poss'io sperare più mai aiuto alcuno, poiché di chi io più mi fido, più mi nuoce. Oh Iddio, e quanto
amore fugge in piccol tempo!
FILARCO. Tristo Pallimacro! Quella tua Deifira, quale tanto amava te, non ama ella più quanto
solea?
PALLIMACRO. Non ami più, no, Deifira mia, non ami me, no. Ed èmmi teco intervenuto come
spesso si vede chi da lungi tiene il toro allacciato, seguendolo se forse fugge, e gittandosi a terra se
gli si rivolge, e se si ferma, in molti modi lo incita a muoversi, e così lo infesta perfino che volge la
fune a qualche fermo luogo, onde poi, scostatosi, ride vedendo el toro legato solo nuocere a se
stesso, ora cozzando al vento, ora apparecchiandosi indarno a nuovi combattimenti. Così tu a me,
Deifira mia; e poiché me stessi ebbi avolto a quelle ferme promesse, quali fino a ora mi tengono a te
suggetto, tu subito cominciasti a riderti e pigliare giuoco d'ogni mia pena; tu subito cominciasti a
sdegnarmi. Tu, Deifira mia, qual prima tanto eri lieta vedendomi, qual prima, temendo stare qualche
giorni sanza spesso rivedermi, lacrimasti, tu ora in pruova mi fuggi e me hai sanza cagione alcuna in
fastidio troppo e in odio. Tu, quando mi vedi, troppo ti turbi; tu ancora, ohimè, non raro a gran torto
mi bestemmi. Oh Pallimacro sfortunato! Quella nostra Deifira, quale vidi lacrimare, dolendosi se
forse, quanto certo dovea, prendevo a ingiuria una e un'altra sua sdegnosa parola, quella medesima,
quella Deifira tanto da noi amata, quella Deifira che tanto me amava, testé mai si sazia d'acrescermi
ogni dì più e più dolore.
FILARCO. Pallimacro, nella vita de' mortali nulla si truova a chi non stia apparecchiato il suo fine.
Troia fu grande e alta, Babillonia fu ricca e possente, furono Atene ornatissime e famosissime, e
Roma fu temuta, riverita e ubbidita, quanto tempo il cielo e sua sorte a ciascuna permise. Né tu
adunque pensa se non dovuto, se uno animo volubile e femminile verso di te non è quel che solea.
Pazzo, più volte pazzo chi crede in femmina mai essere costanza alcuna. E certo, quando bene in
questa una fussi ogni fermezza, pure al vostro amore, quando che sia, si conveniva il suo fine. E
stima, Pallimacro mio, che mai lungo amore fu sanza molta copia di sospiri, lacrime e vario dolore.
E qualunque avverso caso nello amore, quanto più vien tardi, tanto segue con ruina maggiore. E
vuolsi riputare in buona parte, se qui sia il fine de' tuoi mali, libero d'ogni altro, quali talora vengono
fra curucciati amanti grandissimi scandali e calamità. E certo sempre mi parse vero che l'amore sia
fatto come il latte, quale tanto piace quanto egli è ben fresco; poi soprastando piglia troppi vizi. Così
in amare, quanto gli amanti studiano porgersi accetti e benveduti, tanto lieti vivono, pieni di
sollazzo, giuoco e festivi ragionamenti. Poi fermato l'amore, subito vi surgono sospetti, e dai
sospetti le gelosie, e dalle gelosie nascono sdegni, e di qui crescono il vendicarsi e le inimicizie. E
solo le inimicizie degli amanti si pruovano essere acerbissime. E sono le femmine, quanto di meno
consiglio e ragione, tanto più che gli uomini troppo sfidate, sospettose e dispettose, onde per
minima cosa si truovano adirate, e poi, per mostrarsi giustamente crucciate, perseverano e crescono
ad inimistà. Né troverai inimico sì capitale, che non forse qualche volta con una tua parola si muova
a pietà; solo il cuore della femmina sdegnato indura per lacrime di chi l'ama, e a pena col sangue
cancella uno suo conceputo sdegno. Però si vuole non mai scoprirsi amante, se non quando vedi
potere subito prima satisfarti che l'amore pigli suo' vizi. E conviensi col tempo ardire molto più che
chiedere. Natura delle femmine che d'ogni cosa in che possa uscirne rossore, loro molto giova
potere dire «io non volea»; e godono vinte una e un'altra volta dare quello che più elle negano.
PALLIMACRO. Oh Filarco mio, e chi non sa quanto poco si possa qualunque cosa troppo disideri?
FILARCO. Ahimè, non piangere più, Pallimacro mio, non piangere più. E dimmi qual grandissima
cagione mai fu quella che in lei spegnessi sì ardente amore? Sogliono le fiamme amorose spesso
abbagliare, sì, ma non sanza grandissima ruina amorzarsi. Piacciati narrarmi ogni cosa. Non fare
quale fanno questi altri amanti, i quali, afflitti e mesti, subito si richiudono in solitudine, donde col
troppo ripensare stracchi escono sanza aver pensato a nulla. Agli animi affannati nuoce ogni
solitudine, e troppo giova appresso gli amici ragionando posare la gravezza delle sue cure. E che fai,
Pallimacro, che pur miri a terra fiso e muto? Rispondi, pregoti, e ragionando dimenticherai in parte
il tuo male. Fue tuo o pure suo errore cagione di tanta vostra discordia?
PALLIMACRO. Non fu mio, no, né in tutto tuo errore, Deifira mia, no. Anzi la iniqua mia fortuna
così fa te verso di me essere ombrosa e schifa. E bene presentii e predissi questa ruina, quale ora mi
tiene soppresso in tanta calamità. Ma puossi mai chiudere tutte le vie al male che de' venire? E come
all'acqua, quanti più rivi gli otturi, tanto con più impeto rompe in altro corso, così l'avversa fortuna,