarie o sforzate, le milizie a ogni modo son sempre il
braccio, la molla, la base, la ragione sola, e migliore, delle tirannidi e dei tiranni. Un tiranno di
nuova invenzione cominciò in questo secolo a stabilire e mantenere un esercito intero e
perpetuo in armi. Costui, nel volere un esercito, allorché non avea nemici al di fuori,
ampiamente provò quella già nota asserzione; che il tiranno ha sempre in casa i nemici.
Non era però cosa nuova, che i tiranni avessero per nemici i loro sudditi tutti; e non era nuovo
neppure, che senza aver essi quei tanto formidabili eserciti, sforzassero nondimeno i lor
sudditi ad obbedire e tremare. Ma, tra l'idea che si ha delle cose, e le cose stesse, di mezzo vi
entrano i sensi; ed i sensi, nell'uomo, son tutto. Quel tiranno che nei secoli addietro se ne stava
disarmato, se gli sopravveniva allora il capriccio o il bisogno di aggravare oltre l'usato i suoi
sudditi, soleva per lo più astenersene; perché mormorandone essi o resistendogli, pensava che
gli sarebbe necessario di armarsi per fargli obbedire e tacere. Ma ai tempi nostri, quell'autorità
e forza, che il padre o l'avo del presente tiranno sapeano bensì d'avere, ma non se la vedeano
sempre sotto gli occhi; quell'autorità e forza viene ora ampiamente dimostrata al regnante da
quelle tante sue schiere, che non solo lo assicurano dalle offese dei sudditi, ma che ad
offenderli nuovamente lo invitano. Onde, fra l'idea del potere nei passati tiranni, e la effettiva
realità del potere nei presenti, corre per l'appunto la stessa differenza, che passa tra la
possibilità ideale d'una cosa, e la palpabile esecuzione di essa.
La moderna milizia, colla sua perpetuità, annulla nelle moderne tirannidi l'apparenza stessa
del viver civile; di libertà seppellisce il nome perfino; e l'uomo invilisce a tal segno, che cose
politicamente virtuose, giuste, giovevoli, ed alte, non può egli fare, dire, ascoltar,
pensare. Da questa infame moltitudine di oziosi soldati, vili nell'obbedire, insolenti e feroci
nell'eseguire, e sempre più intrepidi contro alla patria che contro ai nemici, nasce il mortale
abuso dell'esservi uno stato di più nello stato; cioè un corpo permanente e terribile, che ha
opinioni ed interessi diversi e in tutto contrarj a quelli del pubblico; e un corpo, che per la sua
illegittima e viziosa istituzione, porta in se stesso la impossibilità dimostrata di ogni civile ben
vivere. L'interesse di tutti o dei più, fra i popoli di ogni qualunque governo, si è di non essere
oppressi, o il meno che il possono: nella tirannide i soldati, che non debbono aver mai
interesse diverso da quello del tiranno che li pasce e che la loro superba pigrizia vezzeggia; i
soldati, hanno necessariamente interesse di opprimere i popoli quanto più il possono; poiché
quanto più opprimono, tanto più considerati sono essi, e necessarj, e temuti.
Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano
ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano libertà.
Ogni diversità di interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la
universal servitù: e quindi bisogna che il debole per così dire si annichili, e che il forte si
insuperbisca oltre ogni misura. Nella tirannide perciò le soldatesche son tutto, ed i popoli
nulla.
Questi prepotenti, o siano volontariamente o sforzatamente arruolati, sogliono essere, quanto
ai costumi, la più vile feccia della feccia della plebe: e gli uni che gli altri, appena hanno
investita la livrea della loro duplicata servitù, fattisi orgogliosi, come se fossero meno schiavi
che i loro consimili; spogliatisi del nome di contadini di cui erano indegni, sprezzano i loro
eguali, e li reputano assai da meno di loro. E in fatti, i veri contadini coltivatori nella tirannide
si dichiarano assai minori dei contadini soldati, poiché sopportano essi questa genia militante,
che ardisce disprezzargli, insultargli, spogliargli, ed opprimerli. E a questa fatta genia
potrebbero lievemente resistere i popoli, se volessero pure conoscere un solo istante la loro
forza, poiché si troverebbero tuttavia mille contr'uno.
E se tanta pur fosse la viltà degli oppressi, che colla forza aperta non ardissero affrontare
questi loro oppressori, potrebbero anche facilmente con arte e doni corrompergli e comprarli;
che quel loro valore sta per chi meglio lo paga. Ma da un fatto mezzo ne ridonderebbero in
appresso più mali; tra cui non è il menomo, il ritrovarsi poscia fra il popolo una gran
moltitudine d'enti, che soldati non potrebbero esser più, e che cittadini (ove anco il volessero)
divenir non saprebbero.
Vero è, che il popolo li teme e quindi gli odia; ma non gli odia pur mai quanto egli abborrisce
il tiranno, e non quanto costoro sel meritano. Questa non è una delle più leggiere prove, che il
popolo nella tirannide non ragiona, e non pensa: che se egli osservasse, che senza codesti
soldati non potrebbe oramai più sussistere tiranno nessuno, gli abborrirebbe assai più; e da
quest'odio estremo perverrebbe il popolo assai più presto allo spegnere affatto cotali soldati.
E non paja contraddizione il dire; che senza soldati non sussisterebbe il tiranno, dopo aver
detto di sopra, che non sempre i tiranni hanno avuto eserciti perpetui. Coll'accrescere i mezzi
di usare la forza, hanno i tiranni accresciuta la violenza in tal modo, che se ora quei mezzi
scemassero, verrebbe di tanto a scemare nei popoli il timore, che si distruggerebbe forse la
tirannide affatto. Perciò quegli eserciti, che non erano necessarj prima che si oltrepassassero
certi limiti, e prima che il popolo fosse intimorito e rattenuto da una forza effettiva e
palpabile, vengono ad essere necessarissimi dopo: perché natura dell'uomo è, che chiunque
per molti anni ha avuto davanti agli occhi e ceduto ad una forza effettiva, non si lasci più
intimorire da una forza ideale. Quindi, nel presente stato delle tirannidi europee, al cessare dei
perpetui eserciti, immantinente cesseran le tirannidi.
Il popolo non può dunque mai con verisimiglianza sperare di vedersi diminuito o tolto questo
continuo aggravio ed obbrobrio, dello stipendiare egli stesso i suoi proprj carnefici, tratti dalle
sue proprie viscere, e così tosto immemori affatto dei loro più sacri e naturali legami. Ma il
popolo ha pur sempre, non la speranza soltanto, ma la piena e dimostrata certezza di torsi egli
stesso questo aggravio ed obbrobrio, ogniqualvolta egli veramente volendolo non chiederà ad
altrui ciò che sta soltanto in sua mano di prendersi.
Ogni tiranno europeo assolda quanti più può di questi satelliti, e più assai che non può; egli se
ne compiace, se ne trastulla, e ne va oltre modo superbo. Sono costoro il vero e primo giojello
delle loro corone: e, mantenuti a stento dai sudori e digiuni del popolo, preparati son sempre a
beverne il sangue, ad ogni minimo cenno del tiranno. Si accorda, in ragione del numero dei
loro soldati, un diverso grado di considerazione ai diversi tiranni. E siccome non possono essi
diminuire i satelliti loro senza che scemi l'opinione che si ha della loro potenza; e siccome una
persona abborrita, ove ella mai cessi di essere temuta, apertamente si dileggia da prima, e
tosto poscia si spegne; egli è da credersi, che i tiranni non aspetteranno mai questo manifesto
disprezzo precursore infallibile della loro intera rovina, e che sempre dissangueranno il popolo
per mantenere coi molti soldati se stessi.
I tiranni, padroni pur anche per alcun tempo dell'opinione, hanno tentato di persuadere in
Europa, ed hanno effettivamente persuaso ai più stupidi fra i loro sudditi, così plebei come
nobili, che ella sia onorevole cosa la loro milizia. E col portarne essi stessi la livrea,
coll'impostura di passare essi stessi per tutti i gradi di quella, coll'accordarle molte prerogative
insultanti ed ingiuste sopra tutte le altre classi dello stato, e massime sopra i magistrati tutti,
hanno con c offuscato gl'intelletti, ed invogliato gli stoltissimi sudditi di questo mestiere
esecrabile.
Ma una sola osservazione basta a distruggere questa loro scurrile impostura. O tu reputi i
soldati come gli esecutori della tirannica volontà al di dentro; e allora può ella mai parerti
onorevol cosa lo esercitare contra il padre, i fratelli, i congiunti, e gli amici, una forza
illimitata ed ingiusta? O tu li reputi come i difensori della patria; cioè di quel luogo dove per
tua sventura sei nato; dove per forza rimani; dove non hai né libertà, né sicurezza, né proprietà
nessuna inviolabile; e allora, onorevol cosa ti può ella parere il difendere codesto tuo fatto
paese, e il tiranno che continuamente lo distrugge ed opprime quanto e assai più, che nol
farebbe il nemico? e l'impedire in somma un altro tiranno di liberarti dal tuo? Che ti può egli
togliere oramai quel secondo, che non ti sia stato già tolto dal primo? Anzi, potrà il nuovo
tiranno, per necessaria accortezza, trattarti da principio molto più umanamente che il vecchio.
Conchiudo adunque; Che, non si potendo dir patria dove non ci è libertà e sicurezza, il
portar l'armi dove non ci è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché
altro non è, se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici, e i parenti, e il
proprio interesse, e la vita, e l'onore, per una causa obbrobriosa ed ingiusta.
Capitolo Ottavo – DELLA RELIGIONE
Quella qualunque opinione che l'uomo si è fatta o lasciata fare da altri, circa alle cose che egli
non intende, come sarebbero l'anima e la divinità; quell'opinione suol essere anch'essa per lo
più uno dei saldissimi sostegni della tirannide. L'idea che dal volgo si ha del tiranno viene
talmente a rassomigliarsi alla idea da quasi tutti i popoli falsamente concepita di un Dio, che
se ne potrebbe indurre, il primo tiranno non essere stato (come supporre si suole) il più forte,
ma bensì il più astuto conoscitore del cuore degli uomini; e quindi il primo a dar loro una
idea, qual ch'ella si fosse, della divinità. Perciò, fra moltissimi popoli, dalla tirannide religiosa
veniva creata la tirannide civile; spesso si sono entrambe riunite in un ente solo; e quasi
sempre si sono l'una l'altra ajutate.
La religion pagana, col suo moltiplicare sterminatamente gli Dei; e col fare del cielo una quasi
repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato, e ad altri usi e privilegj della corte
celeste; dovea essere, e fu in fatti, assai favorevole al viver libero. La giudaica, e quindi la
cristiana e maomettana, coll'ammettere un solo Dio, assoluto e terribile signor d'ogni cosa,
doveano essere, e sono state, e sono tuttavia assai più favorevoli alla tirannide.
Queste cose tutte, già dette da altri, tralascio come non mie; e proseguendo il mio tema, che
della moderna tirannide in Europa principalissimamente tratta, non esaminerò tra le diverse
religioni se non se la nostra, ed in quanto ella influisce su le nostre tirannidi.
La cristiana religione, che è quella di quasi tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al
viver libero: ma la cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero.
A voler provare la prima di queste proposizioni, basterà, credo, il dimostrare che essa in
nessun modo non induce, persuade, esorta gli uomini al viver liberi. Ed il primo, e
principale incitamento ad un effetto così importante, dovrebbero pur gli uomini riceverlo dalla
lor religione; poic non vi è cosa che più li signoreggi; che maggiormente imprima in essi
questa o quella opinione; e che maggiormente gli infiammi all'eseguire alte imprese. Ed in
fatti, nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara tutti
comandavano ai diversi popoli e l'amor della patria e la libertà. Ma la religion cristiana, nata
in un popolo non libero, non guerriero, non illuminato, e già intieramente soggiogato dai
sacerdoti, non comanda se non la cieca obbedienza; non nomina pure mai libertà; ed il
tiranno (o sacerdote o laico sia egli), interamente assimila a Dio.
Se si esamina in qual modo ella si propagasse, si vedrà che sempre si procacciò più facilmente
l'ingresso nelle tirannidi, che nelle repubbliche. Al cadere dell'imperio romano, (in cui ella
non poté trovar seggio, se non quando la militare tirannide v'ebbe intieramente annullato ogni
vivere civile) quelle tante nazioni barbare che l'occuparono, stabilite poi nella Italia, nelle
Gallie, nelle Spagne, e nell'Africa, sotto i loro diversi condottieri abbracciarono indi a non
molto la religion cristiana. E la ragione mi par ne sia questa. Quei loro condottieri volendo
rimanere tiranni; e quei lor popoli, avvezzi ad esser liberi quando non erano in guerra, non
volendo obbedire se non come soldati a capitano, e non mai come schiavi a tiranno; in questa
disparità di umori frapponendosi il cristianesimo, egli vi appariva introduttore di una certa via
di mezzo, per cui si andava persuadendo ai popoli l'obbedire, e ai capitani fatti tiranni si
veniva assicurando l'imperio; ove questi una parte della loro autorità divider volessero coi
sacerdoti. In prova di che, si osservi quell'altra parte di quelle stesse nazioni boreali rimastasi
povera, semplice, e libera nelle natie sue selve, essere poi stata l'ultimo popolo d'Europa che
ricevesse, più assai per violenza che per via di persuasione, la religion cristiana.
Le poche nazioni che fuori d'Europa la ricevettero, vi furono per lo più indotte dal timore e
dalla forza, come le diverse piagge di America e d'Affrica; ma dallo stesso ferocissimo
fanatismo con cui veniva abbracciata nella Cina, e più nel Giappone, si può manifestamente
dedurre quanto ella volentieri si alligni, e prosperi, nelle tirannidi.
I troppi abusi di essa sforzarono col tempo alcuni popoli assai più savj che imaginosi, a
raffrenarla, spogliandola di molte dannose superstizioni. E costoro, distinti poi col nome di
eretici, si riaprirono con tal mezzo una strada alla libertà, la quale fra essi rinacque dopo
essere stata lungamente sbandita d'Europa, e bastantemente vi prosperò; come gli Svizzeri, la
Olanda, molte cit di Germania, la Inghilterra, e la nuova America, ce lo provano. Ma i
popoli, che, non la frenando, vollero conservarla intera, (non però mai quale era stata
predicata da Cristo, ma quale con arte, con inganno, ed anche con la violenza l'aveano i suoi
successori trasfigurata) si chiusero essi sempre più ogni strada al riprocrear libertà. Addurrò
ora, non tutte, ma le principali ragioni, per cui mi pare quasi impossibile che uno stato
cattolico possa o farsi libero veramente, o rimaner tale, rimanendo cattolico.
Il culto delle immagini, la presenza effettiva nella eucaristia, ed altri punti dogmatici, non
saranno per certo mai quelli, che, creduti o no, verranno ad influire sopra il viver libero
politico. Ma, IL PAPA, ma, LA INQUISIZIONE, IL PURGATORIO, LA CONFESSIONE, IL
MATRIMONIO FATTOSI INDISSOLUBILE SACRAMENTO e IL CELIBATO DEI
RELIGIOSI; sono queste le sei anella della sacra catena, che veramente a tal segno rassodano
la profana, che ella di tanto ne diventa più grave ed infrangibile. E, dalla prima di queste sei
cose incominciando, dico: Che un popolo, che crede potervi esser un uomo, che rappresenti
immediatamente Dio; un uomo, che non possa errar mai; egli è certamente un popolo stupido.
Ma se, non lo credendo, egli viene per ciò tormentato, sforzato, e perseguitato da una forza
superiore effettiva, ne accaderà che quella prima generazione d'uomini crederà nel papa, per
timore; i figli, per abitudine; i nepoti, per stupidità. Ecco in qual guisa un popolo che rimane
cattolico, dee necessariamente, per via del papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo,
servissimo, e stupidissimo.
Ma, mi dirà taluno: "Gli eretici credono pure nella trinità; e questa al senso umano pare una
cosa certamente ancora più assurda che le sopraccennate: non sono dunque gli eretici meno
stupidi dei cattolici". Rispondo; che anche i Romani credevano nel volo e nel beccar degli
augelli, cosa assai più puerile ed assurda; eppure erano liberi e grandi; e non divennero stupidi
e vili, se non quando, spogliati della lor libertà, credettero nella infame divinità di Cesare, di
Augusto, e degli altri lor simili e peggiori tiranni. Quindi, la trinità nostra, per non essere cosa
soggetta ai sensi, si creda ella o no, non può influire mai sopra il viver politico: ma, l'autorità
più o meno di un uomo; l'autorità illimitata sopra le più importanti cose, e velata dal sacro
ammanto della religione, importa e molte, e notabili conseguenze; tali in somma, che ogni
popolo che crede od ammette una tale autorità, si rende schiavo per sempre.
Lo ammetterla senza crederla, che è il caso nostro presente in quasi tutta l'Europa cattolica, mi
pare una di quelle umane contraddizioni stranamente ripugnanti alla sana ragione, ch'elle
non possono essere gran fatto durevoli; e quindi non occorre maggiormente parlarne. Ma i
popoli che l'autorità del papa ammettono perché la credono, come erano i nostri avi, ed alcune
presenti nazioni, necessariamente la credono o per timore, o per ignoranza e stupidità. Se per
queste ultime ragioni la credono, chiaro è che una nazione stupida ed ignorante affatto, non
può, nel presente stato delle cose, esser libera: ma, se per timore la credono i popoli, da chi
vien egli in loro inspirato codesto timore? non dalle papali scomuniche certamente, poiché in
esse non hanno fede costoro; dalle armi dunque e dalla forza spaventati saranno, ed indotti a
finger di credere. E da quali armi mai? da qual vera forza? dalle armi e forza del tiranno, che
politicamente e religiosamente gli opprime. Dunque, dovendo i popoli temere l'armi di chi li
governa, in una cosa che dovrebbe essere ad arbitrio di ciascuno il crederla o no, ne risulta che
chi governa tai popoli, di necessità è tiranno; e che essi, attesa questa loro sforzata credenza,
non sono, possono farsi mai liberi. Ed in fatti, Atene, Sparta, Roma, altre vere
ed illuminate repubbliche, non isforzarono mai i lor popoli a credere nella infallibilità degli
oracoli; né, molto meno, a rendersi tributarj e ciecamente obbedienti a niuno lontano
sacerdozio.
LA INQUISIZIONE, quel tribunale iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare
d'orrore, sussiste pur tuttavia più o meno potente in quasi tutti i paesi cattolici. Il tiranno se ne
prevale a piacer suo; ed allarga, o ristringe la inquisitoria autorità, secondo che meglio a lui
giova. Ma, questa autorità dei preti e dei frati (vale a dire, della classe la più crudele, la più
sciolta da ogni legame sociale, ma la più codarda ad un tempo) quale influenza avrebbe ella
per se stessa, qual terrore potrebbe ella infondere nei popoli, se il tiranno non la assistesse e
munisse colla propria sua forza effettiva? Ora, una forza che sostiene un tribunale ingiusto e
tirannico, non è certamente giusta legittima: dove alligna l'Inquisizione, alligna
indubitabilmente la tirannia; dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante
l'Inquisizione: non si può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente, e
un popolo libero.
Ma, che dirò io poi della CONFESSIONE? Tralascio il dirne ciò che a tutti è ben noto; che la
certezza del perdono di ogni qualunque iniquità col solo confessarla, riesce assai più di sprone
che di freno ai delitti; e tante altre cose tralascio, che dall'uso, o abuso di un tal sacramento
manifestamente ogni giorno derivano. Io mi ristringo a dire soltanto; che un popolo che
confessa le sue opere, parole, e pensieri ad un uomo, credendo di rivelarli per un tal mezzo a
Dio; un popolo, che fra gli altri peccati suoi è costretto a confessare come uno dei maggiori,
ogni menomo desiderio di scuotere l'ingiusto giogo della tirannide, e di porsi nella naturale ma
discreta libertà; un tal popolo non può esser libero, né merita d'esserlo.
La dottrina del PURGATORIO, cagione ad un tempo ed effetto della confessione,
contribuisce non poco altresì ad invilire, impoverire, e quindi a rendere schiavi i cattolici
popoli. Per redimere da codesta pena i loro padri ed avi, colla speranza di esserne poi redenti
dai loro figli e nipoti, danno costoro ai preti non solamente il loro superfluo, ma anche talvolta
il lor necessario. Quindi la sterminata ricchezza dei preti; e dalla loro ricchezza, la lor
connivenza col tiranno; e da questa doppia congiura, la doppia universal servitù. Onde, di
povero che suol essere in ogni qualunque governo il popolo, fatto poverissimo per questo
mezzo di più nella tirannide cattolica, egli vi dee rimanere in tal modo avvilito, che non
penserà ardirà mai tentare di farsi libero. I sacerdoti all'incontro, di poveri (benché non
mendici) che esser dovrebbero, fatti per mezzo di codesto lor purgatorio ricchissimi, e quindi
moltiplicati e superbi, sono sempre in ogni governo inclinati, anzi sforzati da queste loro
illegittime sterminate ricchezze, a collegarsi con gli oppressori del popolo, e a divenire essi
stessi oppressori per conservarle.
Dalla indissolubilità del MATRIMONIO FATTOSI SACRAMENTO, ne risultano
palpabilmente quei tanti politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi
mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli: e ciò tutto, perché quella sforzata
indissolubilità non ristringe i legami domestici; ma bensì, col perpetuarli senza addolcirli,
interamente li corrompe e dissolve.
E finalmente poi, siccome dall'essere i popoli cattolici sforzatamente perpetui conjugi, non
sogliono esser essi fra loro mariti veri, mogli, padri; così, dall'essere i preti cattolici
sforzatamente PERPETUI CELIBI, non sogliono mostrarsi fratelli, figli, cittadini;
che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati, troppo importa il conoscere per
esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e marito.
Da queste fin qui addotte ragioni, mi pare che ne risulti chiaramente (oltre la maggior ragione
di tutte, che sono i fatti) che un popolo cattolico già soggiogato dalla tirannide,
difficilissimamente può farsi libero, e rimanersi veramente cattolico. E per addurne un solo
esempio, che troppi addurne potrei, nella ribellione delle Fiandre, quelle provincie povere, che
non avendo impinguati i lor preti si erano potute far eretiche, rimasero libere; le grasse e
ridondanti di frati, di abati, e di vescovi, rimasero cattoliche e serve. Vediamo ora, se un
popolo che già si ritrovi libero e cattolico, si possa lungamente mantener l'uno e l'altro.
Che un popolo soggiogato da tanti e fatti politici errori, quanti ne importa il viver cattolico,
possa essere politicamente libero, ella è cosa certamente molto difficile: ma, dove pure ei lo
fosse, io credo che il conservarsi tale, sia cosa impossibile. Un popolo, che crede nella
infallibile e illimitata autorità del papa, è già interamente disposto a credere in un tiranno, che
con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa istesso, lo
persuaderà, o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo
papa nelle religiose. Un popolo, che trema della Inquisizione, quanto più non dovrà egli
tremare di quell'armi stesse che la Inquisizione avvalorano? Un popolo, che si confessa di
cuore, può egli non essere sempre schiavo di chi può assolverlo o no? Dico di più; che dal
ceto stesso dei sacerdoti, (ove un laico tiranno non vi fosse) ne insorgerebbe uno religioso ben
tosto; o se da altra parte insorgesse un tiranno, lo approverebbero e seconderebbero i
sacerdoti, sperandone il contraccambio da lui. Ed è cosa anche provata dai fatti; si veda
perfino nelle semi-repubbliche italiane, i sacerdoti esservi saliti assai meno in ricchezza e in
potenza, che nelle tirannidi espresse di un solo. Un popolo finalmente, che si spropria
dell'aver suo, togliendolo a se stesso, a' suoi congiunti, e ai proprj suoi figli, per darlo ai
sacerdoti celibi, diventerà coll'andar del tempo indubitabilmente così bisognoso e mendico,
che egli sarà preda di chiunque lo vorrà conquistare, o far servo.
Non so se al sacerdozio si debba la prima invenzione del trattare come cosa sacrosanta il
politico impero, o se l'impero abbia ciò inventato in favore del sacerdozio. Questa reciproca e
simulata idolatria, è certamente molto vetusta; e vediamo nell'antico testamento a vicenda
sempre i re chiamar sacri i sacerdoti, e i sacerdoti i re; ma da nessuno mai dei due udiamo
chiamare, o reputare mai sacri, gl'incontestabili naturali diritti di tutte le umane società. Il vero
si è, che quasi tutti i popoli della terra sono stati, e sono (e saranno sempre, pur troppo!) tolti
in mezzo da queste due classi di uomini, che sempre fra loro si sono andate vicendevolmente
conoscendo inique, e che con tutto ciò si sono reciprocamente chiamate sacre: due classi, che
dai popoli sono state spesso abborrite, alcuna volta svelate, e sempre pure adorate.
È il vero altresì, che in questo nostro secolo i presenti cattolici poco credono nel papa; che
pochissimo potere ha la inquisizion religiosa; che si confessano soltanto gl'idioti; che non si
comprano oramai le indulgenze, se non dai ladri religiosi e volgari: ma, al papa, alla
Inquisizione, alla confessione, e all'elemosine purgatoriali, in questo secolo, fra i presenti
cattolici, ampiamente supplisce la sola MILIZIA; e mi spiego. Il tiranno ottiene ora dal terrore
che a tutti inspirano i suoi tanti e perpetui soldati, quello stesso effetto che egli per l'addietro
otteneva dalla superstizione, e dalla totale ignoranza dei popoli. Poco gl'importa oramai che in
Dio non si creda; basta al tiranno, che in lui solo si creda; e di questa nostra credenza, molto
più vile e assai meno consolatoria per noi, glie n'entrano mallevadori continui gli eserciti suoi.
Vi sono nondimeno in Europa alcuni tiranni, che volendo con ipocrisia mascherare tutte
l'opere loro, pigliano a sostenere le parti della religione, per farsi pii reputare, e per piacere al
maggior numero che pur tuttora la rispetta, e la crede. Ogni savio tiranno, ed accorto, così dee
pure operare; sia per non privarsi con una inutile incredulità di un così prezioso ramo
dell'autorità assoluta, quale è l'ira dei preti amministrata da lui, e viceversa, la sua,
amministrata da essi; sia perché usando altrimenti, potrebbe egli avvenirsi in un qualche
fanatico di religione, il quale facesse le veci di un fanatico di libertà: e quelli sono e men rari e
più assai incalzanti, che questi. E perché mai sono quelli men rari? attribuir ciò si dee
all'essere il nome di religione in bocca di tutti; e in bocca di pochissimi, e in cuore quasi a
nessuno, il nome di libertà.
Il più sublime dunque ed il più utile fanatismo, da cui veramente ne ridonderebbero degli
uomini maggiori di quanti ve ne siano stati giammai, sarebbe pur quello, che creasse e
propagasse una religione ed un Dio, che sotto gravissime pene presenti e future comandassero
agli uomini di esser liberi. Ma, coloro che inspiravano il fanatismo negli altri, non erano per lo
più mai fanatici essi stessi; e pur troppo a loro giovava d'inspirarlo per una religione ed un
Dio, che agli uomini severamente comandassero di essere servi.
Capitolo Nono- DELLE TIRANNIDI ANTICHE, PARAGONATE COLLE MODERNE
Le cagioni stesse hanno certamente in ogni tempo e luogo, con piccolissime differenze,
prodotto gli stessi effetti. Tutti i popoli corrottissimi hanno soggiaciuto ai tiranni, fra' quali ve
ne sono stati dei pessimi, dei cattivi, dei mezzani, e perfino anco dei buoni. Nei moderni
tempi i Caligoli, i Neroni, i Dionigi, i Falaridi, ecc., rarissimi sono: e se anche vi nascono,
assumono costoro fra noi una tutt'altra maschera. Ma meno feroce d'assai è anche il popolo
moderno: quindi la ferocia del tiranno sta sempre in proporzione di quella dei sudditi.
Le nostre tirannidi, in oltre, differiscono dalle antiche moltissimo; ancorché di queste e di
quelle la milizia sia il nervo, la ragione, e la base. so, che questa differenza ch'io sto per
notare, sia stata da altri osservata. Quasi tutte le antiche tirannidi, e principalmente la romana
imperiale, nacquero e si corroborarono per via della forza militare stabilita senza
nessunissimo rispetto su la rovina totale d'ogni preventiva forza civile e legale. All'incontro le
tirannidi moderne in Europa sono cresciute e si sono corroborate per via d'un potere, militare
e violento, ma pure fatto, per così dir, scaturire da quell'apparente o reale potere civile e
legale, che si trovava già stabilito presso a quei popoli. Servirono a ciò di plausibil pretesto le
ragioni di difesa d'uno stato contro all'altro; la conseguenza ne riuscì più sordamente tirannica
che fra gli antichi; ma ella ne è pur troppo più funesta e durevole, perché in tutto è velata
dall'ammanto ideale di una legittima civile possanza.
I Romani erano educati fra il sangue; i loro crudeli spettacoli, che a tempo di repubblica
virtuosamente feroci li rendevano, al cessar d'esser liberi non li faceano cessare per ciò di
essere sanguinarj. Nerone, Caligola, ecc., ecc., trucidavano la madre, la moglie, i fratelli, e
chiunque a lor dispiacesse: ma Nerone, Caligola, e i simili a loro, morivano pur sempre di
ferro. I nostri tiranni non uccidono mai apertamente i loro congiunti; rarissimamente versano
senza necessità il sangue dei sudditi, e ciò non fanno se non sotto il manto della giustizia: ma
anche i tiranni nostri se ne muojono in letto.
Non negherò, che a raddolcire gli universali costumi non poco contribuisse la religione
cristiana; benché da Costantino fino a Carlo VI tanti tratti di stupida ignorante e non grandiosa
ferocia si possono pur leggere nelle storie di tutti quei popoli intermediarj, che storia a dir
vero non meritavano. Nondimeno attribuire si debbe in qualche parte il raddolcimento
universale dei costumi, e una certa urbani nella tirannide diversamente modificata, alla
influenza della cristiana religione. Il tiranno, anch'egli ignorante per lo più e superstizioso, e
sempre codardo, il tiranno anch'egli si confessa; e benché sempre vada assolto dalle
oppressioni e dalle angarie fatte ai suoi sudditi, non lo sarebbe forse poi in questi nostri tempi
dell'aver trucidato apertamente la madre e i fratelli, o dell'aver messo a fuoco e a sangue una
propria città e provincia, se non se ricomprando con enorme prezzo, e con una total
sommissione ai sacerdoti, la disusata enormità di un tanto misfatto.
Se sia un bene od un male, che dall'essere raddolciti tanto gli universali costumi ne risultino
queste nostre tirannidi assai meno feroci, ma assai più durevoli e sicure che le antiche, ne può
esser giudice chiunque vorrà paragonare gli effetti e le influenze di queste e di quelle. Quanto
a me, dovendone brevissimamente parlare, direi; che difficilmente può nascere ai tempi nostri
un Nerone ed esercitar l'arte sua; ma che assai più difficilmente ancora può nascere un Bruto,
e in pubblico vantaggio la mano adoprare ed il senno.
Capitolo Decimo – DEL FALSO ONORE
Ma, se le antiche tirannidi e le moderne si rassomigliano nell'aver esse la paura per base, la
milizia e la religione per mezzi, differiscono alquanto le moderne dalle antiche per aver esse
nel falso onore, e nella classe della nobiltà ereditaria permanente, ritrovato un sostegno, che
può assicurarne la durata in eterno. Ragionerò in questo capitolo del falso onore; e alla
nobiltà, che ben se lo merita, riserberò un capitolo a parte.
L'onore, nome da tanti già definito, da tutti i popoli, e in tutti i tempi diversamente inteso, e a
parer mio indefinibile; l'onore verrà ora da me semplicemente interpretato così: La brama, e il
diritto, di essere onorato dai più. Ed il falso distinguerò dal vero, falsa chiamando quella
brama d'onore, che non ha per ragione e per base la virtù dell'onorato, e l'utile vero degli
onoranti; e vera all'incontro chiamerò quella brama di onore, che altra ragione e base non
ammette se non la utile e praticata virtù. Ciò posto, esaminiamo qual sia questo onore nelle
tirannidi, chi lo professi, a chi giovi, da qual virtù nasca, e qual virtù ed utile egli promuova.
L'onore nelle tirannidi si va spacciando egli stesso come il solo legittimo impulso, che spinge
tutti coloro che pretendono di non operar per paura. Il tiranno, contento oltre ogni credere, che
la paura mascherata sotto altro titolo venga nondimeno a produrre un medesimo, anzi un
maggior effetto in suo pro, straordinariamente seconda questa volgare illusione. Col semplice
nome di onore, che sempre gli sta tra le labbra, egli riesce pure a spingere i suoi sudditi a
coraggiose e magnanime imprese, le quali veramente onorevoli sarebbero, se fatte non fossero
in suo privato vantaggio, ed in pubblico danno. Ma, se onore vuol dire; Il giusto diritto di
essere veramente onorato dai buoni ed onesti, come utile ai più; e se la virtù sola può essere
base a un tal dritto; come può egli il tiranno profferire mai un tal nome? Lo ripetono anche i
sudditi a gara; ma se la loro brama e diritto d'essere onorati si fondasse su la pratica della vera
virtù, potrebbero eglino servire, obbedire, e giovare a un tiranno che nuoce a tutti? E noi stessi
schiavi moderni, ove ricordare pure vogliamo la memoria d'un uomo giustamente onorato per
molte età da molti e diversi popoli, e che quindi moltissimo onore abbia avuto nel cuore,
facciamo noi menzione di un Milziade, di un Temistocle, di un Regolo, ovvero d'uno
Spitridate, di un Sejano, o di altro prepotente schiavo di tiranno? Noi stessi dunque (e senza
avvedercene) sommamente onorando quegli uomini liberi, grandi, e giustamente onorevoli ed
onorati, veniamo manifestamente a mostrare, che il vero onore era il loro; e che il nostro, il
quale in tutto è l'opposto di quello, è il falso; poiché niente onoriamo la memoria di quei
pretesi grandi in tirannide.
Ma, se l'onore nelle tirannidi è falso, e se, immedesimatosi colla paura, egli è pure la
principalissima molla di un tal governo, da un falso principio falsissime conseguenze risultar
ne dovranno; e ne risultano in fatti. L'onore nella tirannide impone, che mai non si manchi di
fede al tiranno. Impone l'onore nella repubblica, che chiunque volesse farsi tiranno, sia spento.
Per giudicare qual sia tra questi due onori il verace, esaminiamo alla sfuggita questa fede, che
il servo non dee rompere al tiranno. Il rompere la data fede, è certamente cosa, che dee
disonorar l'uomo in ogni qualunque governo: ma la fede dev'essere liberamente giurata, non
estorquita dalla violenza, non mantenuta dal terrore, non illimitata, non cieca, non ereditaria;
e, sovra ogni cosa, reciproca dev'esser la fede. Ogni moderno tiranno, al riappiccarsi in fronte
la corona del padre, anch'egli ha giurato una fede qualunque ai suoi sudditi, che già rotta e
annullata dal di lui padre, lo sarà parimente e doppiamente da esso. Il tiranno è dunque di
necessità sempre il primo ad essere spergiuro, e fedifrago: egli è dunque il primo a calpestarsi
fra' piedi il proprio onore, insieme con le altrui cose tutte. Ed i suoi sudditi perderebbero l'onor
loro, nel romper essi quella fede che altri ha manifestamente già rotta? La pretesa virtù, in
questo caso frequente pur tanto nelle tirannidi, sta dunque direttamente in opposizione
coll'onor vero; poiché, se un privato ti manca di fede, anche l'onore stesso delle tirannidi
t'impone di fargliela a forza osservare, per vendicare in tal modo il disprezzo ch'egli ha
mostrato espressamente di te nell'infrangerla. Manifestamente dunque falso è quell'onore che
comanda di serbar rispetto, ed amore, e fede a chi non serba, o può impunemente non serbare,
alcuna di queste tre cose a nessuno. Da questo falso onore nasce poi la falsissima
conseguenza, che si venga a credere legittima infrangibile e sacra quell'autorità, che l'onore
stesso costringe a mantenere e difendere.
A questo modo, nella tirannide, guasti essendo e confusi i nomi di tutte le cose, i capricci del
tiranno messi in carta, col sacro nome di leggi s'intitolano; e si rispettano, ed eseguiscono,
come tali. Così, a quella terra dove si nasce, si dà nella tirannide risibilmente il nome di patria;
perché non si pensa che patria è quella sola, dove l'uomo liberamente esercita, e sotto la
securtà d'invariabili leggi, quei più preziosi diritti che natura gli ha dati. Così, si ardisce nella
tirannide appellare senato (col nome cioè dei liberi scelti patrizj di Roma) una informe
raccolta di giudici trascelti dal principe, togati di porpora, e specialmente dotti in servire. Così
finalmente, si viene a chiamare nella tirannide col titolo sacro d'onore la dimostrata
impossibilità di essere giustamente onorato dai buoni, come di essere utile ai molti.
Ma, per maggiormente accertarci, che l'onor nostro sia il falso, paragoniamolo alquanto più
lungamente a quello delle repubbliche antiche, nelle sue cagioni, mezzi, ed effetti; e certo
arrossiremo noi tosto di profferire un tal nome; che se dicessimo non essere egli a noi noto
affatto, con una tale ignoranza escuseremmo almeno la infamia nostra in gran parte.
Comandava l'onore antico a quei popoli liberi, di dar la vita per la libertà; vale a dire pel
maggior vantaggio di tutti: ci comanda il moderno onore di dar la vita pel tiranno; vale a dire
per colui che sommamente nuoce a noi tutti. Voleva l'antico onore, che le ingiurie private
cedessero sempre alle pubbliche: vuole il moderno che si abbiano le pubbliche per nulla, e che
atrocemente si vendichino le private. Voleva l'antico, che i suoi seguaci serbassero amore e
fede inviolabile alla patria sola: il nostro la vuole e comanda pel solo tiranno. E non finirei, se
i precetti di questo e di quello, in tutto contrarj fra loro, annoverare volessi.
Ma i mezzi per essere onorato, non meno dai popoli servi che dai liberi, sono pur sempre il
coraggio e una certa virtù: colla somma differenza nondimeno, che l'onore nelle repubbliche,
scevro da ogni privato interesse, riesce di pura ricompensa a se stesso; ma nelle tirannidi
questo onore impiegatosi in pro del tiranno, vien sempre contaminato da mercedi e favori, che
più o meno distribuiti dal principe, accrescono, minorano, o anche, negati, spengono affatto
l'onore nel cuore de' suoi servi.
Le conseguenze poi di questi due diversi onori, facilissime sono a dedursi. Libertà, grandezza
d'animo, virtù domestiche e pubbliche, il nome e il felice stato di cittadino; ecco quali erano i
dolci frutti dell'antico onore: tirannia, ferocia inutile, vil cupidigia, servaggio, e timore; ecco
innegabilmente quali sono i frutti del moderno. I Greci e' Romani erano in somma il prodotto
del vero onor ben diretto; i popoli tutti presenti d'Europa, (meno gl'Inglesi) sono il prodotto
del falso onore moderno. Paragonando fra loro questi popoli, la diversa felicità e potenza da
essi acquistata, le diverse cose operate da loro, la fama che ottengono, e quella che meritano,
si viene ad avere un'ampia e perfetta misura di ciò che possa nel cuor dell'uomo questa divina
brama di essere giustamente onorato, allorché dai saggi governi ella è bene indrizzata e
accresciuta, o allorché dai tirannici ella viene diminuita, o traviata dal vero.
Mi si dirà che, o buono sia o cattivo il principio, a ogni modo il sagrificar la propria vita, il
mantenere la data fede a costo di essa, l'esporla per vendicare le ingiurie private, tutto ciò
suppone pur sempre una somma virtù. io imprendo stoltamente a negare, che nelle
tirannidi vi sia moltissima gente capace di virtù, e nata per esercitarla: piango solamente in me
stesso di vederla falsamente adoprarsi nel sostenere, e difendere il vizio, e quindi nello
snaturare, e distruggere se stessa. E niuno politico scrittore ardirà certamente chiamare virtù
uno sforzo, ancorché massimamente sublime, da cui, in vece del pubblico bene, ne debba poi
ridondare un male per tutti, e la prolungazione del pubblico danno.
Ora, perché dunque quella stessa vita, che tanti e fatti uomini ripieni di falso onore vanno
così prodigamente spendendo pel tiranno, perché quella vita stessa non vien ella da loro
sagrificata, con più ragione e con ugual virtù, per togliere a colui la tirannide? E quel valore
inutile (poiché non ne ridonda alcun bene) quell'efferato valore, con cui nelle tirannidi si
vendicano le private offese, perché non si adopera tutto contro al tiranno, che tutti, e in più
supremo grado, non cessa pur mai un momento di offendere? E quella fede che così
ostinatamente cieca si osserva verso il nemico di tutti, perché, con egual pertinacia e con più
illuminata virtù, non si giura ella ed osserva inverso i sacri ed infranti diritti dell'uomo?
Nelle tirannidi dunque, a tal segno ridotti son gl'individui, che, qualunque impulso dalla
natura abbiano ricevuto all'operar cose grandi, essi edificano pur sempre sul falso,
ogniqualvolta non sanno o non osano calpestare il moderno onore, e riassumere l'antico.
Capitolo Undecimo – DELLA NOBILTÀ
Havvi una classe di gente, che fa prova e vanto di essere da molte generazioni illustre,
ancorché oziosa si rimanga ed inutile. Intitolasi nobiltà; e si dee, non meno che la classe dei
sacerdoti, riguardare come uno dei maggiori ostacoli al viver libero, e uno dei più feroci e
permanenti sostegni della tirannide.
E benché alcune repubbliche liberissime, e Roma tra le altre, avessero anch'elle in questo
ceto, è da osservarsi, che già lo avevano quando dalla tirannide sorgeano a libertà; che questo
ceto era pur sempre il maggior fautore dei cacciati Tarquinj; che i Romani non accordarono
d'allora in poi nobiltà, se non alla sola virtù; che la costanza tutta, e tutte le politiche virtù di
quel popolo erano necessarie per impedire per tanti anni ai patrizj di assumere la tirannide; e
che finalmente poi dopo una lunga e vana resistenza, era forza che il popolo credendo di
abbattergli, ad essi pur soggiacesse. I Cesari in somma erano patrizj, che mascheratisi da
Marii, fingendo di vendicare il popolo contra i nobili, amendue li soggiogarono.
Dico dunque; che i nobili nelle repubbliche, ove essi vi siano prima ch'elle nascano, o tosto o
tardi le distruggeranno, e faran serve; ancorché non vi siano da prima più potenti che il
popolo. Ma, in una repubblica, in cui nobili non vi siano, il popolo libero non dee mai creare
nel proprio seno un sì fatale stromento di servitù, né mai staccare dalla causa comune nessuno
individuo, (molto meno) staccarne a perpetuità, nessuna intera classe di cittadini. Pure, per
altra parte moltissimo giovando alla emulazione, e non poco alla miglior discussione dei
pubblici affari, l'aver nella repubblica un ceto minore in numero, e maggiore in virtù al ceto di
tutti, potrebbe un popolo libero a ciò provvedere col crearsi questo ceto egli stesso, e crearlo a
vita od a tempo, ma non ereditario giammai; affinché possano costoro operare nella
repubblica quel tal bene che vi oprerebbe forse la nobiltà, senza poterne operare mai niuno dei
mali, che ella tutto giorno pur vi opera.
Natura dell'uomo si è, che quanto egli più ha, tanto desidera più, e tanto maggiormente in
grado si trova di assumersi più. Al ceto dei nobili ereditarj, avendo essi la primazìa e le
ricchezze, altro non manca se non la maggiore autorità, e quindi ad altro non pensano che ad
usurparla. Per via della forza nol possono, perché in numero si trovano pur sempre di tanto
minori del popolo. Per arte dunque, per corruzione, e per fraude, tentano di usurparla. Ma, o
fra loro tutti si accordano, e, per invidia l'uno dell'altro, rimanendo la usurpata autorità nelle
mani di loro tutti, ecco allora creata la tirannide aristocratica: ovvero tra quei nobili se ne
trova uno più accorto, più valente, e più reo degli altri, che parte ne inganna, parte ne
perseguita o distrugge, e fingendo di assumere le parti e la difesa del popolo, si fa assoluto
signore di tutti; ed ecco, come sorge la tirannide d'un solo. Ed ecco, come ogni tirannide ha
sempre per origine la primazìa ereditaria di pochi: poiché la tirannide importando
necessariamente sempre lesione e danno dei più, ella non si può mai originare lungamente
esercitare da tutti, che al certo non possono mai volere la lesione ed il danno di se stessi.
Conchiudo adunque, quanto alla ereditaria nobiltà, che quelle repubbliche, in cui ella è già
stabilita, non possono durar libere di vera politica libertà; e che nelle tirannidi questa vera
libertà non vi si può mai stabilire, o stabilita durarvi, finché vi rimangono de' nobili ereditarj:
e le tirannidi nelle loro rivoluzioni non muteranno altro mai che il tiranno, ogniqualvolta non
abbatteranno con esso ad un tempo la nobiltà. Così Roma, benché cacciasse i tiranni Tarquinj,
rimanendovi pure, dopo svanito il comune pericolo, assai più potenti i patrizj che il popolo,
Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazione dei tribuni. Questo popolar
magistrato, contrastando di pari colla potenza patrizia, ed essendo abbastanza potente per
tenerla a freno, e non abbastanza per distruggerla affatto, per molto tempo sforzava i nobili a
gareggiare col popolo in virtù; e ne nacque perciò per gran tempo il bene di tutti. Ma il mal
seme pur rimaneva, e all'accrescersi della universale potenza e ricchezza, rigermogliò più che
mai rigogliosa ogni superbia e corruzione nei nobili; e questi poi, così guasti, in breve la
repubblica spensero.
Fu dottamente e con sagace verità osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche
maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltà ed il popolo erano
state per più secoli il nerbo, la grandezza, e la vita, di Roma: ma la sacra verità comandava pur
anco, che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi
la intera rovina; e il come, e il perché, ampiamente da essi indagar si dovea. Ed io mi fo a
credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato spingere alquanto più oltre il loro
riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima
cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà. Che se le dissensioni, o per dir meglio le
disparità di opinioni, sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà,
bisogna pur confessare che le dispari d'interessi dannosissime vi riescono, e di necessità
mortifere ogniqualvolta l'uno dei due diversi interessi interamente la vince. Ora, mi pare
innegabile, che ogni primazìa ereditaria di pochi genera per forza in quei pochi un interesse di
conservazione e di accrescimento, diverso ed opposto all'interesse di tutti. Ed ecco il vizio
radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà una classe di nobili e di sacerdoti, a parte
dal popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti: e i nobili, per essere
ereditarj, riusciranno quasi più dannosi che i sacerdoti, i quali sono elettivi soltanto: ma, per
dire il vero, abbondantemente suppliscono a ciò i sacerdoti, colle loro ereditarie impolitiche
massime, che da ogni loro individuo in un colla tonaca e col piviale si assumono; oltre che,
per maggiormente perfezionare questo comune danno, le più cospicue sacerdotali dignità
sogliono anche cadere esclusivamente nelle mani dei nobili: dal che ne risulta, che i sacerdoti
doppiamente dannosi riescono al pubblico bene.
E benché in Inghilterra vi siano per ora, e nobili e libertà, non mi rimuovo io perciò in nulla da
questo mio su mentovato parere. Si osservi da prima, che in Inghilterra i veri nobili antichi,
nelle spesse e sanguinose rivoluzioni erano presso che tutti spenti; che i nuovi nobili, usciti di
fresco dal popolo per favor del re, non possono in un paese libero assumere in una in
due generazioni quella superbia e quello sprezzo del popolo stesso, fra cui serbano essi ancora
i loro parenti ed amici; quella superbia, dico, che vien bevuta col latte dai nobili antichi,
interamente staccati nelle nostre tirannidi da tempo immemorabile dal popolo, di cui sono
lungamente stati gli oppressori e tiranni. Si osservi in oltre, che i nobili in Inghilterra, presi in
se stessi, sono meno potenti del popolo; e che, uniti col popolo, sono più che il re; ma che,
uniti col re, non sono però mai più che il popolo. Si osservi in oltre, che se in alcuna cosa la
repubblica inglese pare più saldamente costituita che la romana, si è nell'essere in Inghilterra
la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma
accesa bensì fra il popolo e il popolo; cioè, fra il ministero e chi vi si oppone. Quindi, non
essendo questa dissensione generata da disparità di ereditario interesse, ma da disparità di
passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere; poiché nessuno
talmente aderisce a una parte, ch'egli non possa spessissimo passare dalla contraria; nessuna
delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di
tutti. Una nobiltà dunque così felicemente rattemperata, come la inglese lo pare, per certo
riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse
non le mancherebbe che di non essere ereditaria. Una classe di uomini principali, e non
amovibili membri del governo, ov'ella fosse creata dalla vera virtù e dai liberi suffragj di tutti,
vi riuscirebbe veramente onorevole, e giustamente onorata; e grandissima emulazione di virtù
si verrebbe ad accendere fra i concorrenti ad essa. Ma, se disgraziatamente ereditaria una tal
classe si ammette, ancorch'ella si creasse da liberi e virtuosi suffragj, tuttavia ad ogni
individuo inglese che verrà creato nobile ereditario, si perderà per tal mezzo una intera stirpe,
che così viene staccata dall'interesse comune, deviata dal vantaggio di tutti, e privata di ogni
emulazione al ben fare. Quindi è, che i nobili in Inghilterra, ancorché alquanto meno dannosi
che nelle tirannidi, potendovi pure essere moltiplicati dal re ad arbitrio suo, e senza alcun
limite; credendosi essi maggiori del popolo; essendovi e più ricchi, e più sazj, e più oziosi, e
più guasti assai che non è il popolo; i nobili in Inghilterra saranno in ogni tempo
maggiormente propensi all'autorità del re, il quale creati gli ha e spegnerli non potrebbe, che
non all'autorità del popolo, il quale non può creargli e li potrebbe pure distruggere. In
Inghilterra perciò (come sempre sono stati altrove) i nobili saranno, o già sono, i corrompitori
della libertà; ove, prima di ciò, abbattuti maggiormente non siano dal popolo. Ma, non
essendo la repubblica il mio tema, abbastanza, e troppo lungamente forse, ho io parlato fin qui
dei nobili nelle repubbliche. Mi convien dunque ora lungamente ragionare dei nobili nelle
moderne nostre tirannidi.
Distrutto il romano imperio, ne furono, come ognun sa, divise le provincie fra diversi popoli;
ed infiniti stati da quell'immenso stato nascevano. Ma, in tutti insorgeva una nuova specie di
governo fino allora ignota, in cui molti piccioli tiranni rendendo omaggio ad un solo e
maggiore, teneano, sotto il titolo di feudatarj, nella oppressione e servitù i varj lor popoli.
Alcuni di questi tiranni feudatarj divennero così potenti, che ribellatisi al loro sovrano, si
crearono stato a parte; e non pochi dei presenti tiranni d'Europa son della stirpe di quei
signorotti. E, per contraria vicenda, molti dei tiranni sovrani si fecero altresì col tempo
abbastanza potenti, per distruggere o spodestare affatto quei secondi tiranni, e rimanere essi
soli sovrani. Comunque ciò fosse, il soggiacere al tiranno maggiore, o ai tirannelli, non
sollevò mai il popolo dal peso delle sue catene: anzi, è verisimile che, assicurato ed ingrandito
il loro stato, i tiranni maggiori, avendo meno rispetti, più illimitata potenza, e minori nemici,
ne divennero con molta più impunità e sicurezza oppressori del loro misero gregge.
Ma, quanto erano stati da temersi pel tiranno quei nobili feudatarj, finché aveano avuto
autorità e forza; quanto erano stati ostacolo, e in un certo modo freno, alla compiuta tirannide
di quel solo, altrettanto poi ne divennero essi la base e il sostegno, tosto che rimasero spogliati
dell'autorità e della forza. I tiranni si prevalsero da prima del popolo stesso per abbassare i
signorotti; ed il popolo che avea da vendicar tante ingiurie, volonteroso seguitò l'animosità di
quel solo e maggior tiranno contro ai tanti e minori. Allora, qual dei signorotti si dette per
accordo al tiranno, e quale contr'esso rivolse le armi. Ma, o patteggiati, o vinti ch'ei fossero,
tutti, od i più, coll'andar del tempo soggiacquero. Non si estinse tuttavia interamente mai quel
male che ridondava da questa secondaria tirannide feudale; non si scemò punto la servitù per
il popolo; notabilmente si accrebbe bensì l'autorità e la forza del tiranno. Conobbero i tiranni
la necessità di mantenere una classe fra essi ed il popolo, che paresse alquanto più potente che
il popolo, e fosse assai meno potente di loro: e benissimo conobbero che distribuendo fra
costoro gli onori tutti e le cariche, diverrebbero questi col tempo i più feroci e saldi satelliti
della loro tirannide.
s'ingannarono in tal fatto i tiranni. I nobili, spogliati affatto della loro autorità e forza, ma
non interamente delle loro ricchezze e superbia, manifestamente conobbero che non potevano
essi nella tirannide continuare ad essere tenuti maggiori del popolo, se non se risplendendo
della luce del tiranno. L'impossibilità di riacquistare l'antica potenza li costrinse ad adattare la
loro ambizione alla necessità ed ai tempi. Dal popolo, che non s'era certamente scordato delle
loro antiche oppressioni; dal popolo, che gli abborriva perché li credeva ancora troppo più
potenti di lui; dal popolo in somma, troppo avvilito per soccorrergli ancor che il volesse,
videro chiaramente i nobili che non v'era luogo a sperarne mutazione alcuna favorevole a loro.
Si gittarono dunque interamente in braccia al tiranno; ed egli non li temendo oramai, e
vedendo quanto potevano riuscire utili alla propagazione della tirannide, li prelesse ad essere i
depositarj e il sostegno.
E questa è la nobiltà, che nelle tirannidi d'Europa tutto giorno poi vedesi così insolente col
popolo, e così vil coi tiranni. Questa classe, in ogni tirannide, è sempre la più corrotta; ella è
perciò l'ornamento principalissimo delle corti, il maggior obbrobrio della servitù, e il giusto
ludibrio dei pochi che pensano. Degeneri dai loro avi nella fierezza, i nobili sono gl'inventori
primieri d'ogni adulazione, d'ogni più vile prostituzione al tiranno: ma non tralignano già essi
nella superbia e crudeltà contro al popolo. Anzi, vie più inferociti per la loro perduta potenza
effettiva, lo tiranneggiano quanto più sanno e possono con i flagelli stessi del tiranno, se egli
lo permette; e se egli lo vieta, (il che di rado accadeva fino allo stabilimento della perpetua
milizia) non lasciano pure di opprimere il popolo di furto con quanta prepotenza più possono.
Ma, dallo stabilimento in poi dei perpetui eserciti in Europa, i tiranni vedendosi armati e
effettivamente potenti, hanno incominciato a tenere in assai minor conto la nobiltà, e a
sottoporla anch'essa alla giustizia non meno che il popolo, allor quando ad essi così giova, o
piace, di fare. La vista politica del tiranno nel volersi mostrare imparziale pe' nobili, è stata di
riguadagnarsi il popolo, e di riaddossare ai nobili l'odiosità degli antecedenti governi. Ed io mi
fo a credere, che se il tiranno potesse amare una qualche classe dei sudditi suoi, ove fossero
egualmente vili e obbedienti i nobili ed il popolo, egli pure inclinerebbe più per il popolo;
ancorché pur sempre sentisse, che a tenere il popolo a freno egli è, in un certo modo,
necessarissimo il naturale argine della nobiltà, cioè, dei più ricchi ed illustri. E di questo
semiamore, o sia minore odio del tiranno pel popolo, ne assegnerei la seguente ragione. La
nobiltà, per quanto sia ignorante e mal educata, pure, come alquanto meno oppressa e più
agiata, ella ha il tempo ed i mezzi di riflettere alquanto più che il popolo; ella si avvicina
molto più al tiranno; ella ne studia e ne conosce più l'indole, i vizj, e la nullità. Si aggiunga a
questa ragione, il bisogno che il tiranno ancora pur crede di aver talvolta dei nobili; e da
questo tutto si verrà facilmente ad intendere quell'innato odio contr'essi, che sta nel cuor del
tiranno; il quale non può né dee voler che si pensi; né può, molto meno, aggradire chiunque lo
spia e conosce. Nasce da questo intrinseco odio quella pompa di popolarità, che molti dei
moderni tiranni europei van facendo; come anche le tante mortificazioni, che vanno
compartendo ai lor nobili. Il popolo, soddisfatto di vedere abbassati i suoi signorotti, ne
sopporta più volentieri il comune oppressore, e la divisa oppressione. I nobili rodono la
catena; ma troppo corrotti, effemminati e deboli sono, per romperla. Il tiranno se ne sta fra'
due, distribuendo ad entrambi a vicenda, frammiste a molte battiture, alcune fallaci dolcezze;
e così vie più sempre corrobora egli e perpetua la tirannide. Non distrugge egli i nobili, se non
se a minuto i più antichi, per riprocrearne dei nuovi, non meno orgogliosi col popolo, ma più
soggetti e arrendevoli a lui: e non li distrugge il tiranno, perché li crede (ed il sono)
essenzialissima parte della tirannide. Non gli teme, perch'egli è armato: non gli stima, perché
li conosce: non gli ama, perché lo conoscono. Il popolo non mormora dei gravosi eserciti,
perch'egli non ragiona, e ne trema: ma con molta gioja bensì per via degli eserciti vede i nobili
starsi non meno soggetti e tremanti di lui.
I nobili ereditarj son dunque una parte integrante della tirannide, perché non può allignar
lungamente libertà vera, dove esiste una classe primeggiante, che tale non sia per virtù ed
elezione. Ma la milizia perpetua, fattasi oramai parte della tirannide più integrante ancora di
quel che lo sia la nobiltà, ha tolto ai nobili la possibilità di far fronte al tiranno, e diminuita in
loro quella di opprimere il popolo.
Capitolo Duodecimo - DELLE TIRANNIDI ASIATICHE, PARAGONATE COLL'EU-
ROPEE
Pare, che molte tirannidi d'oriente smentiscano quanto ho detto finora circa alla necessità dei
nobili inerente all'essenza della tirannide; non vi essendo in esse alcuna nobiltà ereditaria;
ammettendo esse a prima vista altra distinzione di ordini, che un signor solo e tutti gli altri
servi egualmente. E, a dir vero, l'Asia in ogni tempo non solo non conobbe libertà, ma
soggiacque quasi sempre tutta a tirannidi inaudite, esercitate in regioni vastissime; in cui non
si scorge nessun viver civile, nessuna stabilità, e nessune leggi, che non soggiacciano al
capriccio del tiranno, eccettuatene tuttavia le religiose. Ma io, con tutto ciò, non dispero di
poter dimostrare che la tirannide in ogni tempo e luogo è tirannide; e che usando ella gli stessi
mezzi per mantenersi, produce, ancorché sotto diverso aspetto, gli stessissimi effetti.
Non esaminerò perché siano tali i popoli dell'oriente; le ragioni, che riuscirebbero assai più
congetturali che dimostrative, o ne sono state assegnate, o lo verranno da altri più dotti e
profondi che non son io. Ma, partendo dal dato, io dico; che la paura, la milizia, e la religione,
innegabilmente sono esse pure le tre basi e molle delle tirannidi asiatiche, come delle europee;
e che sono esse il più saldo appoggio di quelli e di questi tiranni. Il falso onore, di cui
ampiamente ho parlato, non pare da prima occupare alcun luogo nella mente e nel cuore degli
orientali; ma pure, se bene si esamina, si vedrà che lo conoscono anch'essi e lo praticano. Per
quei popoli il tiranno è un articolo vero di fede; essi tengono la religione assai più in pregio di
noi: quindi in tutto ciò che spetta all'uno o all'altra dimostrano d'avere moltissimo onore. Non
ci è esempio di maomettani che si facciano cristiani come tutto v'è esempio di cristiani che
rinnegano.
In tal modo, a tutto ciò che la nobiltà ereditaria, e la milizia perpetua (quali le abbiamo in
Europa) potrebbero operare di più in favore delle orientali tirannidi, vi suppliscono dunque
ampiamente le asiatiche religioni; e massime la maomettana, ch'è più creduta, più osservata, e
assai più potente ancora, che non lo sia oramai in nessun luogo la nostra.
Ma, ancorché la nobiltà ereditaria non sussista in gran parte d'oriente (toltine però la Cina, il
Giappone, e molti stati dell'Indie, il che certamente non è picciola parte dell'Asia) nondimeno
nei paesi maomettani gli strumenti principali della tirannide sono, come nella cristianità, i
sacerdoti, i capi della milizia, i governatori delle provincie, e i barbassori di corte: e costoro
tutti, benché non vi siano nati nobili, si debbono pure riputare come una classe, che essendo
più che il popolo e meno che il tiranno, e accattando dal tiranno il lustro e l'autorità, viene per
l'appunto ad occupare lo stessissimo luogo nelle tirannidi asiatiche, che occupa la nobiltà
ereditaria nelle europee. Vero è, che fra quei nobili d'Asia, morendo essi di morte naturale o
violenta, cessa nei loro figli la nobiltà: ma tosto pure alle loro cariche ne sottentran degli altri,
e quanti mai ne verranno, tutti, ancorché d'origine plebea, assumeranno tosto il pensare dei
nobili; il quale non è altro che di opprimere i popoli, e tenersi col tiranno. Ed anzi, questi
nobili recenti, di tanto più feroci saranno, quanto l'uomo che è nato più vile, che è stato più
oppresso, e che ha conosciuto più eguali, diviene assai più superbo e feroce ogniqualvolta
egli, per altra via che quella della virtù, perviene ad innalzarsi sovr'essi. Ma certamente la
virtù non potrà essere mai la scala agli onori e all'autorità, in nessuna tirannide.
L'effetto vien dunque ad essere lo stesso in oriente come in occidente; poiché fra il popolo e il
tiranno entrano pur sempre di mezzo i nobili (o ereditarj siano o fattizj) e la permanente
milizia: due classi, senza di cui non v'è vi può esser tirannide; e colle quali non v'è, vi
può essere lungamente mai libertà.
Ma mi si dirà forse, che in ogni democrazia, od in qualsivoglia mista repubblica, i sacerdoti, i
magistrati, ed i capi della milizia, sono parimente sempre maggiori del popolo. A ciò è da
rispondersi, distinguendo: Costoro nella repubblica sono ciascuno maggiori d'ogni privato
individuo; ma minori dell'universale, essendo eletti da tutti, o dal più gran numero; essendo
eletti per lo più a tempo, e non a vita; sottoposti alle leggi, e costretti a dare, quando che sia,
un rigido conto di se stessi. Ma costoro, nella tirannide, sono maggiori, e d'ogni individuo, e
dell'universale; perché sono eletti da un solo che può più di tutti; perché non danno conto del
loro operare, se non a lui; e perché in somma niun'altra cosa vien loro apposta a delitto dal
tiranno, fuorché l'aver dispiaciuto, o arrecato danno a lui solo: il che chiaramente vuol dire per
lo più, l'aver giovato, o tentato di giovare, a tutti od ai più.
Ma, se io abbastanza ho dimostrato (come a me pare) che nelle tirannidi dell'oriente i tiranni
adoperano gli stessi mezzi che in queste, esaminiamo ora quali siano le apparenti differenze
tra gli effetti; perché vi siano; e se elle siano in favore o in disfavore degli europei.
Mostransi di rado al pubblico gli orientali tiranni, e inaccessibili sono in privato; i nostri
veggiamo ogni giorno: ma il vederli non scema però in noi la paura, in essi la potenza; e
benché lo avvezzarci a quell'oggetto diminuisca alquanto la stupida venerazione per esso,
l'odio nondimeno dee pur sempre rimanere il medesimo, e di gran lunga maggiore il fastidio e
la noja.
Difficilissimo è l'accostarsi ai tiranni d'oriente; ai nostri, a qual con lettere o suppliche, a quale
in persona, possiamo assai facilmente ogni giorno accostarci: ma, e che ne ridonda? son forse
fra noi meno oppressi gl'innocenti ed i buoni? son forse più conosciuti i rei, allontanati, o
puniti?
Gl'impieghi, gli onori, le dignità si conferiscono in oriente agli schiavi più graditi al padrone.
Il solo capriccio li dona, e il solo capriccio li ritoglie; ma un ministro o qualunque altro, che
spogliato venga di alcuno importante impiego, viene altresì privato per lo più della vita. E lo
stesso capriccio conferisce nel nostro occidente gli stessi onori e dignità a quegli schiavi più
dotti nell'arte di piacere e compiacere al tiranno: e tanto più vili schiavi costoro, e degni in c
veramente di esserlo, quanto, non essendo gli europei, come gli orientali, nati nella servitù
effettiva dei serragli, di buon animo spontaneamente vanno porgendo le mani ed il collo al più
obbrobrioso di tutti i gioghi. Ma, se i nostri tiranni, nel toglier loro la carica non li privano a
un tempo della vita, ciò forse non accade per altra ragione, se non perché questi scelti servi
europei, a manifeste prove si sono dimostrati per vili, che i tiranni nostri in nessun modo
non possono, né debbono, in nulla temerli.
Nelle tirannidi dell'oriente, pochissime leggi, oltre alle religiose, vi sussistono: moltissime se
ne ha nelle nostre; ma ogni giorno si mutano, s'infrangono, si annullano, e per fin si deridono.
Qual è men vergognosa ed infame a soffrirsi delle due seguenti usurpazioni? o d'uno che ti
oltraggia e ti opprime, perché tu, non credendo che altrimenti una società esistere potesse, glie
ne hai conceduto illimitatamente la signoria, hai provveduto in nessuna maniera a
moderargliela; o d'uno che ti fa lo stesso e anche peggio, benché tu abbi provveduto con
impotenti leggi, e con gl'inutili suoi giuramenti, che egli opprimere ed oltraggiare non ti
potesse?
Negli orientali governi nulla vi ha di sicuro, se non la sola servitù: ma, che v'ha egli di sicuro
nei nostri? I tiranni europei sono di gran lunga più umani? cioè, hanno i tiranni europei molto
minore il bisogno di essere crudeli. Nell'oriente, le scienze e le lettere proscritte, i regni
spopolati, la stupidità e miseria del popolo, nessuna industria, nessun commercio; non son
tutte queste, e tante altre, le innegabili prove del vizio distruttivo, che sta in quei governi?
Rispondo, distinguendo di nuovo. La religion maomettana, come più inerte e meno curante
della nostra, riesce altresì molto più distruttiva di essa. Ma in quelle parti d'oriente, dove non
ci è maomettismo, come specialmente alla Cina e al Giappone, tutti questi soprammentovati
lagrimevoli effetti, che stoltamente noi assegniamo alla sola orientale tirannide, in un'altra
orientale e niente minore tirannide, vi si vedono cessare; o almeno non v'esistere maggiori che
nelle tirannidi europee.
Parmi adunque, che sia da conchiudere; che la tirannide nell'Asia, e principalmente nel
maomettismo, suol riuscire più oppressiva che nell'Europa: ma bisogna ad un tempo stesso
confessare; che il tiranno e quelli che fan le sue parti, assai meno sicuri vivono in Asia che
non in Europa. Quindi dall'essere le nostre tirannidi alquanto più miti, se a noi ne ridonda pure
qualche vantaggio, amaramente ci vien compensato dalla maggiore infamia che sta nel servire,
sapendolo; e dalla quasi impossibilità, in cui il nostro effemminato vivere ci pone, di
distruggere, di mutare o di crollare almeno d'alquanto le nostre tirannidi. Noi coltiviamo le
scienze, le lettere, il commercio, le arti tutte, ed ogni civile costume; negar non si può: ma noi
colti, noi dotti, noi in somma che siamo il fiore degli abitanti di questo globo, noi soffriam
pure tacitamente quello stesso tiranno, che soffrono vero) ma che pur anche talvolta
robustamente distruggono quegli asiatici popoli, rozzi, ignoranti, e, a parer nostro, di tanto più
vili di noi. Chi non sa che vi è stata, e che vi può essere libertà, non conosce e non sente la
servitù; e chi questa non sente, scusabilissimo è se la soffre. Ma che direm noi di que' popoli,
che sanno, e sentono, e fremono di essere servi; e la servitù pure si godono, e tacciono?
La differenza dunque, che passa fra l'Asia e l'Europa, si è; che i tiranni orientali tutto possono,
e tutto fanno; ma sono anche spesso privati del trono ed uccisi: gli occidentali tiranni possono
tutto, fanno soltanto ciò che a loro occorre di fare, e stanno quasi sempre inespugnabili, securi,
e impuniti. I popoli d'Asia di niuna loro cosa sicuri possessori sen vivono; ma credono in parte
che così debba essere; e dove in certo modo contro all'universale si ecceda, si vendicano
almeno del tiranno, benché mai non ispengano, minorino, la tirannide. I popoli d'Europa
niuna cosa possedono con maggior sicurezza che quelli dell'Asia, benché vengano spogliati
del loro in una diversa e più cortese maniera; ma questi sanno quali siano i dritti dell'uomo; ed
ignorar non li possono, poiché li vedono felicemente esercitati da alcune pochissime nazioni,
che vivono libere in mezzo alla universal servitù: e benché ogni giorno si veda nelle tirannidi
europee (massime in quanto spetta alle pecuniarie gravezze) eccedere dal tiranno ogni modo,
nondimeno per codardia e viltà dei nostri popoli non si ardisce mai tentare nessuna lodevol
vendetta, non che si ardiscano tentare di riassumere i naturali diritti, così inutilmente da lor
conosciuti.
Capitolo Decimoterzo – DEL LUSSO
Non credo, che mi sarà difficile il provare, che il moderno lusso in Europa sia una delle
principalissime cagioni, per cui la servitù, gravosa e dolce ad un tempo, vien poco sentita dai
nostri popoli, i quali perciò non pensano si attentano di scuoterla veramente. intendo io
di trattare la questione, oramai da tanti egregj scrittori esaurita, se sia il lusso da proscriversi o
no. Ogni privato lusso eccedente, suppone una mostruosa diseguaglianza di ricchezze fra'
cittadini, di cui la parte ricca già necessariamente è superba, necessitosa e avvilita la povera, e
corrottissime tutte del pari. Onde, posta questa disuguaglianza, sarà inutilissimo e forse anche
dannoso il voler proscrivere il lusso: altro rimedio rimane contr'esso, che il tentare
d'indirizzarlo per vie meno ree ad un qualche scopo men reo. M'ingegnerò io bensì di provare
in questo capitolo; che il lusso, conseguenza naturalissima della ereditaria nobiltà, nelle
tirannidi riesce anch'egli una delle principalissime basi di esse; e che dove ci è molto lusso
non vi può sorgere durevole libertà; e che dove ci è libertà, introducendovisi moltissimo lusso,
questo in brevissimo tempo corromperla dovrà, e quindi annullarla.
Il primo e il più mortifero effetto del privato lusso, si è; che quella pubblica stima che nella
semplicità del modesto vivere si suole accordare al più eccellente in virtù, nello splendido
vivere vien trasferita al più ricco. Né d'altronde si ricerchi la cagione della servitù, in tutti quei
popoli, fra cui le ricchezze danno ogni cosa. Ma pure, la uguaglianza dei beni di fortuna
essendo presso ai presenti europei una cosa chimerica affatto, si dovrà egli conchiudere che
non vi può essere libertà in Europa, perché le ricchezze vi sono tanto disuguali? e possono elle
non esserlo, atteso il commercio, e il lucro delle pubbliche cariche? Rispondo; che
difficilmente vi può essere o durare una vera politica libertà, dove la disparità delle
ricchezze sia eccessiva; ma che pure, due mezzi vi sono per andarla strascinando (dove ella
già fosse allignata) in mezzo a una tale disparità, ancorché il lusso sterminatore tutto la
libertà vi combatta. Il primo di questi mezzi sarà, che le buone leggi abbiano provveduto, o
provvedano, che la eccessiva disuguaglianza delle ricchezze provenga anzi dalla industria, dal
commercio, e dall'arti, che non dall'inerte accumulamento di moltissimi beni di terra in
pochissime persone, alle quali non possono questi beni pervenire in tal copia, senza che
infiniti altri cittadini non siano spogliati della parte loro. Con un tale compenso le ricchezze
dei pochi non occasionando allora la povertà totale dei più, verrà pure ad esservi un certo stato
di mezzo, per cui quel tal popolo sarà diviso in pochi ricchissimi, in moltissimi agiati, ed in
pochi pezzenti. Tuttavia, questa divisione non può quasi mai nascere, o almeno sussistere, se
non in una repubblica; in vece che la divisione in alcuni ricchissimi, e in moltissimi pezzenti,
dee nascere, e tutto si vede sussistere, nelle tirannidi, le quali di una tale disproporzione si
corroborano. Il secondo mezzo di rettificare il lusso, e diminuirne la maligna influenza sul
dritto vivere civile, sarà di non permetterlo nelle cose private, e d'incoraggirlo e onorarlo nelle
pubbliche. Di questi due mezzi le poche repubbliche d'Europa si vanno pur prevalendo, ma
debolmente ed invano; come quelle che sono corrottissime anch'esse dal fastoso e pestifero
vivere delle vicine tirannidi. E questi altresì sono i due mezzi, che i nostri tiranni non
adoprano, e non debbono adoprar mai contro al lusso; come quelli che in esso ritrovano uno
dei più fidi satelliti della tirannide. Un popolo misero e molle, che si sostenta col tessere
drappi d'oro e di seta, onde si cuoprano poi i pochi ricchi orgogliosi; di necessità un tal popolo
viene a stimar maggiormente coloro, che più consumandone, gli dan più guadagno. Così,
viceversa, il popolo romano che solea ritrarre il suo vitto dalle terre conquistate coll'armi, e fra
lui distribuite poi dal senato, sommamente stimava quel console o quel tribuno, per le di cui
vittorie più larghi campi gli venivano compartiti.
Essendo dunque dal privato lusso sovvertite in tal modo le opinioni tutte del vero e del retto;
un popolo, che onora e stima maggiormente coloro, che con maggiore ostentazione di lusso lo
insultano, e che effettivamente lo spogliano, benché in apparenza lo pascano; un tal popolo,
potrà egli avere idea, desiderio, diritto, e mezzi, di riassumere libertà?
E que' grandi, (cioè chiamati tali) che i loro averi a gara profondono, e spesso gli altrui, per
vana pompa assai più, che per vero godimento; quei grandi, o sia ricchi, a cui tante superfluità
si son fatte insipide, ma necessarie; que' ricchi in somma, che a mensa, a veglia, a' festini, ed a
letto, traggono fra gli orrori della sazietà la loro effemminata, tediosa, ed inutile vita; que'
ricchi, potrann' eglino, più che la vilissima feccia del popolo, innalzarsi a conoscere, a
pregiare, desiderare, e volere la libertà? Costoro primi ne piangerebbero; e assumere non
saprebbero esistenza nessuna, se non avessero un intero ed unico tiranno, che perpetuando il
dolce loro ozio, alla lor dappocaggine comandasse.
Inevitabile dunque, e necessario è il lusso nelle tirannidi. E crescono in esse tutti i vizj in
proporzione del lusso, che è il principe loro; del lusso, che tutti li nobilita, coll'addobbarli; che
a tal segno confonde i nomi delle cose, che la disonestà dei costumi chiamasi fra' ricchi,
galanteria; l'adulare, un saper vivere; l'esser vile, prudenza; l'essere infame, necessità. E di
questi vizj tutti, e dei molti più altri ch'io taccio, i quali hanno tutti per base, e per immediata
cagione il lusso, chi maggiormente ne gode, chi ne ricava più manifesto e immenso il
vantaggio? I tiranni, che da essi ricevono, e per via di essi in eterno si assicurano, il pacifico
ed assoluto comando.
Il lusso dunque (che io definirei; L'immoderato amore ed uso degli agj superflui e pomposi)
corrompe in una nazione ugualmente tutti i ceti diversi. Il popolo, che ne ritrae anch'egli
qualche apparente vantaggio, e che non sa e non riflette, che per lo più la pompa dei ricchi non
è altro che il frutto delle estorsioni fatte a lui, passate nelle casse del tiranno, e da esso quindi
profuse fra questi secondi oppressori; il popolo, è anch'egli necessariamente corrotto dal tristo
esempio dei ricchi, e dalle vili oziose occupazioni con che si guadagna egli a stento il suo
vitto. Perciò quel fasto dei grandi che dovrebbe ferocemente irritarlo, al popolo piace non
poco, e stupidamente lo ammira. Che gli altri ceti debbano essere corrottissimi dal lusso che
praticano, inutile mi pare il dimostrarlo.
Corrotti in una nazione tutti i diversi ceti, è manifestamente impossibile che ella diventi o duri
mai libera, se da prima il lusso che è il più feroce corruttore di essa, non si sbandisce.
Principalissima cura perciò del tiranno debb'essere, ed è, (benché alle volte la stolta
ostentazione del contrario ei vada facendo) l'incoraggire, propagare, ed accarezzare il lusso, da
cui egli ritrae più assai giovamento che da un esercito intero. E il detto fin qui, basti per
provare che non v'ha cosa nelle nostre tirannidi, che ci faccia più lietamente sopportare e
anche assaporare la servitù, che l'uso continuo e smoderato del lusso: come pure, a provare ad
un tempo, che dove radicata si è questa peste, non vi può sorgere od allignar libertà.
Si esamini ora, se là, dove già è stabilita una qualunque libertà, possa allignare il lusso; e qual
dei due debba cedere il campo. S'io bado alle storie, in ogni secolo, in ogni contrada, vedo
sempre sparire la libertà da tutti quei governi che han lasciato introdurre il lusso dei privati; e
mai non la vedo robustamente risorgere fra quei popoli, che son già corrotti dal lusso. Ma,
siccome la storia di tutto ciò che è stato non è forse assolutamente la prova innegabile di tutto
ciò che può essere; a me pare, che alla disuguaglianza delle ricchezze nei cittadini non ancora
interamente corrotti, in quel brevissimo intervallo in cui possono essi mantenersi tali, i
governi liberi non abbiano altro rimedio da opporre più efficace che la semplice opinione.
Quindi volendo essi concedere a queste mal ripartite ricchezze uno sfogo che ad un tempo
circolare le faccia, e non distrugga del tutto la libertà, persuaderanno ai ricchi d'impiegarle in
opere pubbliche; onoreranno questo solo loro fasto, annettendo un'idea di disprezzo a
qualunque altro uso che ne facessero i ricchi nella loro privata vita, oltre quella decenza e
quegli agj ragionevoli, richiesti dal loro stato, e compatibili colla pubblica decenza. I liberi
governi persuaderanno ad un tempo agli uomini poveri, (non intendo con ciò dire, ai pezzenti)
che non è delitto infamia l'esser tali; e lo persuaderan facilmente, coll'accordare a questi
non meno che agli altri l'adito a tutti gli onori ed uffizj. E non per insultare alla miseria
escludo io principalmente i necessitosi; ma perché costoro, come troppo corrottibili, e per lo
più vilmente educati, non sono meno lontani dalla possibilità del dritto pensare e operare, di
quel che lo siano, per le ragioni appunto contrarie, i ricchissimi.
Ma queste saggie cautele riusciranno pur anche inutili a lungo andare. La natura dell'uomo
non si cangia; dove ci sono ricchezze grandi e disugualmente ripartite, o tosto o tardi dee
sorgere un gran lusso fra i privati, e quindi una gran servitù per tutti. Questa servitù
difficilmente da prima si può allontanare da un popolo dove alcuni ricchissimi siano, e
poverissimi i più; ma quando poi ella si è cominciata a introdurre, provato che hanno i
ricchissimi quanto la universal servitù riesca favorevole al loro lusso, vivamente poi sempre si
adoprano affinch'ella non si possa più scuoter mai.
Sarebbe dunque mestieri, a voler riacquistare durevole libertà nelle nostre tirannidi, non
solamente il tiranno distruggere, ma pur troppo anche i ricchissimi, quali che siano; perché
costoro, col lusso non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed altrui.
Capitolo Decimoquarto – DELLA MOGLIE E PROLE DELLA TIRANNIDE
Come in un mostruoso governo, dove niun uomo vive sicuro del suo, di se stesso, ve ne
siano pure alcuni che ardiscano scegliere una compagna della propria infelicità, e perpetuare
ardiscano la propria e l'altrui servitù col procrearvi dei figli, difficil cosa è ad intendersi,
ragionando; ed impossibile parrebbe a credersi, se tutto dì nol vedessimo. Dovendone addur le
ragioni, direi; che la natura, in ciò più possente ancora che non è la tirannide, spinge
gl'individui ad abbracciar questo conjugale stato con una forza più efficace di quella con cui la
tirannide da esso gli stoglie. E non volendo io ora distinguere se non in due soli ceti questi
uomini soggiogati da un tale governo, cioè in poveri e ricchi; direi, che si ammogliano nella
tirannide i ricchi, per una loro stolta persuasione che la stirpe loro, ancorché inutilissima al
mondo e spesso anche oscura, vi riesca nondimeno necessaria, e gran parte del di lui
ornamento componga; i poveri, perché nulla sanno, nulla pensano, e in nulla possono oramai
peggiorare il loro infelicissimo stato.
Lascio per ora da parte i poveri; non già perché sprezzabili siano, ma perché ad essi nuoce
assai meno il far come fanno. Parlerò espressamente de' ricchi; non per altra ragione, se non
perché essendo, o dovendo costoro essere meglio educati; avendo essi in qualche picciola
parte conservato il diritto di riflettere; e non potendo quindi non sentire la loro servitù;
debbono i ricchi, quando non siano del tutto stolidi, moltissimo riflettere alle conseguenze del
pigliar moglie nella tirannide. E per fare una distinzione meno spiacente, o meno oltraggiosa
per gli uomini, che non è quella di poveri e ricchi, la farò tra gli enti pensanti, ed i non
pensanti. Dico dunque, che chi pensa, e può campare senza guadagnarsi il vitto, non dee mai
pigliar moglie nella tirannide; perché, pigliandovela, egli tradisce il proprio pensare, la verità,
se stesso, e i suoi figli. Non è difficile di provare quanto io asserisco. Suppongo, che l'uomo
pensante dee conoscere il vero; quindi indubitabilmente si dee dolere non poco in se stesso di
esser nato nella tirannide; governo, in cui nulla d'uomo si conserva oltre la faccia. Ora, colui
che si duole di esservi nato, avrà egli il coraggio, o per dir meglio, la crudeltà, di farvisi
rinascere in altrui? di aggiungere al timore che egli ha per se stesso, l'avere a temere per la
moglie, e quindi pe' figli? Parmi ciò un moltiplicare i mali a tal segno, che io non potrò pur
mai credere, che chi piglia moglie nella tirannide, pensi, e conosca pienamente il vero.
Il primo oggetto del matrimonio egli è, senza dubbio, di avere una fedele e dolce compagna
delle private vicende, la quale dalla morte soltanto ci possa esser tolta. Supponendo ora il non
supponibile, cioè che in una tirannide non fossero corrotti i costumi, onde questa compagna
potesse non aver altra cura desiderio, che di piacere al marito; chi può assicurare costui,
che ella dal tiranno, o dai suoi tanti potenti satelliti, non gli verrà sedotta, corrotta, o anche
tolta? Collatino, parmi, è un esempio chiaro abbastanza per dimostrare la possibilità di un tal
fatto: ma gli alti effetti che da quello stupro ne nacquero, sono ai tempi nostri assai meno
sperabili, benché le cagioni tutto ne sussistano. Mi odo già dire; Che il tiranno non può
voler la moglie di tutti; che è caso anche raro nei nostri presenti costumi, ch'egli cerchi a
sedurne due o tre; e che questo farà egli con promesse, doni, ed onori ai mariti, ma non mai
con l'aperta violenza. Ecco le scellerate ragioni che rassicurano il cuore dei presenti mariti, i
quali niun'altra cosa temono al mondo, che di non esser essi quei felici che compreranno a
prezzo della propria infamia il diritto di opprimere i meno vili di loro. Molti secoli dopo
Collatino, nelle Spagne, rozze ancora e quindi non molto corrotte, un altro regio stupro ne
facea cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de' nuovi stranieri. Ma nei tempi nostri illuminati
e dolcissimi, uno stupro con violenza accader non potrebbe, perché non v'è donna che si
negasse al tiranno; e la vendetta qualunque, se egli pure accadesse, ne riuscirebbe impossibile;
perché non v'è padre o fratello o marito, che non si stimasse onorato di un tal disonore. E la
verità qui mi sforza a dir cosa, che nelle tirannidi moverà al riso il più degli schiavi, ma che in
qualche altro cantuccio del globo, dove i costumi e la libertà rifugiati si siano, moverà ad un
tempo dolore, maraviglia, e indegnazione; ed è, che se pure ai nostri vi fosse quel tale
insofferente e magnanimo, che con memorabile vendetta facesse ripentire il tiranno di avergli
fatto un così grave oltraggio, l'universale lo tratterebbe di stolido, d'insensato, e di traditore; e
stranezza chiamerebbero in lui il non voler con molti manifesti vantaggi sopportar dal tiranno
quella ingiuria stessa, che tutto si suole, senza utile niuno, ricevere e sopportar dai privati.
Inorridisco io stesso nel dover riferire queste argute viltà, che sono il più elegante condimento
del moderno pensare; e che, con vocabolo francese, lietamente chiamansi SPIRITO: ma nella
forza del vero talmente confido, che io ardisco sperare che tornerà pure un tal giorno, in cui,
non meno ch'io nello scrivere di tali costumi, inorridiranno i molti nel leggerli.
Se nell'ammogliarsi dunque il primo scopo si è d'aver moglie; ove non si voglia pure
confondere (come di tante altre cose si fa) il mantenerla coll'averla; avere non si può, perché
se non la tolgono al marito il tiranno, o alcuno de' tanti suoi sgherri, ai quali invano si
resisterebbe, gliela tolgono infallibilmente i corrotti scellerati universali costumi,
conseguenza necessarissima dell'universal servitù.
Ora, che dirò io dei figli? Quanto più cari essere sogliono i figli che la moglie, tanto più grave
e funesto è l'errore di chi procreandoli somministra al tiranno un possente mezzo di più per
offenderlo, intimorirlo, ed opprimerlo; come a se stesso procaccia un mezzo di più per esserne
offeso ed oppresso. E da una delle due susseguenti sventure è impossibile cosa di preservarsi.
O i figli dell'uomo pensante si educheranno simili al padre; e perciò, senza dubbio,
infelicissimi anch'essi: o dal padre riescon dissimili, e infelicissimo lui renderanno. Nati per le
triste loro circostanze al servire, non si possono, senza tradirgli, educare al pensare; ma, nati
pur sempre per natura al pensare, non può lo sventurato padre, senza tradire la verità il suo
onore e se stesso, educargli al servire.
Qual partito rimane adunque nella tirannide all'uomo pensante, quando egli, per somma
sfortuna e inescusabile sconsideratezza, ha dato pur l'essere ad altri infelici? È di tal sorta
l'errore, che il pentimento non vale; così terribili ne sono gli effetti e così inevitabili, che le vie
di mezzo non bastano. Bisognerebbe dunque nelle tirannidi, o soffocare i proprj figliuoli
appena son nati, o abbandonargli alla pubblica educazione ed al volgar non-pensare. Questo
partito da quasi tutti i moderni padri si siegue, e non è men crudele dell'altro, ma molto è più
vile bensì. E, a chi mi dicesse (ciò che anch'io pur troppo so, ancorch'io padre non sia) che
troppo alla natura ripugna il trucidare i proprj figliuoli, risponderei; che ripugna alla natura
nostra non meno il ciecamente servire all'arbitrio e alla violenza d'un solo: e se poi così bene
al servir ci avvezziamo, questo infame pregio in noi non si accresce, se non se in proporzione
che si scemano in noi tutti gli altri naturali e veri pregi dell'uomo. Quindi è, che i filosofi
pensatori fra i popoli liberi nessuna differenza, o pochissima, han posto infra la vita d'un
bruto, e quella d'un uomo, che non sia per aver mai libertà, volontà, sicurezza, costumi, ed
onore verace. E tali pur troppo debbono riuscire quei figli, che stoltamente procreati si sono
nella tirannide; a cui se il padre non toglie la vita del corpo, necessariamente toglie loro una
più nobile vita, quella dell'intelletto e dell'animo: ovvero, se sventuratamente l'una e l'altra in
essi del pari coltiva, altro non fa un tal misero padre, che educar vittime per la tirannide.
Conchiudo; che chi ha moglie e prole nella tirannide, tante più volte è replicatamente schiavo,
e avvilito, quanti più sono gl'individui per cui egli è sforzato sempre a tremare.
Capitolo Decimoquinto – DELL'AMOR DI SE STESSO NELLA TIRANNIDE
La tirannide è tanto contraria alla nostra natura, ch'ella sconvolge, indebolisce, od annulla
nell'uomo presso che tutti gli affetti naturali. Quindi non si ama da noi la patria, perché ella
non ci è; non si amano i parenti, la moglie, ed i figli, perché son cose poco nostre e poco
sicure; non vi sono veri amici, perché l'aprire interamente il suo cuore nelle cose importanti,
può sempre trasmutare un amico in un delatore premiato, e spesso anche (pur troppo!) in un
delatore onorato. L'effetto necessario, che risulta nel cuor dell'uomo dal non potere amar
queste cose su mentovate, si è, di amare smoderatamente se stesso. E parmi, che ne sia questa
una delle principali ragioni: dal non essere securo, nasce nell'uomo il timore; dal continuo
temere, nascono i due contrarj eccessi; o un soverchio amore, o una soverchia indifferenza per
quella cosa che sta in pericolo: nella tirannide, temendo sempre noi tutti per le cose nostre e
per noi, ma amando (perché così vuol natura) prima d'ogni altra cosa noi stessi, ne veniamo a
poco a poco a temere sommamente per noi, e ogni meno per quelle cose nostre, che non
fanno parte immediata di noi. Nelle repubbliche vere, amavano i cittadini prima la patria, poi
la famiglia, quindi se stessi: nelle tirannidi all'incontro, sempre si ama la propria esistenza
sopra ogni cosa. Perciò l'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei proprj diritti,
della propria gloria, del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale. E
questa vita, per una non so qual fatalità, nello stesso modo che la vediamo tenersi tanto più
cara dai vecchj, i quali oramai l'han perduta, che non dai giovani, a cui tutta rimane; così tanto
più riesce cara a chi serve, quanto ella è men sicura, e val meno.
Capitolo Decimosesto – SE SI POSSA AMARE IL TIRANNO, E DA CHI
Colui che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che
sia, sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti. Ma costui potendo
altresì beneficare, arricchire, onorare chi più gli piace, chiunque riceve favori da lui non può
senza una vile ingratitudine, e senza essere assai peggiore di lui, non amarlo. Rispondo a ciò,
che il tutto è verissimo; e più d'ogni cosa vero è, che chiunque riceve favori dal tiranno suol
essergli sempre ingrato nel cuore; ed è quasi sempre assai peggiore di lui.
Dovendone assegnar le ragioni, direi; che il troppo immenso divario fra le cose che il tiranno
può dare e quelle che può togliere, rende necessario ed estremo lo abborrimento nei molti
oltraggiati, e finto e stentato l'amore nei pochi beneficati. Egli può dare ricchezze, autorità, e
onori supposti; ma egli può togliere tutto ciò ch'ei dà, e di più la vita, e il vero onore; cose, che
non è in sua possanza di dare egli mai a nessuno.
Con tutto ciò, la totale ignoranza dei proprj diritti può benissimo far nascere in alcuni uomini
questo funesto errore, di amare in un certo modo colui che spogliandoli delle loro più sacre
prerogative d'uomo, non toglie però loro la proprietà di alcune altre cose minori; il che, a parer
di costoro, egli potrebbe pur anche legittimamente, o almeno con impunità, praticare. E certo
uno stranissimo amore fia questo, e in tutto per l'appunto paragonabile
a quell'amore che si verrebbe ad aver per una tigre, che non ti divorasse potendolo. Cadranno
in questo stupido affetto le genti rozze e povere, che non hanno altra felicità, se non quella di
non vedere mai il tiranno, e di neppure conoscerlo; e costoro assai poco verranno a temerlo,
perché pochissimo a loro rimane da perdere: onde una certa tal quale giustizia venendo loro
amministrata in nome di esso, la loro irriflessiva ignoranza fa loro credere, che senza il tiranno
neppur quella semi-giustizia otterrebbero. Ma non potranno certamente mai pensare in tal
modo coloro, che tutto dì se gli accostano, e che ne conoscono l'incapacità o la reità; ancorché
ne ritraggano essi splendore, onori, e ricchezze. Troppo è nota a questi pochi la immensa
potenza del tiranno, troppo care tengono essi quelle ricchezze che ne han ricevute, per non
temere sommamente colui che le può loro nello stesso modo ritogliere: e il temere e l'odiare
sono interamente sinonimi.
Ma pure, il timore, pigliando nelle corti la maschera dell'amore, vi si viene a comporre un
misto mostruosissimo affetto, degno veramente dei tiranni che lo ispirano, e degli schiavi che
lo professano. Quello stesso Sejano, che nella grotta crollante e vicinissima a rovinare,
salvava la vita a Tiberio con manifesto pericolo della propria, avendone egli dappoi ricevuti
infiniti altri favori, congiurava pur contro lui. Sejano, amava egli Tiberio in quel punto in cui
pose se stesso a un così evidente pericolo per salvarlo? certo no: Sejano in quel punto serviva
dunque alla propria sua ambizione, nello stesso modo che ogni giorno vediamo nei nostri
eserciti i più splendidi e molli e corrotti officiali di essi affrontare la morte, non per altro se
non per far progredire la loro ambizioncella, e per maggiormente acquistarsi la grazia del
tiranno. Sejano, abborriva egli maggiormente Tiberio quando gli congiurò contra, che quando
il salvò? assai più certamente abborrivalo dopo, perché la immensità delle cose da lui ricevute,
gli facea più da presso e con maggior terrore rimirare la immensità, più grande ancora, delle
cose che quello stesso Tiberio gli poteva ritogliere. Quindi, non si credendo Sejano in sicuro,
se egli non ispegneva quella sola potenza che avrebbe potuto trionfar della sua, non dubitò
poscia punto, anzi con lungo e premeditato disegno, imprese a togliersi il tiranno dagli occhi.
ai Tiberj, in qualunque tempo o luogo essi nascano e regnino, toccar mai potranno altri
amici se non i Sejani. Se dunque il tiranno è sommamente abborrito da quegli stessi ch'egli
benefica, che sarà egli poi da quei tanti che direttamente o indirettamente egli offende o
dispoglia?
La sola intera stupidità dei poveri e rozzi e lontani, può dunque (come ho di sopra dimostrato)
amare il tiranno, appunto perché nessuno di questi lo vede lo conosce; e questo amarlo va
interpretato, il non affatto abborrirlo. Da ogni altra persona qualunque, nella tirannide, si può
fingere bensì e anche far pompa di amare il tiranno; ma veramente amarlo, non mai. Questa
servile bugiarda ed infame pompa verrà per lo più praticata dai più vili; e da quelli perciò, i
quali maggiormente temendolo, maggiormente lo abborriscono.
Capitolo Decimosettimo - SE IL TIRANNO POSSA AMARE I SUOI SUDDITI, E
COME
Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato, che i sudditi non possono amare il tiranno,
perché essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro non corre proporzione nessuna
fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sarà facile il
dimostrare, che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto
smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo,
riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli. E si noti così alla
sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia, o d'amore, o di benignità, o di gratitudine, o
d'altro; lo amare si è uno degli umani affetti, che più di tutti richiede, se non perfettissima
uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocità fra gli individui. Ammessa
questa definizione dell'amare umano, ciascuno rimane giudice, se niuna di tutte queste cose
sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè, fra la parte sforzante e la parte sforzata.
Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera del non-amarsi, infra il
tiranno ed i sudditi. Questi, come tutti, (qual più qual meno, quale direttamente quale
indirettamente, quale in un tempo e quale nell'altro) come offesi tutti e costretti dal tiranno,
tutti lo abborriscono per lo più, e così dev'essere: ma il tiranno, come un ente non offendibile
dall'universale, fuorché per manifesta ribellione contra di lui; il tiranno non abborrisce se non
se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se
costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad
estinguerne l'odio. Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi
non l'offendono: e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d'indole mite ed
umana, egli si può pur anche usurpare la fama di amarli; in tal caso, da altro una tal fama
proviene, se non dall'essere la natura di quel principe, per se stessa, men rea di quel che lo sia
per se stessa l'autorità e la possibilità impunita del nuocere, che è posta in lui. Ma io,
sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dee anch'egli (e non
poco) se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de' suoi sudditi che egli vede
abitualmente e conosce; ed è questa; che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca
di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la più rea di tutte; ed egli, dopo
una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto. Quanto alla parte ch'egli non
conosce vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno
dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che
può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non
si può assomigliare ad alcun altro amore, che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e
cavalli; cioè, in proporzione della loro docilità, ubbidienza, e perfetta servitù. Ma certamente
assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che
ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi. Cotesto suo amore per
essi non sarà dunque altro, che un oltraggio di più da lui fatto alla trista specie degli uomini.
Capitolo Decimottavo - DELLE TIRANNIDI AMPIE, PARAGONATE COLLE
RISTRETTE
Che siano più orgogliosi e superbi i tiranni delle estese tirannidi, come assai più potenti, la
intendo: ma, che gli schiavi delle estese tirannidi ardiscano reputarsi da più che gli schiavi
delle ristrette, parmi esser questo il più espresso delirio che possa entrare nella mente
dell'uomo; ed una evidentissima prova mi pare, che gli schiavi non pensano e non ragionano.
Se la ragione potesse ammettere alcuna differenza fra schiavo e schiavo, ella sarebbe
certamente in favore del minor gregge. Quanti più sono gli uomini che ciecamente
obbediscono ad un solo, tanto più vili e stupidi ed infami riputare si debbono, vie più sempre
scemandosi la proporzione tra l'oppressore e gli oppressi. Quindi nell'udire io le millanterie
d'un Francese, o d'uno Spagnuolo, che riputar si vorrebbe un ente maggiore di un Portoghese,
o di un Napoletano, parmi di udire una pecora del regio armento schernire la pecora d'un
contadino, perché questa pasce in una mandra di dieci, ed ella in una mandra di mille.
Se dunque differenza alcuna vi passa fra le tirannidi grandi e le picciole, ella non istà nella
essenza della cosa, che una sola è per tutto; ma nella persona bensì del tiranno. Qualunque di
essi si troverà soverchiare oltremodo in potenza i vicini tiranni, ne diverrà verisimilmente più
prepotente coi sudditi, dovendo egli nelle sue ampie circostanze molto minori rispetti
adoprare: ma per altra parte, avendo egli più numero di sudditi, più importanti affari, più onori
da distribuire, più ricchezze da pigliarsi e da dare, (e non avendo con tutto ciò maggior senno)
quella sua autorità riuscirà alquanto men fastidiosa nelle cose minute, ma egualmente inetta,
ed assai più gravosa, nelle importanti. Il tiranno picciolo dovendo all'incontro usare infiniti
rispetti co' suoi vicini, sforzato sarà di rimbalzo ad osservarne anche qualcuno più co' suoi
sudditi: onde egli nell'offenderli, massimamente nella roba, dovrà procedere alquanto più
guardingo. Ma, volendo egli pur dare sfogo alla sua autorità soverchiante, facilmente verrà ad
impacciarsi nei più minuti affari dei privati; ed affacciandosi, direi così, allo sportello di ogni
casa, vorrà saperne, e frammettersi nei più minimi pettegolezzi di quelle.
Nelle tirannidi ampie i miseri sudditi saranno dunque maggiormente angariati, nelle ristrette
più infastiditi; ed ugualmente infelici in entrambe: perché agli uomini non arreca minor danno
e dolore la noja, che l'oppressione.
LIBRO SECONDO
Capitolo Primo - INTRODUZIONE AL LIBRO SECONDO
Ho ragionato nel passato libro, quanto più seppi brevemente, delle cagioni e mezzi della
tirannide; e accennata ho di volo una minima parte degli effetti che ne derivano. Non intendo
io di aver detto su ciò tutto quel che può dirsi; ma quanto bensì mi parve più importante, e
meno detto da altri. Più brevemente ancora ragionerò, in questo secondo libro, dei modi con
cui si possa sopportar la tirannide volendola, o non volendola, scuoterla.
Capitolo Secondo - IN QUAL MODO SI POSSA VEGETARE NELLA TIRANNIDE
Il vivere senz'anima, è il più breve e il più sicuro compenso per lungamente vivere in
sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l'onore della
umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, voglio insegnare i precetti;
ancorché io gli abbia, senza volerli pure imparare, pur troppo bevuti col latte. Ciascuno per
li ricavi dal proprio timore, dalla propria viltà, dalle proprie circostanze più o meno servili e
fatali; e in fine, dal tristo e continuo esempio dei più, ciascun li ricavi.
Capitolo Terzo - COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE
Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si
trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di
coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei dritti dell'uomo conoscendo,
o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome.
E, dovendo io pur dimostrare a que' pochissimi, in qual modo si possa vivere quasi uomo
nella tirannide, sommamente mi duole che io dovrò dar loro dei precetti pur troppo ancora
contrarj alla libera loro e magnanima natura. Oh quanto più volentieri, nato io in altri tempi e
governi, m'ingegnerei di dar (non coi detti, ma coi fatti bensì) gli esempj del viver libero! Ma,
poiché vano è del tutto il dolersi dei mali che sono o pajono privi di un presente rimedio,
facciasi come nelle insanabili piaghe, a cui non si cerca oramai guarigione, ma solamente un
qualche sollievo.
Dico per tanto; che allorché l'uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova
capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova ad un
tempo stesso incapace di scuoterlo; dee allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto
star sempre lontano dal tiranno, da' suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue
cariche, dai vizj, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura terreno ed aria perfino, che egli
respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai
esagerata abbastanza; in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria
sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe
sempre, o più o meno, contaminate, allorché l'uomo in qualunque modo si avvicina alla
pestilenziale atmosfera delle corti.
Debitamente così, ed in tempo, allontanatosi l'uomo da esse, sentendosi egli purissimo, verrà
ad estimare se stesso ancor più che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché
liber'uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile. Se costui, oltre ciò, non si trova nella
funesta necessità di doversi servilmente procacciare il vitto, poiché la nobile fiamma di gloria
non è spenta affatto nel di lui cuore dalla perversità de' suoi tempi, non potendo egli
assolutamente acquistare la gloria del fare, ricerchi, con ansietà bollore ed ostinazione, quella
del pensare, del dire, e dello scrivere. Ma, come pensare, e dire, e scrivere potrà egli in un
mostruoso governo, in cui l'una sola di queste tre cose diventa un capitale delitto? Pensare, per
proprio sollievo, e per ritrovare in quel giusto orgoglio di chi pensa un nobile compenso alla
umiliazion di chi serve: dire, ai pochissimi avverati buoni, e come tali, degnissimi di
compassione, di amicizia, e di conoscere pienamente il vero: scrivere, finalmente, per proprio
sfogo, da prima; ma, dove sublimi poi riuscissero gli scritti, ogni cosa allora sagrificare alla
lodevole gloria di giovar veramente a tutti od ai più, col pubblicare gli scritti.
L'uomo, che in tal modo vive nella tirannide, e degno così manifestasi di non vi essere nato,
sarà da quasi tutti i suoi conservi o sommamente sprezzato, ovvero odiatissimo: sprezzato da
quelli, che per non aver idea nessuna di vera virtù, stoltamente credono da meno di loro
chiunque vive lontano dal tiranno e dai grandi; cioè da ogni vizio, viltà, e corruzione: odiato
da quegli altri, che avendo mal grado loro l'idea del retto e del bene, per esecrabile vil
d'animo, e reità di costumi, sfacciatamente seguono il peggio. Ma, e quello sprezzo di una
gente per se stessa disprezzabilissima, sa una convincente prova, che un tal uomo è
veramente stimabile; e l'odio di questi altri per se stessi odiosissimi, indubitabil prova sarà,
che egli merita e l'amore e la stima de' buoni. Quindi non dee egli punto curare né lo sprezzo,
né l'odio.
Ma, se questo sprezzo e quest'odio degli schiavi si propaga fino al padrone, quel vero e solo
uomo, che ne merita il nome, e i doveri ne compie, per via dello sprezzo può essere
sommamente avvilito nella tirannide; e, per via dell'odio, può esservi ridotto a manifesto e
inevitabil pericolo. Questo libricciuolo non è scritto pe' codardi. Coloro, che con una condotta
di mezzo fra la viltà e la prudenza, non se ne possono viver sicuri, venendo pur ricercati nella
loro oscura e tacita dimora dalla inquirente autorità del tiranno, arditamente si mostrino tali
ch'ei sono; e basti per loro discolpa il poter dire, che non hanno essi ricercato i pericoli; ma
che, trovatili, non debbono, né vogliono, né sanno sfuggirli.
Capitolo Quarto - COME SI DEBBA MORIRE NELLA TIRANNIDE
Benché la più verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria ed ai
concittadini, non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, inoperoso per forza ci vive;
nessuno tuttavia può contendere a chi ne avesse il nobile ed ardente desiderio, la gloria di
morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paja inutile ad
altrui, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio; e, come
rarissima, Tacito, quell'alto conoscitore degli uomini, la giudica pure esser somma. Alla eroica
morte di Trasea, di Seneca, di Cremuzio Cordo, e di molti altri Romani proscritti dai loro
primi tiranni, altro in fatti non mancava, che una più spontanea cagione, per agguagliar la virtù
di costoro a quella dei Curzj, dei Decj, e dei Regoli. E siccome, là dove ci è patria e libertà, la
virtù in sommo grado sta nel difenderla e morire per essa, così nella immobilmente radicata
tirannide non vi può essere maggior gloria, che di generosamente morire per non viver servo.
Parmi adunque, che nei nostri scellerati governi, i pochissimi uomini virtuosi e pensanti vi
debbano vivere da prudenti, finché la prudenza non degenera in viltà; e morire da forti,
ogniqualvolta la fortuna, o la ragione, a ciò li costringa. Un cotal poco verrà ammendata così,
con una libera e chiara morte, la trapassata obbrobriosa vita servile.
Capitolo Quinto - FINO A QUAL PUNTO SI POSSA SOPPORTAR LA TIRANNIDE
Ma, fino a qual segno si possa sopportar l'oppressione di un tirannico governo, difficile riesce
a prefiggersi: poiché non a tutti i popoli, a tutti gl'individui, gli stessi oltraggi portano un
egual colpo. Nondimeno, parlando io sempre a coloro, che non meritando oltraggio nessuno,
vivissimamente quindi sentono nel più profondo cuore i più leggieri eziandio; ed essendo
costoro i pochissimi (che se tali i moltissimi fossero, immediatamente ogni pubblico
oltraggiator cesserebbe) a costoro dico; che si può da lor sopportare che il tiranno tolga loro
gli averi, perché nessun privato avere vale quell'estremo universale scompiglio, che ne
potrebbe nascere dalla loro dubbia vendetta. Così perversi sono i presenti tempi, che da una
privata vendetta, ancorché felicemente eseguita, non ne potrebbe pur nascer mai nessun vero
permanente bene pel pubblico, ma se gli potrebbe accrescer bensì moltissimo il danno. Onde,
volendo io che i buoni, nella stessa tirannide, siano, per quanto essere il possono, cittadini; e
volendo, che ai loro conservi, o giovino, o inutilmente almeno non nuocano; ai buoni non
darei mai per consiglio di sturbare inutilmente la pace, o sia il sopore di tutti, per far vendetta
delle loro tolte sostanze.
Ma le offese di sangue nella persona dei più stretti parenti od amici, allorch'elle siano
manifestamente ingiuste, ed atroci; e così, le offese nel proprio verace onore; io non ardirei
mai consigliare a chi ha faccia d'uomo di tollerarle. Si può vivere senza le sostanze, perché
nessuno muore di necessità; e perché l'uomo, per l'esser povero, non riesce perciò mai vile a
se stesso, ove egli non lo sia divenuto pe' suoi vizj e reità: ma non si può sopravvivere alla
perdita sforzata ed ingiusta di una teneramente amata persona; né, molto meno, alla perdita
del proprio onore. Quindi, dovendo assolutamente un tal uomo morire, ed essendo estrema la
ingiuria ricevuta, non può egli dee più allora conservare rispetti; e, che che avvenire ne
possa, il forte dee sempre morir vendicato: e chi nulla teme, può tutto.
Per unica prova di quanto asserisco, addurrò la sola riflessione, che di quante tirannidi sono
state distrutte, o di quanti tiranni sono stati spenti, per destare quel primo impeto universale
necessarissimo a ciò, non vi fu mai altra più incalzante ragione che le ingiurie fatte dal tiranno
nell'onore principalmente, quindi nel sangue, poi nell'avere. Questo insegnamento non è
dunque mio; ma egli sta nella natura degli uomini tutti. Ma pure, a chi dovesse, e volesse,
vendicare una simile ingiuria, consiglierei pur sempre di farsi solo all'impresa, e di omettere
interamente ogni pensiero alla propria salvezza, e come non alto, e come vano, e come sempre
dannoso ad ogni magnanima importante vendetta. E chi non si sente capace di questa totale
omissione di se stesso, non si reputi stoltamente capace, degno, di eseguire una alta
vendetta; e si persuada, che meritava egli veramente l'oltraggio che ha ricevuto; e
pazientemente quindi sel goda. Ma, se l'offeso si trova del pari dotato di alto animo e
d'illuminato intelletto; se da quella sua privata vendetta ne ardisce egli concepire e sperare la
universale permanente libertà; tanto più allora si muova egli (ma sempre pur solo) al compiere
la prima e la più importante impresa; ometta egli parimente ogni pensiero della propria
salvezza; tutte quelle risentite parole, che, con grave ed inutil pericolo per e per l'impresa,
egli avrebbe mosso agli amici per indurgli a congiurare con lui, tutte le cangi in un solo
importantissimo, tacito, e ben assestato colpo: e lasci poi all'effetto che ne dee
necessariamente ridondare, l'incarico di estendere e di corroborar la congiura; e al solo destino
ogni cura della propria salvezza abbandoni. Ma cogli esempli più estesamente mi spiego.
Il popolo di Roma si sollevò contro ai tiranni, congiurò felicemente contr'essi, e la tirannide al
tutto distrusse, allorché finalmente si mosse, dopo tante altre battiture, colpito dal
compassionevole atroce spettacolo di Lucrezia contaminata dal tiranno, e di propria mano
svenata. Ma, se Lucrezia non avesse in se stessa generosamente compiuta la prima vendetta,
egli è da credersi che Collatino, o Bruto, inutilmente forse, e con grave dubbio e pericolo,
avrebbero congiurato contro ai tiranni: perché il popolo, e il più degli uomini, non son mai
commossi, per me pure, dalle più convincenti ragioni, quanto lo sono da una giusta e
compiuta vendetta; massimamente, allorché ad essa si aggiunge un qualche spettacolo terribile
e sanguinoso, che ai loro occhi apprestatosi, i loro cuori fortemente riscuota. Se dunque
Lucrezia non si fosse uccisa da sé, Collatino, come il più fieramente oltraggiato, avrebbe
dovuto perdere risolutamente se stesso uccidendo l'adultero tiranno; e se egli in tale impresa
periva, doveva lasciar poi a Bruto l'incarico di muovere, per via di quella sua giusta uccisione,
il popolo a libertà e a furore. Ma, se non fosse stato così pubblico ed importante quest'ultimo
tirannico oltraggio; e se, per essere questo aggiunto a molti altri, non fosse stata oramai
matura la liberazione del popolo di Roma; i parenti e gli amici di Collatino avrebbero forse
congiurato, ma contra i soli Tarquinj: in vece che Collatino, senza punto congiurare con altri,
avrebbe egli solo certamente potuto uccidere il tiranno, e quindi forse anche salvare se stesso;
e, congiunto poscia con Bruto, avrebbe liberato anco Roma.
È dunque da notarsi in codesto accidente, che l'uomo oltraggiato gravemente nella tirannide,
non dee mai da prima congiurare con altri che con se stesso; perché almeno assicura egli così
la propria privata vendetta; e, con quel terribile spettacolo che egli appresta ai suoi cittadini,
lascia in qualche aspetto di probabilità, e assai più matura, la pubblica, a chi la volesse e
sapesse eseguirla. All'opposto, col congiurare in molti per fare la prima privata vendetta, elle
si perdono spessissimo entrambe. Quell'uomo dunque, che capace si reputa di ordire e
spingere una alta e giovevol congiura, il cui fine debba essere la vera politica libertà, non la
imprenda giammai, se non se dopo moltissimi universali oltraggi fatti dal tiranno, e
immediatamente dopo una qualche privata atroce vendetta contr'essi, felicemente eseguita da
uno dei gravemente oltraggiati. E così, chi si sente davvero capace di solennemente vendicare
un proprio privato importantissimo oltraggio, senza cercarsi compagni, altamente e
pienamente lo vendichi; e lasci poscia ordir la congiura da chi vien dopo: che s'ella riesce a
buon fine, l'onore ne sarà pur sempre in gran parte anche suo; bench'egli rimanesse spento già
prima: e se la pubblica consecutiva congiura poi non riesce, tanto maggiore ne risulterà a lui
privato la gloria, e la maraviglia degli uomini, che vedranno la sua privata congiura aver da lui
solo ottenuto un pienissimo effetto.
Ma le congiure, ancorch'elle riescano, hanno per lo più funestissime conseguenze, perché elle
si fanno quasi sempre contro al tiranno, e non contra la tirannide. Onde, per vendicare una
privata ingiuria, si moltiplicano senza alcun pro gl'infelici; e, o sia che il tiranno ne scampi, o
sia che un nuovo gli succeda, si viene ad ogni modo per quella privata vendetta e centuplicar
la tirannide, e la pubblica calamità.
Quell'uomo dunque, che dal tiranno riceve una mortale ingiuria nel sangue, o nell'onore, si dee
figurare che il tiranno lo abbia condannato inevitabilmente a morire; ma che nella
impossibilità, in cui egli è, di scamparne, gli rimane pure la intera possibilità di vendicarsene
prima, e di non morir quindi infame del tutto. Né altro deve egli pensare in quel punto, se non
che, tra i precetti del tiranno, il primo e il solo non mai trasgredito da lui, si è di vendicarsi di
quelli che ha offeso egli stesso. Sia dunque il primo precetto di chi più gravemente è stato
offeso da lui, il prevenire a ogni costo con la sua giusta vendetta la non giusta e feroce d'altrui.
Capitolo Sesto - SE UN POPOLO, CHE NON SENTE LA TIRANNIDE, LA MERITI,
O NO
Quel popolo che non sente la propria servitù, è necessariamente tale, che non concepisce
alcuna idea di politica libertà. Pure, siccome la totale mancanza di questa naturale idea non
proviene già dagli individui, ma bensì dalle invecchiate loro circostanze, che son giunte a
segno di soffocare in essi ogni lume primitivo della ragion naturale; la umanità vuole, che al
loro errore si compatisca, e che non si disprezzino affatto costoro, ancorché disprezzati siano e
disprezzabili. Nati nella servitù, di servi padri, nati anch'essi di servi, donde oramai, donde
potrebber costoro aver ritratto alcuna idea di libertà primitiva? Naturale ed innata nell'uomo
ella è, mi si dirà da taluno; ma, e quante altre cose non meno naturali, dalla educazione,
dall'uso, e dalla violenza, non vengono in noi indebolite o cancellate interamente ogni giorno?
Nella romana repubblica, in cui ogni Romano nascea cittadino e riputavasi libero, vi nasceano
pur anco fra i soggiogati popoli alcuni schiavi, che non poteano ignorar di esser tali, ogni
giorno vedendo davanti a i loro padroni esser liberi; e coloro si credeano pur di esser servi,
e nati per esserlo; e ciò soltanto, perché erano educati, e di padre in figlio sforzati, a riputarsi
tali. Ora, se nel seno stesso della più splendida politica libertà che siasi mai vista sul globo,
quegli uomini ignoranti e avviliti credeano di dover essi soli esser servi, non sa maraviglia
che nelle nostre tirannidi, dove non si profferisce il nome pure di libertà, veri servi si
credano quei che vi nascono; o, per dir meglio, che non conoscendo essi libertà, non
conoscano né anche servaggio.
Parmi perciò, che i popoli nostri si debbano assi più compiangere che non odiare o sprezzare;
essendo essi innocentemente, e per sola ignoranza, complici senza saperlo del delitto di
servire, di cui ben ampia già e terribile ne van sopportando la pena. Ma l'odio, lo sprezzo, e se
altro sentimento vi ha più obbrobrioso e feroce, tutti si debbono bensì dai pochi enti pensanti
fieramente rivolgere contro a quella picciola classe di uomini, che, non essendo stolidi affatto
inetti, ed accorgendosi benissimo di viver servi nella tirannide, sfacciatamente pure ogni
giorno il vero, se stessi, e gli altri tutti tradiscono, correndo a gara ad adulare il tiranno, ad
onorarlo, a difenderlo, ed a porgere primi l'infame collo a' suoi lacci; e ciò, col sol patto che
doppiamente da essi avvinto ed oppresso ne rimanga il misero ed innocente popolo; presso
cui, per ottenere il lor barbaro intento, caldissimi propagatori con astuzia si fanno di ogni
dannosa ignoranza.
E, spingendo io più oltre questa importante differenza fra quella parte di schiavi che nella
tirannide si fa istrumento d'oppressione, e quella che (senza saperne il perché) si fa vittima,
ardisco asserire una cosa che parrà forse ai molti non vera, ma che io credo pure verissima. Ed
è; che dalla fedeltà stessa, dalla cecità e ostinazione maggiore, con cui i popoli nella tirannide
difendono il loro tiranno, si debbe arguire che essi farebbero altrettanti e più sforzi per la
libertà, se mai l'acquistassero; e se fin dalle fasce, in vece del nome del tiranno, come cosa
sacra avessero udito sempre religiosamente insegnarsi il nome di repubblica.
Il vizio dunque della tirannide, e il maggiore obbrobrio della servitù, non risiede nel popolo;
che in ogni governo è sempre la classe la meno corrotta; ma interamente risiede in quei pochi
che il popolo ingannano. Ed in prova, si osservi che ogniqualvolta il tiranno eccede quel modo
comportabile dalla umana stupidità, il primo sempre, anzi il solo per lo più che risentirsi
ardisca delle estreme ingiurie, si è il più basso popolo, il quale pure, nella pienissima sua
ignoranza, stoltamente reputa il tiranno essere quasi un Dio. All'incontro, gli ultimi sempre ad
offendersi e a ricercarne vendetta, ancorché ingiuriatissimi siano dal tiranno, son quelli della
più illustre classe, ed i suoi più famigliari, i quali pure indubitabilmente convinti sono, ch'egli
è assai meno che un uomo.
Onde conchiudo; che nella tirannide meritano solo di esser servi quei pochi, che avendo in
la idea di libertà, (e quindi o la forza o l'arte per tentare almeno di riacquistarla per ,
facendola ad un tempo riacquistare ad altrui) antepongono tuttavia di vivere in servitù; ed anzi
se ne pregiano essi; e, quanto più sanno e possono, vi costringono il rimanente dei loro simili.
Capitolo Settimo - COME SI POSSA RIMEDIARE ALLA TIRANNIDE
La volontà, o la opinione di tutti o dei più, mantiene sola la tirannide: la volontà e l'opinione
di tutti o dei più, può sola veramente distruggerla. Ma, se nelle nostre tirannidi l'universale
non ha idea d'altro governo, come si può egli arrivare ad infondere in tutti, o nei più, questo
nuovo pensiero di libertà? Risponderò, piangendo, che mezzo brevemente efficace a produr
tale effetto, nessuno ve ne ha; e che ne' paesi dove la tirannide da molte generazioni ha preso
radice, moltissime ve ne vuole prima che la lenta opinion la disvelga.
E già mi avveggo, che in grazia di questa fatal verità, mi perdonano i tiranni europei tutto ciò
che finora intorno ad essi mi è occorso di ragionare. Ma, per moderare alquanto questa loro
non meno stolta che inumanissima gioja, osserverò; che ancorché non vi siano efficaci e
pronti rimedj contro la tirannide, ve ne sono molti tuttavia ed uno principalissimo,
rapidissimo, ed infallibile, contra i tiranni.
Stanno i rimedj contro al tiranno in mano d'ogni qualunque più oscuro privato: ma i più
efficaci e brevi e certi rimedj contra la tirannide, stanno (chi 'l crederebbe?) in mano dello
stesso tiranno: e mi spiego. Un animo feroce e libero, allor quando è privatamente oltraggiato,
o quando gli oltraggi fatti all'universale vivissimamente il colpiscono, può da solo in un
istante e con tutta certezza efficacemente rimediare al tiranno, col ferro: e, se molti di questi
animi allignassero nelle tirannidi, ben presto anco la moltitudine stessa cangerebbe il pensiero,
e si verrebbe così a rimediare ad un tempo stesso alla tirannide. Ma, siccome gli animi di una
tal tempra sono cosa rarissima, e principalmente in questi scellerati governi; e siccome lo
spegnere il solo tiranno null'altro opera per lo più, che accrescere la tirannide; io sono
costretto, fremendo, a scrivere qui una durissima verità; ed è, che nella crudeltà stessa, nelle
continue ingiustizie, nelle rapine, e nelle atroci disonestà del tiranno, sta posto il più breve, il
più efficace, il più certo rimedio contra la tirannide. Quanto più reo e scellerato è il tiranno,
quanto più oltre spinge manifestamente l'abuso dell'abusiva sua illimitata autorità; tanto più
lascia egli luogo a sperare, che la moltitudine finalmente si risenta; e che ascolti ed intenda e
s'infiammi del vero; e ponga quindi solennemente fine per sempre a un così feroce e
sragionevol governo. È da considerarsi, che la moltitudine rarissimamente si persuade della
possibilità di quel male che ella stessa provato non abbia, e lungamente provato: quindi gli
uomini volgari la tirannide non reputano per un mostruoso governo, finché uno o più
successivi mostri imperanti non ne han fatto loro funesta ed innegabile prova con mostruosi
eccessi inauditi. Se in verun conto mai un buon cittadino potesse divenire ministro d'un
tiranno, ed avesse fermato in se stesso il sublime pensiero di sagrificare la propria vita, e di
più anche la propria fama, per sicuramente ed in breve tempo spegnere la tirannide, costui non
avrebbe altro migliore più certo mezzo, che di consigliare in tal modo il tiranno, di
secondare e per fino talmente instigare la sua tirannesca natura, che abbandonandosi egli ad
ogni più atroce eccesso rendesse ad un tempo del pari la sua persona e la sua autorità
odiosissima e insopportabile a tutti. E dico io espressamente queste tre parole; La sua
persona, la sua autorità, e a tutti; perché ogni eccesso privato del tiranno non nuocerebbe se
non a lui stesso; ma ogni pubblico eccesso, aggiuntosi ai privati, egualmente a furore
movendo l'universale e gl'individui, nuocerebbe ugualmente alla tirannide ed al tiranno; e li
potrebbe quindi ad un tempo stesso interamente entrambi distruggere. Questo infame ed
atrocissimo mezzo (che io primo il conosco per tale) indubitabilmente pure sarebbe, come
sempre lo è stato, il solo efficace e brevissimo mezzo ad una impresa così importante e
difficile. Inorridito ho nel dirlo; ma vie più inorridiscono in pensare quai siano questi governi,
ne' quali se un uomo buono operar pur volesse colla maggior certezza e brevità il sommo bene
di tutti, si troverebbe costretto a farsi prima egli stesso scellerato ed infame, ovvero a
desistersi dall'altramente ineseguibile impresa. Quindi è, che un tal uomo non si può mai
ritrovare; e che questo sopraccennato rapido effetto dell'abuso della tirannide non si può
aspettare se non per via di un ministro scellerato davvero. Ma questi, non volendo perdere del
proprio altro che la fama (che già per lo più mai non ebbe); e volendo egli assolutamente
conservare la usurpata autorità, le prede, e la vita; questi lascierà bensì diventare il tiranno
crudele e reo quanto è necessario per fare infelicissimi i sudditi, ma non mai a quell'eccesso
che si bisognerebbe per tutti destargli a furore e a vendetta.
Da ciò proviene, che in questo mansuetissimo secolo cotanto si è assottigliata l'arte del
tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e così ben
velate e varie e saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i
modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche
velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno.
Or ecco, ch'io già mi sento dintorno gridare: "Ma, essendo queste tirannidi moderate e
soffribili, perché con tanto calore ed astio svelarle e perseguirle?" Perché non sempre le più
crudeli ingiurie son quelle che offendono più crudelmente; perché si debbono misurare i mali
dalla loro grandezza e dai loro effetti, più che dalla lor forza; perché, in somma, colui che ti
cava ogni giorno poche oncie di sangue ti uccide a lungo andare ugualmente che colui che ad
un tratto ti svena, ma ti fa stentare assai più. Tutte le facoltà dell'animo nostro intorpidite; tutti
i diritti dell'uomo menomati o ritolti; tutte le magnanime volontà impedite o deviate dal vero;
e mille e mille altre simili continue offese, che troppo lungo e pomposo declamatore parrei, se
qui ad una ad una annoverarle volessi; ove la vita vera dell'uomo consista nell'anima e
nell'intelletto, il vivere in tal modo tremando, non è egli un continuo morire? E che rileva
all'uomo, che nato si sente al pensare e all'operare altamente, di conservare tremante la vita del
corpo, gli averi, e l'altre sue cose (e queste anco sicure) per poi perdere, senza speranza di
riacquistarli giammai, tutti, assolutamente tutti, i più nobili e veri pregi dell'anima?
Capitolo Ottavo - CON QUAL GOVERNO GIOVEREBBE PIÙ DI SUPPLIRE ALLA
TIRANNIDE
Ma, già già mille altre obbiezioni non meno importanti m'insorgono d'ogni intorno: e queste
saranno le ultime alle quali io mi creda in dovere di alquanto rispondere. "Più facil cosa è il
biasimare e il distruggere, che non il rettificare e creare. Che la tirannide sia un governo
esecrabile e vizioso in se stesso, già ben lo sapevano tutti coloro che stupidi affatto non sono;
e per quelli che il sono, inutilissimo era il dimostrarlo. Le storie tutte fanno fede della
massima instabilità dei liberi governi: onde riesce cosa intieramente vana il dimostrare che
non si dee soffrir la tirannide, se infallibili mezzi non s'insegnano per eternare la libertà".
Queste, o simili obbiezioni (che ne potrei riempire inutilmente le pagine) è assai facile il farle,
e non così facile l'impugnarle. Quanto alla prima, rispondo di volo; che io non credo niente
inutile il dimostrare ai non affatto stupidi, non già che la tirannide sia un governo esecrabile e
vizioso in se stesso, poich'essi dicono di saperlo, ma che quella specie di governo sotto cui
essi vivono, e che sotto il blandissimo nome di monarchia si vanno godendo, altro in fatti non
è se non una intera e schietta tirannide, accomodata ai tempi; tirannide niente meno insultante
e gravosa per gli uomini che qualsivoglia altra antica od asiatica, ma assai più saldamente
fondata, e assai più durevole quindi, e fatale.
Alla seconda obbiezione mi conviene rispondere alquanto più lungamente. Il dimostrare qual
sia il male, quali ne siano le cagioni, i mezzi, ed in parte gli effetti, vien certamente ad essere
un tacito insegnamento di ciò che potrebbe essere il bene; che in tutto è il contrario del male.
"Se dunque venisse fatto pur mai di estirpar la tirannide in alcuna ragguardevol parte di
Europa, come per esempio in tutta la Italia, qual tempra di governo vi si potrebb'egli
introdurre, che non venisse dopo alcun tempo a ricadere in tirannide di uno o di più?"
Se io, colla dovuta modestia e coscienza delle poche mie proprie forze, mi fo a rispondere a
questo importante quesito, dico; che quando si ritrovasse l'Italia nelle circostanze a ciò
necessarie, quegl'Italiani che a quei tempi si troveranno aver meglio letto e considerato tutto
ciò che da Platone in poi è stato scoperto e insegnato da tanti uomini sommi circa alla meno
viziosa forma dei governi; quegl'Italiani d'allora, che avran meglio studiato e conosciuto nelle
diverse storie, e nei diversi paesi dello stesso lor secolo, la natura, l'indole, i costumi, e le
passioni degli uomini; quelli soli potranno allora con adequato senno provvedere a ciò che
operare allor si dovrebbe pel meglio; cioè, pel meno male.
Se io, all'incontro, presuntuosamente rispondere volessi al quesito, mi troverei costretto di
farlo col pormi ad un'altra opera, e intitolarla DELLA REPUBBLICA; nella quale
individuatamente ed a lungo mi proverei a ragionare su tale materia. Ma, quando pur anche mi
credessi io di avere e senno, e lumi, e dottrina, ed ingegno da ciò; bisognerebbe nondimeno
sempre, che io (per non acquistarmi gratuitamente alla prima il nome di stolto) in fronte di un
tal libro mi protestassi, ch'ella è impossibil cosa fra gli uomini di nulla stabilir di perfetto e
d'inalterabile; e principalmente in un tal genere di cose, che richiedendo continuamente sforzo
e virtù, (atteso il contrario e continuo impulso della umana natura, che assai più è propensa al
bene dei privati individui, e quindi tosto al male di tutti o dei più) vanno insensibilmente ogni
giorno menomandosi e corrompendosi per se stesse. E sarei anche sforzato in quella mia
prefazione di aggiungervi, che quegli ordini che convengono ad uno stato, disconvengono
spessissimo all'altro; che quelli che bene si adattano al principiare di uno stato novello, non
operano poi abbastanza nel progredire, e alle volte anzi nuocono nel continuare; che il
cangiargli a seconda col cangiarsi degli uomini dei costumi e dei tempi, ella è cosa altrettanto
necessaria, quanto impossibile a prevedersi, e difficilissima ad eseguirsi in tempo. E mille e
mille altre simili cose io mi troverei costretto a premettere a quella REPUBBLICA mia; le
quali cose per essere già state dette meglio ch'io non le direi mai, massimamente da quel
nostro divino ingegno del Machiavelli, non solamente inutili per se stesse riuscirebbero, ma
pur troppo, contra l'intenzione dell'autore, una preventiva dimostrazione sarebbero della
inutilità di un tal libro. E per quanto poi quella mia teorica repubblica potesse parer saggia,
ragionata, e adattabile a' tempi, luoghi, religioni, opinioni, e costumi diversi; ella non verrebbe
tuttavia mai ad essere eseguibile in nessunissimo cantuccio della terra, senza quivi prima
ricevere da un saggio legislatore effettivo quelle tante e tali modificazioni e mutazioni, che
necessarie sarebbero per quella data effettiva società; la quale certamente in alcuna cosa
differirà da alcuna delle supposizioni dell'ideale legislatore. Ma quando anche poi una tale
scritta repubblica venisse effettivamente nel suo intero adattata ad un qualche popolo, tutta la
umana saviezza (non che la pochissima mia) non perverrebbe pur mai a stabilirvi in tal modo
un governo, che il caso, cioè un avvenimento non preveduto, non avesse la forza di poterlo
inaspettatamente assai peggiorare, come anche di poter migliorarlo, o mutarlo, o affatto
distruggerlo.
Stoltissima superbia sarebbe or dunque la mia, se un tale assunto imprendessi, sapendo già
prima, che quando anche pure mi lusingassi di poter dire delle cose non dette, per lo meno
inutile riuscirebbe il mio libro. Tuttavia non meno scusabile che folle una mia tale superbia
sarebbe (come di chiunque altro a simile impresa oramai si accingesse), ogniqualvolta un tal
libro non avesse stoltamente per fine la gloria letteraria e legislatrice, ma fosse semplicemente
un virtuoso e ben intenzionato sfogo di un ottimo cittadino: e come tale, inutile allora non
riuscirebbe del tutto.
Dalle cose finora da me, per quanto ho saputo, rapidamente presentare al lettore, ne potrebbe
frattanto, s'io non erro, ridondar questo bene: che, ove una repubblica insorgente in questi, o
nei futuri tempi, sopra le rovine d'alcuna distrutta tirannide, badasse a spegnere, o a menomare
quanto più le fosse possibile la pestifera influenza di quelle tante cagioni della passata servitù
da me ampiamente nel primo libro dimostrate, si può credere che una tale insorgente
repubblica verrebbe ad ottenere alcun peso, e stabilità. Che se io minutamente ho dimostrato
come sia costituita la tirannide, indirettamente avrò dimostrato forse, come potrebbe essere
costituita una repubblica. E il primo di tutti i rimedj contro alla tirannide, ancorché tacito e
lento, egli è pur sempre il sentirla; e sentirla vivamente i molti non possono, (abbenché
oppressi ne siano) là dove i pochi non osino appien disvelarla.
Ma, quanto è necessario l'impeto, l'audacia, e (per così dire) una sacra rabbia, per disvelare,
combattere, e distruggere la tirannide, altrettanto è necessaria una sagace e spassionata
prudenza, per riedificare su quelle rovine; onde difficilmente l'uomo stesso potrebbe esser atto
egualmente a due imprese pur tanto diverse nei loro mezzi, benché similissime nella lor meta.
Ed io, per amor del vero, son pure costretto a notar qui di passo, che le opinioni politiche
(come le religiose) non si potendo mai totalmente cangiare senza che molte violenze si
adoprino, ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmente
severo, e alcune volte anche ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non
desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole innovazioni ancorché giovevoli. Aggiungerò,
che, per maggiore sventura delle umane cose, è altresì più spesso necessaria la violenza, e
qualche apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d'uno ingiusto
e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà. La ragione, a parer mio,
è patente. La tirannide non sottentra alla libertà, se non se con una forza effettiva, e talmente
preponderante, che col solo continuo minacciare facilmente contiene l'universale. E mentre
con l'una mano brandisce un ferro spietato, ella spande coll'altra a piena mano quell'oro che ha
colla spada estorquito. Onde, distrutti alcuni pochi capi-popolo, corrottine molti altri più, che
già guasti erano e preparati al servaggio, il rimanente obbedisce e si tace. Ma, la nascente
libertà, combattuta ferocissimamente da quei tanti che s'impinguavano della tirannide,
freddamente spalleggiata dal popolo, che, oltre alla sua propria lieve natura, per non averla
egli ancora gustata, poco l'apprezza e mal la conosce; la nascente libertà, divina
impareggiabile fiamma, che in pochi petti arde pura nella sua immensità, e che da quei soli
pochi viene alquanto inspirata e a stento mantenuta nel petto agghiacciato dei più; ov'essa per
qualche beata circostanza perviene a pigliare alcun corpo, non dovendo trascurar l'occasione
di mettere, se può, profonde e salde radici, si trova pur troppo costretta ad abbattere quei tanti
rei che cittadini ridivenir più non possono, e che pur possono tanti altri impedirne, o
guastarne. Deplorabile necessità, a cui Roma, felice maestra in ogni sublime esempio, ebbe
pur anche la ventura di non andar quasi punto soggetta; poiché dal lagrimevole straordinario
spettacolo dei figli di Bruto fatti uccider dal padre, ella ricevea fortemente quel lungo e
generoso impulso di libertà, che per ben tre secoli poi la fece sì grande e beata.
Ritornando ora al proposito mio, conchiudo con questo capitolo il libro, col dire; che non vi
essendo alla tirannide altro definitivo rimedio che la universal volontà e opinione; e non
potendosi questa cangiare se non lentissimamente e incertamente pel solo mezzo dei pochi
che pensano, sentono, ragionano, e scrivono; il più virtuoso individuo, il più costumato, il più
umano, si trova pur troppo sforzato a desiderar nel suo cuore, che i tiranni stessi, coll'eccedere
ogni ragionevole modo, più rapidamente e con maggior certezza cangino questa universal
volontà e opinione. E se al primo aspetto un tal desiderio pare inumano, iniquo, e perfino
scellerato, si consideri che le importantissime mutazioni non possono mai succedere fra gli
uomini (come dianzi ho notato) senza importanti pericoli e danni; e che a costo di molto
pianto e di moltissimo sangue (e non altramente giammai) passano i popoli dal servire
all'essere liberi, più ancora, che dall'esser liberi al servire. Un ottimo cittadino può dunque,
senza cessar di esser tale, ardentemente desiderare questo mal passeggero; perché, oltre al
troncare ad un tratto moltissimi altri danni niente minori ed assai più durevoli, ne dee nascere
un bene molto maggiore e permanente. Questo desiderio non è reo in se stesso, poiché altro
fine non si propone che il vero e durevol vantaggio di tutti. E giunge avventuratamente pure
quel giorno, in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero felice e potente, benedice
poi quelle stragi, quelle violenze, e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di
servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia, di liberi e
virtuosi uomini.
PROTESTA DELL'AUTORE
Non la incalzante povertade audace,
Scarsa motrice a generosa impresa;
Non l'aura vana, in cui gli stolti han pace
D'ogni lor brama in debil fuoco accesa;
Non l'ozio servo, in che la Italia giace;
Cagion, ah! no, queste non fur, ch'intesa
M'ebber la mente all'alto onor verace
Di far con penna ai falsi imperj offesa.
Un Dio feroce, ignoto un Dio, da tergo
Me flagellava infin da quei primi anni,
A cui maturo e impavido mi attergo.
Né pace han mai, né tregua, i caldi affanni
Del mio libero spirto, ov'io non vergo
Aspre carte in eccidio dei tiranni.
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